America Latina indigeni vita a buon mercato


Dal Messico all’Argentina gli indigeni, oggi come in passato, subiscono violenze e umiliazioni. Certamente c’è un substrato di razzismo, ma il movente principale è economico: impossessarsi delle risorse che stanno nelle loro terre. E poi, da ultimo, non manca un aspetto culturale: cercare l’omologazione di chi vorrebbe continuare a vivere diversamente.

Vitor Pinto aveva due anni ed era un piccolo Kaingang. Vitor è stato ucciso il 30 dicembre 2015 davanti alla stazione dei bus di Imbituba, città situata sul litorale dello stato brasiliano di Santa Catarina. Come ogni giorno la famiglia di Vitor era arrivata in città per vendere i prodotti del proprio artigianato sulle frequentate spiagge dell’oceano. In Brasile, la violenza contro gli indigeni è parte della quotidianità e non fa quasi notizia. Dell’assassinio di Vitor si è parlato (ma senza mostrare sincera indignazione) soprattutto a causa della sua giovanissima età.

L’omicidio – per il quale la polizia ha preso un giovane – è l’ennesimo sintomo di una malattia che pare aggravarsi giorno dopo giorno. Gli indigeni (in Brasile meno di un milione di persone divise in almeno 246 popoli) sono accusati – dai media, dalle imprese minerarie e agricole, dai politici del Congresso e del governo (tutti soggetti formalmente indipendenti, ma in realtà tra loro intimamente uniti da reciproci interessi) – di rallentare o addirittura fermare il progresso e lo sviluppo del paese a causa dei loro diritti, peraltro sanciti dalla Costituzione federale.

Nella sua ultima relazione il Consiglio indigenista missionario (Cimi) ricorda che in Brasile, nel 2014, 138 indigeni sono stati assassinati, sempre per motivi legati alla terra.

Da Berta a Edwin, voci troppo scomode

In un altro stato latinoamericano, in Honduras, anche Berta Cáceres lottava per difendere la propria terra ancestrale e il fiume Gualcarque dalla distruzione prodotta dal progetto idroelettrico Agua Zarca. Anche lei era un’indigena, una leader del popolo Lenca, conosciuta pure a livello internazionale perché vincitrice, nel 2015, del premio Goldman, forse il più prestigioso riconoscimento ambientalista al mondo. Berta, madre di quattro ragazzi, è stata assassinata nella sua casa da persone armate lo scorso 3 marzo. Va ricordato che decine di assemblee indigene avevano respinto la costruzione della diga Agua Zarca e questo sulla base del «diritto alla consultazione preventiva, libera e informata», diritto introdotto per la prima volta dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) nel 1989. Capita che i bianchi facciano delle leggi – a volte delle ottime leggi -, ma che, all’atto pratico, siano i primi a non rispettarle.

Per le stesse ragioni – la difesa ambientale dei territori indigeni – nel settembre 2014, in Perú, era stato assassinato Edwin Chota e tre suoi compagni, tutti di etnia Asháninka. Chota, le cui battaglie ambientaliste erano note anche fuori del proprio paese, da anni lottava contro il disboscamento illegale della foresta amazzonica della regione dell’Ucayali, abitata da diverse etnie indigene tra cui gli Shipibo e, appunto, gli Asháninka.

La storia si ripete in Ecuador per il progetto minerario Mirador (anche qui, come in Honduras, con la partecipazione di imprese cinesi) sulla Cordillera del Condor – nella provincia di Zamora Chinchipe, al confine con il Perú -, una zona caratterizzata da grande biodiversità. Nel dicembre 2014 è stato trovato ammazzato José Tendetza, leader degli indigeni Shuar e intransigente oppositore del progetto.

Quando non ci sono le miniere o le grandi opere, la minaccia per i territori indigeni arriva dall’espansione della frontiera agricola (frontera agropecuaria). E non si tratta di quella fatta da piccoli coltivatori (campesinos), che ormai sono in via d’estinzione perché rimasti senza terra, ma dall’agroindustria (agronegocios), in particolare da quella della soia e dell’allevamento. Ciò avviene, ad esempio, in Argentina. Nel 2013, l’incorporazione di nuove terre ha ucciso Florentín Díaz, Juan Daniel Asijak, Imer Flores, tutti indigeni di etnia Qom (Toba). Il risvolto di queste politiche economiche è tragico: nel 2015, nel solo Chaco (Nord Est argentino), sono morti per denutrizione sei bambini indigeni.

Una questione di visioni

Le risposte pubbliche (che sono politiche e mediatiche) sono sempre le stesse: questi megaprogetti sono indispensabili per il progresso della collettività nazionale. Anche le contestazioni degli ambientalisti e dei sostenitori della causa indigena sono ogni volta le stesse: i danni prodotti sono maggiori dei possibili benefici e, comunque, ci sono anche altre strade da percorrere per il cosiddetto progresso.

D’altra parte, la risposta più realmente indigena è un’altra e parte da una visione del mondo e dell’esistenza (cosmovisione) propria e unica, una visione che prevede un’intima relazione tra la loro identità, le modalità di vita e le terre da loro abitate. Concetto che, detto in altre parole, diventa: non c’è identità né cultura indigena senza la terra.

Di solito, stati e imprese coinvolte ricercano il consenso con la «politica delle compensazioni» (cioè delle opere «regalate» alle comunità che ne subiscono l’impatto ambientale e culturale), anche per dividere il fronte degli oppositori. Alcuni dei quali possono venire irretiti pure con il meno nobile sistema della corruzione. D’altra parte, la logica oggi dominante ha sempre una risposta all’apparenza accattivante: «Why be poor when we can be rich?»1. Già, perché essere poveri quando possiamo essere ricchi?

La Conquista non è mai terminata

Premesso che l’etnocidio prodotto dalla Conquista – dal 1492 in poi – uccise il 90% degli indigeni (secondo l’antropologo Darcy Ribeiro al momento dell’arrivo dei conquistatori europei gli aborigeni delle Americhe erano 70 milioni; secondo un altro studioso, il filosofo Todorov, degli 80 milioni di indios nel 1600 ne erano rimasti soltanto 10), ancora oggi risulta difficile dare cifre sicure sugli indigeni. Anche perché una parte di essi, per vergogna o per timore di essere rifiutati, esclusi o maltrattati, negano il loro essere indigeni. Ecco perché i numeri sulle popolazioni aborigene sono ballerini e possono variare a seconda della fonte, anche di quelle ufficiali come possono essere i censimenti o le indagini degli organismi inteazionali (Nazioni Unite, Banca Mondiale, ecc.).

Fatte queste precisazioni, nel mondo si contano circa 400 milioni di indigeni. Di essi 42-45 milioni vivono in America Latina, divisi in oltre 500 popoli, pari a circa l’8 per cento della popolazione latinoamericana.

«Nel continente la vita indigena è sempre stata quella più a buon mercato». L’affermazione, attribuita al compianto Eduardo Galeano, rimane ancora oggi una certezza. Come la morte, verrebbe da chiosare.

Paolo Moiola

Note:

1 – Cfr. articolo della rivista Resources Policy, giugno 2012.

Suggerimenti bibliografici

  • Gruppo Banca Mondiale, Latinoamérica Indígena en el Siglo XXI, agosto 2015;
  • Iwgia, El mundo indígena 2015, Copenaghen 2015;
  • Nazioni Unite-Cepal, Los pueblos indígenas en América Latina, novembre 2014;
  • Cimi, Relatório. Violência contra os povos indígenas no Brasil, Datos de 2014, Brasilia, aprile 2015;
  • Cvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», 1982;
  • Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina, 1971.