Migranti nuovi untori

Migranti e malattie: miti e realtà (prima parte)

Italia
Rosanna Novara Topino

Tubercolosi, epatiti, scabbia, Hiv, gonorrea, sifilide, morbillo, rosolia. L’elenco delle patologie è lungo. Il quesito è: sono in aumento (anche) a causa dell’arrivo dei migranti? Cosa accadeva quando i migranti eravamo noi?

L’ultimo immigrato è sempre il peggiore. L’ondata di migranti che arriva sulle coste italiane e sui confini europei genera nelle popolazioni residenti mille preoccupazioni e spesso senso di rifiuto. Esattamente come accadde, tra la metà del XIX secolo e la metà del XX secolo, alle masse di emigranti che lasciarono l’Europa e l’Italia. Circa 25 milioni si sparsero in tutti i continenti e gli Stati Uniti, insieme a Argentina e Brasile, furono tra le mete principali, come si evince dai registri di Ellis Island, la piccola isola posta nella baia dell’Hudson davanti a New York, che, tra il 1892 ed il 1954, divenne il principale punto d’ingresso negli Usa. Qui i migranti venivano sottoposti a umilianti ispezioni mediche e poliziesche, prima di ottenere il visto d’ingresso nella nazione. Mentre fino al 1875 l’ingresso negli Usa era libero, successivamente furono poste restrizioni. Nel 1891 venne promulgato il Federal Act, che prevedeva l’esclusione degli «idioti», dei malati (soprattutto quelli contagiosi), dei poveri e di tutti quelli che potevano rappresentare un carico per la società. Non potevano inoltre entrare donne gravide non sposate (per timore che fossero prostitute), criminali, poligamici e lavoratori a contratto. A Ellis Island, dopo una prima rapida visita medica fatta in circa 6 secondi, in cui si controllava tra l’altro la presenza di tracoma con l’uso di uncini per rivoltare le palpebre, le persone giudicate non idonee venivano marchiate e fermate per ulteriori approfondimenti. Poteva seguire un periodo di ricovero più o meno lungo (la quarantena), oppure direttamente l’espulsione. In questo caso le navi, che avevano trasportato i migranti avevano l’obbligo di riportarli ai paesi d’origine. Chi superava la visita medica veniva poi sottoposto ad accertamenti per escludere pregressi guai giudiziari. In pratica gli accertamenti medici dovevano stabilire che chi entrava potesse aumentare validamente la forza lavoro necessaria al progresso della nazione e non fosse portatore di malattie contagiose pericolose per i residenti.

La stessa preoccupazione che, in questi anni, assale molti alla vista dei migranti che raggiungono l’Italia o altri paesi europei. Le domande a cui cercheremo di dare risposta sono dunque le seguenti: i migranti sono un pericolo per la nostra salute? Essi sono davvero portatori di malattie infettive, che potrebbero generare un’emergenza sanitaria per l’Italia e l’Europa? Le paure sono giustificate?

Paure e opportunismo politico

Nell’estate del 2015, alcuni comuni del savonese con giunte di centrodestra, tra cui Alassio, emisero ordinanze per impedire l’ingresso degli stranieri senza fissa dimora e privi di certificato medico attestante l’assenza di malattie infettive trasmissibili quali Hiv, tubercolosi, ebola, scabbia. Il Viminale chiese prontamente la revoca di tali provvedimenti. Per non parlare di quanto avvenne ad Asotthalom, un comune ungherese al confine con la Serbia, guidato da un sindaco appartenente a un partito di ultradestra, antisemita e anti Ue. Qui, l’estate scorsa, alle stazioni dei bus vennero affissi manifesti recanti avvisi e foto shoccanti, in cui si dichiarava che i migranti sono portatori di malattie infettive, per cui esisterebbe un reale pericolo di contagio, e si invitava a non toccare oggetti lasciati dai migranti senza guanti di protezione. In caso di contatto accidentale con tali oggetti e in presenza di sintomi come diarrea, vomito, esantemi cutanei, si raccomandava di contattare prontamente un medico. Oltre alle autorità municipali, tale avviso venne firmato anche da un rappresentante locale del governo di Budapest.

Le patologie

Leggendo il rapporto del 2014 dell’Ecdc (European Center for Disease Control) dal titolo «Valutazione del carico delle malattie infettive nella popolazione di immigrati nell’Unione Europea», ci si rende conto che, pur essendo presenti tra i migranti casi di malattie infettive, il maggiore pericolo che ne deriva per la nostra comunità è rappresentato dalla difficoltà di accesso alle cure per queste persone, con conseguente possibilità di contagio per patologie non curate. Questo rapporto ha preso in considerazione le più diffuse malattie infettive sia tra i migranti che nelle popolazioni ospitanti ed è basato sull’analisi di dati del sistema europeo di sorveglianza delle malattie infettive (European Surveillance System, Tessy), su una revisione della letteratura e su una indagine condotta da una rete di esperti selezionati in tutti i paesi Ue. In particolare il rapporto si è occupato di Hiv, tubercolosi, epatite B e C, gonorrea, sifilide, morbillo, rosolia, malaria e malattia di Chagas. Proviamo a dae un breve quadro.

Hiv – Tra il 2007 e il 2011, i migranti rappresentavano il 39% di tutti i casi di sieropositivi presenti sul territorio. In questo intervallo di tempo, l’incidenza di nuovi casi di Hiv è aumentata debolmente. Le popolazioni di migranti con maggiore incidenza sono state quelle latinoamericane e quelle dell’Europa centrale e dell’Est, mentre quelle dell’Africa subsahariana hanno dimostrato una diminuzione. Il 92% dei casi di Hiv tra i migranti è stato riscontrato negli stati dell’Europa occidentale e la maggior parte di essi riguardava persone provenienti dall’Africa subsahariana. Un elevato numero di casi di Hiv era dovuto a rapporti eterosessuali. Il modo predominante di trasmissione dell’Hiv tra i migranti tuttavia dipendeva dal paese d’origine. Per esempio, esiste un’alto numero di casi dovuti a rapporti omosessuali tra gli uomini latinoamericani. Il rapporto evidenzia inoltre che certe popolazioni di migranti sono a rischio di contrarre l’Hiv dopo il loro arrivo in Europa. Non si tratterebbe quindi di casi di «importazione», ma di migranti suscettibili a contrarre l’infezione una volta arrivati nell’Ue, probabilmente a causa di comportamenti a rischio e mancanza di modelli di prevenzione. La diagnosi tardiva di Hiv per i migranti è una questione chiave in alcuni paesi dell’Ue. Inoltre queste persone spesso presentano meno indicatori clinici e immunologici al momento della diagnosi, rispetto ai casi di Hiv europei. L’età media degli immigrati con sieropositività è di 32 anni. Circa il 35% degli immigrati Hiv positivi è di origine nigeriana, ma se si considera il tasso standardizzato (che tiene conto della distribuzione della popolazione per età, ndr) il paese di provenienza più rappresentato è il Camerun. Il 78% di nuove diagnosi in Italia riguarda stranieri irregolari. Le principali co-diagnosi registrate con la diagnosi di Hiv sono anemia, epatopatie, infezioni dell’apparato genitale e mutilazioni genitali femminili.

Tubercolosi – La maggioranza dei casi di tubercolosi (Tb) in Europa si riscontra tra le popolazioni native. Tuttavia questa patologia viene frequentemente riscontrata anche tra i migranti. La percentuale di casi di tubercolosi tra i migranti ha avuto un aumento dal 10% nel 2000 al 25% nel 2010. Vi sono però significative differenze nel numero di migranti colpiti, a seconda del paese ospitante. Nel 2011, nazioni come Cipro, Islanda, Olanda, Norvegia, Svezia e Regno Unito hanno registrato fino a più del 70% di casi di tubercolosi fra i migranti, mentre altri paesi hanno registrato pochi o nessun caso. Il picco di questa patologia si verifica per la classe di età 25-34 anni, la più rappresentata nei paesi ospitanti. Sicuramente, e questo riguarda tutte le patologie prese in esame, esiste un certo grado di sottonotifica della malattia e inoltre la frammentarietà dei dati varia tra i diversi gruppi etnici, per via della percentuale di immigrati irregolari nelle diverse comunità. Il rischio di sviluppare la tubercolosi è maggiore nei primi due anni dalla data di arrivo. I dati del Sistema di notifica italiano mostrano come fino al 2007 i casi di tubercolosi tra i migranti insorgevano prevalentemente entro i primi due anni di permanenza in Italia, mentre dal 2008 c’è stata un’inversione di tendenza, con un aumento dei casi insorti a cinque anni e oltre dall’arrivo. In generale, sebbene l’incidenza della tubercolosi sia diminuita negli ultimi anni, la popolazione immigrata presenta un rischio relativo di contrarre la malattia 10-15 volte superiore rispetto alla popolazione italiana e a quella della maggior parte dei paesi europei.

Trattamento Tb – La proporzione di casi di Tb trattati con successo a 12 mesi dall’inizio della malattia risulta inferiore per i migranti rispetto ai nativi. In Italia i casi di tubercolosi tra gli immigrati sono aumentati considerevolmente, passando dal 10% delle notifiche nel 1995 al 58% nel 2012. Secondo i dati dell’Oms, nel 2014 in Italia sono stati notificati 3.600 casi di tubercolosi totali, con 290 decessi, di cui 31 pazienti Hiv positivi. Il tasso d’incidenza stimato è stato pari a 6 casi su 100.000 abitanti, valore che pone l’Italia tra i paesi a più bassa incidenza per la tubercolosi. Uno studio condotto sulla frequenza di nuovi casi di Tb nella popolazione straniera non ha registrato un aumento dei tassi di incidenza (il conteggio annuale dei nuovi casi di una determinata patologia, ndr) della patologia, indicando che l’aumento dei nuovi casi sarebbe da ascriversi alla crescita degli stranieri in Italia. Questo dato dovrebbe contribuire a ridimensionare la preoccupazione riguardante la diffusione della tubercolosi in forma epidemica. Tuttavia sono talora segnalate delle criticità nella gestione dei pazienti e nella loro accessibilità ai servizi socio sanitari. In particolare alcuni studi hanno evidenziato una perdita al follow up (i controlli medici successivi alle terapie, ndr) superiore tra gli stranieri che tra gli italiani. Inoltre, gli immigrati hanno spesso dimostrato una bassa adesione ai protocolli terapeutici sia per la loro elevata mobilità, sia per difficoltà di comunicazione con gli operatori sanitari. Le barriere culturali e linguistiche spesso giocano un ruolo particolarmente importante nei confronti di una patologia come la tubercolosi, che richiede trattamenti di lunga durata in soggetti spesso asintomatici. Ci sono poi gli immigrati irregolari, che possono sfuggire ai sistemi di sorveglianza per timore di essere espulsi. Tutto questo potrebbe provocare un incremento di forme resistenti ai farmaci, sul nostro territorio, del mycobacterium tuberculosis, il micobatterio della tubercolosi. In Europa i migranti colpiti da tubercolosi provengono soprattutto dall’Asia e dall’Africa, oltre che da altre regioni europee. In Italia, le nazioni di origine più rappresentate tra gli affetti da Tb sono: Etiopia, Pakistan, Senegal, Perù, India, Costa d’Avorio, Eritrea, Nigeria, Bangladesh e Romania. I dati a nostra disposizione dimostrano che la malattia colpisce i migranti a un’età inferiore rispetto a quella dei nativi, che la possibilità di contrarre forme di «Tb extrapolmonare» (che colpisce organi diversi, ndr) è doppia tra i migranti, mentre tra loro è meno comune la «Tb multi-resistente» (agli antibiotici, ndr).

Coinfezione Hiv/Tb – Ciò che è emerso dagli studi è che l’immigrato proveniente da paesi ad alta endemia di Tb e Hiv ha un elevato rischio di sviluppare una o entrambe le malattie, una volta giunto nel paese ospitante. La migrazione costituisce infatti di per sé un fattore di rischio per il cambiamento dello stile di vita a cui vanno incontro queste persone, caratterizzato da precarie condizioni socio economiche e sistemazione in luoghi spesso particolarmente sovraffollati e privi di ogni genere di comfort. L’attiva ricerca di nuovi farmaci per contrastare l’Hiv si contrappone all’innovazione di una terapia antitubercolare stabile da più di mezzo secolo. Inoltre l’infezione da Hiv rappresenta il maggiore fattore di rischio di sviluppo della tubercolosi in soggetti con Tb latente. Infatti il rischio di sviluppo della Tb è da 20 a 37 volte maggiore tra i sieropositivi, rispetto ai sieronegativi da Hiv. Si stima che più di un milione di persone nel mondo abbiano una coinfezione Hiv/Tb, soprattutto nell’Africa subsahariana e in Asia. I dati italiani dimostrano un’elevata cutipositività alla tubercolina (test atto a scoprire i soggetti infettati dal bacillo, ndr) tra gli immigrati al momento dell’arrivo nel nostro paese, indice di pregressa infezione. Sulla base di questi dati si può ipotizzare che lo sviluppo della malattia sia conseguenza, nella maggior parte dei casi, di riattivazione di pregresse infezioni allo stato latente. Dal momento che la maggior parte degli episodi di malattia si manifesta precocemente, si può ipotizzare il ruolo primario delle condizioni socio economiche dei migranti, particolarmente sfavorevoli nel primo periodo di migrazione.

Gonorrea e sifilide – I dati relativi ai migranti colpiti da queste due malattie veneree sono disponibili solo in poche nazioni europee e sono spesso incompleti. Facendo un confronto con i dati delle popolazioni autoctone, si osserva che, nel 2010, l’11% dei casi di gonorrea ha riguardato i migranti, contro il 50% dei casi nei nativi, mentre si sono riscontrati casi di sifilide nel 7,3% dei migranti e nel 55,4% dei nativi. Tra il 2000 ed il 2010, la percentuale di casi di gonorrea e sifilide tra i migranti è rimasta stabile. Tuttavia, per quanto riguarda la gonorrea, il rapporto maschi/femmine per i nativi colpiti dalla malattia è rimasta stabile, mentre per i migranti sono aumentati i casi di donne malate. I dati a disposizione suggeriscono che i migranti acquisiscono la gonorrea con i rapporti eterosessuali quattro volte più facilmente che con quelli omosessuali. La percentuale dei casi di gonorrea tra i «lavoratori del sesso» è decisamente superiore tra i migranti, che tra i nativi ed appare significativamente in aumento dal 2006. Per quanto riguarda la sifilide, essa viene contratta maggiormente con i rapporti eterosessuali dai migranti e con quelli omosessuali dai nativi.

Epatite B – Nel 2011, 18 nazioni europee hanno fornito dati relativi ai casi di epatite B tra i migranti per il 39,1% di tutti i casi riportati all’Ecdc. Di questi ultimi, più della metà, cioè il 52,6%, erano casi «importati». Il 6,3% di questi casi era di tipo acuto e l’81,5% di tipo cronico. I dati a disposizione dimostrano una prevalenza di casi di epatite B cronica tra i migranti, rispetto ai nativi. Inoltre si evince che la prevalenza dei casi di epatite è maggiore tra i migranti provenienti da paesi ad alta endemia come quelli dell’Europa dell’est, dell’Asia e dell’Africa subsahariana. Mentre i casi di epatite B tra gli europei si riscontrano più frequentemente in gruppi a rischio come gli omosessuali ed i consumatori di droghe per via endovenosa, i casi tra i migranti sono stati più frequentemente acquisiti nei paesi d’origine, spesso con trasmissione verticale madre-figlio.

Epatite C – Sebbene i dati a disposizione al riguardo siano molto frammentari, essi suggeriscono una prevalenza di infezioni croniche tra i migranti. I dati provenienti da Francia, Regno Unito, Spagna e Olanda suggeriscono una prevalenza dei casi di epatite C soprattutto tra i migranti provenienti da paesi in cui la malattia è endemica, rispetto alla popolazione totale. Al momento tuttavia i dati a disposizione sono insufficienti per valutare il trend.

Morbillo e rosolia – Dei 10.271 casi di morbillo riportati nel 2013 dal sistema Tessy, solo il 2,7% erano «importati» e lo 0,3% correlati a migranti. I dati a disposizione suggeriscono che i figli dei migranti si ammalano di morbillo più facilmente di quelli degli europei perché la loro copertura vaccinale è inadeguata.

Per quanto riguarda la rosolia, dei 201 casi riportati dal Tessy nel 2011, l‘8,5% è risultato di «importazione». Anche in questo caso il maggiore fattore di rischio è rappresentato dalla vaccinazione inadeguata tra i migranti, in particolare tra le migranti gravide.

Malaria – Il 99% dei casi di malaria riportati dai paesi europei sono di «importazione». I casi indigeni in Europa potrebbero essere dovuti alla presenza dei vettori della malattia e a favorevoli condizioni di trasmissione della medesima, combinate con l’arrivo e il rapido tu over dei lavoratori stagionali migranti da zone dove tale malattia è endemica. In una serie di studi, gli immigrati da poco tempo e quelli che periodicamente tornano nel loro paese d’origine rappresentano dal 5% all’81% del totale dei casi di malaria registrati in Europa. In particolare coloro che spesso tornano nel loro paese d’origine hanno dimostrato una maggiore suscettibilità all’acquisizione della malaria. Tra costoro, le persone più a rischio sono le donne gravide ed i bambini. Anche il paese d’origine influenza il profilo della malattia. La malaria dovuta al Plasmodium falciparum, ad esempio, si sviluppa principalmente in migranti provenienti dall’Africa subsahariana.

Malattia di Chagas – Nota anche come tripanosomiasi americana, è una parassitosi, causata dal protozoo Trypanosoma cruzi. I vettori sono insetti appartenenti alla sottoclasse delle cimici ematofaghe di generi diversi. È presente in Europa a seguito della migrazione da paesi latinoamericani, in cui è endemica. Sebbene la malattia non sia sistematicamente monitorata nelle nazioni europee, tuttavia il numero di casi è aumentato nell’ultimo decennio, al punto da destare preoccupazione. Spagna, Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Olanda sono le nazioni più colpite.

 

Ebola – Dato l’elevato grado di letalità di questo virus, che ha un periodo d’incubazione di 21 giorni e che, dopo avere provocato una malattia estremamente debilitante, uccide in pochi giorni e in considerazione della lunghezza temporale delle migrazioni, che normalmente durano mesi, è estremamente improbabile che qualche persona colpita riesca a raggiungere l’Europa. Infatti finora non sono stati segnalati casi di Ebola tra i migranti.

Dall’analisi dei dati dell’Ecdc risulta che i migranti normalmente non sono portatori di malattie esotiche, ma solitamente sono persone partite sane dai paesi d’origine, che però si trovano ad avere necessità di assistenza sanitaria per malattie dovute alle nuove condizioni esistenziali.

Da Manzoni ai giorni nostri

Fatte queste premesse, nella prossima puntata cercheremo, tra l’altro, di rispondere a un quesito che la quotidianità e certa politica ci propongono: gli immigrati sono i nuovi «untori» di manzoniana memoria?

Rosanna Novara Topino

(fine prima parte)

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Rosanna Novara Topino
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