Un paese semisconosciuto. Spesso confuso con il suo vicino, il più noto Congo RD. Ma è uno dei principali produttori africani di petrolio. E i rapporti con l’Italia sono molto stretti, da mezzo secolo. Non tra i popoli, ma tra i vertici e i tecnici delle imprese petrolifere. Cerchiamo di sapee di più.
Tra Italia e Repubblica del Congo c’è un’amicizia di lunga data. Il mastice che tiene uniti i due paesi è il petrolio. Dal 1968, l’Eni, la società italiana di idrocarburi, estrae greggio e continua a fare prospezioni nei fondali marini e sulla terra ferma della nazione africana. Non è un caso che il premier italiano Matteo Renzi nella sua prima visita in Africa, nel luglio 2014, abbia incluso una tappa proprio a Brazzaville, la capitale del Congo. E in quella visita si premurò di incontrare il presidente Denis Sassou Nguesso. Esiste quindi un solido sodalizio d’affari. Per noi italiani Brazza è un partner strategico, come lo sono Angola, Mozambico, Algeria, Nigeria e, un tempo, Libia.
Un mare di greggio
L’economia della Repubblica del Congo – anche chiamata Congo Brazza – dipende in gran parte dal petrolio. Il paese è uno dei cinque grandi produttori dell’Africa subsahariana (insieme ad Angola, Nigeria, Gabon e Mozambico). Secondo i dati foiti dal Fondo monetario internazionale, l’«oro nero» assicura l’80% delle entrate del bilancio statale. Il greggio viene estratto soprattutto da giacimenti offshore (cioè al largo delle coste), ma esistono riserve anche sulla terraferma, così come notevole è la presenza di sabbie bituminose dalle quali è possibile ricavare petrolio (sebbene con procedimenti molto inquinanti e costosi). Il Congo Brazza ha pure importanti giacimenti di gas che però non riesce a sfruttare appieno perché manca una rete di distribuzione (nonostante rappresentino un’ulteriore potenziale fonte di ricchezza).
«Il Congo – spiega Antonio Tricarico, analista dell’associazione Re:Common, che a più riprese si è occupato della situazione congolese – punta anzitutto allo sfruttamento dei giacimenti marini. E questo per due motivi: in primo luogo perché nei fondali congolesi il petrolio è abbondante e le riserve promettono bene, in secondo luogo perché i giacimenti petroliferi congolesi sono relativamente vicini alla costa e quindi più facilmente sfruttabili. Alcuni anni fa, quando il prezzo del greggio era abbastanza elevato, il Congo ha investito nello sfruttamento delle sabbie bituminose e dei biocombustibili. Il progetto però è rimasto limitato alla fase esplorativa, probabilmente perché non era più conveniente rispetto alla produzione offshore e sulla costa. Oggi il governo punta soprattutto sulla concessione delle tradizionali licenze di sfruttamento». Secondo l’Energy Information Administration (ente statistico sull’energia del governo Usa), il paese ha riserve di petrolio che ammontano a 1,6 miliardi di barili. Un patrimonio che potrebbe portare sollievo a quella ampia fascia (46,5%) di popolazione che vive ancora sotto la soglia di povertà e potrebbe garantire energia al 65% di congolesi che ancora vivono senza elettricità.
Sventola il tricolore
Questa ricchezza però fa gola a molti. E infatti sul territorio di Brazza operano compagnie statunitensi, francesi, portoghesi, angolane. E, come già detto, anche l’italiana Eni. La società di San Donato opera nella nazione africana da 48 anni. È impegnata sul fronte dell’estrazione di petrolio, del gas naturale e delle sabbie bituminose. Secondo quanto riporta il sito Eni (www.eni.it), nel 2015 in Congo sono stati estratti un totale di 103mila barili al giorno tra gas e petrolio, cioè poco meno di quanto si estrae in Nigeria (137mila barili) e più di quanto viene ottenuto dai pozzi in Angola (101mila). La produzione è concentrata nei giacimenti di Zatchi, Loango, Ikalou, Djambala, Foukanda e Mwafi, Kitina, Awa Paloukou, M’Boundi, Kouakouala, Zingali e Loufika. Proprio quest’anno, 2016, l’Eni ha aumentato la produzione e prevede di toccare i 14mila barili al giorno. L’attività degli italiani si è concentrata soprattutto sull’estrazione marina.
Il blocco Marine XII sembra quello più promettente: si stima che i vari giacimenti di quest’area abbiano riserve di gas e petrolio per circa 6 miliardi di barili. Ma le esplorazioni continuano e gli ingegneri del «Cane a sei zampe» pensano che altre risorse siano ancora disponibili. L’Eni inoltre è attiva anche nella produzione di corrente elettrica. Nel 2007 ha infatti siglato un accordo con Brazzaville per la realizzazione di centrali elettriche che utilizzano il gas flaring, cioè il gas associato all’estrazione di petrolio. Questo gas, invece di essere rilasciato nell’atmosfera (è molto inquinante), viene portato, attraverso un gas-dotto di 55 km, nell’area di Djeno dove sono state realizzate due centrali che producono energia.
«I rapporti tra Congo ed Eni sono ottimi – osserva Tricarico -. Una piccola curiosità: Claudio Descalzi, l’attuale amministratore delegato dell’azienda del “Cane a sei zampe”, ha fatto una parte importante della sua carriera proprio in Congo e si è sposato con una donna congolese. Al di là dei pettegolezzi, la società italiana, in questi ultimi anni, ha rafforzato la sua presenza nel paese africano che è diventato sempre più strategico per i piani alti di San Donato. Nei prossimi anni, se non nei prossimi mesi, l’Eni dovrebbe addirittura acquisire alcune delle licenze ora in mano a Total. Quest’ultima pare invece volersi progressivamente sganciare da Brazzaville. L’Eni è quindi un attore chiave nel paese ed è destinato a diventarlo sempre di più in futuro».
Petrolio opaco
Il settore petrolifero congolese però alimenta un sistema opaco, in cui è difficile definire con esattezza i confini tra la legalità e la complicità con un sistema politico non trasparente, e poco rispettoso delle procedure democratiche. La questione che ha destato maggiore perplessità negli osservatori è il decreto presidenziale (non ancora trasformato in legge) approvato nel 2014. Esso prevede l’obbligo di rinnovo delle concessioni petrolifere e, in tale contesto, la cessione di una percentuale che va dall’8 al 10% (in alcuni casi fino al 25%) delle concessioni a società congolesi. Ciò non esclude lo sfruttamento dei giacimenti da parte delle compagnie straniere, ma impone una presenza sempre più importante di società congolesi nel settore degli idrocarburi.
Nel 2014 l’Eni ha venduto proprie partecipazioni in quattro campi petroliferi a una società che si chiama Aogc (Africa oil & gas corporation). La notizia della cessione a Aogc è emersa durante l’assemblea degli azionisti dell’Eni il 13 maggio 2015. «La Aogc è stata proposta come partner da Eni o dal governo congolese?», ha chiesto Elena Gerebizza, azionista e rappresentante delle due Ong Global Witness e Re:Common. «Non siamo stati noi a sceglierla», ha risposto Claudio Descalzi. L’Aogc non è una società qualsiasi. Nel consiglio di amministrazione siedono Denis Gokana, consigliere del presidente Sassou Nguesso, e alcuni funzionari pubblici. Nel 2005 l’azienda è finita nel mirino dell’Alta corte di giustizia inglese che l’ha inserita in una lista di società offshore create per distrarre i ricavi petroliferi congolesi. Secondo una ricerca di Global Witness, la Aogc sarebbe anche servita per pagare i salati conti dello shopping parigino di Denis Christel, figlio del presidente Sassou Nguesso (spesso i dirigenti africani amano fare compere nelle capitali europee, ndr).
Ma quello dell’Aogc non è l’unico caso che desta perplessità. «Nel periodo 2003-2005 – continua Tricarico – esistevano in Congo varie società petrolifere che io definirei di facciata, perché prendevano appalti dalla società nazionale degli idrocarburi e poi utilizzavano i soldi a beneficio della famiglia presidenziale. In questi mesi, nella Repubblica di San Marino, l’intermediario francese Philippe Maurice Chironi sta subendo un processo per presunto riciclaggio di 70 milioni di euro – di cui circa 20 effettivamente sequestrati – riconducibili a persone legate al presidente del Congo Brazzaville, Denis Sassou Nguesso».
Il settimanale «l’Espresso» ha sollevato un altro caso delicato, quello del blocco Marine XII. Il regime di Nguesso ha posto una condizione per il rilascio della concessione – ha scritto il periodico -: l’Eni avrebbe dovuto cedere il 25% del blocco a un’azienda selezionata dal governo. La scelta è caduta sulla New Age, una società nata due anni prima su iniziativa dell’Och-Ziff Capital Management Group, il più grande hedge fund statunitense. «Per quello scambio con Eni – si legge su l’Espresso -, New Age ha detto di aver versato all’azienda guidata oggi da Descalzi 53 milioni di dollari. Il problema è che quel prezzo era equivalente a un terzo del valore reale della quota, secondo i calcoli della McDaniel Associates Consultants, società di consulenza citata dalla stessa New Age. Ovvero la quota azionaria è stata largamente sottopagata. La differenza, spiega l’Eni, dipende dal fatto che “non si è trattato di una vendita su base commerciale; New Age entrò rimborsando proporzionalmente le spese sostenute fino al momento dell’ingresso nella joint venture”. Sulle attività africane di Och-Ziff stanno indagando le autorità statunitensi. Né l’hedge fund né gli inquirenti hanno specificato su quali investimenti sono in corso gli accertamenti».
Dulcis in fundo, sempre «l’Espresso», ha denunciato l’esistenza nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands di una società, la Elengui Limited, la cui direttrice e socia unica era Marie Madeleine Ingoba, moglie congolese di Claudio Descalzi. La società è stata chiusa proprio nei giorni in cui Matteo Renzi ha nominato Descalzi al posto di Paolo Scaroni (2014).
Perché la moglie dell’allora numero due dell’Eni ha creato questa società? Marie Madeleine Ingoba ha sostenuto che «la società era stata costituita al solo scopo di essere utilizzata per sviluppare un progetto immobiliare a Brazzaville, la ristrutturazione e l’ammodeamento di un hotel nella capitale congolese, che però non si è mai materializzato». La scelta di crearla in un paradiso fiscale è stata dettata dalla praticità – ha detto la signora Descalzi -, la registrazione alle British Virgin lslands era la soluzione più rapida e meno costosa. Ma, sempre secondo la signora Descalzi, la sua società non ha mai avuto alcun rapporto con Eni.
L’amicizia è una bella cosa, ma il rischio è che l’Italia sia diventata troppo amica del Congo.
Enrico Casale