Muhammad Alì la vita su un ring

Gianni Minà: persone che conosco

Minà e Ali
Stati Uniti
Gianni Minà

La prima volta che lo incontrai, dopo la sua trionfale Olimpiade del ’60 (medaglia d’oro nei mediomassimi a Roma), fu a Miami Beach (nel febbraio del ’64) alla vigilia del match con Sonny Liston che poi, nella prima sfida, fra il disappunto generale, si sarebbe ritirato alla settima ripresa per uno strappo muscolare a un braccio e si sarebbe accasciato a terra anche nella seconda (a Lewingston, Maryland) per un «diretto» che pochi avevano visto.

Così non è una cattiveria ricordare che il «brutto orso» Sonny era un pugile vincolato alla mafia, mentre Cassius Clay, classe 1942, era già un fenomeno sportivo per la velocità e la bellezza della sua boxe. Ma anche un fenomeno per il suo impegno civile e per la sua adesione alla fede islamica abbracciata dopo l’incontro con Malcolm X, l’ideologo di molti fratelli neri musulmani, protagonista delle lotte per i diritti delle minoranze che sarebbe poi morto tragicamente, assassinato – il 21 febbraio del 1965 – con sette colpi di arma da fuoco durante un comizio pubblico a Manhattan.

Con un inizio di gioventù così pieno di suggestioni, Cassius Clay che aveva cambiato il suo nome, «impostogli dal padrone bianco», in Muhammad Ali, era inevitabile diventasse… una mia «preda giornalistica» e che quindi io tentassi di intervistarlo, di capire chi fosse o sarebbe stato.

Mi aiutò nell’impresa l’avvocato Chauncey Eskridge, che amava l’Italia perché nella nostra terra aveva vissuto la parte finale della seconda guerra mondiale come aviatore a Tombolo, Pisa. Il mio primo incontro con Muhammad Ali risultò per me un’indimenticabile lezione di vita. Il giovane campione nero per quasi tutto il tempo delle domande, non mi dette granché retta. Detta più chiaramente: mi snobbò. Il nostro rapporto migliorò soltanto un poco nel finale, ma certo non avrei potuto presentarmi dal mio capo Maurizio Barendson, al Tg2, con quel modesto dialogo.

Lo scornop che avevo cercato era diventato, in poco più di mezz’ora, un autogol. Ma quando decisi di chiudere quella sconfitta giornalistica, fu proprio Muhammad Ali a cambiar tono: «Non sei contento vero? – mi disse mettendomi una mano sulla spalla -. Sai io credevo tu fossi uno di quei soliti giornalisti europei che attualmente non perdono mai l’occasione di tentare di insegnarmi a vivere. Shit people (gente di cacca, ndr) che non accetta il mio essere diverso. Ma con me dovrà farlo a forza. Non te la prendere, la prossima volta andrà meglio».

E fu così che imparai ad avere con lui un approccio rispettoso che, col tempo, divenne amicizia vera, anche per merito del suo allenatore, l’italoamericano Angelo Dundee.

Quando arrivavo dall’Italia, non perdevo tempo. Andavo subito al quartiere di allenamento del grande campione che, dopo la squalifica di 3 anni (dall’aprile del 1967 al 1971) per aver rifiutato, come fedele musulmano, di andare a combattere in Vietnam, era tornato sul ring e stava iniziando a percorrere un viaggio di dieci anni nel quale avrebbe scritto le pagine più entusiasmanti della boxe modea, specie nei match con Joe Frazier, Ken «Mandingo» Norton e George Foreman, una sfida leggendaria quest’ultima a Kinshasa, in Zaire (futuro Congo RD). Era il 30 ottobre 1974. Nella capitale congolese, «nel ventre di mamma Africa», Ali sostenne forse l’incontro più significativo della sua carriera, riconquistando un titolo che nessuno gli aveva mai tolto sul ring, se non il potere politico preoccupato dal fascino che un campione così grande poteva accendere nelle nuove generazioni contrarie alle guerre. Ali per 5 round, in quella notte indimenticabile, fu solo attento a come poteva sviare e mandare a vuoto i colpi di Foreman (campione olimpico a Città del Messico), e quando si accorse che i 40 gradi di calore e il quasi 90% di umidità avevano prosciugato l’avversario, gli inflisse, tre round dopo, un drammatico Ko che smentì tutti i pronostici degli esperti. Qualche minuto dopo, nello spogliatornio, dove lo avevamo raggiunto, volle sottolineare: «Questa notte sul ring c’era Allah. Non so se te ne sei accorto, ma c’era Allah». Per noi, più prosaicamente, era stato un capolavoro di tattica. Memorabile anche il terzo match con Joe Frazier, a Manila nelle Filippine, nel quale Smoking Joe, esausto, non trovò la forza di rialzarsi dallo sgabello per l’ultimo round. Se le gambe lo avessero retto, forse il verdetto sarebbe stato a suo favore, senza tirare più alcun pugno.

Anni dopo, per pagare le tasse dell’intransigente fisco nordamericano, toò sul ring e perse contro Larry Holmes, che era stato suo sparring partner. Alla conferenza stampa seguita al match fu capace di stregare ancora tutti. A Holmes, che lo elogiava come uomo, ancor prima che come pugile, con frasi come «Quest’uomo mi ha insegnato non solo la boxe, ma anche a vivere», regalò una battuta fulminante: «Allora perché mi hai menato?». E si aggiustò sul viso, per la prima volta tumefatto, gli occhiali da sole. Ali fu sommerso da una vera ovazione.

La parola per lui è stata una ricchezza quasi più dei pugni. Una metamorfosi che si può spiegare solo con le sue scelte religiose e il suo amore per la sincerità: «Nei primi quaranta anni della mia esistenza, il mio Dio mi ha dato così tanto che se adesso mi toglie qualcosa io sono sempre pari con la vita». Un’affermazione come questa si tenderebbe ad attribuirla a un intellettuale o a un politico e invece è di un uomo che, da 30 anni, resiste al morbo di Parkinson. Così penso non sia un caso che, già preso a pugni dalla malattia, nel novembre 1990, andò dal dittatore Saddam Hussein che teneva sotto sequestro alcuni cittadini degli Stati Uniti e, parlandogli da musulmano a musulmano, lo convinse a liberarli.

Non stupisce, dunque, quanto avvenne allo stadio di Atlanta per le Olimpiadi del ’96. Muhammad fu l’ultimo tedoforo che, con la sua mano tremante, accese il tripode. Tutto il pubblico aveva le lacrime agli occhi. Anche quello bianco.

Gianni Minà

 

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