Marocco la spoglia essenzialità

Reportage dal paese nordafricano (seconda parte)

Kasba Ben Moro (Paolo Bertezzolo)
Marocco
Paolo Bertezzolo

Anche la stabilità delle antiche cittadine fortificate è fatta di elementi precari come la terra mista a paglia. Mentre la precarietà delle tende berbere offre un sentimento di sicurezza, di contatto con le cose essenziali. E al termine di un breve viaggio si possono avere «incontri» inaspettati: da Charles de Foucauld al «gladiatore».

Partiamo di nuovo e abbandoniamo la strada principale per risalire il fiume, fino alle Gole del Todra: impressionanti muraglie che superano i trecento metri e si innalzano come pilastri di una porta monumentale. Poi, tornati indietro, riprendiamo la strada. Attraversiamo palmeti e villaggi in cui sorgono numerose kasbah. Con questo nome i berberi indicano le fortezze in cui risiedevano un tempo i signori locali con le loro corti e i loro armati. Ce ne sono moltissime, testimonianza della società feudale e tribale di un tempo. A Tinejdad (nella regione di Meknès-Tafilalet, ndr) lasciamo di nuovo la via principale, inoltrandoci nel deserto che, dopo Touroug, diventa sabbioso. Lungo una pista che solo l’autista riesce a scorgere in questa immensa e uniforme distesa, raggiungiamo Merzouga, dove si trova l’albergo. Lì ci attendono i dromedari, a dorso dei quali, dopo circa un’ora tra dune di sabbia altissime su cui saliamo e discendiamo mettendo a dura prova la schiena e i nostri addominali poco allenati per mantenerci in sella, arriviamo in un campo berbero. È circondato da dune alte decine e decine di metri. Nel silenzio interrotto solo dal vento della sera e da qualche verso dei dromedari, ci sistemiamo nelle tende. Sono tende di nomadi, prive delle comodità per turisti che abbiamo trovato in altri viaggi. Poi, sotto un cielo così terso che si possono vedere brillare le stelle nonostante la luna, ceniamo seduti attorno al fuoco. Si riconoscono benissimo Marte, grande e rosso, e la Croce del Sud. Ma lo spettacolo più affascinante è quello del mattino. Ci svegliano presto. Scalata la duna orientale, ci sediamo assistendo all’alba. Dal deserto sorge una luce bianchissima che si fa rapidamente sempre più luminosa ed estesa, finché un sole bianco e splendente si mostra come un’apparizione. Tra le (poche) albe e i moltissimi tramonti cui abbiamo assistito, questa è la più emozionante, per l’esperienza dell’intensa, pura gioia della vita che rinasce, di una natura essenziale, buona e bellissima.

Una bussola tuareg

Quando torniamo, di nuovo sui dromedari, all’albergo di Merzouga, troviamo il giovane Abdullah pronto a condurci nel fantastico giro del deserto da cui è iniziato questo racconto (cfr MC giugno, ndr). Al termine, ci fermiamo in albergo. Abbiamo mezza giornata di riposo. Il giorno dopo riprendiamo il viaggio con Hassan, il fratello di Abdullah, che ci porta a Erfoud e, più in là, a Rissani. Qui sono coinvolto in un’altra notevole contrattazione. Hassan, infatti, ci porta nel negozio di Mohammed, che vende un po’ di tutto ma in particolare giornielli in argento. La trattativa è lunga e paziente, con lui che scrive il prezzo richiesto su un foglio e io che vi aggiungo sotto la mia offerta. Secondo la consuetudine, domande e offerte debbono essere tre, dopo di che si dovrebbe raggiungere l’accordo. Ma non è così. Continuiamo a trattare senza più scrivere le cifre, finché raggiungiamo un prezzo che va bene a tutti e due. Non è una grande cifra. «Tu contratti come un berbero», mi dice Mohammed alla fine mentre, rilassati e sorridenti, sorbiamo l’ottimo tè che ci ha fatto preparare. Forse la cosa, che si è protratta molto, ha affaticato anche lui. Non nascondo di essere compiaciuto, anche se si tratta solo di un cortese complimento. Ci lasciamo andare pure questa volta a discorsi più intimi. Mohammed racconta dei suoi viaggi, con le carovane berbere e tuareg che si muovono tra il Sud del Marocco, l’Algeria, la Libia, fino alla Mauritania e al Mali, in cerca di bracciali, collane, tappeti, e ogni altro bene che possa poi rivendere nel suo bazar. Mi mostra un oggetto d’argento dalla vaga forma a croce, che mi incuriosisce. È una «bussola» tuareg. Si infila il pollice in un’apertura centrale e la si accosta agli occhi. Puntandolo sulla Croce del Sud si possono individuare i punti cardinali e, quindi, orientarsi nel deserto. Con un gesto d’amicizia che mi colpisce, me ne fa dono. Poi mi mostra delle bellissime monete romane. Mi spiega da dove provengono, ma non capisco il nome della località, forse pronunciato in arabo o forse in berbero. Provo a chiedergli, per scherzo, quanto vuole per una di esse, che mi pare di Augusto. Subito, di fronte al paventato riaprirsi di una nuova estenuante trattativa, ci mettiamo a ridere e lasciamo perdere.

«Chiavi in mano»

Salutiamo Mohammed e riprendiamo il nostro viaggio inoltrandoci nella città di Rissani. È giorno di mercato e molta gente vi è confluita dalla campagna. Il mezzo di trasporto, a parte qualche motorino, è l’asino. Così, all’ingresso della città, c’è un grande parcheggio in cui vengono lasciati mentre il padrone va a fare i suoi acquisti. È uno spettacolo vedere quei miti animali allineati in gran numero, legati per un piede a una lunga corda a sua volta fissata con dei picchetti al terreno perché non se ne vadano, mentre mangiano guardandosi ogni tanto intorno. Di fronte al parcheggio, in un altro grande spiazzo, vi sono altri asini, perfettamente bardati. Chiedo se anche quelli sono lì parcheggiati. «Sono in vendita», mi spiega Hassan. «Già tutti bardati?», domando sorridendo. «Come dite voi?», mi risponde la guida, «si comprano “chiavi in mano”».

La valle del Draa

Dopo aver visitato anche noi il mercato, torniamo all’auto. Ci aspetta un lungo trasferimento fino a Zagora (nella regione di Souss-Massa-Draâ, ndr). I colori del paesaggio cambiano. Lo avevamo già notato nei giorni scorsi, ma qui il deserto si trasforma in modo stupefacente: dal rosso vivo, uguale a quello dei nostri campi da tennis, al nero, al verde delle pietre che lo costellano e delle rocce dei monti sullo sfondo. L’aria è tersa e il cielo, anche quando si annuvola, facendo cadere un po’ di pioggia sottile, rimane luminoso. Incrociamo dromedari e pecore che brucano i radi cespugli, e qualche pastore che cammina solitario in lontananza. In alcuni punti si alzano rocce levigate dai venti che ricordano quelle dell’Arizona. Infine entriamo nella valle del Draa, il fiume più lungo e importante del Marocco, formato dalla confluenza del Dadès, che abbiamo incontrato nei giorni precedenti, e dell’Imini. È verdissima e ricca di palmeti. Gli abitanti possiedono appezzamenti, che coltivano per la propria sussistenza. Raccolgono i datteri, producono ortaggi e frutta. Ma le proprietà sono piccole e non bastano a soddisfare le esigenze di famiglie numerose. Da anni, quindi, almeno un membro della famiglia emigra, nelle città del Nord e in Europa. Con le rimesse che manda a casa, si riesce a tirare avanti. Questa agricoltura di sussistenza crea però un serio problema. Per irrigare i propri appezzamenti, i contadini hanno installato pompe che prendono l’acqua dal fiume. Sono talmente tante che ormai l’acqua comincia a scarseggiare. Il governo ha posto limiti severi al consumo, ma non è facile farli rispettare, anche perché, al momento, non paiono esserci alternative.

La kasbah Oulad Othmane

Prima di arrivare all’albergo visitiamo la kasbah Oulad Othmane, una delle più antiche e caratteristiche tra le oltre 200 che costellano la valle del Draa. Costruita nel Settecento da un potente pascià, è abitata ora dai suoi discendenti, ridotti quasi in povertà. È affascinante nella sua spoglia essenzialità. Non ci sono decorazioni, né marmi, né altri materiali che siamo abituati a vedere nelle dimore signorili. È completamente nuda, tutta di terra e paglia. Solo un quadro, di ingenua fattura, mostra lo splendore di un tempo: il pascià, attorniato dalla sua corte, mentre riceve sudditi e vassalli, in una sala che oggi appare povera e buia. Eppure questo palazzo è importante dal punto di vista storico e architettonico: non è stato rimaneggiato, e si conserva quindi perfettamente integro nella sua struttura.

Attraversiamo Zagora, che è una città modea, costruita nel modo di tutte le città del Sud del Marocco, con case di qualche piano, del consueto colore ocra, attraversata da una grande via centrale e immersa nel verde della valle del Draa. L’albergo, come tutti gli altri, è molto accogliente. È ricavato da una grande abitazione tradizionale e ha un giardino lussureggiante e verdissimo.

Charles de Foucauld…

L’indomani è l’ultima tappa del viaggio. Dopo alcune ore ci coglie una nuova sorpresa. In un posto di ristoro lungo la strada, dove ci siamo fermati per bere qualcosa, scopriamo, appeso alla parete, un quadretto in cui è incoiciato uno scritto. Ricorda che qui è passato Charles de Foucauld quando, tra il 1883 e il 1884, ha percorso il Marocco, allora interdetto ai cristiani, facendosi passare per un rabbino ebreo. Aveva lasciato la precedente vita militare dissipata ed era alla ricerca di se stesso: quella che lo avrebbe portato, qualche anno dopo, alla scelta religiosa. Da qui ha attraversato il Jebel Sarho, di cui si intravedono le propaggini, visitando villaggi e zone mai esplorati da un europeo. Volendo, mi dice Hassan, si può ripetere il suo viaggio e, in alcuni giorni, raggiungere la valle del Dadès e la città di Boumalne. Egli è disposto ad accompagnarci. È una proposta molto attraente: le zone sono intatte, non ancora raggiunte dal turismo. In futuro, chissà…

… e «Il gladiatore»

Quando arriviamo a Ouarzazate completiamo il giro che, come un grande anello, ci ha fatto conoscere una parte delle terre berbere. La città è sede di studi cinematografici importanti, dove sono stati girati molti film ambientati nell’antico Egitto e anche il «Lawrence d’Arabia» di David Lean.

Riprendiamo a salire lungo i tortuosi tornanti del Grande Atlante e ci accorgiamo che ha piovuto abbondantemente nei giorni scorsi. I prati e le montagne sono di un verde smeraldo che non avevamo visto passando di qui all’andata. Deviamo dalla strada principale per raggiungere lo Ksar ait-ben Haddu: borgo fortificato sulle pendici di un monte, in cima al quale sorge una torre di avvistamento e difesa. È un luogo ben noto agli operatori turistici, molto bello ma ampiamente rimaneggiato. La parte più bassa, infatti, è stata costruita recentemente, rispettando per fortuna l’architettura tradizionale in mattoni e paglia, per girarvi dei film, tra cui scene del «Gladiatore». È ben visibile l’arena in cui Russell Crowe mostra, in un momento dell’improbabile storia hollywoodiana, le sue capacità combattenti.

La scalata alla torre si rivela un’impresa: è l’una, c’è un sole davvero africano, e non abbiamo ancora mangiato niente. Ci aiuta, per fortuna, il vento fresco e delizioso offerto dagli 800 metri d’altezza del luogo. Una volta in cima, comunque, la vista è spettacolare. Si individuano ancora bene, a qualche chilometro di distanza, le sorgenti dove gli abitanti della città si recavano con gli asini per rifoirsi d’acqua. Oggi c’è l’acquedotto che ha eliminato questa dura incombenza.

Percorriamo il tratto di strada che ci separa da Marrakech tra i paesaggi montani già visti all’andata. In città ritroviamo il nostro delizioso e fresco riad (abitazione urbana tradizionale, ndr). È una bella serata e ceniamo sul terrazzo da cui si gode un grande panorama. Una cicogna, che si avvicina e, quando ci ha quasi raggiunto, compie un’ampia virata, allontanandosi, è l’ultimo spettacolo di questo viaggio.

Paolo Bertezzolo

 

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