Urbanizzazione: Nuova Delhi oltre il limite


I 25 milioni di abitanti della capitale indiana respirano un’aria tra le più inquinate del mondo, superando di molto la stessa Pechino. Per la politica ultraliberista del presidente Modi l’importante è la crescita del Pil. L’aria avvelenata è soltanto un inciampo.

Negli anni, purtroppo quasi sempre a sproposito, si è parlato di testa a testa tra i giganti d’Asia: Cina e India protagoniste dell’economia del nuovo millennio, «il secolo asiatico», due stati-continente espressione di due modelli antitetici di gestione della Cosa pubblica in lotta per la supremazia mondiale.

Ma se per quanto riguarda la potenza economica Pechino e New Delhi (Nuova Delhi) hanno sempre gareggiato – e gareggiano tuttora – in campionati separati (le superpotenze mondiali la prima, i paesi dei miracoli economici la seconda, anche a parità di crescita del Pil), nella poco ambita competizione dell’inquinamento atmosferico lo scorso anno la capitale indiana è stata capace, suo malgrado, di salire sui gradini più alti del podio.

New Delhi e Pechino: testa a testa

New Delhi, benvenuti nella capitale mondiale dell’inquinamento. Così recitavano i titoli della stampa internazionale nel dicembre del 2015, quando la pubblicazione di un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), stilato prendendo in esame 1600 città campione, per la prima volta tributava alla capitale indiana il primato delle polveri sottili nell’aria, scavalcando la tradizionale capolista Pechino.

Un sorpasso netto e terrificante: non solo i livelli di irrespirabilità dell’aria delhese erano 15 volte quelli fissati dall’Oms, ma triplicavano i valori (vedi box) – già molto preoccupanti – della capitale cinese.

Lo scorso mese di novembre New Delhi è stata stabilmente oltre quota 300 (indice di pericolo), toccando picchi di irrespirabilità vicini a quota 500 in giorni invernali dove la coltre giallognola che tradizionalmente ricopre la città si mostrava particolarmente fitta agli occhi degli oltre 25 milioni di residenti. Picco di un annus horribilis che, complice il battage mediatico internazionale, ha portato all’attenzione dell’amministrazione locale la questione – si vorrebbe – non più rimandabile dell’aria che viene respirata in città.

Misure «innovative»: le targhe altee

Sotto i colpi dell’«emergenza inquinamento» e della psicosi diffusa in città – con tanto di ospedali pubblici congestionati e avvisi alla popolazione per non far uscire anziani, malati e bambini durante le ore peggiori – il governo locale di New Delhi, guidato da Arvind Kejriwal (di Aam Aadmi Party, una sorta di movimento della società civile tramutatosi in partito dalle tinte pentastellate nostrane), ha introdotto un primo periodo di prova di quindici giorni (dal primo al 15 gennaio 2016) per la cosiddetta «odd even rule», le nostre targhe altee.

Una misura inedita nel panorama indiano con l’obiettivo, se non altro, di mostrare all’opinione pubblica un governo «del fare» deciso a combattere l’emergenza irrespirabilità.

Le due settimane di test, molto criticate da chi ha lamentato un sovraffollamento dei mezzi pubblici, hanno senz’altro rappresentato una ventata d’aria fresca nel contesto politico nazionale, risultando in una buona performance di sensibilizzazione popolare sui problemi di salute legati all’inquinamento dell’aria. Ma, ragionano i tecnici, due settimane di targhe altee hanno un impatto miserrimo nel computo generale dell’ambiente locale. Le automobili inquinano, è vero, ma i problemi di Delhi – e dell’India in generale – sono ben altri.

Secondo uno studio pubblicato dall’Indian Institute of Technology (Iit) di Kanpur, basato sulle rilevazioni dell’aria nella capitale tra il novembre del 2013 e il giugno 2014, i gas di scarico delle automobili rappresentano solo il 9 per cento dei Pm 10 e il 20 per cento dei Pm 2,5 nell’aria.

Mentre la più vaga categoria di «polvere stradale» contribuisce rispettivamente al 56 e al 38 per cento dei due tipi di polveri sottili. Conseguenza diretta dello stato pietoso in cui versa gran parte del manto stradale cittadino, al quale si aggiungono i detriti e la terra – o sabbia – trasportati dal vento provenienti dalle zone aride delle campagne circostanti (negli stati di Haryana e Uttar Pradesh). Per ridurre del 50 per cento gli effetti dannosi della «polvere stradale» basterebbe – d’obbligo il condizionale, poiché non si sta ancora facendo – bagnare le strade una volta a settimana.

In aggiunta, altre componenti tossiche arrivano dai roghi di rifiuti domestici, pratica comune nel subcontinente, dai foi tandoor utilizzati per cucinare in gran parte dei ristoranti e delle bettole cittadine, dalle betoniere artigianali e dai generatori d’energia elettrica a diesel, la soluzione autoctona alla penuria di potenza elettrica installata nazionale e ai conseguenti – non infrequenti – blackout.

Sempre secondo lo stesso studio, i livelli di concentrazione di Pm 10 e Pm 2,5 per metro cubo d’aria d’estate e d’inverno raggiungono picchi spaventosi. Considerando che la soglia di salubrità dovrebbe essere 2 micron per metro cubo, le tabelle dell’Iit di Kanpur mostrano concentrazioni medie fino a 1200 micron per metro cubo d’inverno, oltre 500 d’estate.

Il problema, insomma, ha dimensioni enormemente più vaste del traffico stradale cittadino, soprattutto in una congiuntura storica e politica che vede il sistema India lanciato verso nuovi sforzi di crescita.

La politica ultraliberista di Modi

L’impulso per una ripresa della rincorsa al colosso cinese, in campo economico, è arrivato dalla vittoria schiacciante alle ultime elezioni nazionali del 2014 della coalizione di destra conservatrice guidata da Narendra Modi, esponente del Bharatiya Janata Party (Bjp). La parola d’ordine, da allora, è stata vikas: quel progresso, in hindi, che NaMo ha promesso di portare in tutta la Repubblica seguendo il modello di sviluppo già applicato nella propria precedente esperienza amministrativa a capo del governo locale del Gujarat. Un miracolo economico (crescita media del Pil all’8 per cento in otto anni di reggenza, due mandati) fatto di infrastrutture, svendita di terreni agricoli a multinazionali, incentivi statali per attirare i tanto agognati Foreign direct investments di cui l’India ha disperato bisogno per crescere. In una parola: ultraliberismo.

In un contesto simile, quando l’India si sta preparando a diventare la nuova «fabbrica del mondo», le questioni di carattere ambientale diventano materia di discussione risibile, se non direttamente affrontata con fastidio. Ne è stato esempio plastico l’approccio indiano alla conferenza sui cambiamenti climatici Cop21 tenutasi a Parigi nel dicembre del 2015.

Mentre le potenze mondiali si riunivano alla ricerca di un accordo che limitasse le emissioni di gas serra in uno sforzo globale a tutela dell’ambiente, la delegazione indiana – esprimendo opinione condivisa da molti paesi in via di sviluppo – dichiarava all’Huffington Post India: «Non abbiamo intenzione di scusarci per il nostro utilizzo di carbone. L’America e il mondo occidentale si sono sviluppati per gli ultimi 150 anni grazie all’energia a basso prezzo derivata dal carbone. E grazie a questa “energia low cost” si sono costruiti le loro autostrade, le loro ferrovie, le loro fabbriche, i loro laboratori e improvvisamente tutta la loro gente ha un lavoro, ha una casa, il loro Pil pro capite supera i 70mila dollari all’anno e la loro crescita è ferma a zero. E adesso hanno lo stomaco di chiedere al resto del mondo “per favore, non crescete. Se crescete tutti alla velocità dell’India, cosa ne rimarrà di noi e dei nostri paesi?”».

A sostegno della posizione indiana, piace citare un dato – vecchiotto in realtà (è del 2012), riportato dal Financial Times qualche giorno prima del Cop21 – relativo alle emissioni pro capite globali: l’India contribuiva a un «misero» 1,6 tonnellate di diossido di carbonio a persona, contro le 7,1 cinesi e le 16,4 statunitensi. Solo che in India ci vivono 1,2 miliardi di persone, e stiamo parlando di una stima al ribasso, proiettata a sfondare la soglia di 1,5 miliardi entro il 2020. E nulla lascia intendere che a un incremento demografico corrisponderà una diminuzione dell’inquinamento.

L’aria non conta nulla

Con proiezioni di crescita del Pil stimate al 7 per cento – primo paese tra le economie emergenti, nonostante l’aritmetica della stima sia fortemente dibattuta agli analisti – questa seconda metà degli anni Dieci per l’India non è proprio il momento adatto per porsi problemi «da primo mondo».

Da un lato si promuovono quindi soluzioni altisonanti e sul lungo termine – dalla catastrofica campagna Swacch Bharat (India Pulita) alla proposta di un’«alleanza globale solare» per il potenziamento dell’energia solare dei paesi situati tra il tropico del Cancro e del Capricorno, che dovrebbe vedere il proprio quartier generale amministrativo proprio a New Delhi – ma dall’altro, inevitabilmente, si continua a far finta di nulla, perseguendo l’obiettivo del progresso ad ogni costo. Anche al costo dell’aria che si respira.

A riprova della dimensione nazionale del fenomeno, lo scorso 12 maggio la stampa indiana ha euforicamente accolto un nuovo rapporto dell’Oms sull’inquinamento dell’aria nelle città del mondo.

Titolo: «New Delhi non è più la capitale dell’inquinamento». Occhiello: «Zabol, in Iran, è la nuova città più inquinata della Terra. Giubilo delle amministrazioni e rivendicazioni di bontà dell’esperimento “odd even rule” da parte del “sindaco” Kejriwal». Ma, come spesso succede, c’è il trucco.

Il nuovo rapporto ha preso in esame altre 1.400 città da 103 paesi, portando la base del sondaggio a un totale di 3.000 centri urbani. New Delhi si attesta in tredicesima posizione. Ma il posizionamento nazionale nella classifica rimane allarmante: nelle prime venti città più inquinate al mondo (riferimento alla concentrazione di Pm 2,5 nell’aria), dieci si trovano in India, il paese più rappresentato assieme alla Cina (quattro città, e non c’è Pechino, in 56esima posizione).

Matteo Miavaldi


Gli indici d’inquinamento

La misurazione dei livelli di insalubrità dell’aria analizza la quantità di polveri sottili, ozono, diossido di azoto e anidride solforosa per metro cubo d’aria, secondo le linee guida dell’Oms (Air Quality Guidelines, Aqg) stilate nel 1987 e aggiornate nel 1997.

Le polveri sottili, in particolare, si dividono in due tipi: Pm 2,5 (particelle grandi fino a 2,5 micron) e Pm 10 (fino a 10 micron). Entrambe le particelle sono responsabili delle complicazioni di carattere medico legate all’esposizione ad ambienti inquinati: tosse, crisi respiratorie, infezioni polmonari o estese, nel caso riescano a trovare le vie sanguigne dai polmoni. Patologie che, secondo l’American Association for the Advancement of Science (AAAS), solo in India uccidono 1,3 milioni di persone all’anno.

Le tabelle di riferimento utilizzate in tutto il mondo per misurare l’inquinamento dell’aria si riferiscono alla concentrazione degli agenti tossici elencati sopra, individuando per convenzione sei categorie distinte: buona (da 0 a 50), moderata (da 51-100), insalubre per categorie sensibili (anziani, bambini, donne incinte, malati, da 101 a 150), insalubre (da 151 a 200), molto insalubre (da 201 a 300), pericolosa (da 301 in su).

Ma.M.


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Urbanizzazione


A maggio, dopo 36 anni di assenza, a Pyongyang è tornato a riunirsi il congresso del Partito dei lavoratori. Il regime ha aperto le porte ai giornalisti stranieri, anche per mostrare lo sviluppo urbanistico della capitale nordcoreana. Una cosa è apparsa a tutti chiara: anche nella Corea comunista di Kim Jong Un i ricchi ci sono. E spendono.

Da un paio di anni su Youtube circola un video che, almeno negli intenti, vuole essere un inno alla bellezza di Pyongyang, la capitale nordcoreana. Accompagnate da una musica struggente, le immagini, per una decina di minuti, guidano lo spettatore, come se fosse in auto, per le strade e le architetture della città illuminata.

Benvenuti a Pyonghattan. Il termine, una crasi con Manhattan, ha fatto capolino nei titoli di quotidiani e riviste. Tanto più in occasione del settimo congresso del Partito dei lavoratori coreano (6-9 maggio 2016), il primo in 36 anni. Per l’occasione il regime ha aperto le porte ai giornalisti stranieri. Tenuti fuori dall’appuntamento che ha ufficializzato l’ascesa al potere del giovane Kim Jong Un (del quale, peraltro, hanno dovuto seguire in differita le oltre tre ore di discorso), i cronisti e gli inviati hanno comunque avuto occasione di girare per la capitale e riportare le ormai consuete «rare» pillole di vita nordcoreana.

Trasformazione urbana

I più assidui frequentatori del paese non hanno mancato di notare i cambiamenti e lo sviluppo nello skyline della città. Crescono i palazzi di 20 e più piani, scrive l’inviato della Reuters, nel confrontare la capitale di maggio con quella vista a ottobre del 2015. Mirae Scientists Street è uno degli esempi della trasformazione urbana in corso: il viale che corre lungo il fiume Taedong è costeggiato da palazzoni in blu e in rosso (che sono anche i colori della bandiera nordcoreana), i cui appartamenti sono stati assegnati a scienziati, ingeneri e insegnanti. La strada è stata inaugurata lo scorso ottobre. Per la stampa di regime è «una struttura di cui andare fieri nella gloriosa era di Kim Jong Un».  Motivo per il quale è diventata anche una delle tappe del tour deciso dal regime per i giornalisti accorsi a Pyongyang per l’assise del Partito, assieme a una fabbrica di cavi elettrici e a un complesso scientifico.

Il prossimo traguardo, annunciato lo scorso 18 maggio dall’agenzia Kcna, sarà la costruzione di Ryomyog Street. Il nome significa «lì dove l’alba incontra la rivoluzione coreana». Secondo quanto riportato, pare che lo stesso Kim ritenga l’area adatta a veder sollevarsi in alto i grattacieli: «Non si tratta semplicemente di costruire un viale» ha detto il Brillante compagno, «è una chiara occasione per mostrare lo spirito della Corea contro ogni sorta di sanzioni e pressioni degli Stati Uniti imperialisti e dei loro alleati».

Il mutamento della città sembra quindi non risentire delle sanzioni inteazionali imposte in risposta ai test atomici e balistici condotti dal regime a gennaio e febbraio, seguiti da mesi di minacce e tensioni che hanno anticipato l’inizio del Congresso.

Il ruolo dei «signori dei soldi»

«Le costruzioni sono l’ennesima evidenza del crescente ruolo dell’economia di mercato», può pertanto commentare la Reuters. E, in un certo senso, non gli si può dare torto. La vivacità del mercato immobiliare di Pyongyang è merito dei donju. Sono i «signori dei soldi» spuntati già da una decina di anni, i cui investimenti stanno favorendo i progetti immobiliari e le costruzioni. A loro modo svolgono anche il compito di broker e agenti immobiliari, animando un mercato privato che scavalca le procedure di assegnazione degli alloggi basato sulla professione.

Chi ha soldi, scrive il coreanista russo Andrey Lankov, può trovare qualcuno disposto a vendergli casa. Ci si trova in una zona grigia, un po’ come per quanto avviene nei mercati semi legali, tollerati ma non normati, germoglio di economia di mercato nella Repubblica democratica popolare in cui trovare pc, telefonini, prodotti sudcoreani, merci d’importazione dalla Cina. È comunque un mondo ancora ristretto alle élite.

Pyonghattan, ha sottolineato Anne Fifield sul Washington Post, è la città dell’1 per cento della popolazione, «un universo parallelo per i ricchi figli della Corea del Nord». I prezzi degli immobili sono in aumento. Secondo uno studio del professore Jung Eun-lee dell’Università Gyungsang, le «proprietà di prestigio» possono arrivare a valutazioni sino a 150mila dollari. In media ci si aggira attorno ai 70mila dollari. I prezzi scendono invece quando ci si sposta dalla capitale. E le transazioni avvengono in valuta pesante, principalmente in dollari statunitensi. Da alcuni anni è anche in funzione un ufficio del governo per la gestione degli immobili, apparentemente un modo per normare gli scambi.

In un’analisi del 2014 il professor Lankov era già entrato nei dettagli di questo «mercato». Teoricamente i nordcoreani hanno la possibilità, se non di vendere e acquistare casa, almeno di scambiarsela, pur con alcune restrizioni territoriali. La scorciatornia per pompare il mercato è ricevere in cambio case con un valore inferiore alla propria, compensando la differenza in soldi (cui poi vanno aggiunte anche possibili stecche ai funzionari che seguono la registrazione dell’accordo).

A sostenere il mercato c’è inoltre l’interesse degli stranieri per il real estate nordcoreano. Per molti è uno dei pochi investimenti sicuri nel paese, portato avanti con contratti di lunga durata, anche oltre i 20 anni, con l’obiettivo di cogliere le opportunità che potrebbero spuntare nell’eventualità di una reale riforma e apertura economica.

Le «aperture» di Kim Jong Un

Dalla sua salita al potere, alla morte del padre Kim Jong Il nel dicembre del 2011, il poco più che trentenne Kim Jong Un pare abbia voluto incoraggiare lo sviluppo del settore immobiliare. Tale interesse rientra nel processo di apertura economica, che pur non nella direzione di una riforma sul modello cinese e vietnamita, sta prendendo piede a piccoli passi, anche se al termine del Congresso nessun vero cambiamento è stato annunciato. Ma è stato lanciato un piano quinquennale che potrebbe presupporre mobilitazioni di massa per sostenere la crescita economica del regime.

Il comparto delle costruzioni è diventato uno dei motori di crescita della Corea del Nord negli ultimi anni. Fermi restando i valori assoluti, che indicano un paese in difficoltà, nel 2014 il prodotto interno lordo nordcoreano, secondo i dati della Bank of Korea, la banca centrale del Sud, è cresciuto dell’1 per cento, in leggera flessione rispetto al +1,1 per cento fatto registrare nel 2013. Dalla contrazione del 2010 si è passati a quattro anni di crescita; modesta, ma pur sempre di crescita. In questo contesto le costruzioni sono cresciute dell’1,4 per cento, in ripresa dal declino dell’anno precedente, sfruttando soprattutto la realizzazione di impianti e strade.

L’importanza data al comparto emerge anche dalla sorprendente copertura data dalla stampa ufficiale al crollo di una palazzina in costruzione a marzo del 2014, nel quale si ritiene siano morte decine di persone. Gli articoli indicavano precise responsabilità per il disastro, evento più unico che raro quando queste rischiano di ricadere sul governo.

All’epoca, gli esperti di Choson Exchange, organizzazione non governativa singaporiana specializzata nella formazione imprenditoriale in Corea del Nord, lessero la reazione della stampa come un tentativo del regime di mostrarsi pronto a prendersi le proprie responsabilità, presentandosi comunque fautore del progresso economico del paese, che nelle intenzioni di Kim deve correre di pari passo con il rafforzamento delle proprie capacità militari e del deterrente nucleare.

Costruire verso l’alto

Lo sviluppo urbano nordcoreano, sottolineano quelli di Choson Exchange in un’analisi più recente, si muove lungo quattro direttrici. La prima è il cambiamento stesso nelle costruzioni: ai blocchi di palazzine basse tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, si è passati a complessi monumentali che svettano verso l’alto. La seconda considerazione da fare è proprio il ruolo delle entità non statali coinvolte nei progetti di sviluppo residenziale: se dovessero arrivare norme che favoriscono gli investimenti esteri nell’immobiliare, si arriverebbe alla sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo e di finanziamento.

Un fattore che va letto assieme all’autonomia di pianificazione concessa ai diversi quartieri, in accordo con le linee guida statali. L’ultima direttrice è la collaborazione e i consorzi che possono mettere assieme esperti di design, ingegneri e costruttori e dar vita a entità capaci diversificare l’ambiente urbano. Prima di tutto nella capitale.

Andrea Pira


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Questo dossier è stato firmato da:

  • Gabriele Battaglia – È milanese e vive a Pechino. Corrisponde per Radio Popolare, collabora con Il Venerdì di Repubblica e con le altre testate a cui China Files, di cui è direttore, fornisce contenuti. Ha scritto per Asia Times e altri media in lingua inglese. È autore dell’e-book «Fucili contro Burma» (2014, con Nicola Longobardi) e del documentario «Inside Beijing» (2012, con Claudia Pozzoli). Per MC ha pubblicato un reportage sul Myanmar nell’agosto-settembre 2014.
  • Alessandra Colarizi – Bazzica l’Estremo Oriente dal 2005, anno in cui decide di chiudere per sempre i tomi di diritto privato e aprire quelli di lingua cinese. Ha una predilezione per il «Far West» cinese, le repubbliche centroasiatiche e la nuova Via della Seta.
  • Matteo Miavaldi – Sinologo emigrato nel subcontinente indiano, è caporedattore di China Files e collaboratore da New Delhi per il Manifesto. Vive in India dal 2011 ed è autore di «I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto», edizioni Alegre. Per East online dal 2013 tiene il blog «Elefanti a parte».
  • Andrea Pira – Laureato in Lingue e civiltà orientali alla Sapienza, ha scritto di Asia per l’agenzia Ntnn, il Riformista e per il web magazine l’Interprete internazionale. Ha imparato il mestiere del giornalismo al desk di Lettera 22. Si occupa di Cina per MilanoFinanza. Per MC ha pubblicato un reportage sulla Corea del Nord nel luglio 2013.
  • A cura di: China Files e Paolo Moiola (redazione MC).