L’Africa in scena
Il cinema africano cresce. I temi trattati sono impegnati: dalla migrazione al rapporto con l’Europa, l’Aids e i conflitti generazionali. La tradizione e la modeità. E spunta il tema dell’integralismo islamico. Dai festival nel continente africano alle sale europee. Ma è un cinema non sempre compreso.
La bandiera nera del califfato sventola sulla mitica città di Timbuktu, al centro del Sahara dove per secoli si sono incrociate le carovane tuareg che trasportavano da una costa all’altra del continente africano tonnellate di oro e avorio e migliaia di schiavi neri. Nella città capitale della cultura i jihadisti hanno raso al suolo i mausolei dei profeti islamici e bruciato i manoscritti quattrocenteschi, mentre le donne sono costrette a vendere il cibo al mercato, oltreché avvolte nei veli, anche con le mani guantate. Fare musica non è permesso, giocare al pallone in un polveroso spiazzo tra le case nemmeno. Il jihad non lo consente.
E non consente neppure che il pastore e la sua compagna vivano sotto la stessa tenda senza essere sposati. Per questo motivo saranno lapidati.
È questa la scena su cui si chiude «Timbuktu», del regista mauritano Abderrahmane Sissako. Uno dei pochi film di produzione africana che sia riuscito a conquistare il pubblico europeo nei canali tradizionali delle prime visioni. In Francia l’hanno visto un milione di spettatori, in Italia ha incassato 70 mila euro nel primo fine settimana, 428 mila in totale, una performance più che modesta in sé, ma in grado di generare fiducia nei progressi di un cinema prodotto in Africa da registi africani.
«Timbuktu» è stato persino indicato nella cinquina dei candidati all’Oscar 2015 per il miglior film straniero, «dramma poetico e struggente con cui Sissako mostra come il jihad porti dolore e lutto in terre che vorrebbero solo vivere in pace. Il regista rappresenta una comunità di islamici moderati forse un po’ idealizzata e facile da amare. Pur nella tragicità delle situazioni, riesce a coniugare realismo e lirismo, non negandosi neppure un’inaspettata vena di humour che ricorda il cinema del regista palestinese Elia Suleiman. Si apprezza soprattutto l’appassionata difesa delle donne, prime vittime dell’integralismo». Sono parole scritte da Roberto Nepoti su La Repubblica, nel febbraio 2015, quando il film approdò sugli schermi italiani. «Roba da matti. Questo filmino di un regista mauritano, dal nome impossibile, corre all’Oscar per il miglior film straniero. Nobili gli intenti, mortale la noia» fu, negli stessi giorni, il commento di Massimo Bertarelli su Il Gioale.
Certo la noia può fare capolino, se si giudica questa pellicola con gli stessi criteri di un «cinepanettone» (peraltro anche quest’ultimo ne può provocare altrettanta) e se non si conoscono i ritmi di vita di un mondo dove silenzi, spazi e tempi sono dilatati al massimo rispetto a quelli cui siamo abituati noi europei. In Africa l’impatto del film è stato forte: il regista Abderrahmane Sissako è stato consulente del premier della Mauritania Mohamed Ould Abdel Aziz e per questo è stato accusato di parlare dei crimini del Califfato in Mali, anziché riversare il suo sdegno politico sulla schiavitù ancora praticata proprio in Mauritania da un regime giudicato corrotto e repressivo dall’autorevole sito «Mondafrique.com». Intanto però i numerosi premi inteazionali conquistati da «Timbuktu», tra cui sette César, gli Oscar francesi, hanno portato il cinema dell’intero continente alla ribalta mondiale. Intanto, al successivo Fespaco di Ouagadougou, nel 2015 non si voleva ammettere il film al festival stesso, proprio per la paura di dividere anziché unire. E invece Timbuktu vi ha vinto pure due premi (miglior arredamento e migliore musica).
Il festival
Già, Fespaco ancora una volta alla ribalta, perché se finalmente si parla con ottimismo di cinema africano lo si deve soprattutto a questa rassegna del cinema panafricano che tiene banco ogni due anni nella capitale del Burkina Faso, dal 1969, e che nel prossimo 2017 affronterà la sua 25° edizione. Obiettivo: «Far capire agli africani di non cercare altrove ciò che hanno già», ovvero quel patrimonio culturale millenario che va oggi espresso secondo nuove regole. Lo affermò il senegalese Sembène Ousmane, lo scomparso decano dei cineasti africani, presenza fissa di quel festival che da 40 anni ormai proietta a ogni edizione centinaia di film e documentari nel centro della capitale, in periferia, in zone rurali, nelle scuole e nelle arene all’aperto sempre affollate da burkinabè e da stranieri.
Il festival è un momento importantissimo di incontro anche per gli addetti ai lavori che ne approfittano per fare sfoggio di abiti eccentrici a rimarcare diversità e analogie tra produzioni che hanno avuto la loro culla nel Sahel, tra Senegal e Burkina Faso, e che ancora oggi distinguono la loro cinematografia da quella del Maghreb, pur tutte francofone, a quelle anglofone di Sudafrica ed Etiopia, e lusofona dell’Angola. Prima di questa nuova vitalità il cinema africano affrontò (e subì) le produzioni di stampo coloniale e poi etnografico, sino a darsi un’identità con un film da tutti i critici ormai riconosciuto come modello di nuove consapevolezze, quell’«Afrique sur Seine», fatto da africani per africani, che nel 1955, come si intuisce dal titolo, con una pur incerta qualità raccontò la vita dei neri esiliati a Parigi. Gli anni ’70 portarono poi nel cinema subsahariano, concepito soprattutto in Senegal, occasioni di crescita complessiva di mentalità e di rinnovo nell’estetica e nella narrazione, tanto che nei successivi anni ’80 si videro nelle sale generi diversi da quelli trattati sino ad allora, ovvero parodie weste, commedie, melodrammi, film d’azione, musical, diretti – altra novità – anche da registi donna.
L’Africa reale
Le tematiche sono oggi innanzitutto sociali, politiche, di denuncia, di riflessione sulle guerre e sulle riconciliazioni nazionali, di rielaborazione del passato storico e della colonizzazione, sul dialogo con l’Europa come momento di incontro e scontro tra le culture, di indagine sui meccanismi del potere, sui conflitti generazionali e famigliari tra genitori e figli, sulle morti per Aids. C’è attenzione per l’eterno dilemma di conciliare tradizione e innovazione, per il ruolo fondamentale delle religioni, per l’emancipazione femminile, per le migrazioni con camere in presa diretta sulla realtà quotidiana.
I problemi più rilevanti sul tappeto restano quelli del finanziamento, i più urgenti da risolvere. Falliti, una ventina di anni fa, alcuni tentativi velleitari di fare da sé, oggi la stragrande produzione è francofona con sostegni economici che giungono da radio e tv francesi appoggiati dall’Unione europea. L’obiettivo odierno è però svincolarsi dai possibili condizionamenti che questa scelta comporta e raggiungere l’autosufficienza attraverso partenariati privati e contemporanee agevolazioni statali su tasse e diritti di ripresa. Serve insomma professionalizzare tutto il settore con la creazione di centri di formazione per cineasti e attori, affiancati da strutture proprie di distribuzione delle pellicole utili a svincolarsi dalle majors interessate prima di tutto a creare profitti.
Il Fespaco fortunatamente non è la sola manifestazione cinematografica del continente. A Zanzibar, di fronte alle coste della Tanzania, di cui l’isola costituisce parte integrante, siamo giunti alla 19° edizione dello Ziff, lo Zanzibar Inteational Film Festival, il più importante evento culturale dell’Africa orientale, noto anche come Festival of Dhow Countries, ovvero la rassegna del paese dei sambuchi, sempre ricca di eventi collaterali pensati per la popolazione locale con riflessioni sulla condizione femminile e giovanile in genere. Vi partecipano anche film mediorientali e indiani con proiezioni nella suggestiva capitale Stone Town e nelle isole di Pemba e Unguja che pure non possiedono sale cinematografiche.
Anche in Italia
Il film vincitore del Fespaco partecipa di diritto al Festival del cinema africano di Verona, un’iniziativa voluta dai missionari Comboniani di Nigrizia, e ormai consolidata in Italia, per far luce su quel mondo spesso, come già detto, in crisi di visibilità. In Italia un altro aiuto viene da Milano, che da 25 anni propone ai Bastioni di Porta Venezia il Festival del cinema africano, d’Asia e di America Latina. Tra gli obiettivi della rassegna del Coe (Centro Orientamento Educativo), ci sono, citiamo testualmente: «Approfondire la conoscenza dei temi e dei linguaggi delle cinematografie meno conosciute e mettere in evidenza le potenzialità della creatività artistica dei tre continenti; veicolare un’immagine dell’attualità e della cultura d’Africa, Asia e America Latina, attraverso il punto di vista dei registi locali; proporre un’alternativa concreta alla cultura e all’informazione corrente dei mass media in rapporto al Sud del Mondo; dare un’opportunità ai registi di entrare in contatto con le istituzioni europee di produzione e distribuzione cinematografica; stimolare uno scambio culturale tra gli artisti, il pubblico, i giornalisti e i professionisti del settore degli audiovisivi; favorire relazioni di scambio tra le istituzioni, i festival, gli organismi europei impegnati nella promozione della cinematografia africana; creare un luogo di riflessione annuale sulle nuove tendenze e prospettive del cinema del Sud del mondo; offrire alle comunità straniere in Italia un’opportunità d’incontro con la propria cultura d’origine; sollecitare nelle scuole l’introduzione degli audiovisivi come strumenti didattici per l’educazione all’immagine e per l’approccio interculturale».
Insomma un insieme di buone intenzioni e pratiche che si sono materializzate strada facendo anche in tante altre città e che fioriscono ogni anno soprattutto tra la fine primavera e l’estate. A Torino nel maggio scorso si è parlato di migranti con la rassegna voluta dal Csa, Centro piemontese di Studi africani, intitolata la «Diaspora dei giorni nostri», con la proiezione di quattro film che raccontano di identità perdute, nostalgia, ma anche di opportunità per un riscatto, dei registi Alain Gomis, Haile Gerima, Ahmed El Maanouni, Pocas Pascoal. E da Torino a fine maggio scorso è anche partita un’importante rassegna itinerante con 20 tappe in otto regioni per presentare 20 titoli tra lungometraggi e cortometraggi, foiti dal catalogo Coe, l’unico in Italia esclusivamente dedicato a film realizzati da registi provenienti dai tre continenti, selezionati o premiati proprio al festival milanese. La rassegna si chiama «Sconfinamenti. Le culture si incontrano al cinema» ed è organizzata da Engim Internazionale Piemonte in collaborazione con Pianeta Africa.
Due esempi
Nella pellicola di Gomis, «Tey, aujourd’hui», coproduzione franco senegalese del 2012, un giovane uomo di ritorno a Dakar dall’America in cui avrebbe potuto avere un futuro certo, pur sano nel fisico, sente di essere giunto all’ultimo dei suoi giorni, e lo sanno anche amici, conoscenti e persino le autorità locali che in municipio gli confezionano una festa d’addio. Satchè, il protagonista, viene salutato dai familiari radunati nel patio di casa tra lacrime e preghiere, gli amici lo avvolgono del loro affetto mentre percorre le vie della sua infanzia. Lo zio, che celebra funerali, lo dispone sulla terra compiendo le stesse operazioni che farà sul suo cadavere. Il suo primo amore lo scaccia rimproverandogli l’abbandono, così come la moglie prima lo respinge perché non può accettare la cruda realtà, e poi lo accoglie nel suo letto.
Un’altra parabola su aspettative, ritorni e speranze deluse è «Teza», coproduzione franco tedesca ed etiope. Anberber, studente etiope di belle speranze si laurea medico in Germania, ha la fidanzata tedesca, così come l’ha il suo amico Tesfaye. Quando Menghistu prende il potere, i due uomini, impegnati politicamente a sinistra, salutano il nuovo regime marxista come il rinnovamento tanto auspicato e tornano in patria, dove saranno clamorosamente delusi dal corso degli eventi. Tesfaye, che per gli ideali ha abbandonato in Europa anche il figlio, perderà la vita colpito dal repressivo regime, e Anberber si salverà attraverso l’amore per una donna ripudiata dalle regole della tradizione e per il suo dedicarsi all’insegnamento nei villaggi restituendo ai locali il sapere che lui aveva avuto il privilegio di acquisire.
L’Africa è dunque oggi scenario per rappresentare i luoghi dove agiscono gli individui, non più esotico sfondo. Ci sono villaggi da cui ci si sposta per andare a vivere in città o a cercare fortuna in Europa e in Usa, toccando i temi del viaggio come riscatto, ma anche come raggiungimento di una meta non sempre soddisfacente, piena di trappole, imprevisti, desideri non avverati che fanno talvolta rimpiangere, idealizzandola, la protezione della casa d’origine irrimediabilmente perduta. Un cinema finalmente maturo capace di riservarci molte piacevoli sorprese.
Mario Ghirardi*
- Gioalista ed editore con esperienza trentennale nel campo dell’informazione locale. Ha partecipato a progetti di cooperazione in Sahel. Attualmente è docente di corsi di formazione universitaria in criminologia.