La cultura è rivoluzione


1. La crisi di oggi e le sue cause nel passato

Vent’anni dopo

Haiti è un paese davvero strano. Unico, con una cultura forte, speciale, che affonda le sue radici nella singolarità della storia del suo popolo. La dominazione di un piccolo gruppo su una moltitudine, un passato di schiavitù e di rivoluzione antischiavista, antirazzista e anticoloniale. Come ci spiega bene il professor Laënnec Hurbon nell’intervista che segue. Un paese che provoca due reazioni opposte alla prima visita. Chi prova repulsione e vuole andarsene appena possibile, chi invece vi rimane attaccato per la vita.

Dopo due decenni di frequentazione mi viene spesso rivolta la domanda: cosa è cambiato ad Haiti in questi 20 anni? Difficile rispondere. Poco, se si guarda il livello di vita della grande maggioranza degli haitiani. Molto, se si esaminano gli stati d’animo delle persone incontrate.

Atterro all’aeroporto internazionale Toussaint Louverture che è già sera e non fa particolarmente caldo. È fine febbraio, è vero che anche qui è inverno, seppure tropicale. Forse è arrivato il fenomeno del cambiamento climatico. Quest’arietta fresca non me la ricordavo. Il mio pensiero va al 1995. Era luglio, quando per la prima volta misi piede sull’isola. Il clima era diverso, e non solo quello meternorologico.

Si grondava di sudore tutto il giorno. I marines statunitensi erano ovunque. Avevano appena riportato il presidente Jean-Bertrand Aristide al potere, amato dal popolo, ed esautorato tre anni prima, a fine 1991, da un colpo di stato, organizzato e finanziato dagli stessi Stati Uniti, con a capo George Bush (padre). Era un esempio troppo pericoloso per gli altri paesi sotto l’influenza statunitense.

Per riportarlo in patria, Bill Clinton, diventato presidente degli Usa, aveva imposto ad Aristide di firmare le famigerate concessioni ai piani di aggiustamento strutturale, tra le quali l’abbassamento dei dazi doganali per il riso e il mais, che avrebbero sancito l’invasione dei prodotti alimentari made in Usa e di conseguenza la miseria di centinaia di migliaia di famiglie di contadini haitiani e il loro inurbamento in enormi bidonville.

Ma in quel momento l’euforia era grande. Titid (come Aristide veniva chiamato in creolo) era il messia, tornato per salvare la sua gente. Il sacerdote salesiano era diventato presidente a furore di popolo con le prime elezioni davvero democratiche e partecipate, nel dicembre 1990. Il prete era espressione dei movimenti della società civile, che affondavano le loro radici nella classe povera rurale, quei contadini animati attraverso le comunità ecclesiali di base portate dal vento della Teologia della liberazione.

Purtroppo però, Titid, in esilio proprio negli Usa, era stato comprato dai democratici con a capo Clinton.

Il messia è perso

Anche la speranza in un futuro migliore, in quel lontano 1995, era negli occhi e nelle parole di tutti. A luglio fu eletto il parlamento e a dicembre il nuovo presidente della Repubblica, il delfino di Aristide, l’agronomo René Préval. Gli «amici» Usa avevano impedito che Titid recuperasse i tre anni di presidenza rubatigli dal golpe. Préval sarebbe diventato famoso in tutto il mondo i giorni successivi al 12 gennaio 2010, per la sua ignavia di fronte al terremoto che avrebbe distrutto la capitale Port-au-Prince. In quei giorni terribili Préval, al suo secondo mandato, avrebbe consegnato le chiavi del paese agli Stati Uniti. Lo ricordiamo camminare nervoso, con una sigaretta in mano, senza sapere cosa dire o fare.

L’euforia del ’95 si spense negli anni successivi e la fiducia nel futuro si trasformò in desolazione. Tutti si accorsero che Aristide era diventato molto ricco, era cambiato, si era trasformato un politico ambizioso e scaltro.

Due anni dopo ebbi la fortuna di vivere a Port-au-Prince, dove lavorai come fotografo e formatore per il settimanale in lingua creola Libète (Libertà), legato ai movimenti sociali. A causa del lavoro, girai in lungo e in largo il paese. Fu in quel periodo che persone di ogni livello sociale, mi raccontarono la delusione e il disincanto rispetto a una classe dirigente che, venuta dalla base dopo che la rivolta popolare aveva scalzato il duvalierismo (1986), aveva approfittato del potere solo per fare il salto nella ristretta classe alta, a spese di tutto il paese.

Ricostruzione a «cinque stelle»

Poi venne il terremoto che in pochi minuti distrusse ampie zone della capitale e di altre città e falciò circa 300.000 vite. Nessuno ne saprà mai il numero reale. Complice l’inurbamento selvaggio, dovuto all’impoverimento delle masse rurali, e l’assenza di regole nella pianificazione territoriale e nell’edilizia. Fu un «momento zero» per il paese.

Tornato ad Haiti alcuni mesi dopo, parlando con la gente vi ritrovai una grande voglia di rinascita, di ricostruzione. Quasi il sisma fosse stato un’opportunità per ricominciare tutto su basi nuove. Fu la conferma della capacità degli haitiani di resistere, adattarsi e reagire, anche di fronte ai colpi più duri. Anche in quel momento, al di là di una grande tristezza e della paura di nuove scosse, si sentiva nella gente la voglia di fare, di cambiare il paradigma di dominazione e di miseria subito fino ad allora.

Ma ancora una volta intervennero gli Stati Uniti, e Bill Clinton, ormai presidente emerito, che si installò a capo della commissione per la gestione dei fondi della ricostruzione. Lui, non un dirigente hatiano, avrebbe deciso come spendere i soldi. E così sarebbero nate alcune nuove zone industriali (la più importante nella baia di Caracol, splendida insenatura nel Nord, inaugurata dai coniugi Clinton nel 2012) dove le imprese statunitensi del tessile avrebbero sfruttato la manodopera haitiana per 2-2,5 dollari al giorno. E a Port-au-Prince sarebbero spuntati tre grandi hotel, mai visti da quelle parti, tra i quali il Meriott, finanziato, guarda caso, proprio dalla Fondazione Clinton e inaugurato un anno fa.

Oggi, negli haitiani, anche quella voglia di rivincita, di ricostruire meglio la propria società, è svanita. E la ricostruzione? Molti mi chiedono. A parte gli hotel cinque stelle, e le zone industriali, sono state rimosse le macerie e asfaltate alcune strade verso Nord. Ma la maggior parte degli edifici pubblici non sono stati rifatti, mentre tra i privati, solo qualcuno è riuscito a liberarsi delle macerie e a ricostruire a spese sue. Diversi sono stati anche gli istituti religiosi che si sono occupati del problema della casa per la gente più povera.

Alle elezioni post terremoto di fine 2010, gli Usa (di Barak Obama), imposero il presidente nella figura del cantante di kompa Michel Martelly. Questa volta lo fecero senza preoccuparsi troppo delle apparenze, intervenendo direttamente sui risultati del primo tuo e facendoli modificare da una commissione di revisione elettorale. L’operazione fu cornordinata direttamente da Hillary Clinton, all’epoca segretario di stato Usa, in una visita di 24 ore. Il cantante è anche legato alla corrente duvalierista e affarista. Dopo 20 anni la destra toò al potere.

Fallimento elettorale

A Port-au-Prince il traffico è sempre asfissiante e imprevedibile. Ma trovo un certo miglioramento dagli anni ’90. All’epoca non riuscivo a passare gli ingorghi neppure in moto. Oggi ci sono più strade asfaltate nei quartieri e i conducenti sono un minimo più disciplinati.

Qualità che non vedo nella politica haitiana. L’impasse politico-elettorale di questi ultimi mesi si sta radicalizzando ogni giorno di più e rischia di portare il paese in un vero caos.

Michel Martelly ha evitato di organizzare elezioni durante i cinque anni della sua presidenza, così le cariche istituzionali dello stato sono andate in scadenza, senza essere rinnovate. Finalmente, grazie a una mediazione della Chiesa cattolica, a inizio 2015 si è potuto formare il Consiglio elettorale provvisorio (Cep), organo preposto per organizzare le consultazioni. Erano previste amministrative, legislative e presidenziali.

«All’inizio si diceva che il Cep era equilibrato. Ma c’erano politici che non volevano le elezioni – ci confida Ricardo Augustin, consigliere del Cep delegato dalla chiesa -. Quando il Cep ha bocciato alcune candidature che non rispondevano ai criteri, si è allargato il fronte dei contrari». Le prime consultazioni (legislative) si sono tenute il 9 agosto, e sono state macchiate da violenze in diversi seggi elettorali di provincia. «L’8 agosto si avevano ancora dei dubbi se realizzare le elezioni. Dopo siamo stati criticati, come se avessimo forzato. Abbiamo verificato che il 70% dei verbali erano validi. Accettate le critiche, abbiamo corretto gli sbagli». Due mesi dopo è stata la volta delle presidenziali: «Le elezioni del 25 ottobre sono andate bene. Abbiamo ricevuto i complimenti da parte di molti, e il rapporto degli osservatori inteazionali è stato favorevole». Poi, due giorni dopo, gli oppositori hanno iniziato a versare fango sulla consultazione. «Hanno denunciato frodi senza avere prove. È stato un piano preparato e ben eseguito per affossare le elezioni. Al Cep abbiamo subito pressioni, diffamazione e menzogne. Ma abbiamo pubblicato i risultati». I due candidati ammessi al secondo tuo delle presidenziali erano Juvenal Moise, candidato del partito di Martelly, e Jude Célestin, uomo dell’ex presidente Préval. Lo stesso Célestin che era stato estromesso dal ballottaggio di inizio 2011.

Il balletto dei politici

Le elezioni sono state contestate con forza dall’opposizione e rimandate due volte. Si sarebbero dovute tenere il 24 gennaio ma violente manifestazioni di piazza si sono susseguite quotidianamente. La notte tra giovedì 21 e venerdì 22, due scuole sedi di seggi a Gonaives e Léogane, sono state date alle fiamme. «La violenza si stava annunciando – continua Agustin -. Il presidente del Cep ha deciso di rinviare ulteriormente il secondo tuo, perché il rischio di derive era evidente. Così chi non voleva le elezioni ha vinto», dice il consigliere del Cep, che è stato il primo a dimettersi, seguito dagli altri membri dell’organismo elettorale.

Dall’esterno sembra che il popolo haitiano non abbia voluto le elezioni perché manipolate. In realtà sono i partiti di opposizione, tra cui quelli di Préval e di Aristide, che hanno bloccato il processo, sicuri che altrimenti Moise avrebbe vinto.

«Le manifestazioni di piazza –  ci racconta il neoeletto senatore del Nord Ovest, Onondieu Louis – non sono state popolari, anche se i media si sono affrettati a sdoganarle come tali, ma decise a tavolino e pagate dai politici». Che non si trattasse di una rivolta popolare è d’accordo anche la sociologa e politica Suzy Castor che fa un’analisi più ampia: «Ho visto molta disaffezione per le elezioni. La gente ha perso la speranza. Nel 1990, andare a votare, era stato come esercitare un potere. Oggi non vale più nulla. Nel 2010 c’era ancora l’idea di provare a voltare pagina, votando il cantante Martelly. Ma sono seguiti cinque anni di delusioni. Le manifestazioni sono state fatte da pochi agitatori professionisti, che hanno coinvolto i delusi».

Creatività  istituzionale

Nelle settimane successive è regnata la confusione istituzionale. Il presidente Martelly ha finito il suo mandato il 7 febbraio, secondo la Costituzione, e non è stato eletto un nuovo presidente. Il parlamento non era completo e il governo era anch’esso in scadenza.

I presidenti di Senato, Camera dei deputati e Martelly hanno firmato un accordo, per il quale il parlamento – la cui legittimità è contestata perché figlio di queste elezioni – avrebbe eletto un presidente provvisorio che, in 120 giorni al massimo, dovrà organizzare il secondo tuo e installare un nuovo presidente. Nell’accordo non si parla invece della Commissione di verifica delle elezioni, richiesta da diversi settori.

Il Parlamento ha scelto, il 14 febbraio, Joselerme Privert, presidente del Senato (che così è rimasto senza presidente), già ministro di Aristide e vicino a Préval. Ma per fare questo è stato affossato un primo accordo, più equilibrato, richiesto dalla società civile, che prevedeva come presidente provvisorio l’attuale presidente della Corte di Cassazione. «L’opposizione vuole accedere al potere, e l’unico modo è cacciare Juvenal Moise, l’imprenditore agricolo arrivato in testa al primo tuo. Narcisse vuole prendere il potere, ha dietro Aristide. Lei è arrivata quarta». Ci spiega Ricardo Augustin.

Grazie a questa operazione, sebbene per un mandato provvisorio, partito al potere e opposizione hanno invertito i ruoli. Oggi è Lavalas (partito di Aristide e, in passato, di Préval) che gestisce il potere. Ci dice il senatore Onondieu: «Noi vogliamo continuare il processo elettorale, ma non sembra questa l’intenzione del presidente, che vuole restare al potere il più a lungo possibile». È abbastanza chiaro che non ci sono i tempi tecnici per una revisione elettorale e per l’organizzazione di elezioni anche parziali entro la scadenza del presidente provvisorio. Suzy Castor: «Un’opzione è che il governo provvisorio si proroghi, altrimenti se ne deve fare un altro. Ma la transizione durerà 8-12 mesi. È una situazione molto complessa, non è solo una crisi elettorale, ma è più vasta, è una crisi sociale. E non data ieri». E continua: «C’è anche una profonda crisi economica. Il debito è enorme e pesa sulla popolazione, salvo un piccolo gruppo di potere. Il costo della vita è aumentato a causa della svalutazione della moneta. Assistiamo all’affondamento dello stato, alla sua delegittimazione, e alla degradazione della classe media, che si è impoverita e si è ridotta».

Mi vengono in mente le parole di un leader contadino di Gros Moe, nel Nord (povero) del paese: «Haiti è un paese ricco, ma l’ipocrisia dei paesi che lo circondano non vuole che si sviluppi. Noi stiamo bene qui e vogliamo sfruttare la nostra risorse».

È la coscienza di avere una grande ricchezza culturale, naturalistica, produttiva e volerla sfruttare al meglio per fare andare avanti le cose, per migliorare la vita delle persone.

Sono passati vent’anni. Una generazione. Sono sulla Grande rue, il centro pulsante della capitale. Guardo davanti a me un giovane bagnato di sudore che spinge un carretto. Vedo un neonato del 1995. Non ha avuto molto di più di suo padre. Anzi, forse a lui è pure negata la speranza in una vita migliore. Per sé e i suoi figli.

Marco Bello


2. Incontro con il professor Laënnec Hurbon

Da Haiti venne… la libertà

di Marco Bello

Pittura, musica, danza. Poi poesia e letteratura. Un paese fucina di creazioni culturali. Che hanno una base comune: la religione Vodù. Un ambiente naturalistico stupendo da valorizzare. Ma i politici guardano solo a interessi immediati e personali. Potrà la cultura salvare il popolo di Haiti? Lo abbiamo chiesto a un grande intellettuale haitiano.

Il professor Laënnec Hurbon, sociologo e teologo, è uno dei più noti studiosi haitiani contemporanei. Ha scritto numerosi saggi sui rapporti tra religione, cultura e stato. Direttore di ricerca al Cnrs (Centro nazionale di ricerca scientifica) di Parigi dal 1987, è professore all’Università Quisqueya (Port-au-Prince) di cui è uno dei fondatori (1990). Ci ha accolti nella sua tranquilla casa di Port-au-Prince dove vive.

Professore, Haiti è ricca di cultura, che ruolo può giocare oggi essa per una rinascita del paese?

«Come spiegare una tale profusione di pratiche culturali, creatrici, dalla pittura – forse la più nota – , alla musica, dalla danza alla letteratura? Certo è che siamo in un paese ancora dominato dall’analfabetismo. Haiti ha due lingue, il francese, che è parlato da chi è andato a scuola, quindi una minoranza, e il creolo che è parlato da tutti. Al popolo haitiano il sistema non ha offerto molte possibilità d’espressione della propria dignità. Prima di tutto il sistema della schiavitù. È stato necessario, durante quegli anni, che gli schiavi si creassero la loro propria cultura, diversa da quella dei padroni. Quindi si è avuto un lavoro di inventiva, che è consistito nel porsi come esseri umani in cerca di dignità e di un senso da dare alla propria vita. Questa situazione è cambiata con la rivoluzione haitiana del 1791 e con gli anni dell’indipendenza (dal 1804).

Da quel momento in poi si può osservare tutta la difficoltà che il paese ha avuto per fondare uno stato davvero sovrano. Ci sono stati molti ostacoli, provenienti in primo luogo dall’estero, perché Haiti era circondata, durante tutto il XIX sec., da paesi nei quali la schiavitù era ancora un’istituzione dominante. È nel 1848 che i popoli dei Caraibi francesi hanno potuto ottenere l’abolizione della schiavitù. A Portorico è arrivata molto tardi, alla fine del XIX, così anche a Cuba, e in Brasile (1888). Haiti ha dovuto farcela da sola in un contesto ostile all’indipendenza della nazione haitiana, e ha forgiato il suo proprio orientamento attraverso pratiche culturali che non sempre corrispondevano a quello che lo stato dominante offriva sull’isola. Quest’ultimo, infatti, non considerava l’insieme dei cittadini. Dopo l’indipendenza si erano costitute, di fatto, due società. Una dominata da coloro, chiamati “grandon”, che ottenevano i vantaggi del governo, e potevano approfittare del nuovo stato indipendente; l’altra costituita dalla massa di ex schiavi, una società contadina che viveva chiusa e non aveva molte possibilità.

La cultura haitiana, la più importante, si è costituita in un contesto quasi di apartheid sociale, perché c’era un élite urbana di fronte a una maggioranza contadina. Abbandonata dallo stato, quest’ultima era costituita da cittadini di serie B, e sono loro che hanno forgiato una cultura propria, nella quale troviamo il Vodù. Come se ci fosse stata la creazione di un’altra civilizzazione, durante tutto il XIX secolo, nella quale troviamo pratiche culturali di grande invenzione che riprendevano elementi e rituali imposti dalle chiese dominanti, dallo stato, dall’estero, integrandoli con l’eredità tramandata dall’Africa. E attraverso il Vodù, si sono sviluppate pratiche di danza, mitologia, leggende – i racconti in particolare -, architettura e tecniche varie. Possiamo dire che se Haiti oggi ha una cultura eccezionale nei Caraibi, è grazie a quanto sviluppato dalle masse della gente povera delle campagne, considerate come cittadini di second’ordine. Le élite, quelle con una visione, un sogno per Haiti, hanno attinto da lì per produrre una pittura molto conosciuta a livello mondiale, una musica molto apprezzata nei Caraibi, che prevede una grande capacità d’inventiva. Tutto questo si appoggia al Vodù, anche se non è Vodù. La poesia e la letteratura hanno preso anche loro da quello che le masse contadine hanno costruito.

Ad Haiti abbiamo una cultura molto forte perché abbiamo vissuto delle situazioni di dominazione, dove l’espressione non era libera, con governanti preoccupati più dell’estero che dell’insieme dei cittadini. Ed è questo il problema specifico di Haiti. Occorre capire come fare diventare la nazione haitiana una comunità di cittadini che si rispettano e hanno diritti. Diritti fondati su una storia ben precisa, quella della prima grande rivoluzione di schiavi vittoriosi grazie a una lotta condotta, dal 1791 al 1804, anche contro l’esercito di Napoleone. Un pezzo importante nella storia universale, perché ha dato il via a tutte le lotte che sono state combattute dagli altri paesi. Haiti ha dato l’esempio, ha aperto tutta una serie di insurrezioni antirazziste, antischiaviste e anche anticoloniali, con grande anticipo. È qualcosa che è molto forte, che Haiti ha prodotto e le va riconosciuto».

Risorse culturali importanti e uniche che potrebbero anche portare reddito al paese, ma occorre promuoverle. Pensa che ci sia oggi la volontà politica di valorizzare questa cultura nel mondo?

«Io penso che manchi una reale volontà politica di promuovere la cultura haitiana. C’è piuttosto una volontà di sfruttamento, di strumentalizzare, di mantenere la società nello stato in cui è. Mentre tutto quello che esprime la cultura haitiana nasce da una vera utopia, un sogno di una nuova Haiti, di un paese nel quale ognuno riconosce l’altro nei suoi diritti.

Ecco il problema, la cultura haitiana non è mai stata veramente sostenuta dai governanti. Si vede qualche sforzo ogni tanto per il carnevale, che rappresenta un’altra sorgente d’espressione e diversità della nostra capacità di fare cultura. Anche a livello della letteratura, molto spesso si riconosce prima all’estero l’importanza di alcune opere, e solo in un secondo momento in patria.

Oltre a questo, il grosso lavoro che deve fare lo stato haitiano è sul fronte dell’educazione, dell’insegnamento, del riconoscimento del creolo, che è molto importante, l’alfabetizzazione per permettere a tutti di entrare in comunicazione gli uni con gli altri, a livello politico e sociale (il creolo è utilizzato nella scuola primaria sono da fine anni ‘70, nda). Si sente palpitare attraverso le associazioni più diverse, i movimenti sociali, una ricerca molto forte di dignità, espressa in diversi tipi di pratiche, come musica e pittura. C’è tanto da fare, ma ci sono stati progressi: è stata creata l’Accademia di creolo, vi sono testi, radio e Tv in creolo. C’è un nuovo rapporto con la lingua, anche se gli uomini politici spesso si mettono a parlare in francese per escludere la maggioranza della popolazione. La questione culturale è centrale per l’avvenire di Haiti».

Nei servizi, la Chiesa cattolica in molti casi ha sostituito lo stato. Come ha potuto collegarsi alla cultura tradizionale, come il Vodù?

«La Chiesa cattolica in fondo ha giocato un ruolo importante nello sviluppo di Haiti, perché grazie al concordato del 1960, tra il Vaticano e lo stato haitiano, religiosi e religiose hanno potuto aprire scuole e hanno avuto anche responsabilità di scuole pubbliche, ed è grazie a queste persone che abbiamo potuto avere una vera cooperazione sull’educazione. La Chiesa ha avuto un ruolo capitale per la cultura e, allo stesso tempo, è stata responsabile di strutture a carattere sociale: ospedali, aiuto ai più poveri. La Chiesa cattolica è stata un apparato che ha permesso allo stato haitiano di sopravvivere, di esistere. Ma, evidentemente, c’è qualcosa di contraddittorio e paradossale, perché i missionari non sempre hanno capito la cultura haitiana e questo ha spesso spinto a voler eradicare il Vodù, che è un’eredità africana. C’erano molti pregiudizi contro la cultura africana: tutto quello che arrivava da quel continente era considerato come stregoneria, era demonizzato. Questo ha creato nella mentalità ad Haiti, una tendenza a separare la gente cattolica da coloro che vivevano nelle campagne e praticavano il Vodù.

Una situazione cambiata con il Concilio Vaticano II, quando la Chiesa ha iniziato a riconoscere, ai più alti livelli, il diritto alla libertà religiosa e la necessità di avere un altro tipo di rapporto con le popolazioni dove si inseriva.

Oggi la questione si pone in altri termini, perché la Chiesa cattolica è in competizione con molti movimenti religiosi, che hanno invaso il paese a partire dall’occupazione statunitense (1915-34). Da una ventina di anni il movimento pentecostale si è diffuso, soprattutto nelle classi popolari.

La Chiesa cattolica ha mitigato la sua volontà di combattere il Vodù, e ne ha introdotto alcuni elementi nella liturgia, come l’uso dei tamburi in chiesa. Ha introdotto il creolo e ha avuto un ruolo molto importante per la sua promozione e accettazione come normale lingua di comunicazione. Stessa cosa hanno fatto anche i protestanti. Ma il protestantesimo, soprattutto nella sua versione pentecostale, ha lottato contro il Vodù, ha voluto che la gente abbandonasse il Vodù, che considera come qualcosa che viene dal demonio. Evidentemente in questo modo il protestantesimo agita ancora di più l’immaginario religioso che diventa ancora più presente, si difende e oggi dispone di una sua organizzazione autonoma (vedi MC giugno 2014) e comincia a essere riconosciuto nello spazio pubblico, dalla radio alla televisione. Molti si dichiarano oggi apertamente vuduisti. La battaglia è per la tolleranza religiosa, la libera competizione dei movimenti, la laicità dello stato, che permetterà la protezione di tutte le religioni».

Il 9 agosto e il 25 ottobre 2015 si sono svolte le elezioni per il parlamento e per il presidente della repubblica. Perché la partecipazione alle elezioni è stata così bassa?

«Dal 1986 il movimento di democratizzazione del paese ha fatto progressi e il paesaggio sociale è cambiato. La differenza che esisteva tra élite urbane e classi popolari delle campagne e bidonville oggi si esprime diversamente. La gente fa delle richieste allo stato, reclama i propri diritti, vuole più uguaglianza, partecipare alla vita politica e cittadina, e questo crea una continua crisi a livello politico. Perché le strutture dello stato e la classe politica si trovano in ritardo rispetto al livello di coscienza popolare ad Haiti.

La bassa affluenza esprime una mancanza di fiducia nelle istituzioni dello stato e in particolare in quella elettorale. Intanto c’è stata una pletora di candidati (i candidati presidente erano 54, nda), che non fanno realmente campagna, e non hanno programmi politici. Non si vede la differenza tra un partito e l’altro. Di fronte a questo le persone sono perse, non sanno chi votare.

Inoltre la gente ha boicottato anche perché ci sono prove di tentativi di manipolazione da parte dell’esecutivo, nel modo in cui le elezioni sono state condotte. E questo succede sempre, ogni volta che ci sono elezioni in questo paese. È qui che si vede che abbiamo a che fare con una classe politica chiusa su se stessa, non intenzionata a scendere in mezzo alla gente, interessarsi ai problemi reali espressi dai diversi strati sociali del paese. Sono più portati a risolvere i loro problemi personali, legati ai posti e alle ricompense da ottenere».

La lotta politica alla quale assistiamo è una lotta di potere e di interessi o anche ideologica e di classe?

«Non vedo lotta ideologica né lotta di classe espressa nettamente. Quello che è chiaro è che il governo degli ultimi cinque anni è stato imposto in maniera quasi diretta dagli statunitensi. Gli Usa si sono introdotti nel paese attraverso la Minsutah (contingente Onu presente dal 2004, nda) e hanno voluto che fosse Martelly a diventare presidente. C’è stato tutto uno sforzo per scartare la persona che era arrivata seconda (Jude Célestin, nda). Martelly è arrivato al potere senza alcun programma e oggi vediamo in che stato si trovano le istituzioni a causa del suo governo. È stato un periodo di apertura al business, nel quale non ci si doveva più interessare di politica. Si sarebbero dovute fare strade, organizzare elezioni. Ma il presidente era più interessato a organizzare il martedì grasso del carnevale. È simpatico, però ci sono cose più importanti e serie da risolvere nel paese. Abbiamo avuto a che fare con un governo di business man e oggi ne paghiamo le conseguenze».

A livello della ricostruzione, che risultati vede in questi sei anni?

«Molti soldi sono stati promessi, ma pochi sono stati dati. C’è stata l’espressione di una grande compassione per Haiti, ma spesso le Ong hanno preso il paese come un grande campo di gente da assistere, quando invece si sarebbe dovuto avere una visione molto più ampia, di medio e lungo termine, al di là della ricostruzione. Il sisma è stato un’opportunità offerta ad Haiti per realizzare una vera costruzione del paese. Questo non è stato fatto. Non metto tutto sul conto degli stranieri, perché era compito del governo presentare dei progetti che avrebbero potuto accogliere questo aiuto e orientarlo. E se il governo non ha un piano, l’aiuto arriva da diverse parti e c’è un certo spreco. Si è portato un po’ di appoggio a gente che non aveva nulla, ma che continua a non avere nulla. Ci sono molte critiche che sono state fatte sugli aiuti. Raul Peck, cineasta molto conosciuto, ha realizzato il film “Assistenza mortale”, una critica radicale dell’aiuto. La gente è in continua richiesta di “stato”: scuole, sicurezza, salute, lavoro, casa, ma tutto questo è trascurato».

La cura dell’ambiente è fondamentale e le risorse possono essere utilizzate per il turismo. Ma come fare?

«Ci sono associazioni che lavorano su queste questioni, ma non sono tenute in conto dal potere, non ricevono sovvenzioni. Occorre che ci sia un governo con un programma, che ci siano uomini politici attenti all’ambiente. I candidati alla presidenza hanno molta fame di potere, ma poco appetito per le questioni importanti come ambiente, sviluppo sostenibile, lotta all’inquinamento, prevenzione dei terremoti e intemperie. È un paese che ha bisogno di pensare il suo avvenire, di avere gente che presenti dei piani più generali a livello di politiche nazionali».

I rapporti con la Repubblica Dominicana sono particolarmente tesi in questi ultimi mesi, perché?

«Haiti è in una situazione particolare, perché una buona parte degli scambi economici avviene con la Repubblica Dominicana (Rd), ma con un grosso deficit nella bilancia commerciale. I dominicani vendono per due miliardi, mentre Haiti esporta per qualche centinaio di milioni. Buona parte della popolazione che non ha lavoro va in Rd, dove vivono molti haitiani, da oltre un secolo. C’è una volontà della Rd di controllare i lavoratori haitiani, di cui però ha molto bisogno. Questo ha creato situazioni gravi. Come nel 1937, quando ci fu un vero genocidio di haitiani, organizzato dal dittatore Trujillo. Questo massacro fu dovuto alla volontà di chi governava in Rd di fare una pulizia etnica, perché per i dominicani tutto quello che viene da Haiti viene dall’Africa, dal Vodù, è nero, mentre invece loro si considerano come indios ed europei. I dominicani hanno ancora il problema su come assumere il passaggio della loro storia che riguarda la schiavitù. Allo stesso tempo hanno bisogno degli haitiani per il lavoro nella canna da zucchero, nell’agricoltura, nelle costruzioni. La situazione è grave anche perché c’è un atteggiamento di scarso interesse da parte dei governanti haitiani. I vicini, hanno approvato una legge per espellere tutti gli haitiani che non hanno documenti. È un modo per ripulire Santo Domingo e le altre città da chi, secondo loro, non dà una bella immagine. Nonostante questo, ci sono sforzi che sono già stati fatti. Adesso sono i governanti haitiani che devono capire come gestire i rapporti con Rd, come trattare i problemi relativi al commercio e alla cultura. Come i due popoli possono vivere insieme. Occorre pensare a quello che ci avvicina, quello che è simile e quello che è diverso, per permettere dei rapporti e liberare dai pregiudizi. Ripensare il modo di vedere l’economia e la cultura haitiana, facendo attenzione al rapporto con la Rd. La storia tra i due paesi è complessa, e loro adesso sono più avanti come sviluppo, come educazione, università. Ci vuole uno sforzo da parte degli haitiani».

Marco Bello
con la collaborazione di Alessandro Demarchi




I dolori di Pristina


Dallo scorso febbraio il presidente della piccola repubblica è Hashim Thaçi, già leader del (controverso) Esercito di liberazione (Uçk). Sopito (ma tutt’altro che superato) il conflitto etnico con la minoranza serba, oggi il Kosovo rimane un paese in gravi difficoltà e con vari leader accusati di crimini di guerra e contro l’umanità.

26 febbraio 2016. Il parlamento di Pristina, capitale del Kosovo, elegge il nuovo presidente della giovane repubblica. Al terzo scrutinio, con 71 voti su 120,  viene nominato Hashim Thaçi, leader del «Partito democratico del Kosovo» (Pdk).

L’elezione di Thaçi, frutto di accordi politici tra il Pdk e il partner di governo, la «Lega democratica del Kosovo» (Ldk), non arriva a sorpresa: il segretario del Partito democratico è da tempo uno degli uomini politici kosovari più in vista. Nel 1999, durante la guerra combattuta – col supporto decisivo dell’aviazione Nato – per ottenere l’indipendenza dalla Serbia di Slobodan Miloševi?, Thaçi ha vestito i panni di leader politico e militare della guerriglia albanese-kosovara, «eroe» dell’«Esercito di Liberazione del Kosovo» (Uçk).

Il 17 febbraio 2008, stavolta come primo ministro, Thaçi era stato l’uomo che aveva pronunciato la sospirata dichiarazione di indipendenza del Kosovo, accolta con giubilo dalla folla festante nelle strade e piazze di Pristina.

A prima vista, l’investitura di Thaçi avrebbe dovuto quindi segnare non solo il coronamento della sua carriera politica, ma anche un momento di unione e celebrazione dell’intera società kosovara. Le cose, però, non sono filate così lisce.

Il dibattito che ha preceduto il voto è stato interrotto più volte dall’opposizione che – come già successo a più riprese nei mesi precedenti – ha tentato di bloccare la procedura lanciando fumogeni nell’aula parlamentare: protesta che ha portato all’espulsione di numerosi deputati.

Nelle strade del centro di Pristina, intanto, sono andate in scena pesanti scontri tra polizia e manifestanti, soprattutto sostenitori del movimento radicale Vetevendosje («Autodeterminazione») scesi in piazza al grido «Thaçi corrotto!», e terminati con un pesante bilancio di arresti e feriti.

Le parole solenni di Thaçi dopo la sua investitura – «Mi impegno a costruire un nuovo Kosovo, un Kosovo europeo» – non sono bastate a calmare gli animi: l’opposizione ha infatti annunciato ricorsi sulla regolarità del voto alla Corte costituzionale.

E come se non bastasse, il nuovo presidente rischia ora un’incriminazione da parte della nuova Corte speciale, che dal 2016 indagherà sui presunti crimini di guerra dell’Uçk durante e dopo il conflitto armato.

Dal parlamento alle piazze

Lo scontro cruento sull’elezione di Thaçi è la fotografia più efficace delle divisioni e fratture che oggi spaccano «il paese più giovane d’Europa», figlio della dissoluzione della Jugoslavia, del conflitto inter-etnico tra la comunità albanese e quella serba, di una guerra sanguinosa e della contestatissima dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia (oggi riconosciuta da più di 100 paesi, ma non dalla stessa Serbia, né da Russia, Cina e cinque paesi dell’Ue) del 2008.

La prima faglia si trova nelle difficoltà del sistema politico di dare vita a una democrazia sostanziale. Le ultime elezioni (giugno 2014), hanno disegnato un parlamento diviso, con il Pdk di Thaçi da una parte e una coalizione di partiti d’opposizione decisi a detronizzarlo dall’altra. Incapaci di trovare una soluzione mediata, i leader kosovari hanno dato vita a un autistico muro contro muro, che ha lasciato il paese senza governo per quasi sei mesi.

La crisi è stata risolta solo con il pesante intervento della comunità internazionale, che ha portato a un «patto innaturale» tra il Pdk e il principale partito d’opposizione, la Ldk, che ha voltato le spalle al patto anti Thaçi.

L’esito di quello scontro ha sciolto il nodo del governo, ma ha esacerbato la vita politica kosovara, portandola ad un livello parossistico di costante tensione, con l’opposizione ormai convinta di non avere alcuna possibilità di arrivare al potere tramite le ue.

Il confronto si è spostato quindi sempre di più nelle piazze, e qui ha incontrato una seconda faglia, quella che ancora divide il Kosovo lungo linee etniche.

La protesta si concentra infatti su alcuni aspetti dello storico accordo sulla normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia raggiunto nell’aprile 2013. L’intesa, primo accordo formale firmato dai due avversari, prevede un faticoso scambio: Belgrado si impegna a non interferire negli «affari interni» del Kosovo, smantellando le sue strutture di sicurezza ancora presenti sul territorio dell’ex provincia, Pristina acconsente alla creazione di una «Associazione delle municipalità serbe in Kosovo», che dovrebbe garantire ai serbi rimasti di godere di un’ampia autonomia locale.

Il vero obiettivo dell’intesa è «normalizzare» la situazione nel Nord del Kosovo, area a grande maggioranza serba che, dalla guerra del ‘99, rifiuta ogni tipo di integrazione nelle istituzioni di Pristina (leggere riquadro).

Quella che per il governo kosovaro è una concessione dolorosa, ma necessaria, per l’opposizione è un patto scellerato che rischia di creare un’ingestibile «entità serba» in Kosovo, sul modello della «Republika Srpska» (Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina) in Bosnia.

Una prospettiva da contrastare a tutti i costi, sia nell’aula parlamentare, trasformata in una curva di stadio, che nelle strade e piazze del Kosovo.

Fuga dalla povertà

Se la politica arranca, ampie fasce della società attraversano acque estremamente agitate. Il Kosovo resta una delle aree più povere del continente europeo, con un’economia basata soprattutto sulle rimesse della diaspora e sul consumo privato, mentre la produzione resta quasi assente.

Dopo anni relativamente positivi, il 2014 ha segnato lo stallo dei principali indicatori, con una debole crescita del Pil (0,9%), l’aumento del deficit nella bilancia dei pagamenti (-8%) e un calo negli investimenti diretti dall’estero (-2,3% del Pil).

Il dato più preoccupante riguarda però la mancanza di lavoro. Se il tasso di disoccupazione generale è al 35,3% (oltre il 38% tra le donne) quello giovanile registra il 61%.

Secondo i report della Commissione europea, il Kosovo è oggi in Europa il paese con i più bassi tassi di occupazione e partecipazione attiva alla vita economica.

Una situazione ormai incancrenita, che negli ultimi anni ha spinto decine di migliaia di persone a cercare opportunità di vita migliore nei paesi ricchi dell’Europa centro-settentrionale, utilizzando lo strumento della richiesta di asilo politico.

Un escamotage reso necessario dal fatto che il Kosovo – unico tra i paesi della regione – rimane ancora escluso dalla politica di liberalizzazione dei visti con l’area Schengen. Dalle 20mila richieste depositate da cittadini kosovari in stati Ue nel 2013, si è passati alle 37mila dell’anno successivo, fino ad arrivare a una vera esplosione nel corso del primo semestre 2015: ben 62.860 richieste.

Un vero e proprio esodo (la popolazione totale del paese è circa due milioni di abitanti), che è stato tamponato con una forte stretta sui controlli alle frontiere e con migliaia di rimpatri, volontari o forzati. Le cause profonde alla base della fuga non sono però state risolte. Accanto a difficoltà economiche e disoccupazione, ad affossare le speranze nate con la dichiarazione d’indipendenza del 2008 sono anche la corruzione diffusa, l’emarginazione di gruppi sociali ed etnici (come ad esempio i rom), la scarsa qualità dei servizi foiti dallo stato.

Tutti fattori che contribuiscono all’infiammabilità della situazione sociale e politica e, secondo molti osservatori, costituiscono terreno fertile per la tentazione jihadista. Secondo varie stime, circa 300 giovani kosovari si sono arruolati negli ultimi anni nelle fazioni più radicali impegnate nei conflitti in Siria e Iraq, come il fronte al-Nusra e il sedicente Stato islamico.

Numeri preoccupanti, che oggi fanno del Kosovo il paese europeo col maggior numero di foreign fighters pro capite, nonostante le frequenti operazioni di polizia e forze di sicurezza contro il fenomeno.

Accuse di crimini

Nonostante la prossima entrata in vigore dell’«Accordo di stabilità e associazione» con l’Ue, primo ed importante passo sulla strada dell’integrazione, il Kosovo resta oggi il paese balcanico più lontano da una futura membership europea.

Al tempo stesso, però, dal febbraio 2008 il paese ospita Eulex (European Union Rule of Law Mission) – la più grande missione Ue all’estero – schierata da Bruxelles per aiutare Pristina a consolidare le proprie istituzioni, soprattutto nel campo giudiziario e nella lotta a criminalità organizzata e corruzione.

Forte di 1.600 membri e di un budget annuale intorno ai 110 milioni di euro, Eulex – attualmente guidata dal diplomatico italiano Gabriele Meucci – è partita con grandi aspettative, ma si è scontrata sul terreno con la resistenza di parte della società kosovara e con una capacità limitata di incidere nel cambiamento, soprattutto sull’obiettivo centrale delle sue attività: la lotta a corruzione e criminalità organizzata. Già nel 2012 un report della Corte dei conti europea metteva in risalto che l’attività di supporto di Eulex era stata generalmente inefficace, mentre la corruzione rimaneva «endemica» in Kosovo.

A intaccare ulteriormente la credibilità della missione, nel 2014 è poi arrivato un grave scandalo: Maria Bamieh, procuratore britannico, ha accusato pubblicamente Eulex di aver coperto un caso di corruzione giudiziaria al proprio interno. Le accuse hanno spinto Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, a chiedere un rapporto sullo stato della missione, affidato a Jean-Paul Jacqué, professore di diritto francese.

Il rapporto, pur smentendo le accuse di corruzione, ha gettato però una certa luce sulle gravi carenze strutturali della missione, che è parsa incapace, o disinteressata, a combattere fino in fondo l’élite criminale che, in Kosovo, si sovrappone significativamente all’élite politica.

Nel frattempo, una nuova iniziativa europea ha fatto irruzione sullo scenario kosovaro, in risposta al rapporto prodotto nel 2010 per il Consiglio d’Europa dal senatore svizzero Dick Marty. In quel rapporto venivano accusati vari leader di spicco dell’Uçk, oggi leader politici, di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, soprattutto nei confronti delle comunità serba e rom. Secondo Marty, tra i crimini commessi c’è anche quello – infamante – dell’espianto di organi a prigionieri a fini di lucro.

Per indagare su accuse così pesanti, l’Ue ha creato una Special Investigative Task Force (Sitf), che nel 2014 ha confermato la fondatezza del «rapporto Marty». Ora le prove e le imputazioni raccolte dalla Sift aspettano di essere presentate di fronte a una «Corte speciale», che dovrebbe aprire i battenti entro il 2016.

Ufficialmente la Corte fa parte del sistema giudiziario kosovaro, ma avrà sede all’Aja, per proteggere i testimoni da pressioni e minacce, problema che ha minato molti dei processi a ex leader Uçk già tenuti dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, terminati in gran parte in contestate assoluzioni.

Tra i nomi dei possibili imputati, il più discusso è proprio quello del neo presidente Hashim Thaçi, citato più volte nel rapporto Marty come «esponente di spicco del mondo criminale kosovaro», ma anche numerosi leader, sia della compagine governativa che dell’opposizione.

Difficile prevedere l’impatto della Corte sulla vita politica del Kosovo: potenzialmente, il nuovo tribunale potrebbe però causare un vero terremoto a Pristina e dintorni.

Giovani con voglia di futuro

Nonostante la situazione socio-economica e politica, segnata più da ombre che da luci, tanti kosovari, soprattutto tra i giovani, non si rassegnano al presente e cercano con determinazione di costruire la propria strada verso il futuro. Un esempio importante è quello del gruppo di lavoro – cornordinato dal fondatore e amministratore delegato Mergim Cahani – di «Gijrafa.com», piattaforma e motore di ricerca tutto dedicato alle informazioni online in lingua albanese. Un progetto coltivato per anni e che, recentemente, ha attirato investimenti per oltre due milioni di dollari, cifra ragguardevole per il Kosovo.

Anche nel cinema le idee e le proposte non mancano. Nato nel 2002 per iniziativa di un gruppo di amici, il DokuFest di Prizren, città nel Kosovo Sud occidentale, è diventato negli anni uno dei punti di riferimento per il cinema documentario a livello sia europeo che internazionale e, nel 2014, ha registrato non meno di 18mila presenze. Più recentemente, nel 2015, è stata invece una produzione anglo kosovara a far parlare di sé: il cortometraggio Shok («Amico»), diretto dalla regista inglese Jamie Donoughue, ma con un cast tutto kosovaro che, dopo aver vinto numerosi riconoscimenti, è stato nominato agli Oscar 2015 nella categoria «film brevi».

Se c’è una storia che più di ogni altra rappresenta la voglia di farcela nonostante tutto, è però quella di Majlinda Kelmendi. Nata nel 1991 a Peja/Pe?, Majlinda si è imposta negli ultimi anni come uno dei talenti più puri del judo internazionale vincendo quasi tutto quello che si può vincere – campionato del mondo incluso – nonostante tutte le difficoltà dovute allo status incerto della federazione kosovara.

Ai giochi olimpici di Londra 2012 Majlinda ha dovuto partecipare con la squadra dell’Albania, visto che all’epoca il Kosovo non era stato ancora ammesso al Comitato olimpico internazionale. Oggi, però, dopo l’ingresso a pieno titolo del paese (2014), Majlinda può realizzare il suo sogno ed entrare nella storia: portabandiera designato, durante la cerimonia di apertura dei giochi di Rio de Janeiro di questa estate sarà la prima a far sventolare alle Olimpiadi i colori del Kosovo.

Francesco Martino