Pochissimi ricchi possiedono sempre di più, mentre aumenta il numero dei poveri nel mondo. Le cause sono scelte fiscali inadatte e politiche salariali che acuiscono il divario. E la situazione continua a peggiorare.
Ormai ci sono più miliardari a Pechino che a New York, a riprova del fatto che la ricchezza sta crescendo anche in paesi che una volta erano considerati del «terzo mondo».
La ricchezza cresce, ma la povertà non diminuisce, anzi in certe aree del mondo, ad esempio in Europa, sta aumentando. Nel suo recente rapporto «L’economia per l’1%», l’Ong Oxfam calcola che 62 miliardari hanno una ricchezza pari a metà della popolazione mondiale, possiedono da soli quello che 3 miliardi e mezzo di esseri umani si devono spartire.
In Europa il club dei più ricchi è formato da 342 miliardari che hanno un patrimonio di 1.340 miliardi di dollari. E, sempre in Europa, dal 2009 al 2013, i poveri assoluti, vale a dire di coloro che non riescono a pagarsi le cure se si ammalano o a riscaldarsi d’inverno, sono cresciuti di 7,5 milioni, portando il numero a superare i 50 milioni. In Italia, la percentuale delle persone colpite dalla povertà è cresciuta dal 2005 al 2014 passando dal 6,4% all’11,5%. Si tratta soprattutto di bambini e ragazzi sotto i 18 anni.
Dell’incremento della ricchezza prodottosi dall’inizio del secolo, il 50% è rimasto nelle mani dell’1% della popolazione mondiale.
Dunque i ricchi si arricchiscono e tengono la loro ricchezza ben stretta senza diffondee i benefici, smentendo clamorosamente la teoria del trickle down (sgocciolio), che ha ispirato le politiche economiche liberiste che puntavano a favorire i soggetti più forti e dinamici che avrebbero fatto sgocciolare la loro ricchezza fino ai settori sociali più deboli e poveri.
Trent’anni di valutazioni e decisioni sbagliate in economia hanno prodotto un mondo fortemente ineguale, dove la crescita avvantaggia chi è già ricco.
La principale di queste scelte sbagliate riguarda le tasse, ovunque sono state promosse politiche fiscali regressive: più sei ricco, meno paghi. L’Italia non fa eccezione: i governi di centrodestra (più liberisti degli altri) hanno abolito la tassa di successione, mantenuto sotto la media europea il prelievo sulle rendite finanziarie, allentato i controlli contro l’evasione. Viviamo nel paese d’Europa con maggior carico fiscale, ma sono i lavoratori, i consumatori e le piccole imprese che ne sopportano il peso, infatti le aliquote sui redditi più alti si sono dimezzate dal 1980 ad oggi. Il compianto Luciano Gallino in «Finanzacapitalismo», uscito nel 2011, affermava: «Se un lavoratore ha un imponibile di 28mila euro (circa 1.500 ore di lavoro) paga 6.960 euro di tasse, invece chi ha un capitale depositato dello stesso importo e non muove un dito ne paga 5.600».
Il magnate Warren Buffet ha avuto l’ardire di riconoscere che lui paga meno tasse di tutti gli altri dipendenti della sua società, persino meno della sua segretaria o degli addetti alle pulizie.
Queste politiche distorte hanno bloccato quello che gli economisti chiamano «l’ascensore sociale»: chi nasce povero oggi ha più probabilità di rimanere povero rispetto a cinquanta anni fa.
Dice l’economista Joseph Stiglitz, tra i primi a denunciare il fenomeno della disuguaglianza e i suoi rischi: «La maggioranza dei cittadini ha la sensazione di giocare a un gioco dove le carte sono truccate, per questo abbandona il tavolo», in altre parole non confida nelle istituzioni, non va a votare, perde il rispetto per la classe politica incapace di porre rimedio al problema o peggio asservita ai gruppi più ricchi.
Chi non prova vergogna di fronte allo scandalo dell’ingiustizia sono le imprese multinazionali pronte a strapagare i loro manager, comprimere i salari e ridurre i posti di lavoro.
Oxfam India denuncia che il Ceo (in italiano, l’amministratore delegato), della più importante azienda informatica indiana guadagna 416 volte di più di un proprio impiegato. Anche in Italia non si scherza: le differenze salariali tra dipendenti e manager vanno da 1 a 163, secondo il rapporto Fisac Cgil del 2015 un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni e 326 mila euro all’anno, un dipendente porta a casa una media di 26 mila euro lordi annui.
Questo spiega perché anche in Italia le risorse si concentrano sempre di più nelle mani di pochi e l’1% della popolazione detiene il 23,4% di tutta la ricchezza prodotta nel nostro paese.
Sabina Siniscalchi