Dopo le polemiche sulle mancate Olimpiadi a Roma, ricordiamo Pietro Mennea, un mito dell’atletica mondiale, ma anche un grande uomo, troppe volte incompreso.
«Non abbiamo nemmeno gli occhi per piangere e vogliamo concorrere per organizzare le prossime Olimpiadi del 2020», mi disse una volta Pietro Mennea (1952-2013) non tanto tempo prima di andarsene da questo mondo. Allora c’era il governo Monti (che, nel febbraio 2012, disse no ai giochi olimpici, ndr) e i businessmen dello sport non ebbero nemmeno il coraggio di «buttarla in politica» come oggi con la sindaca Virginia Raggi, anche se vecchi «attrezzi» del settore come l’ex presidente del Coni e presidente del comitato organizzatore di Roma 2020, Mario Pescante, non seppero trattenersi dal farlo, dimenticandosi che Mennea, dopo la miracolosa e commovente rimonta fatta a Mosca nell’80, le Olimpiadi le amava come nessun altro, perché erano diventate l’esempio della sua capacità di non darsi mai per vinto.
Il fatto è che i giochi, chi li ha disputati e li ha vinti, li rispetta, mentre chi dello sport si è occupato solo a parole li vede esclusivamente come una possibilità di speculazione, spesso spudorata (basti pensare al recente fallimento economico della Grecia di cui l’Olimpiade del 2004 è stata una delle cause scatenanti).
Pietro, quella volta, dopo aver espresso con coraggio la sua opinione, come sempre, lasciò cadere la polemica. Non ne valeva la pena. L’uomo era fatto così.
Era testardo, rigoroso e dalla memoria lunga. Per questo non era simpatico a molti critici e giornalisti, ma certamente è stato uno dei più grandi campioni sportivi di cui l’Italia abbia potuto vantarsi, per la coerenza e per l’esempio di sacrificio che ha scelto di perseguire in tutta la sua carriera.
Mennea era un figlio del Sud, un campione di corsa che spesso non aveva neanche una pista per allenarsi e che, però, ha saputo smentire, nella sua attività di velocista, tutti i luoghi comuni su di lui (antipatia, diffidenza, struttura fisica inadeguata) anche quelli espressi dai più esperti.
Gianni Brera, uno dei più competenti fra noi giornalisti, scrisse di lui: «Un fiore prodigioso sbocciato nella confusa giungla del nostro ethnos depauperato in troppi secoli di stenti e di umiliazioni».
Il tempo si è incaricato di spiegarci che il grande Giuan si sbagliava sui limiti fisici concessi dalla natura a noi italiani, specie quelli del Sud. Ma il primo a smentirlo fu quel ragazzo di Barletta un po’ «stortignaccolo» che puntava tutto sulla sua caparbietà e sulla predisposizione al sacrificio negli allenamenti imposti dal suo mentore, il professor Carlo Vittori. Mennea soffriva per quell’incomprensione dei giornalisti e anche, talvolta, per la sua timidezza dialettica che non gli permetteva, sempre, di rispondere per le rime a tanti presuntuosi. Rimediava comunque sempre con i risultati fin da quando, a vent’anni, nelle tragiche Olimpiadi del ’72 (segnate dal sangue del terrorismo) aveva vinto la medaglia di bronzo dietro il fuoriclasse russo Valery Borzov e al nordamericano Larry Black.
Il suo orgoglio gli avrebbe permesso di prendersi la rivincita sullo zar russo agli Europei di Roma ’74 e successivamente di trionfare a Praga ’78.
Eppure, solo due anni prima, alle Olimpiadi di Montreal, dove Mennea era arrivato «solo quarto», anche il grande Giovanni Arpino su La Stampa, non era riuscito a evitarsi questo commento: «Mennea passeggia scheletrico, le orbite troppo grandi nel verde rasato e fortificato del villaggio».
Per fortuna, si erano poi incaricati definitivamente di dare a Mennea quello che era di Mennea prima il suo record del mondo sui 200 metri (un fantastico 19’ 72”) alle Universiadi di Città del Messico (il 12 settembre del 1979) e poi la prodigiosa rimonta sull’inglese Allan Wells nell’Olimpiade di Mosca ’80 che gli valse la medaglia d’oro.
Basterebbero questi ricordi per rendere indiscutibile il fatto che Pietro Mennea è stato il più prestigioso atleta dello sport italiano. Ma la sua puntigliosa abitudine di non allinearsi con l’apparato, non gli permise mai di godere della gratitudine che aveva ampiamente meritato, né del riconoscimento della sua eccellenza intellettuale. Questo avvocato laureato anche in scienze politiche, lettere e scienze dell’educazione motoria, non fu mai preso in considerazione, per esempio, per un qualunque incarico nell’ambito dello sport italiano. Anzi, una volta fu pure squalificato per tre mesi (anche se in inverno, quando in Occidente non ci sono gare) dalla Fidal, la Federazione italiana di atletica leggera, perché, ormai stanco per un’annata lunga e snervante, si era negato, d’accordo con il professor Vittori, a una touée elettorale voluta a fine stagione dal presidente Primo Nebiolo, il creatore dell’atletica-spettacolo che reputava quel viaggio fondamentale per la sua rielezione a presidente della Federazione mondiale.
L’anno successivo, il prodigioso 1979, dovette intervenire Luca di Montezemolo, presidente della Sisport, società presso la quale Pietro era tesserato, per evitare a Mennea, che aveva già programmato il suo tentativo di record alle Universiadi, di doversi spremere anche per la solita touée. Un uomo cocciuto, conscio dei suoi diritti, dai quali non voleva derogare: «A distanza di tempo, con il senno di poi, posso serenamente dire – mi ha spiegato una volta Pietro – che quel contrasto nasceva da una questione antica: il confine nella vita di un atleta fra appartenenza a una nazionale e l’appartenenza a se stessi. Tema delicato, complesso». Così ora so che quel giorno allo stadio universitario di Città del Messico ho assistito a un evento storico per davvero. Non è un caso che io fossi al seguito di Mennea quel giorno memorabile, quel giorno in cui mia figlia Marianna, che ora è una manager affermata proprio in Messico, si fece scappare i lacrimoni (aveva cinque anni) e non volle salire sul podio con Pietro, come aveva fatto invece nei giorni precedenti alla premiazione delle staffette.
Dopo Muhammad Ali (il suo ritratto su MC di maggio 2016, ndr) seguivo sistematicamente Mennea perché, a suo modo anche lui era fuori dagli schemi, da come i giornalisti vorrebbero che i campioni del nostro tempo fossero, obbedienti, conformisti anche quando si tocca la loro libertà personale e al servizio, sempre, delle esigenze dei mezzi di comunicazione. Muhammad Ali e Mennea furono salvati dai risultati, altrimenti sarebbero stati masticati e sputati via come Maradona, quando non è stato più in grado di vincere e quindi di essere utile al mercato dell’informazione.
Per capire la sua caparbietà, ricorderò un’esperienza personale. Una volta, per un reportage commissionatomi dalla Rai, riunii su una spiaggia della Califoia, Mennea con il leggendario Tommie Smith (quello della protesta, con il pugno nero guantato, alle Olimpiadi di Messico ’68) e Steve Williams, sprinter dotatissimo, ma amante della bella vita. Ad un certo punto, Tommie e Steve, uno per parte, alzarono Pietro da terra per far vedere quanto era più piccolo di loro: la differenza era di una spanna, una spanna più che compensata dalla sua caparbietà. Eppure, molti tentarono più volte di sbiadire il suo valore: «Il record di 19’ e 72” – pontificavano costoro – lo ha stabilito correndo in altura». Non tenevano in conto che lo stesso Smith recordman prima di Pietro (19’ e 83”) aveva corso la distanza nello stesso stadio universitario di Città del Messico. Il record di Pietro fu poi battuto da Johnson ad Atlanta nel ’96. Aveva resistito per 17 anni.
Mennea era un uomo schivo e perbene che scriveva libri di giurisprudenza sportiva e, specie quando fu eletto al Parlamento europeo, lavorò molto per lo sport e il bene comune. Era un uomo curioso e, al contrario di quello che pensano molti, spiritoso e ironico. Una volta mi raggiunse a Las Vegas, dalla Califoia, insieme a Steve Williams, Ray Sugar Robinson e Nino Benvenuti per conoscere Cassius Clay-Muhammad Ali. Un mito vero che quella sera, sulla via del tramonto nel penultimo match della sua vita, aveva perso contro Larry Holmes, il suo ex sparring partner. «Questa è la vita» aveva commentato Pietro ad Ali che si era stupito vedendolo bianco e apparentemente fragile. «Sono bianco, ma nero dentro, nel cuore», aveva ribadito Mennea.
Gianni Minà