Sommario
- Meglio una pace imperfetta di una guerra
- Gli indigeni Nasa e il «sexto frente»
- L’attesa si prolunga
- Non chiudiamo le finestre alla pace
- Sitografia
- Video e archivio MC
Meglio una pace imperfetta di una guerra
La maggioranza dei colombiani (votanti) ha deciso di dire «no» agli accordi di pace siglati il 24 agosto tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep. La guerra civile, iniziata nel 1964, ha causato almeno 220mila morti e prodotto danni immensi. Ora inizia una nuova e terribile sfida: tornare al conflitto o continuare sulla strada della pace. In un paese ingiusto e ancora più diviso.
Nel referendum del 2 ottobre il quesito era semplice e chiaro: «Lei approva l’accordo finale per la fine del conflitto e la costruzione di una pace stabile e duratura?». A questa domanda, la maggioranza dei votanti – pochi, appena il 37,4% degli aventi diritto – ha risposto con un «no»: 6.431.376 contro 6.377.482, una differenza di soli 53 mila voti. L’accordo del 24 agosto tra il governo Santos e la guerriglia delle Farc-Ep («Forze armate rivoluzionarie della Colombia – Esercito del popolo») adesso è in bilico, anche se i protagonisti si sono affrettati a ribadire che il dialogo e la pace sono le sole opzioni.
Il risultato ha premiato lo schieramento del «no», capeggiato dall’ex presidente Álvaro Uribe Vélez, politico tuttora con molto seguito nel paese, anche all’interno della Chiesa. Va ricordato che, durante il suo mandato, Uribe aveva firmato un accordo con i paramilitari delle Auc, ma si era ben guardato dall’indire una consultazione popolare che lo confermasse.
Un conflitto di 52 anni, con 220 mila morti, 6,7 milioni di desplazados, immensi danni morali e materiali, non si cancella con alcune firme su un accordo. Tuttavia, una vittoria del «sì» sarebbe stato un viatico per la speranza.
Se non ci fosse la guerra
La guerra è la peggiore delle situazioni create dall’uomo. È altresì vero che l’assenza di guerra non significa automaticamente – lo vediamo tutti i giorni – un’esistenza pacifica e men che meno felice. Lo scrive chiaramente l’organizzazione colombiana Somos defensores, che pure si è battuta senza tentennamenti per il «sì» al referendum del 2 ottobre.
Nell’introduzione al suo rapporto Este es el fin?, uscito a giugno, la Ong scriveva: le autorità colombiane sostengono che senza guerra «termineranno molti problemi che affliggono il paese poiché esse attribuiscono al conflitto armato gran parte di queste problematiche. Niente di più lontano dalla verità, dato che fenomeni come la corruzione, il clientelismo, la diseguaglianza, il saccheggio delle risorse naturali, la morte quotidiana per mancanza di attenzione medica, l’esclusione, la povertà, tanto per citare alcuni dei molti problemi, non sono effetti del conflitto armato, ma al contrario ne sono la causa, allora perché tutto questo dovrebbe sparire?».
Per dipingere meglio la situazione generale vale la pena ricordare qualche dato, desunto non da organi di sinistra o antigovernativi ma da strutture istituzionali. Secondo cifre della Banca mondiale (anno 2015), la Colombia è il settimo paese più diseguale del mondo e il secondo dell’America Latina: viene dopo l’Honduras, ma prima del Brasile e del Guatemala. Secondo il terzo Censimento agrario (Dipartimento nazionale di statistica, Dane, 2015), lo 0,4% dei proprietari terrieri detengono quasi la metà della terra coltivabile in Colombia e il 44,7% dei contadini vive nella miseria. Sempre secondo statistiche ufficiali riferite al 2015, la povertà riguarda il 27,8% dei colombiani, ma nel Caquetá e del Cauca, dipartimenti caratterizzati da guerra e narcotraffico, arriva al 41,3% e al 51,6%.
Questi pochi dati bastano per due deduzioni, banali ma difficilmente smentibili: la guerra civile non è nata per caso e le coltivazioni di coca non si sono diffuse tra i campesinos per sete di denaro ma per pura sopravvivenza.
L’accordo per «una pace stabile e duratura»
È vero che le quasi 300 pagine dell’accordo de L’Avana sembrano un libro dei sogni, un’utopia di difficile realizzazione, soprattutto dopo il risultato del referendum. Tuttavia, il fatto che le parti, alla fine di 4 anni di dibattito, abbiano raggiunto un’intesa su tante questioni delicate è già di per sé un grande successo.
Il paese aveva già avuto esperienze simili con il disarmo delle Autodefensas unidas de Colombia (Auc), avvenuto a partire dal 2005. Nel caso dei paramilitari furono approvate due leggi: la Ley de justicia y paz (legge 975 del 2005) e la Ley de victimas y restitución de tierras (legge 1448 del 2011). Lo smantellamento dei gruppi paramilitari è stato però relativamente più semplice, in quanto essi erano nati con il supporto delle stesse forze al potere e dello stato colombiano. Tra l’altro, una parte importante di essi sono rapidamente confluiti in svariate bande criminali (Bacrim, acronimo di bandas criminales).
L’accordo del 24 agosto comprende vari punti e relative intese, tutto al fine di «porre le basi di una pace stabile e duratura». Pur nell’incertezza causata dal «no» del 2 ottobre, vediamo rapidamente i suoi punti salienti.
Come abbiamo già sottolineato, la terra e il suo possesso costituiscono una delle cause fondanti del conflitto. Non per nulla il primo punto dell’accordo riguarda la «riforma rurale integrale» che si prefigge la distribuzione di terra ai contadini senza terra o con terra insufficiente, investimenti pubblici per infrastrutture e sviluppo sociale e, come obiettivo finale, lo sradicamento della povertà tra la popolazione delle campagne.
Il secondo punto riguarda la «partecipazione politica», che significa aprire lo scenario colombiano all’entrata di nuove rappresentanze, portatrici di differenti visioni e interessi. Alla ex guerriglia dovrebbero essere garantiti 10 seggi al Congresso.
Il terzo punto riguarda «il cessate il fuoco bilaterale e definitivo e l’abbandono delle armi». I membri delle Farc sarebbero anche distribuiti in 23 zone e 8 accampamenti. Questo dovrebbe essere anche il punto di partenza per la reincorporazione dei combattenti nei diversi ambiti – economico, sociale e politico – della vita civile del paese.
Il quarto punto è dedicato alla «soluzione del problema delle droghe illecite». Esso prevede un programma di abbandono delle colture illegali e una sostituzione volontaria con colture alternative che garantiscano sostenibilità economica, sociale e ambientale e un’esistenza degna alle famiglie.
Il punto 5 è dedicato alle vittime del conflitto e crea il cosiddetto «Sistema integrale per la verità, la giustizia, la riparazione e non ripetizione». Esso prevede organismi e misure per scoprire la verità e soddisfare il diritto delle vittime alla giustizia. Vengono esclusi amnistia e indulto per i delitti di lesa umanità. Sono inoltre comprese misure per la ricerca delle persone e per la riparazione dei danni.
Il sesto e ultimo punto contiene le intese sui «meccanismi di applicazione e verifica» dell’accordo, inclusa una commissione formata da rappresentanti del governo nazionale e delle Farc.
Artigiani della pace e artigiani della guerra
Da tempo monsignor Luis Augusto Castro, missionario della Consolata, arcivescovo di Tunja e attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), lavora per porre fine alla guerra civile, tanto da essersi meritato l’appellativo di «artesano de la paz» (artigiano della pace).
Per anni missionario prima e vescovo poi nei dipartimenti del Caquetá e Putumayo ad alta presenza guerrigliera, mons. Castro è noto per la sua azione di mediatore con le Farc, anche in favore delle persone da esse sequestrate. Il fatto più noto è la liberazione, nel giugno del 1997, dei soldati catturati dalla guerriglia nella base militare di Las Delicias (Puerto Leguízamo, Putumayo).
Fondamentale ancorché lontano dai riflettori è stato il suo apporto ai colloqui di pace tra il governo Santos e le Farc, con grande disappunto dell’ex presidente Álvaro Uribe, con il quale il prelato ha sempre avuto rapporti piuttosto freddi. A giugno, dopo la firma del cessate il fuoco, Uribe ha rilasciato un duro comunicato in cui parlava di «pace ferita». Ad esso ha risposto, per via indiretta, mons. Castro parlando di «pace rafforzata».
Peccato che anche in seno alla Conferenza episcopale non tutti siano dalla parte dell’arcivescovo di Tunja. Fuor di metafora, la decisione della Cec di non suggerire il «sì» per il quesito referendario del 2 ottobre è stata una evidente presa di distanza dall’azione del suo presidente. D’altra parte, è risaputo, anche se spesso detto sottovoce, che molti vescovi sono schierati con Álvaro Uribe. Sul dibattito intorno alla tematica dell’accordo è molto istruttiva la lettura di un sito – www.votocatolico.co -, che ha fatto una campagna durissima per il «no».
Tra gli interventi pubblicati, c’è quello di padre Mario García Isaza, formatore del seminario arcidiocesano di Ibagué. Padre Isaza parte dalla bocciatura linguistica del testo per passare a quella della riforma agraria che, a suo dire, metterebbe a rischio la proprietà privata, per finire con la condanna dell’aberrazione (testuale) di includere nell’accordo anche le persone omosessuali. Sullo stesso sito, mons. Libardo Ramírez vede negli accordi un futuro con ancora più guerre. Opinione però non condivisa dalla diocesi di Quibdó (Chocó), pubblicamente espressasi per il «sì».
Dietro la guerra c’è…
Il referendum del 2 ottobre ha abbattuto il muro dell’ipocrisia. Come ci ha confessato più di un colombiano, la realtà può essere letta anche in questo modo: «La guerra significa soldi, la pace significa incertezza e può significare anche miseria». L’affermazione contiene elementi di verità, ma è altrettanto vero che chi ci guadagna dal mantenimento dello status quo sono principalmente i ricchi o comunque i potenti.
Vale la pena di concludere con le parole di mons. Castro, parole di speranza ma anche di sano realismo, pronunciate prima del referendum del 2 ottobre: «Quello che è decisivo è ciò che verrà dopo, nel post conflitto. Questo significa costruire una Colombia nuova che corregga gli errori che diedero inizio al conflitto».
Errori che adesso, dopo la vittoria del «no», sarà ancora più difficile correggere.
Paolo Moiola
L’esperienza /1
Gli indigeni Nasa e il «sexto frente»
Il Cauca è stato un teatro di guerra importante. Qui si sono fronteggiati gruppi guerriglieri (non soltanto delle Farc-Ep), esercito nazionale e indigeni. Per vent’anni padre Antonio Bonanomi ha convissuto (e dialogato) con tutti gli attori. Ecco il suo racconto, le sue critiche, le sue speranze.
Padre Antonio Bonanomi è stato per 19 anni, dal gennaio 1988 a giugno 2007, a Toribío, nel Nord del Cauca, Colombia Sud occidentale, sulla cordigliera centrale delle Ande. Il Nord del Cauca è un luogo strategico per la comunicazione fra il Sud e il Nord del paese e per la sua vicinanza alla città di Cali. Fin dall’inizio del conflitto armato, nel 1964, le Farc-Ep si sono stabilite in questo territorio, formando il «sexto Frente» (sesto Fronte). Sono poi arrivati altri gruppi armati, come l’M-19 (Movimiento 19 de abril, sciolto nel 1990), il Quintin Lame (discioltosi nel 1991), il Prt (Partido revolucionario de trabajadores, sciolto nel 1991). In risposta, oltre alla polizia nazionale, è arrivato l’esercito. E così il territorio si è progressivamente convertito in uno dei principali teatri di guerra con gravissime conseguenze per la popolazione civile, formata al 95% da persone appartenenti al popolo Nasa. A Toribío padre Antonio Bonanomi ha lavorato come cornordinatore della équipe missionaria, formata da sacerdote, suore e laici. Legatissimo a quella terra, con lui abbiamo parlato del passato e del possibile futuro dopo le firme dell’Accordo del 24 agosto e l’inatteso «no» del 2 ottobre.
La nuova Colombia deve attendere
Padre Bonanomi, con il voto al plebiscito un’esigua maggioranza dei colombiani (poco più di 6 milioni sui 13 che hanno partecipato) hanno detto «no» agli accordi tra governo Santos e Farc-Ep. Perché questo risultato e cosa succederà ora?
«Il voto mostra un paese fortemente diviso, con una maggioranza (il 66%) che non ha votato. Ha vinto l’ex presidente Álvaro Uribe Vélez contro l’attuale presidente Juan Manuel Santos. Dopo l’esito del referendum tutti, vincitori e vinti, dicono di volere la pace. Con una sostanziale differenza: i vincitori affermano di volerla senza l’intesa che era stata firmata.
Per quello che si può capire diversi sono i motivi del “no” all’accordo: alcuni hanno detto “no” per ragioni economiche, perché si sentono toccati nei loro interessi; altri per ragioni politiche, perché temono di perdere un po’ di potere; altri ancora hanno detto “no” per ragioni “religiose”, perché pensano che l’accordo apra le porte a un gruppo comunista, ateo e favorevole ai diritti civili dei “diversi”.
La vittoria del “no” è la vittoria di un progetto di paese, culturalmente neo-conservatore, economicamente e politicamente neo-liberale.
Non è facile dire cosa può succedere ora. Con il voto del 2 ottobre un momento “storico”, che poteva significare la nascita di una nuova Colombia, si è convertito in un momento “drammatico” con uno scontro fra due progetti di paese differenti.
Ad ogni modo è importante accettare la sfida e continuare a lavorare senza stancarsi e senza perdersi d’animo per una nuova idea di paese: un paese più umano, più giusto, più aperto alle minoranze e quindi più inclusivo».
Le Farc e il narcotraffico
Se si leggono i rapporti inteazionali e i reportage dei grandi media, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terroristica, a seconda delle diverse interpretazioni) in un cartello di narcotrafficanti che incassa milioni di dollari. Questa rappresentazione è vicina alla realtà o è esagerata per motivi politici?
«Più volte ho avuto occasione di parlare di questo tema con alcuni responsabili del “sexto Frente” e mi hanno spiegato che a metà degli anni Ottanta del secolo scorso i principali gruppi guerriglieri (Farc-Ep e Eln) pensavano che fosse giunto il momento della lotta finale per la vittoria della rivoluzione… e per questo avevano bisogno di altri uomini armati. Si prese pertanto la decisione di aprire le porte a tutti coloro che si presentavano e di arruolare il maggior numero possibile di combattenti. Questa decisione ebbe come conseguenza l’aumento delle spese economiche per armare e finanziare i nuovi arruolati. Per questo ricorsero al sequestro e al narcotraffico».
Pertanto, padre, la guerriglia è diventata anch’essa un attore del narcotraffico?
«Mi spiego meglio. Normalmente le Farc-Ep si limitavano a mettere una tassa sulla produzione e la commercializzazione delle droghe, approfittando del fatto che esse erano coltivate principalmente nelle zone dominate da loro. Quindi normalmente le Farc-Ep non erano produttori e commercializzatori di droghe (coca, marihuana, amapola). Anzi, dove avevano potere, obbligavano i contadini a destinare parte del loro terreno alla produzione di alimenti. Sembra che, in qualche caso, ci siano anche stati gruppi delle Farc-Ep che si siano dedicati al commercio delle droghe creando così di fatto un “cartel” del narcotraffico.
Per quello che mi hanno spiegato persone del “sexto Frente” la decisione di arruolare tutti coloro che si presentavano e la conseguente decisione di entrare nel mondo del narcotraffico è stata motivo di contrasti all’interno del movimento, perché queste due decisioni avevano creato un clima di sfiducia reciproca e la tentazione della corruzione.
Va infine notato che, nella Colombia degli ultimi 30/40 anni, tutti gli uomini del potere (politico, economico, militare, giudiziario, e in alcuni casi anche religioso) hanno goduto dei benefici del narcotraffico. Pochi insomma possono lanciare la prima pietra».
Mons. Castro e la Chiesa colombiana
Da molti anni mons. Castro lavora per il dialogo tra le parti in conflitto. Tuttavia, il suo operato non trova consenso unanime all’interno della Chiesa colombiana. Questo è un fatto evidenziato anche dal mancato appoggio al «sì» nel referendum del 2 ottobre. Come stanno le cose?
«Non è facile parlare della Chiesa cattolica colombiana perché è una realtà molto amplia e complessa. Non sono mai mancate voci e gesti profetici, però nella sua maggioranza la gerarchia e il popolo cattolico hanno assunto posizioni conservatrici e si sono opposti al cambiamento. Molto significative sono state, in questo senso, le figure dei cardinali Alfonso López Trujillo, Dario Castrillón e dell’attuale arcivescovo di Bogotá, card. Rubén Salazar Gómez. In generale si tratta di andare d’accordo con chi detiene il potere e di respingere ogni progetto di modificazione. Al punto che molti pongono anche la Chiesa fra i responsabili della violenza in Colombia.
Questo ha spinto molti cattolici ad appoggiare il “no”, non perché siano contrari all’intesa, ma perché sono contrari alle proposte di cambiamento, soprattutto quello culturale, conseguenti all’accordo.
Credo che questo abbia portato mons. Luis Augusto Castro, come presidente della Conferenza episcopale, a non pronunciarsi apertamente a favore del “sì”, ma piuttosto a promuovere un processo educativo, o meglio una pedagogia che porti la gente alla conversione del cuore, al perdono e alla riconciliazione».
L’attualità delle cause del conflitto
Dopo 52 anni di conflitto interno, si cerca finalmente di parlare di pace. Tuttavia, le cause economiche e sociali che hanno portato alla guerra sono ancora tutte in piedi: concentrazione della terra, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione, tanto per citare le principali. Non pensa che, senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace, qualsiasi pace, non potrà diventare effettiva?
«È verissimo che le cause del conflitto armato che ha accompagnato tutta la storia della Colombia, non solamente gli ultimi 52 anni, sono tutte ancora in piedi, però è anche vero che i rappresentanti del governo nazionale e delle Farc-Ep, che hanno lavorato a Cuba per la definizione dell’accordo, hanno preso in seria considerazione le cause del conflitto e hanno cercato di proporre delle soluzioni. Si sarebbe dovuto aprire un lungo e difficile periodo di lavoro per mettere in pratica le riforme contenute nell’accordo. Oggi, in una Colombia resa più polarizzata dal voto, il cammino verso una pace giusta si è trasformato in una sfida se possibile ancora più grande».
I guerriglieri e le vittime
Come si fa a reinserire nella società, nella vita civile e nella politica migliaia di persone che, per anni, hanno vissuto da guerriglieri? La storia colombiana parla già di due fallimenti, quello dell’Unione patriottica (i cui esponenti furono tutti eliminati in pochi anni) e quello delle milizie Auc (i cui membri sono andati a ingrossare le fila della criminalità organizzata).
«Il problema è reale: negli anni vissuti a Toribío ho visto la difficoltà di coloro che decidevano di lasciare la guerriglia a reinserirsi nel cammino della loro famiglia e della loro comunità, e allo stesso tempo la difficoltà delle famiglie e delle comunità a riceverli di nuovo. Era evidente un clima di estraneità da entrambi le parti. Già con la vittoria del “sì” non sarebbe stato facile il reinserimento (anche perché il conflitto ha lasciato strascichi di odio, di risentimento e di voglia di vendetta), con la vittoria del “no” sarà ancora più difficile. È necessario percorrere un duplice cammino: un paziente lavoro psicologico e spirituale per la conversione della mente e del cuore; un processo di formazione e di preparazione a un lavoro concreto».
I numeri delle vittime sono impressionanti. Che cosa si può dire a una persona che ha perduto un familiare o a uno sfollato?
«Se consideriamo chiuso il conflitto armato, rimangono però le sue conseguenze: migliaia di morti e feriti, di scomparsi e di sfollati. È una piaga aperta nella memoria nazionale e un mare di dolore nel cuore di molti. Nel quinto punto dell’accordo si prevedevano misure per dare una risposta a questa situazione. Sarà necessaria una azione psicologica e spirituale per la cura delle ferite. Oltre che di parole di consolazione, c’è bisogno di gesti concreti che aiutino le persone a guardare e a costruire il futuro con speranza».
Lei parla di un lavoro a livello psicologico e spirituale. Ha qualche esempio concreto in mente?
«L’esempio più famoso è quello delle “Scuole di perdono e riconciliazione” (Escuelas de perdón y reconciliación, Es.Pe.Re.), fondate da padre Leonel Narváez Gómez, un missionario della Consolata colombiano specializzatosi in Inghilterra e Stati Uniti. A livello locale ricordo anche il consultorio psicologico che un altro missionario della Consolata, padre Renzo Marcolongo, aprì a San Vicente del Caguán».
Toiamo alla dura realtà. La narcoeconomia ha radici profonde nella società colombiana. Come fare per ridurre i danni che provoca?
«La narcoeconomia è una realtà globale, non solo colombiana. È parte della cultura mafiosa che ha invaso tutto il mondo. Per questo sono necessarie risposte globali, specialmente da parte dei paesi più ricchi, dove più alta è la commercializzazione e il consumo di droghe. Una delle proposte è la liberizzazione del commercio e del consumo di queste sostanze. Per tornare alla Colombia, l’accordo fra il governo nazionale e le Farc-Ep, al quarto punto, prendeva in considerazione il tema del narcotraffico e proponeva la creazione di alternative concrete, come progetti produttivi, piani alimentari, possibilità di accedere a servizi speciali di educazione e di salute, affinché i coltivatori possano abbandonare le coltivazioni illecite, senza ricadere nella povertà».
I popoli indigeni e le Farc-Ep
Lei ha vissuto per quasi 20 anni tra i Nasa. Questi 52 anni di conflitto cosa hanno significato per i popoli indigeni della Colombia?
«Fin dall’inizio le Farc-Ep si sono ubicate nei territori dei popoli indigeni, sulla cordigliera o nella selva. Normalmente le relazioni fra le due realtà sono state ambigue. Da una parte vi era una certa sintonia perché i popoli indigeni, come le Farc-Ep, lottavano per la terra e contro lo stato e il governo nazionale. Dall’altra parte vi era un certo antagonismo perché i popoli indigeni si consideravano gli unici legittimi proprietari del loro territorio ed esigevano il rispetto della loro cultura.
I popoli indigeni in generale hanno accettato la guerriglia come alleata però non come padrona. Proprio per questo negli anni Ottanta, nel Nord del Cauca, il popolo Nasa aprì le porte al M19 e creò un gruppo guerrigliero proprio, il Quintín Lame, contro le Farc-Ep, perché queste volevano essere padrone del territorio e non rispettavano la cultura indigena».
Ecco il punto, padre Bonanomi: cultura indigena e cultura della guerriglia sembrano molto distanti.
«È vero. C’è sempre stata una forte opposizione fra la cultura marxista e materialista delle Farc-Ep e la cultura spiritualista dei popoli indigeni, fra la lotta per il potere delle Farc-Ep e la lotta per l’autonomia dei popoli indigeni.
Quando nel 2012 iniziarono le trattative in Cuba, molti leaders indigeni espressero dubbi e perplessità sull’accordo e chiesero di essere ascoltati. Fortunatamente il testo definitivo dell’accordo riconosce i diritti e le esigenze delle minoranze etniche, e quindi anche dei popoli indigeni, e questo ha spinto le loro organizzazioni e autorità a promuovere il voto per il “sì” al referendum del 2 ottobre.
Io credo che l’accordo, ove attuato, sarebbe un’opportunità per i popoli indigeni della Colombia nella loro lunga lotta per l’autonomia territoriale, socioeconomica, politica e culturale».
Paolo Moiola
L’esperienza / 2
L’attesa si prolunga
Nella valle del fiume Caguán, in Caquetá, la guerra e la coca sono di casa. Giacinto Franzoiricorda i suoi anni trascorsi in quei luoghi sperduti e pericolosi. E non tace la sua delusione per un «no» che, come minimo, prolungherà un insostenibile «status quo». Trent’anni di vita missionaria lungo il fiume Caguán, prima a Cartagena del Chairá e poi a Remolino, a contatto diretto con il conflitto colombiano, mi inducono a fare alcune considerazioni, in una lettura retrospettiva di cause ed effetti. Quella guerra ha prodotto milioni di desplazados in terra propria. E altrettanti sono quelli scappati in tutto il mondo, per fuggire dalla paura e dalle minacce, alla ricerca di un lavoro per sostenere la propria famiglia, per sentirsi liberi in casa altrui.
Le Farc (la guerriglia più antica del mondo), le Auc, i narcotrafficanti: sono stati cinquanta anni di parole e di massacri. Nella mia casa di missione, a Remolino, ho avuto l’opportunità di ospitare sia alti miliari che i comandanti delle Farc, oggi tutti seduti attorno al tavolo de L’Avana. Quando li ascoltavo, notavo la mutua incapacità di fermarsi, come per dire che non c’era uscita dal conflitto se non per via armata.
Tagliati fuori dalle sedie del potere, ogni forza sociale veniva zittita e dissuasa dalla partecipazione politica (come successe per l’Unión patriótica, Up, a metà degli anni Ottanta, ndr) e dal proporre uscite dignitose da una guerra senza fine. Eppure, chi aveva più diritto di parlare era la popolazione, quella che riempiva le fosse comuni, che soffriva le angherie dei protagonisti del conflitto, il condizionamento di ogni scelta. La guerra è proseguita tra contraddizioni infinite, doppia morale, tentativi di qualche presidente della repubblica (Andrés Pastrana, ndr) di sperimentare forme di dialogo.
Con il Plan Colombia (iniziato nel 1999, ndr) e l’alleanza con gli Stati Uniti sono arrivati migliaia e migliaia di soldati, che hanno iniziato una nuova modalità di fare la guerra. Armi sofisticate e aeronautica militare hanno avuto un ruolo determinante nel dare un colpo mortale agli alti comandi delle Farc. La loro influenza sui territori è diminuita sempre di più. Centinaia di guerriglieri sono stati abbandonati al loro destino. Prima che fosse troppo tardi le Farc hanno deciso di mandare un messaggio alla società colombiana: era arrivato il momento di sedersi attorno ad un tavolo. La chiesa colombiana ha accompagnato la linea del dialogo soprattutto con mons. Castro, missionario della Consolata.
A l’Avana c’era bisogno di conquistare la fiducia dell’altro e la maniera più efficace era quella di non lasciare il tavolo, anche se le incomprensioni sono state molteplici e sempre più intricate. I temi erano di somma importanza e nessuno voleva perdere terreno. Il governo non poteva dimostrarsi troppo debole e la guerriglia doveva assicurarsi le garanzie dopo una eventuale firma di accordo di pace.
Dopo 52 anni di guerra costerà molto a questi combattenti tentare la convivenza, ma bisogna crederci. La strada da percorrere è molto lunga per dare alle milizie guerrigliere quanto concordato.
Complimenti a quanti hanno creduto in questa uscita dal problema e ai portatori della cultura della convivenza, attraverso il dialogo, il confronto e il riconoscimento reciproco. Complimenti anche a quei campesinos di Remolino che hanno seminato un albero diverso dalla «mala yerba» (la coca). Un’impresa (Chocaguan) ideata dalla parrocchia e amministrata dal comitato dei coltivatori di cacao. Una piccola pietra nel difficile mosaico della pace.
Quando tutta l’opinione pubblica nazionale e internazionale dava per scontata la vittoria del «sì», allo spoglio delle schede la sorpresa è stata enorme. Per 60 mila voti in più ha prevalso il «no». Se la democrazia sembra aver vinto, gli sforzi fatti negli oltre 4 anni di dialoghi sembrano ora scritti sulla sabbia. Ha prevalso il vento della vendetta, l’azione di forze occulte (politiche ed economiche), l’incapacità di perdonare e riconciliarsi per un progetto comune, la emotività di un popolo che si entusiasma per nulla e celebra il lutto al suono dei mariachi.
Rimane lo status quo e l’incertezza sul futuro. Vince un vecchio presidente della repubblica, il signor Uribe, con nell’armadio un passato sospetto di delitti, di connivenze con i gruppi paramilitari, di difesa del latifondismo e di altri interessi di potere.
Anch’io ci sono rimasto male. Come tutte quelle mamme che dovranno attendere ancora per poter riconoscere e piangere i propri figli.
Giacinto Franzoi
L’esperienza / 3
Non chiudiamo le finestre alla pace
Per valutare la portata e la complessità dell’Accordo di pace occorre leggee le 297 pagine. Anche i numeri sono importanti. Come quelli delle zone (23) e accampamenti (8) dove i membri delle Farc hanno accettato di deporre le armi. O quelli dei seggi parlamentari (10) che saranno garantiti ai rappresentanti della guerriglia. Se il «no» del 2 ottobre non bloccherà tutto.
L’accordo di pace aveva un obiettivo chiaro: la fine del conflitto armato con le Farc e la costruzione di una pace stabile e duratura. In questo senso, occorre riconoscere che dal giorno della firma sul cessate il fuoco e sulla fine bilaterale delle ostilità, il 23 di giugno, il patto è stato rispettato dalle parti e i fatti lo dimostrano in maniera evidente: zero attentati, zero scontri e zero vittime. Vale la pena di ricordare che durante tutto il processo di negoziazione (iniziato nel 2012, ndr) uno dei maggiori timori di fallimento era quello di proseguire il dialogo nel mezzo della guerra. Fortunatamente e nonostante gli eventi dolorosi che si sono verificati, le parti hanno mantenuto la volontà politica di arrivare fino alla fine (ribadendo le loro intenzioni anche dopo l’inatteso «no» del 2 ottobre).
Del conflitto armato colombiano si parla come di uno dei più complessi del mondo, sia per la sua durata, 52 anni, che per la trama di attori legali e illegali e per le sue relazioni e dinamiche legate alle regioni in cui esso si è sviluppato.
Se guardiamo alle cause che hanno generato il conflitto, esse continuano a sussistere: la concentrazione delle terre produttive in poche mani, la scandalosa diseguaglianza sociale, l’accumulazione di ricchezza a fronte di una pungente povertà, la sistematica esclusione di vasti settori della società come i contadini, gli indigeni e gli afroamericani, la profonda corruzione della classe politica e dirigente che accumula fortune rubando all’erario statale attraverso i contratti pubblici, la precarietà e assenza dello?stato nella Colombia rurale.
Come se tutto questo fosse poco, si è sommato il mostro del narcotraffico che, a partire dagli anni Ottanta, è servito da combustibile per la guerra e che ha corrotto tutti i settori dello stato, provocando inoltre perverse alleanze tra narcotrafficanti, paramilitari e politici, nonché legami della guerriglia con il businness della droga.
Anche se l’accordo bocciato il 2 ottobre non garantiva che le grandi e storiche diseguaglianze ed esclusioni si sarebbero risolte, esso avrebbe permesso di aprire finestre di speranza attorno a tematiche cruciali come: la fine del conflitto armato e delle Farc come organizzazione armata illegale, la riforma rurale integrale, l’ampliamento della partecipazione politica, la sostituzione delle coltivazioni illecite con altre lecite, un sistema di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione per le vittime.
La base di partenza: conoscere l’Accordo
A favore del «sì» si erano schierati: il governo e la coalizione Unidad nacional (di cui fanno parte partiti tradizionali e nuovi che godono di un’ampia maggioranza nel Congresso), i partiti di sinistra e altri partiti alternativi, nonché alcune organizzazioni sociali di base di varia natura. Dalla parte del «no» si erano invece schierati i settori che rappresentano la frangia più conservatrice del paese e la destra. Nel dibattito politico, i rappresentanti che capeggiavano i due schieramenti hanno assunto posizioni drasticamente polarizzate, generando confusione e disinformazione nella popolazione.
Nel mezzo di uno scenario di attacchi e contrattacchi era difficile mantenere la calma senza lasciarsi prendere dalla febbre del momento. Esistono uomini e gruppi moderati e conciliatori – tra essi la Chiesa cattolica – che hanno promosso il dibattito e la discussione civile a partire dalla conoscenza delle 297 pagine dell’Accordo. Un compito questo né piacevole né facile: occorreva (e occorre) avere pazienza e umilità per indagare, domandare e partecipare. Gli aiuti pedagogici elaborati da soggetti distinti – organizzazioni popolari, della Chiesa, delle istituzioni nazionali e inteazionali, dello stesso governo – hanno permesso a una parte della popolazione con un basso livello di scolarità di fare propria una certa prospettiva storica alla luce del passato, del presente e del futuro.
Lo smisurato sforzo dei negoziatori
Partendo dalla mia esperienza missionaria tra le comunità che più hanno sofferto il conflitto armato e le sue conseguenze, con i lettori della rivista vorrei condividere alcune riflessioni personali.
Al di là del risultato referendario, è evidente che il processo di negoziazione e il fatto di aver raggiunto un accordo che ha sancito la fine del conflitto e ha fissato i paletti per una pace stabile e duratura hanno rappresento una crescita umana, sociale e culturale. Voler terminare un conflitto armato della vastità – 8 milioni di vittime, tra cui 224 mila morti e 7 milioni di sfollati – di quello colombiano attraverso il dialogo ha richiesto un alto grado di volontà e di razionalità politica in favore del valore più prezioso che è il rispetto della vita e il diritto fondamentale a vivere in pace. Va pertanto elogiato l’immane sforzo dei negoziatori del governo e della guerriglia durante questi quattro anni.
La guerriglia delle Farc si è impegnata a lasciare le armi per la politica. Mai prima, in più di 52 anni di lotta armata, dopo vari tentativi di negoziazione (soprattutto sotto la presidenza Pastrana, ndr) e nonostante avesse subito dure sconfitte, la guerriglia aveva accettato di sottomettersi alla Costituzione e alla legge. Questo è stato un risultato fondamentale ottenuto dal negoziato e, ancora prima di questo, dai successi delle forze armate colombiane, capaci di infliggere perdite considerevoli alla guerriglia (culminate nel novembre 2011 con l’uccisione di Alfonso Cano, comandante in capo delle Farc, ndr). Detto questo, le Farc, in quanto organizzazione politico-militare, mai hanno perso la loro capacità di destabilizzare lo stato, così come di controllare e influenzare una parte consistente del territorio nazionale. Per questi motivi e alla luce di non essere state sconfitte, al fine di contribuire alla pace esse hanno convenuto «l’abbandono volontario delle armi».
Dalle armi alla partecipazione politica?
Tralasciando gli imprevedibili effetti del «no» del 2 ottobre, secondo l’Accordo tutti i membri delle Farc dovrebbero essere raggruppati in 23 cosiddette «zone transitorie di normalizzazione», disseminate in vari municipi del paese, e in 8 accampamenti per i comandanti. In questi luoghi si dovrebbe realizzare il processo di abbandono delle armi, che rimarranno nelle mani dell’Onu. Dopo 6 mesi, una volta formalizzata la situazione dei guerriglieri, si dovrebbe dare inizio al processo giudiziario dei suoi membri attraverso la «Giurisdizione speciale per la pace».
In materia di partecipazione politica, le Farc dovrebbero avere fino al 2018 tre rappresentanti alla Camera e tre al Senato con diritto di parola ma non di voto. Successivamente, esse potrebbero partecipare alle elezioni per il Congresso, avendo assicurati in ogni caso 10 seggi parlamentari.
Anche se questa eleggibilità politica è stato uno dei cavalli di battaglia del «no» all’Accordo, va ricordato che anche i governi anteriori lo avevano promesso al fine di arrivare alla pace.
Finalmente un’opportunità per contadini, afroamericani e indigeni
Per decenni, governi distinti hanno giustificato in parte i loro insufficienti interventi e investimenti sociali con la presenza delle Farc nelle zone di più difficile accesso. Se gli accordi venissero comunque applicati, si aprirebbero finestre di opportunità affinché le comunità di campesinos, afro e indigene rafforzino i propri piani di sviluppo integrale, di distribuzione delle terre e loro formalizzazione legale, di miglioramento delle vie di comunicazione per la commercializzazione dei prodotti. Oltre a ciò, il progetto di restituzione delle terre già attivo (Ley 1448 o Ley de Víctimas y Restitución de Tierras, 2011, ndr) potrebbe trovare un ambiente più adatto per il proprio sviluppo a tutto beneficio delle vittime (si calcola che gli sfollati abbiano abbandonato 4-6 milioni di ettari, ndr).
Per il caso colombiano ritengo che sia stato di vitale importanza l’appoggio della comunità internazionale, rappresentata sia dai paesi garanti e facilitarori (Cuba, Norvegia, Venezuela e Cile) che dall’Onu e dalla Corte penale internazionale. Se nonostante tutto ancora ci sarà un processo di applicazione degli accordi – il cosiddetto postconflitto -, la comunità internazionale dovrebbe offrire una blindatura di sicurezza giuridica e di chiusura dei processi che si dovrebbero tenere tanto per i guerriglieri quanto per tutti coloro che, durante il conflitto, hanno commesso delitti, inclusi i membri delle Forze armate. La Corte penale internazionale dovrebbe evitare che ci sia impunità, in linea con gli standard inteazionali soprattutto con riferimento ai crimini di lesa umanità commessi nel corso del conflitto (il Trattato di Roma del 1998 elenca 11 tipi di delitti classificabili come crimini contro l’umanità, ndr). Dovrebbe garantire inoltre che vengano rispettati i tempi e i processi di quanto pattuito in materia di verità e di giustizia.
Continuerà la terribile notte?
La guerra è la sconfitta dell’umanità. La Colombia che oggi abbiamo è stata in parte partorita dalla guerra e dalla violenza. È per questo che sognare di poter chiudere queste dolorosissime pagine della nostra storia significa aprirsi a nuove opportunità di cui soltanto le nostre future generazioni potranno godere appieno. Senza le assurde dispute e meschinità della politica attuale, lontani da insane gelosie e falsità che vogliono soltanto condannarci a ripetere la storia di «100 anni di solitudine» (riferimento al famoso romanzo di Gabriel García Márquez, ndr).
Poco a poco supereremo la orribile notte. Sarebbe bello se i colombiani del futuro potessero dire che sebbene «qui è sempre successo il peggio, sempre qui è successo il meglio». A significare che siamo stati capaci di aprire le finestre alla speranza, alla giustizia, alla riconciliazione e alla pace.
Benjamín Martínez Solano
Sitografia
In rete si possono trovare buoni siti d’informazione sull’Accordo del 24 agosto 2016:
- https://www.mesadeconversaciones.com.co
- http://www.altocomisionadoparalapaz.gov.co
- http://www.farc-ep.co
- http://www.pares.com.co
- https://www.cec.org.co
- http://www.fundacionparalareconciliacion.org
- http://www.ideaspaz.org
Video e archivio MC
- Paolo Moiola, Viaggio in Colombia. Un reportage in quattro puntate, marzo-settembre 2000;
- Paolo Moiola, Un’altra Colombia è possibile e necessaria. Conversazione con padre Antonio Bonanomi, settembre 2006;
- Leonel Narvaéz Gómez, Espere. A scuola di perdono, gennaio 2008;
- Paolo Moiola, La guerra dentro casa, maggio 2012;
- Chiara Giovetti, Processo di pace: facciamo il punto, maggio 2013.
Questo dossier è stato firmato da:
- Antonio Bonanomi – Missionario della Consolata brianzolo, è arrivato in Colombia nel gennaio del 1979. Dopo 5 anni a Tocaima, dal 1983 al 1987 ha insegnato a Bogotá. Da gennaio 1988 e per quasi 20 anni ha lavorato a Toribío, nel Cauca, tra le popolazioni?Nasa, contribuendo alla loro causa e promuovendo la realizzazione del centro di formazione Cecidic (1994). Dal 2014 è tornato in Italia.
- Giacinto Franzoi – Missionario della Consolata trentino, padre Giacinto Franzoi ha operato in Colombia dal 1979 al 2008 nel Caguán, nella regione amazzonica del Caquetá. Ha raccontato quel periodo in alcuni libri di memorie: Rio Caguán. Memorias y leyendas de una colonización, Bogotà; Dio e coca, Fatti e misfatti di una missione, Ancora Editrice, 2003; I prigionieri del Caguán, Ancora Editrice, 2010. Oggi presta servizio a Rovereto. Per richiesta libri o conferenze: jacintofranzoi@libero.it.
- Benjamín Martínez Solano – Nato a Bucaramanga, in Colombia, dopo l’ordinazione sacerdotale come missionario della Consolata è stato per 8 anni in Corea del Sud. Dal 2002 è tornato nel suo paese natale. Ha lavorato con le comunità afro a Marialabaja (Bolivar), con i contadini a San Vicente del Caguán (Caquetá), con le comunità indigene a Toribio (Cauca). Oggi lavora a Cartagena del Chiara (Caquetá). Teologo, è laureato in scienze politiche.
- Ringraziamo per la collaborazione padre Angelo Casadei, superiore dei missionari della Consolata in Colombia. Attualmente a Bogotá, ha lavorato a Remolino (Caquetá).
- A cura di: Paolo Moiola, giornalista, redazione MC.