La notizia del devastante sisma che ha colpito il paese nel 2015 è passata veloce. Alle difficoltà orografiche si è sommata l’incapacità del nuovo governo a far fronte alla ricostruzione. I grossi finanziamenti si sono bloccati nella burocrazia. Mentre piccole associazioni continuano a lavorare con e per la gente.
È trascorso più di un anno dal terremoto in Nepal, uno dei paesi più poveri del continente asiatico. Era il 25 aprile 2015 quando la terra ha tremato nella zona tra Kathmandu e Pokhara. Il sisma, di magnitudo 7,9 della scala Richter, è stato seguito da numerose scosse si assestamento. Il governo nepalese, dopo due giorni, ha dichiarato lo stato di emergenza. Il 12 maggio 2015, neanche un mese dopo la prima scossa, la stessa regione è stata soggetta a un altro forte movimento tellurico, di magnitudo 7,4 della scala Richter. Il bilancio totale è di quasi 9.000 persone decedute (difficile stabilie l’esatto numero in una nazione dove vi sono tante case costruite in remote zone di montagna), mentre altre migliaia (16mila secondo i dati delle Nazioni Unite) sono rimaste ferite o costrette a spostarsi dal proprio villaggio. Più di 600mila abitazioni sono state distrutte o gravemente danneggiate. Una catastrofe sia per le perdite umane, sia per la distruzione di siti importanti a livello storico, archeologico e religioso, come lo stupa (monumento buddista) Swayambhunath, considerato il più antico al mondo. Bisogna tornare al 1934 per registrare l’ultimo tra i peggiori terremoti avvenuti nella regione nepalese: all’epoca morirono 8.500 persone.
Di fronte all’ecatombe del 2015 numerose Ong di tutto il mondo si sono attivate per portare aiuti economici e soccorsi tangibili alla popolazione, malgrado le iniziali difficoltà logistiche e le complessità burocratiche. Le prime forme di assistenza si sono concentrate nel fornire alle persone sfollate beni di prima necessità (acqua, cibo, coperte), teloni, ripari per dormire e per proteggersi dalle intemperie. La solidarietà internazionale si è mossa con celerità, manifestando una forte compartecipazione al dramma: privati cittadini hanno elargito importanti donazioni. Tante organizzazioni hanno raccolto fondi per la ricostruzione e svariate nazioni hanno inviato al governo nepalese ingenti aiuti finanziari. A oltre un anno di distanza da questa catastrofe facciamo il punto della situazione.
Una ricostruzione difficile
Migliaia di case, scuole, ospedali, templi e monumenti storici aspettano ancora di essere riedificati. Le difficoltà dipendono soprattutto da fattori burocratici, dalla corruzione e dall’incapacità gestionale del nuovo governo nepalese, installatosi solo nello scorso mese di ottobre. L’inefficienza è stata dimostrata, dapprima, nella gestione dei blocchi in vari punti della frontiera tra India e Nepal, poi con la mancata attuazione dell’Autorità nazionale per la ricostruzione. «È dal dicembre 2015 che si discute di questa proposta, ma sembra sia svanita dall’agenda politica» spiega Patrizia Broggi, vicepresidente di Eco-Himal, associazione di volontariato Onlus (www.ecohimal.org) impegnata nella conservazione delle aree himalayane attraverso la cooperazione con le popolazioni che vi abitano.
«Il governo nepalese – precisa Patrizia – aveva annunciato che avrebbe dato dei fondi a chi aveva perso tutto a causa del sisma. Per questo si era parlato dell’apertura di un ufficio ad hoc per le relative procedure e per la distribuzione del denaro. In realtà, dell’ufficio o dell’Autorità nazionale per la ricostruzione non se ne sa nulla. Sulle prime, sembrava che la problematica principale fosse l’accesso ai fondi messi a disposizione. I richiedenti avrebbero dovuto compilare determinati moduli, ma la maggior parte delle persone che hanno diritto a un sostegno sono analfabete. Per ovviare a questo ostacolo, all’inizio, come Onlus, avevamo pensato di intervenire attraverso un nostro referente locale, che avremmo pagato proprio per assistere alcune famiglie bisognose nella compilazione dei moduli. Oltre alle procedure molto nebulose per ottenere i fondi, in seguito si era ventilata una clausola secondo cui per ottenere un sostegno finanziario sarebbe stato necessario avere un conto corrente bancario, il che è assurdo in un paese come il Nepal. E lo è ancora di più considerate le condizioni socio economiche in cui si trovano le persone colpite dal terremoto».
Fondi bloccati?
Questo è, in effetti, il paradosso di una tragedia che avrebbe potuto essere gestita diversamente. Il Nepal ha ricevuto, grazie alla solidarietà internazionale, più di quattro miliardi di dollari per la ricostruzione, ma la maggior parte di questo denaro è fermo in qualche ufficio del palazzo governativo nepalese.
Gli aiuti sono stati distribuiti con il contagocce e secondo criteri discriminatori. Infatti, come ha evidenziato Amnesty Inteational, gli interventi post terremoto non hanno raggiunto gruppi emarginati a livello sociale ed etnico: l’appartenenza di classe, di casta (un aspetto discriminante che deriva dalla forte influenza culturale esercitata dall’India sul Nepal) e il credo religioso risultano elementi discriminanti per ottenere o meno i sussidi. Sono state proprio queste forme di discriminazione, in particolare a danno delle minoranze madhese e tharu che vivono nella regione meridionale di Terai, a spingere l’India ad attuare un blocco parziale alla frontiera con il Nepal.
Appena insediatosi, il nuovo governo nepalese, con a capo Khadga Prasad Sharma Oli, ha infatti varato una Costituzione che non tiene conto dei diritti e delle peculiarità delle minoranze etniche presenti sul territorio nepalese. La diatriba politico-diplomatica tra India e Nepal, durata dall’ottobre 2015 sino a febbraio 2016, ha aggravato le condizioni in cui versano i terremotati. Nel mese di novembre, il governo nepalese – proprio per affrontare l’emergenza dovuta alla mancanza di carburante – aveva disposto la vendita delle riserve di legna come combustibile. Ciò aveva creato lunghissime code, poiché migliaia di persone ne necessitavano per poter cucinare. Solo agli inizi del 2016 India e Nepal hanno trovato un accordo, culminato in un’intesa che rafforza le relazioni economiche e culturali tra i due paesi.
Piccoli progetti, grande aiuto
Eco-Himal – ci racconta ancora Patrizia Broggi – proprio come altre organizzazioni di piccole e medie dimensioni, riesce a lavorare e a realizzare progetti perché opera direttamente sul territorio, avendo referenti locali fidati e preparati. Sono loro che permettono alle Ong di intervenire concretamente a favore della popolazione.
«Noi di Eco-Himal – precisa Patrizia – una volta raccolti i fondi, li mandiamo ai nostri collaboratori in Nepal. Tra questi ci sono Ghana Shyam Paudel e Narayan Kumar Shrestha. Narayan è nato a Salleri, nel distretto del Solu-Khumbu e con lui ormai collaboriamo da anni, anche perché lavora spesso in Italia, nei rifugi di montagna, nella zona dell’Ossola, in provincia di Verbania».
Grazie a questi intermediari locali, Eco-Himal sta portando avanti progetti concreti nel Nepal post terremoto. «Abbiamo innanzitutto contribuito alla ricostruzione del monastero femminile di Deboche nella valle dell’Everest, che è stato quasi totalmente distrutto. Quando sono stata in Nepal nel novembre 2015 avevo visto che gli operai locali lo stavano già ricostruendo. Questo grazie anche naturalmente alla collaborazione di altre organizzazioni inteazionali che operano sul territorio. Adesso, come Eco-Himal, stiamo indirizzando i nostri progetti d’aiuto nella zona di Salleri, nel Nepal centro-orientale. Per esempio, abbiamo mandato fondi per la costruzione di una strada che permette l’accesso a un piccolo ospedale. Si tratta di una struttura sanitaria che è diventata molto importante dopo il sisma, poiché permette alle persone del posto di accedere a cure immediate. La strada risulta fondamentale per raggiungere l’ospedale.
Poi, sempre nell’area di Salleri, precisamente a Gaidu, stiamo lavorando alla ricostruzione della scuola primaria Ramilo Joati, uno dei sette edifici scolastici della zona completamente crollati. Gli studenti, in tutto 150, oggi fanno lezione all’interno di grandi tende con enormi difficoltà. I problemi non sono solo logistici e pratici, ma anche, soprattutto, psicologici. Molti bambini sono rimasti traumatizzati dal sisma. Quindi, in questo caso, e come in altre situazioni, è indispensabile continuare in parallelo un lavoro di supporto psicologico».
Eco-Himal sta inoltre portando avanti un progetto per sostenere un piccolo orfanotrofio, con sede a Kathmandu, dove sono stati accolti nove bambini, di età compresa fra i 6 e i 10 anni. I bambini ospitati hanno perso il padre o la madre, e sono stati abbandonati. Sono stati avviati anche programmi di adozione a distanza: «Con 500 euro all’anno – ci dice Patrizia – si contribuisce a pagare i libri, i vestitini e la tassa scolastica, quindi l’istruzione di bambini che altrimenti non avrebbero la possibilità di imparare a leggere e scrivere».
Non solo stranieri
Molto attiva nella regione del Timal è l’organizzazione nepalese Sahakarya Ra Bikas (connessa al Nepal Center for Cooperation and Development, Ccd, ccdnepal.org), diretta da Salam Singh Tamang, a cui sono collegate diverse Ong italiane, tra cui Libri contro fucili e 12 dicembre.
Collabora con Sahakarya Ra Bikas anche Enrico Crespi, da oltre un decennio impegnato in Asia nell’implementazione di vari progetti educativi, sanitari e di sviluppo comunitario. Enrico ha lavorato, oltre che in Tibet, Cambogia, Sikkim e Mozambico, anche in Nepal, dove per 13 anni ha visto l’alternarsi di monarchie e governi, il tutto inframmezzato dalla guerriglia maoista. Conosce bene la situazione nepalese ed è per questo che sostiene il progetto «Take care 1 Village Nepal», attivato da un network di Ong proprio per fornire sostegni per la ricostruzione. In particolare, la zona interessata dagli aiuti è chiamata Timal, nel distretto di Kavre. Il progetto è gestito dagli stessi abitanti dei villaggi coinvolti, ovvero Bolde Pediche, Thulo Prasel, Narayansthan, Meche, Chapakori. In quest’area sono crollate 1.519 case, per questo le Ong coinvolte nel progetto hanno individuato le famiglie più disagiate da sostenere e da aiutare. Nel marzo 2016 l’organizzazione Sahakarya Ra Bikas aveva consegnato i fondi per la ricostruzione di due scuole, una con sede a Mukpa (Meche), l’altra ubicata nel villaggio di Dhulkhu.
Emergenza in montagna
Tra i maggiori problemi, oltre alla realizzazione di ripari adeguati e stabili, soprattutto per affrontare le stagioni monsoniche, vi è quello della difficile reperibilità di acqua potabile nella zona del Langtang, duramente colpita dal sisma. In quest’area, situata a Nord di Kathmandu, famosa per le sue vette, è stato istituito, nel 1971, il primo parco nazionale in Nepal. Nel Langtang durante e dopo il terremoto ci sono state moltissime frane, che hanno chiuso le sorgenti. Ciò ha creato enormi problemi legati alla disponibilità di acqua potabile.
In altre regioni, come nel distretto del Solukhumbu frequentato da tanti appassionati di trekking, le maggiori difficoltà sono state risolte. Un problema molto delicato riguarda tutte le aree remote di montagna, non ancora raggiunte da nessuna Ong. Molte persone che abitano in case isolate, dopo il sisma, non hanno ricevuto alcun aiuto e lentamente stanno abbandonando i luoghi nativi e i loro campi coltivati a orzo e ad altri cereali, per raggiungere i centri urbani più vicini. Non avendo la possibilità di ricostruirsi la casa, perché non hanno avuto alcun sostegno, nemmeno da parte del governo nepalese, tanti contadini di montagna cercano altre soluzioni spostandosi dalle loro valli ancestrali.
Un fenomeno, già presente in Nepal prima del terremoto (come in tante altre zone di montagna nel mondo), si è negli ultimi mesi intensificato, producendo un duplice effetto: da un lato, l’aumento delle persone urbanizzate e un affollamento nei campi di tende degli sfollati; dall’altro, lo spopolamento delle aree montane, che può provocare gravi conseguenze a medio e lungo termine. È in queste aree remote che il governo nepalese dovrebbe intervenire, anche per il tramite di progetti specifici, magari concordati e implementati con Ong locali e inteazionali.
Silvia C. Turrin
Ricordiamo che in Nepal sono presenti da anni i missionari Salesiani, Gesuiti e Camilliani, sia italiani che indiani. Tutti sono molto attivi nella ricostruzione con particolare attenzione a ospedali, scuole e case per orfani (ndr).