Perdenti 16 Iqbal Masih
Iqbal Masih nacque in Pakistan nel 1983 in una famiglia cristiana poverissima a Muridke, abitato a Nord di Lahore, città con la più grande comunità cristiana del paese, nella provincia del Punjab. A causa di un indebitamento, contratto quando Iqbal aveva 5 anni, i suoi genitori furono costretti a «cederlo» a un fabbricante di tappeti per l’equivalente di 12 dollari. Il bimbo iniziò a lavorare 12 ore al giorno, per sette giorni alla settimana, incatenato al telaio, senza la possibilità di uscire dalla fabbrica, subendo maltrattamenti, con uno stipendio pari a una sola rupia al giorno (corrispondente a pochi centesimi di euro). Gli interessi del debito invece crescevano negando a Iqbal la possibilità di riscatto. Lavorò fino all’età di nove anni, quando, durante una fuga, fortuitamente venne a conoscenza delle attività di un’organizzazione in difesa dei diritti dei bambini lavoratori. Grazie a essa ritrovò la libertà, e iniziò a impegnarsi per la liberazione degli altri bambini. Una serie di circostanze favorevoli lo portarono alla ribalta dell’opinione pubblica internazionale e la sua testimonianza fu determinante per rompere il silenzio di omertà che copriva lo sfruttamento dei minori nel mondo. Il giorno di Pasqua del 1995, mentre andava a messa, fu ucciso da ignoti.
Iqbal, come ti ritrovasti a lavorare più di dodici ore al giorno a un telaio per fabbricare tappeti?
La mia famiglia era poverissima, mio papà per uscire dalla situazione economica molto precaria in cui ci trovavamo contrasse dei debiti con delle persone poco raccomandabili, praticamente degli strozzini che gli proposero di restituire il debito mandando uno dei suoi figli a lavorare per loro in una fabbrica di tappeti.
E tu ti offristi per andare a lavorare da quella gente per aiutare la tua famiglia?
Sì, perché mio padre era malato e poteva lavorare poco. A casa nostra si faceva una gran fatica a racimolare i pochi soldi necessari per vivere, per questo fin da piccoli tutti noi eravamo coinvolti nel trovare aiuti necessari per la sopravvivenza della nostra famiglia.
In cosa consisteva il tuo lavoro?
Io e gli altri bambini della fabbrica facevamo tappeti. Lavoravamo su dei telai tradizionali che richiedevano molta destrezza e mani piccole. Le nostre piccole dita si infilavano agevolmente nell’ordito e nella trama del tessuto: potevamo così realizzare disegni molto raffinati ed elaborati. Bisognava però lavorare giorno e notte, con tui massacranti. Ci tenevano incatenati l’uno all’altro per paura che fuggissimo. Ma io, almeno all’inizio, non avevo alcuna intenzione di fuggire perché dovevo aiutare la mia famiglia. Il padrone ci teneva sotto controllo ogni istante e se sbagliavamo a fare i nodi nel disegno di un tappeto ci puniva severamente. A volte ci costringeva a stare senza mangiare e bere dentro una scatola di lamiera sotto il sole.
Capitò anche a te di subire quel tipo di punizione?
Sono finito due volte lì dentro, una volta da solo e un’altra insieme a un ragazzo malato ai polmoni. Dopo qualche giorno è morto senza che nessuno avesse chiamato un medico per curarlo.
Non cercaste mai di scappare?
Una volta fuggii e mi rivolsi alla polizia, ma venni riportato alla manifattura e bastonato per punizione. Un’altra volta uscii dalla fabbrica insieme ad altri bambini di nascosto, e per caso assistemmo alla celebrazione della «Giornata della Libertà» organizzata dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato (Bounded Labour Liberation Front – Bllf). Per la prima volta sentii parlare dei diritti dei bambini e descrivere la nostra condizione di schiavitù.
Quello fu un momento importante per te…
In quell’occasione conobbi Eshan Ullah Khan, leader del Bllf, il sindacalista che sarebbe stato la mia guida verso una nuova fase della mia vita, dedicata alla difesa dei diritti dei bambini.
Cosa successe dopo?
Ritornato nella manifattura, mi rifiutai di riprendere il lavoro malgrado le percosse. Il padrone disse alla mia famiglia che il debito contratto anziché diminuire era aumentato a diverse migliaia di rupie. Nel conto aveva inserito anche il cibo (sebbene scarso) che mi era stato dato, gli errori di lavorazione e altre menzogne. La mia famiglia fu costretta dalle minacce ad abbandonare il villaggio e io fui ospitato in un ostello dalla Bllf. Lì potei cominciare a studiare.
Il fatto di essere accolto da una struttura che, invece di sfruttarti, ti proteggeva, ti mise nelle condizioni di diventare un testimone dei soprusi che venivano compiuti verso voi bambini.
Dopo che incominciai a raccontare e a esporre al pubblico le terribili condizioni di vita a cui erano sottoposti i miei coetanei, il mio racconto venne ripreso e pubblicato dai giornali locali, da lì, per una serie di fortuite coincidenze, la storia rimbalzò sui mass media di tutto il mondo.
Così diventasti portavoce e simbolo del dramma dei bambini lavoratori in Pakistan, come in altri paesi in tutto il mondo.
Nel 1993, quando avevo dieci anni, invitato da diverse organizzazioni mondiali, cominciai a viaggiare e a partecipare a conferenze inteazionali, sensibilizzando l’opinione pubblica sui diritti che nel mio paese erano negati ai minori e contribuendo al dibattito sulla schiavitù mondiale e sui diritti inteazionali dell’infanzia.
Con le tue denunce e nella tua veste di «sindacalista bambino», non temevi per la tua vita?
Sulle prime avevo paura, ma con il tempo mi passò. A un certo punto mi accorsi di non avere più paura dei padroni, anzi, prendevo atto che erano i padroni che avevano paura di me e di noi bambini lavoratori e della nostra ribellione. Maturai anche l’idea che da grande sarei andato all’università per conseguire la laurea da avvocato per difendere coloro che erano oppressi e che vivevano situazioni intollerabili.
È vero che la tua fede religiosa ti fu molto di aiuto e ti sostenne nei momenti più duri e difficili?
Proveniente da una famiglia cristiana in un paese a stragrande maggioranza islamica, pregavo il Signore Gesù che mi desse la forza di rendere testimonianza della fede che avevo in lui e questo lo affermai in diverse occasioni nei miei viaggi per gli incontri inteazionali.
Se non vado errato hai anche ricevuto dei riconoscimenti inteazionali?
Nel dicembre del 1994 ottenni un premio di 15.000 dollari, con il quale decisi di finanziare una scuola in Pakistan. Ricevetti anche una borsa di studio per studiare all’estero, ma la rifiutai perché avevo deciso di rimanere in Pakistan, per portare avanti la mia campagna in favore dei più piccoli.
La tua attività come difensore dei bambini e la tua determinazione nel far conoscere al mondo il dramma del lavoro minorile sortì qualche effetto nella tua terra?
Circa tremila piccoli schiavi come me poterono uscire dalla loro condizione: sotto la pressione di alcuni organismi inteazionali, il governo pakistano iniziò a chiudere decine di fabbriche di tappeti che sfruttavano i minori.
Il 16 aprile 1995, domenica di Pasqua, all’età di 12 anni, Iqbal Masih venne assassinato, mentre si stava recando in bicicletta in chiesa. L’edificio era nei pressi della casa di sua nonna dove poi sarebbe andato con i suoi cugini. Alla notizia della sua morte, Ullah Khan affermò che si era trattato di un complotto «della mafia dei tappeti». Qualcuno si era sentito minacciato dall’attivismo di Iqbal, la polizia fu accusata di collusione con gli assassini. Di fatto molti dettagli di quel tragico giorno sono ancora oggi avvolti dall’oscurità. Alcuni testimoni affermarono di aver visto una macchina (dai finestrini oscurati) avvicinarsi al ragazzo in bici, dall’auto sarebbero partiti dei colpi di arma da fuoco.
Nel 2000 Iqbal fu il primo a ricevere, sia pur alla memoria, il World’s Children’s Prize, premio per i diritti dei bambini. Nel messaggio di fine anno del 31 dicembre 1997, il presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro ricordò il grande sacrificio di Iqbal Masih.
I suoi assassini, spezzandone la vita, hanno collocato la sua figura nel Pantheon dei testimoni che sacrificano la loro esistenza illuminando il cammino dell’umanità e ne hanno fatto un piccolo grande rivoluzionario.L’esempio che Iqbal ha seminato in Pakistan, come nel mondo intero, resta indimenticabile per tutti.
Il Bllf continua la sua difficile campagna per la liberazione da qualsiasi tipo di schiavitù, soprattutto contro l’asservimento dei bambini, per l’aumento delle paghe e per il cambiamento della legislazione.
Mario Bandera, Missio Novara