Stretto tra la Malesia e l’Indonesia, Singapore è uno degli stati del pianeta con più alti redditi, efficienza sociale ed economica, bassissima corruzione. Goveato per oltre 30 anni da Lee Kwan Yew e oggi da suo figlio Lee Hsien Loong, è un paese in cui patealismo, dispotismo e confucianesimo hanno prodotto una limitazione dei diritti civili a cui la popolazione (5,5 milioni di persone appartenenti a tre etnie) pare assuefatta. Sull’immediato futuro incombono poi altri due problemi molto concreti: l’aumento demografico e la mancanza di spazi.
Per sopravvivere bisogna essere eccezionali, ha detto lo scorso maggio Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore. E ammirando al crepuscolo le luci che iniziano a illuminare la piccola città stato asiatica dall’alto del Marina Bay Sands1, non si può fare a meno di convenire che Singapore è una nazione eccezionale. Non per niente l’aggettivo è uno dei vocaboli più utilizzati nella retorica politica cittadina.
Dallo Sky Park2 o dall’Infinity Pool3 la vista spazia a 360 gradi tra cantieri navali, enormi distese di verde e la downtown. Cerco di individuare, inutilmente, il punto in cui, due secoli fa, Sir Thomas Raffles, l’inglese ritenuto essere il fondatore della modea Singapore, sbarcò dall’Indiana, la nave comandata dal capitano James Pearl. Chissà cosa direbbe vedendo come si è trasformato il minuscolo e insignificante porticciolo di poche centinaia di abitanti in cui, nel 1819, era arrivato.
La sua statua, un tempo punto obbligato delle visite turistiche, oggi è pressoché ignorata, schiacciata e umiliata dai grattacieli a cui porge la schiena, quasi a significare l’incomprensione verso quegli alberi di cemento che hanno preso il posto delle palme. Lo sguardo di Raffles si dirige, invece, verso il parlamento e il museo della Civilizzazione asiatica. Il suo nome, del resto, per la maggior parte degli stranieri che scorrazzano per le vie della città, è associato più al candido ed elegante albergo di lusso (il Raffles Hotel) che si affaccia a pochi isolati dal Boat Quay4 piuttosto che al governatore britannico.
Agosto 1965: via dalla Malesia
Colonia britannica dal 1867 al 1962, è la storia stessa ad aver reso Singapore eccezionale, a partire da quel drammatico giorno del 9 agosto 1965, quando il leader Lee Kuan Yew con le lacrime agli occhi annunciò al mondo la separazione del territorio dalla Federazione malese dopo soli due anni. Allora furono in molti a prospettare un futuro di miserie e tribolazioni per la neonata nazione. Priva di risorse naturali e dipendente quasi totalmente dalla Malesia per il rifoimento idrico, il governo dell’isola si trovava in balìa di ritorsioni dall’esterno, nel caso la sua politica avesse irritato Kuala Lumpur.
Nel libro autobiografico The Singapore Story, Lee Kuan Yew denunciava la minaccia dell’allora primo ministro malese Tunku Abdul Rahman di chiudere i rubinetti del canale che da Johor portava l’acqua a Singapore se il governo di questo paese avesse adottato azioni aggressive nei confronti della Malesia.
Inoltre la città si trovava a punzecchiare, come una punta di spillo, un altro colosso asiatico: quell’Indonesia che si accingeva a epurare Sukao e il movimento comunista, particolarmente radicato anche a Singapore. Suharto, che prese il potere con un sanguinoso colpo di stato, era pronto a intervenire nel caso i comunisti fossero andati al potere nella neonata nazione.
Ma, cosa ben più allarmante per uno stato multirazziale, la vigilia dell’indipendenza era stata funestata da manifestazioni sfociate in violenti disordini etnici che, se non sedati, avrebbero potuto far piombare la repubblica in un caos difficilmente controllabile e decretae la fine ancor prima della nascita. La comunità cinese di Singapore si sentiva seriamente minacciata da quella malay, mentre, da parte sua, l’Umno (United Malays National Organisation), il partito di governo malese, temeva che la forza economica di Singapore deviasse il baricentro politico da Kuala Lumpur.
Sviluppo e pugno di ferro
Eppure cinquant’anni dopo Singapore continua a rimanere uno degli stati più benestanti del pianeta, con un reddito pro capite doppio rispetto a quello della Gran Bretagna, la nazione che per due secoli ha colonizzato la città asiatica, accompagnato da indici di sviluppo umani tra i più alti al mondo, una corruzione bassissima e un’efficienza sociale ed economica elevata. Insomma, un’eccezione del mondo asiatico che si traduce in un mercato affidabile per gli investimenti stranieri, che nel 2015 hanno raggiunto il 22% del Pil.
A trainare lo sviluppo è stato lo stesso Lee Kwan Yew, padre-padrone di Singapore, che ha governato con un misto di patealismo, dispotismo e confucianesimo. Opposizioni imbavagliate, censura, restrizioni nelle assemblee pubbliche che coinvolgono più di dieci persone, sono i mezzi che il governo ha utilizzato e utilizza ancora oggi per mantenere l’ordine cittadino in nome dell’armonia e della pacifica convivenza. Il pugno di ferro è servito per mantenere unite le diverse comunità etniche di cui è composta la nazione e a evitare la disgregazione sociale e politica. Le differenze culturali, linguistiche e religiose tra le principali etnie (cinesi, malay, indiani) si ripercuotono, anche se in misura meno evidente di quanto avvenga in Malesia, sulle condizioni economiche. Lavoratori sfruttati con la complicità di diritti sindacali inesistenti hanno nutrito le recriminazioni delle varie comunità, in particolare quella indiana. Nel 2013 a Little India, uno dei quartieri più disagiati di Singapore, vi sono stati violenti scontri.
Di padre in figlio
La scomparsa di Lee Kwan Yew, avvenuta nel marzo del 2015, è stato un colpo emotivo per tutti gli abitanti, ma soprattutto per i partiti dell’opposizione parlamentare che, dopo il calo di voti nelle elezioni del 2011 del «Partito di azione popolare» (Pap), il partito che domina incontrastato la scena politica della Repubblica dal 1959, speravano di incrementare la loro già misera schiera di deputati nel parlamento. Così non è stato: anche se dalla politica si era ritirato ufficialmente sin dal 1990, la dipartita di Lee Kwan Yew ha trascinato ad una nuova schiacciante vittoria il Pap, che nelle votazioni del settembre 2015 ha ottenuto il 70% delle preferenze occupando 83 seggi su 89.
L’immensa folla di persone che ha partecipato alle esequie e ha sfilato per ore davanti alla salma, è stata la dimostrazione del successo della retorica nazionalista adottata dal fondatore di Singapore sin dal giorno della sua indipendenza.
Prima di morire, da buon autocrate, Kwan Yew si è assicurato che il potere restasse saldamente nelle mani della famiglia, manovrando affinché il posto di primo ministro passasse al figlio, Lee Hsien Loong, sin dal 2004, anno in cui il reddito pro capite del paese superò addirittura quello degli Stati Uniti.
Questa mancanza di alternanza al potere ha causato una pericolosa assuefazione al totalitarismo e al rifiuto, anche di parte della popolazione più anziana, di aperture democratiche nel sistema.
Oggi, però, Singapore deve cominciare a fare i conti con il proprio futuro: il sistema scolastico, giudicato tra i migliori in Asia, ha formato una classe di nuovi cittadini più colta e attenta ai mutamenti culturali e politici inteazionali che difficilmente accetterà la politica assolutistica e dispotica del governo.
Immigrazione e spazi
La scarsa dimestichezza con il pluralismo rappresenterà una delle principali sfide per la nazione assieme ad altri due temi scottanti e strettamente correlati tra loro: l’immigrazione e la mancanza di spazio per una popolazione in continua crescita.
Ai ritmi attuali e con una politica di attenta e severa pianificazione dei flussi migratori, la popolazione di Singapore potrebbe, già nel 2030, subire una rivoluzione demografica. Attualmente, secondo il dipartimento di Statistica, il 74,3% della popolazione singaporeana è di etnia cinese, seguita da quella malay (13,3%) e indiana (9,1%). Nel giro di tre lustri, però, metà della popolazione potrebbe essere composta da immigrati, il che ha generato forti preoccupazioni, specie nella comunità cinese, sfociate in manifestazioni di protesta contro la politica immigratoria imposta dal governo. Ad aumentare le tensioni ci sono state le dichiarazioni del ministro dell’Inteo, Kasiviswanathan Shanmugam, il quale, commentando i recenti attacchi terroristici di Bruxelles, ha detto che, per quanto riguarda Singapore, non è più questione se ci sarà o meno un attacco terroristico, ma quando questo avverrà. Il segretariato per la Sicurezza nazionale, l’organismo creato per combattere il terrorismo in città, ha smantellato con successo diverse cellule locali di Jemaah Islamiah, il movimento legato a Abu Sayyaf responsabile dell’attentato di Bali nel 2002 che causò la morte di 202 persone, ma ha anche fatto sapere che altri militanti sono attivi in diversi paesi del Sud Est asiatico.
Infine c’è il pressante e costante dilemma dell’aumento di popolazione e del continuo bisogno di spazio. Nel 1965, all’atto dell’indipendenza, Singapore aveva 1,9 milioni di abitanti e una superficie di 581 kmq. Oggi, a cinquant’anni di distanza, la popolazione ha raggiunto i 5.535.000 di abitanti, di cui solo il 61% (3,37 milioni) sono cittadini della repubblica. Per far fronte all’aumento demografico, principalmente dovuto all’immigrazione, il governo ha avviato una imponente opera di bonifica, accrescendo le aree abitabili del 23% sino a raggiungere l’attuale superficie di 720 kmq e progettando un ulteriore allargamento di 100 kmq entro il 2030. Al tempo stesso, le rigide leggi ambientali autornimposte dal governo, assegnano il 10% del territorio a parchi e riserve naturali.
Nazione minuscola, ma ben armata
Per economizzare l’utilizzo degli spazi, anche le forze aeree del paese hanno istituito sette basi in tre nazioni alleate (una in Francia, quattro negli Stati Uniti e due in Australia). E proprio sulle forze armate Singapore ha puntato, sin dalla sua estromissione dalla Federazione malese, per garantire la propria indipendenza dal pericolo malese e indonesiano. Nonostante che la nazione sia minuscola in confronto con i vicini, la sua capacità militare è tra le più organizzate e preparate della regione, anche grazie alla stretta collaborazione instaurata con Israele, scelto come principale consulente in materia militare. Nel 2015 Singapore ha aumentato del 5,7% il bilancio per la Difesa, raggiungendo i 13,12 miliardi di dollari (il doppio di quanti ne spenda la Malesia), pari al 3,3% del Pil.
Pochi, in verità, a Singapore si lamentano dell’ingente flusso di denaro che viene incanalato nel ministero della Difesa, anche perché molte industrie presenti sul territorio collaborano, direttamente o indirettamente, con i militari.
Singapore è una città eccezionale, ma nella sua unicità ha anche molte sfaccettature che aprono molti interrogativi sulla sostenibilità di uno sviluppo così avanzato in un territorio ristretto. Il governo, inoltre, a fronte del massiccio impiego di forza lavoro da altri paesi, dovrà anche rivedere il concetto di singaporeanità.
Le aperture democratiche che inevitabilmente dovranno essere messe in atto nei prossimi anni, produrranno terreno fertile per la nascita di organizzazioni e individui che chiederanno il rispetto dei diritti civili, ma rappresenteranno anche uno spiraglio verso quei movimenti meno pacifici che da tempo cercano di sfruttare la perfetta logistica del paese asiatico al fine di trarre vantaggio per le loro azioni propagandistiche.
Su questi temi da tempo Singapore sta chiedendo la collaborazione delle nazioni dell’Asean (l’Associazione degli stati del Sud Est asiatico) senza, però, trovare intese.
Piergiorgio Pescali