Nel VII secolo i primi a portare il Vangelo sono i Nestoriani. Nel XIII secolo arrivano i cattolici. Una Chiesa vivace e numerosa è spazzata via sotto la dinastia Ming nel XVI secolo, quando il Buddismo tibetano diventa religione di stato.
Solo nel 1992 possono rientrare i primi missionari cattolici. Rinasce una piccola comunità cristiana. Che cresce velocemente. E ha ora il suo primo prete. Enkh-Joseph è il primo sacerdote cattolico nativo della Mongolia. È stato ordinato nella cattedrale dei santi Pietro e Paolo il 28 agosto 2016, alla presenza di quasi tutti i fedeli cattolici del paese, oltre che di molti ospiti stranieri. La Chiesa cattolica in Mongolia conta poco più di 1.500 battezzati e ha accolto con gioia questo evento storico.
La storia vocazionale di Enkh inizia in famiglia, quando le sue sorelle maggiori si avvicinano alla Chiesa e ricevono il battesimo. Nel giro di poco s’interessa anche lui e comincia a frequentare la neo istituita parrocchia della cattedrale di Ulaanbaatar. Quando lo conosciamo noi è un ragazzino timido e gentile, che comincia a farsi delle domande importanti. Suo papà è morto quando lui era piccolo e la mamma quando sente del suo desiderio di entrare in seminario è un po’ titubante; così Enkh accetta il consiglio materno di concludere prima l’università e si iscrive a un college di Ulaanbaatar. Il diploma arriva presto e a questo punto la mamma non oppone più resistenza. È pronto per il seminario: ma quale, visto che in Mongolia non ce ne sono? La diocesi coreana di Daejeon è in ottimi rapporti con la Prefettura Apostolica di Ulaanbaatar e così inizia il cammino di formazione presso quel seminario, reso più impegnativo a motivo della lingua diversa che deve imparare. Adesso parla meglio di un coreano, dicono. Più di sette anni di studio e finalmente arriva il grande giorno.
L’evento – di portata storica – è preparato per mesi da un’apposita commissione. Visto che la capienza della cattedrale è di 600 posti, si deve allestire uno spazio all’esterno e nella vicina palestra dei Salesiani, per consentire alla gente di seguire da vicino la liturgia. Sono presenti, oltre al vescovo locale mons. Wenceslao Padilla, il nunzio apostolico in Corea e Mongolia mons. Osvaldo Padilla e il vescovo della diocesi coreana di Daejeon mons. Lazzaro You.
Sono presenti anche alcune autorità civili e religiose. È molto toccante il momento in cui l’abate buddista Choijamts, figura autorevole e ben nota del Buddismo mongolo, vuole salutare il novello sacerdote e fargli scendere dal collo lungo le spalle una sciarpa azzurra in segno di rispetto. Un gesto simbolico che parla al cuore della gente e dice dignità, riconoscimento, onore. Al termine della celebrazione arriva anche il sacerdote ortodosso della chiesa della Santissima Trinità di Ulaanbaatar, non lontana dalla cattedrale cattolica. Un altro gesto di grande significato, questa volta ecumenico: padre Alexey omaggia don Enkh di un bassorilievo a icona, che rappresenta san Nicola, venerato tanto dagli Ortodossi quanto dai Cattolici.
Il giorno seguente c’è la prima messa presieduta da don Enkh. Il clima è più raccolto, molta meno gente e più spazio ai sentimenti. Nell’omelia don Enkh si sofferma sul versetto biblico scelto per l’occasione: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). Oltre a sentirsi chiamato come il giovane Samuele (il brano tratto da 1 Sam, 3 era la prima lettura del giorno precedente) Enkh ricorda il momento in cui ha sentito in maniera nuova la forza della croce: «Era il lunedì dell’Angelo dell’anno scorso; tutto avrebbe dovuto essere in festa, ma io non riuscivo a percepire la gioia della risurrezione. Riflettendo capii il motivo: non avevo voluto partecipare alla croce del Signore, ecco perché adesso non potevo provare l’immensa gioia della Sua risurrezione…». Ecco perché adesso si augura di saper seguire il Signore sempre e comunque, per poter irradiare la Sua vita nel ministero sacerdotale.
Dalla piccola comunità di Arvaiheer sono in 15. Partecipano con molta commozione. Chi, come Perliimaa-Rita, è arrivata alla fede ormai avanti negli anni è ancora più felice nel vedere un giovane mongolo diventare prete. È convinta, come tutti del resto, che saprà raggiungere il cuore delle persone e contribuire in maniera decisiva al processo di inculturazione della fede. C’è anche un senso di soddisfazione nel constatare che «uno dei nostri ce l’ha fatta»: è la promessa di future vocazioni; altri, vedendo il suo esempio, ne seguiranno le orme. Per loro il momento forse più emozionante è quello, durante la sua prima messa, in cui don Enkh spende più di mezz’ora per imporre le mani su ognuno dei convenuti. «Vedere un sacerdote mongolo benedire la gente è stato molto commovente – confiderà poi Diimaa-Elizabeth, altra fedele di Arvaiheer -. Un gesto che fino a ora avevamo visto compiere solo dai missionari, ora lo compie un nostro giovane. È bello pensare che don Enkh sia diventato canale della benedizione divina».
È quello che auguriamo anche noi a don Enkh: vivere il sacerdozio come lo visse il Beato Allamano, sempre docile allo Spirito che lo volle usare come conca dove la grazia si posava e come canale che la lasciava scorrere sulla gente.
Giorgio Marengo