Perdenti 15: Sacco e Vanzetti
Il 23 agosto 1927, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani emigrati negli Usa, subirono l’esecuzione capitale tramite la sedia elettrica. Erano accusati di aver ucciso, nel corso di una rapina, il cassiere e la guardia giurata del calzaturificio Slater and Morril. I dubbi sulla loro responsabilità e l’assoluta mancanza di testimoni non valsero a nulla. Nel penitenziario di Charlestown in Massachusetts, a distanza di sette minuti l’uno dall’altro, furono legati alla sedia elettrica e «giustiziati». Il 23 agosto 1977, a cinquant’anni esatti dalla loro morte, Michael Dukakis, durante il suo primo mandato di Goveatore del Massachusetts, riabilitò la memoria dei due italoamericani ammettendo che nel giudicarli erano stati commessi macroscopici errori e ingiustizie sia da parte della polizia che della magistratura americana.
Voi siete conosciuti in Italia e in America con i vostri cognomi, Sacco e Vanzetti, e considerando la provenienza geografica, si può dire che nel dramma che vi è toccato vivere, avete rappresentato con molta dignità l’Italia del Sud e del Nord, strettamente unita nella dura realtà dell’emigrazione.
Sacco: io sono pugliese, sono nato a Torremaggiore in provincia di Foggia.
Vanzetti: io, invece, sono piemontese e vengo da Villafalletto in provincia di Cuneo. Siamo emigrati negli Stati Uniti quasi contemporaneamente. Io arrivai a New York nel 1908, Sacco invece sbarcò a Boston nel 1909. Approdammo nel Massachusetts facendo diversi lavori, come del resto era consuetudine in quegli anni per i migranti che arrivavano in America.
Sacco: alla fine io trovai lavoro in una ditta che produceva scarpe e divenni un calzolaio provetto, mi sposai ed ebbi un figlio e una figlia, mentre il mio amico Bartolomeo, dopo molti sacrifici e aver cambiato tanti lavori, riuscì, nel 1919, ad aprire un piccolo negozio dove vendeva pesce.
Vi siete conosciuti in America?
Si, frequentavamo dei circoli anarchici e socialisti presenti in terra americana (pochi in verità), partecipando a scioperi e manifestazioni, che ci fecero avere problemi con la polizia. Nel 1916 ci conoscemmo e in poco tempo diventammo amici. Le nostre idee collimavano nel ricercare una giustizia sociale che fosse equa e rispettosa per tutti gli immigrati, inoltre eravamo due convinti pacifisti, tant’è vero che quando gli Stati Uniti intervennero nella Grande Guerra del ‘15-’18, ci rifugiammo in Messico con tutto il collettivo anarchico per non essere arruolati.
Finita la guerra tornaste negli Stati Uniti?
Si, riprendemmo il nostro lavoro nella società americana cercando di convincere altri immigrati a frequentare i nostri circoli e ad aderire alle nostre idee. Per la nostra fuga in Messico e per le nostre attività, eravamo però inclusi in una lista di sorvegliati speciali e segretamente controllati dalla polizia.
Come erano visti gli italiani negli Stati Uniti in quegli anni?
Molto male. Innanzitutto per il fatto di provenire da un paese cattolico e di trovarci in una cultura come quella degli Usa permeata dall’ideologia wasp (lett. vespa, ma in questo caso acronimo per White Anglo Saxon Protestant), eravamo considerati la feccia della società. Se a ciò si unisce il fatto che avevamo problemi con la lingua inglese in quanto non la parlavamo correttamente e che per sopravvivere eravamo disposti ad accettare i lavori più degradanti, eravamo visti come «paria» che occupano l’ultimo gradino della società.
Gli emigranti provenienti in genere dall’Europa e in particolare dall’Italia, portavano anche le idee socialiste e anarchiche che in quegli anni stavano sviluppandosi nel vecchio continente.
Quasi tutti noi eravamo contro la guerra, quindi abbastanza restii ad appoggiare le azioni belliche da qualunque parte venissero proposte. Molti immigrati si rifiutavano di iscriversi ai registri di leva e di lavorare nelle industrie che fabbricavano armi ed erano proprio i lavoratori europei, specialmente gli italiani, che animavano queste iniziative e organizzavano scioperi.
Anche la risonanza che arrivava dalla Rivoluzione Russa alimentava un’ostilità crescente non solo verso i migranti, ma proprio verso tutti coloro che si dichiaravano anarchici e socialisti?
Proprio così. Oltre tutto in quegli anni prese piede la così detta «red scare» (la paura dei rossi), con la quale il governo federale cercò di prevenire – con metodi al limite della legalità – il diffondersi di una ideologia ritenuta sovversiva e radicale. Per rispondere ai nostri sporadici, e tutto sommato abbastanza innocui, gesti di ribellione e per bloccare ogni nostra iniziativa, venne creato un apparato poliziesco imponente.
Va da sé che in un clima di così alta tensione e pieno di sospetto verso chi non era «wasp», ogni volta che succedeva un fatto criminale, gli immigrati venivano subito additati come colpevoli.
Il 15 aprile 1920, a South Braintree (Massachusetts), il cassiere del calzaturificio «Slater and Morril», Frederick Parmenter, e la guardia Alessandro Berardelli, stavano portando a piedi le paghe della settimana, 15.776 dollari, in due cassette di legno. Vennero assaliti con le pistole in pugno da due persone che spararono a bruciapelo e si allontanarono su un’auto che li stava aspettando. Immediatamente vennero sospettati degli italiani come gli autori del gesto. Noi due fummo arrestati perché trovati con una pistola e degli appunti per un comizio che stavamo organizzando. Ci trattennero in prigione senza nessuna assistenza legale.
Non vi chiedevate il perché di un arresto così anomalo?
Parlando tra di noi credevamo che ci avessero arrestati per motivi politici, al massimo per illegale possesso di armi. Per questo avevamo paura di essere espulsi, ma a nostro favore giocavano parecchie testimonianze giurate che dicevano che noi non eravamo nel luogo dove era avvenuto il gesto criminale, in quanto impegnati altrove. Ma il numero dei testimoni contro di noi, che la polizia andava raccogliendo qua e là, aumentava ogni giorno e, tra mille incertezze e contraddizioni, alcuni di loro dissero esplicitamente che noi eravamo i colpevoli. Venne quindi fatta un’incriminazione formale a nostro nome.
Raccogliendo delle testimonianze abbastanza deboli, ma avendo fretta di concludere l’istruttoria, tutto venne deciso per portare a termine il processo nel più breve tempo possibile.
Non solo, alcuni testimoni ritrattarono perché, a distanza di mesi, non erano più così sicuri delle loro dichiarazioni. Un portoghese di nome Celestino Madeiros, un comune criminale condannato in precedenza per rapina e omicidio, confessò la sua partecipazione al furto e al conseguente assassinio della guardia giurata, scagionandoci completamente dalle accuse a noi rivolte.
Ma tutto fu inutile in quanto la giustizia americana era alla ricerca di un capro espiatorio e voi incarnavate proprio quello che a loro serviva da presentare all’opinione pubblica, non è andata così?
Peggio, il pubblico ministero riuscì a eccitare i sentimenti patriottici e i pregiudizi della Corte, illustrando quelle che a suo avviso erano le idee sovversive del Movimento Anarchico del quale noi facevamo parte. La nostra renitenza alla leva e le nostre critiche al sistema capitalistico americano, vennero duramente attaccate dall’accusa, così facendo si processavano le nostre idee e non i fatti! Al momento della requisitoria il procuratore lanciò parole durissime contro gli stranieri e le idee che professavano. Anche il riepilogo del giudice fu pervaso da nazionalismo e pregiudizio; egli, anziché ricapitolare gli elementi di prova che la giuria avrebbe dovuto prendere in considerazione, espresse giudizi pesanti sugli stranieri presenti negli Stati Uniti. Paradossalmente non portò nessuna prova che inchiodasse noi al delitto di cui eravamo accusati. Nonostante ciò e nonostante gli elementi d’incertezza e i vistosi vizi procedurali che emersero durante il dibattimento, il 14 luglio 1921 la giuria pronunciò la sentenza di condanna a morte tramite sedia elettrica per tutti e due.
La condanna a morte di Sacco e Vanzetti provocò proteste in tutto il mondo, il governo italiano si fece sentire attraverso tutti i canali diplomatici, fior di intellettuali e personaggi di spicco di diverse nazioni scrissero al presidente degli Stati Uniti di concedere loro la grazia, in Italia ci fu un’ondata di antiamericanismo tale che bisognerà aspettare la guerra del Vietnam per vedee una uguale. In tutti i paesi culla di emigrazione verso gli Stati Uniti, ci furono manifestazioni di sostegno per i due italiani, anche negli Usa l’opinione pubblica si divise. Se per la destra veniva finalmente applicata una punizione esemplare a dei delinquenti comuni, altri cittadini, coscienti che veniva attuata un’ingiustizia macroscopica nei confronti di due italiani innocenti, non volendo che il loro paese apparisse come persecutore degli immigrati che proprio in quegli anni approdavano a migliaia negli Usa, manifestarono a loro favore.
Furono sette anni di inutili ricorsi, perché di fatto quello era ormai diventato un processo politico.
Il giudice Webster Thayer, l’uomo che aveva emesso la condanna a morte per Sacco e Vanzetti, disse a un amico: «Hai visto cosa ho fatto a quei due bastardi anarchici italiani, l’altro giorno?».
Vanzetti in una delle ultime sedute del processo prima dell’esecuzione, il 19 aprile 1927 fece un breve discorso in cui tra l’altro disse: «Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati, noi siamo condannati non per dei crimini che abbiamo commesso, ma perché siamo italiani e perché siamo anarchici, ma siamo così convinti di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarci due volte rivivremmo per fare esattamente le stesse cose che abbiamo fatto. E questo omicidio di stato non riuscirà a estinguere il nostro limpido e inalienabile diritto di esistere e di pensare secondo la nostra coscienza». Poi rivolgendosi al giudice che lo aveva condannato disse: «Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della terra ciò che io ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un radicale, e davvero io sono un radicale; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano […] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già».
Furono giustiziati – se questa è l’espressione giusta – sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927, a pochi minuti l’uno dall’altro. Le loro ceneri riposano ora a Torremaggiore.
Mario Bandera, missio Novara