I genitori scomparsi durante la dittatura argentina, l’«adozione» in Uruguay, la ricerca e il ritrovamento da parte del nonno, un famoso poeta. È la storia di Macarena Gelman.
Sul viso traspare lo sguardo un po’ smarrito tipico degli esseri umani che hanno subito mortificazioni crudeli, spesso dolorosissime, ma hanno saputo accettare con coraggio e con orgoglio il destino. Però se tocca loro parlarne, ti accorgi che non è stato facile rimanere dentro a una vita imposta da altri.
Parlo di Macarena Gelman, la nipote del grande poeta argentino Juan Gelman, morto nel gennaio del 2014 e protagonista con lei dell’instancabile tentativo di ritrovarsi, dopo che le feroci dittature dell’epoca in Argentina (dal 1976 al 1983, ndr) e Uruguay (dal 1973 al 1984, ndr) avevano reso, prima che fossero assassinati, i suoi giovani genitori, Marcelo e María Claudia, due «desaparecidos».
Juan Gelman, forse il più prestigioso poeta latinoamericano del Novecento, aveva saputo, per vie traverse, che la nipote, nata in cattività nel 1976, era stata data in «adozione» (il robo y tráfico de bebés era una pratica comune delle dittature latinoamericane, ndr) alla famiglia di un poliziotto di Montevideo e con la cocciutaggine che ha sempre distinto la sua sfida alla vita, aveva cominciato a cercarla, senza requie, avvalendosi anche dell’aiuto di tutto il pantheon della letteratura latinoamericana che si era messo a disposizione al completo, da García Márquez a Eduardo Galeano. Anche tutti noi, innamorati del continente sudamericano, pur senza avere le stigmate dei maestri, avevamo partecipato, malgrado i nostri limiti, all’operazione. Dittatori e politici presunti democratici del continente alla fine avevano aiutato la ricerca. Nel frattempo Macarena Gelman aveva ascoltato dalla madre adottiva la sua storia: la storia di una bambina lasciata, una notte di gennaio del 1977, in una cesta davanti alla porta della casa di un poliziotto, forse massone.
Ritrovata nel 2000, quella bambina è poi diventata deputata al parlamento uruguaiano in un raggruppamento progressista legato al Frente Amplio.
Io l’ho conosciuta in una limpida mattinata romana dell’aprile 2016. Era venuta in Italia per testimoniare al terzo processo su alcune vittime di passaporto italiano, massacrate negli anni ‘70 nel corso di quella tremenda carneficina che fu l’Operación Cóndor, una strategia del terrore voluta da politici nordamericani come Nixon e Kissinger che ha distrutto un’intera generazione argentina e uruguaiana di intellettuali (più di 30mila) dati, in certe occasioni, perfino in pasto ai tiburones (pescecani) della baia di Buenos Aires.
Passando alcune ore con Macarena, ho pensato al rifiuto di Juan Gelman di ritornare a vivere in Argentina dopo essersi rifugiato in Messico, paese discutibile per democrazia intea, ma storicamente generoso con chi cerca asilo per motivi di fede politica.
Macarena mi ha raccontato della testardaggine con cui il nonno l’aveva cercata, aiutato da mons. Pablo Galimberti (attuale vescovo della diocesi di Salto, in Uruguay, ndr) e dell’infinita dolcezza della sua mamma adottiva che l’aveva indirizzata fin dall’inizio a chiarire le proprie radici, suggerendole anche di muoversi con cautela, dato che il padre adottivo era un poliziotto dell’intelligence che, al contrario suo, non si era mai aperto completamente, neppure prima di morire, con Macarena. Durante il racconto, l’innocenza del suo sguardo mi ha autorizzato, a un certo momento, a fare una domanda: «Hai mai visto faccia a faccia gli aguzzini di tuo padre Marcelo? Sai chi sono?». Macarena non ha tergiversato: «So chi sono». E io ho insistito: «Li hai mai incontrati?». «A questo non posso rispondere – mi ha spiegato -. Ho pianto molte volte nella vita, cosa che ho condiviso anche con mio nonno quando ci incontravamo. Ridevamo anche molto. Dopo il 31 marzo del 2000 avevamo cominciato a vederci, quando si poteva, in Uruguay».
È stato inevitabile, a quel punto, per uno come me che il continente americano ha tentato di conoscerlo fino in fondo nelle sue grandezze e nelle sue miserie, ricordare che proprio Juan Gelman in uno dei memorabili saggi, che alternava ai suoi versi, aveva fatto una denuncia sui guasti fisici e morali procurati a molti soldati nordamericani dal propanololo, una sostanza chimica che avrebbe dovuto cancellare i loro rimorsi per guerre inutili e senza leggi, perché di esse non rimanessero tracce nelle pieghe della coscienza.
Non è un caso evidentemente che un poeta come lui, che non amava i mezzi termini, quando nel 2007 fu insignito del Cervantes, il premio letterario più prestigioso dopo il Nobel, avesse scelto di portare la sua famiglia allargata alla cerimonia di Madrid tenendo nella mano, che non sosteneva il trofeo, quella di sua nipote Macarena, la figlia di quella punizione che la presunta democrazia del mondo occidentale aveva riservato a suo figlio Marcelo e alla nuora María Claudia, colpevoli soltanto di non aver nascosto il loro desiderio di libertà.
Gianni Minà