Ecuador: da dieci anni Rafael Correa

Dal gennaio 2007 l’economista Correa guida il piccolo paese latinoamericano. Rispetto al passato, l’Ecuador è migliorato, soprattutto nel campo dei servizi pubblici: strade, ospedali, scuole. Al presidente viene però contestato di non aver speso bene il fiume di denaro entrato nel paese con la rendita petrolifera. E di avere spesso un atteggiamento autoritario, come dimostra anche la recente approvazione di 15 emendamenti alla Costituzione del 2008, quella del «buen vivir». Abbiamo raccolto qualche opinione per le strade della vecchia Quito, l’affascinante capitale del paese.

Quito. Quando il cielo è terso, se si alzano gli occhi, si vedono la collina de El Panecillo con la gigantesca statua della Vergine di Quito e, spostando leggermente lo sguardo, il Pichincha, il vulcano alle cui falde nel 1534 i conquistatori spagnoli costruirono la futura capitale dell’Ecuador, a 2.700 metri d’altezza (media). Alla domenica la città vecchia è (ancora) più bella perché circolano meno auto rispetto agli altri giorni. E poi alcune delle sue strettissime vie, almeno per alcune ore, sono chiuse al traffico. Una di queste strade è la calle García Moreno, più nota come «la calle de las Siete Cruces», per via delle sette grandi croci in pietra costruite a lato di altrettante chiese di sette diverse congregazioni. Passiamo davanti a una delle chiese più famose, quella della Compagnia di Gesù, con la sua facciata barocca in pietra vulcanica e i suoi interni ricoperti con oro (pan de oro).

Percorse poche centinaia di metri, si raggiunge la piazza dell’Indipendenza, più conosciuta come Plaza Grande: raccolta, curata, accogliente. Si notano alcune giovani indigene che, con in testa il loro tipico cappello in feltro (sombrero o bombín), camminando (non si può occupare il suolo della piazza con la merce), offrono i loro coloratissimi foulard. Altre donne, questa volta meticce, vendono gelato sciolto attingendolo da un contenitore portato a tracolla. Al centro della piazza, attorno alla statua degli eroi del 10 agosto 1809 (un primo tentativo d’indipendenza, poi fallito), sostano diversi uomini che, dietro pagamento, scattano foto ricordo subito stampate. Sotto i portici del palazzo arcivescovile lavorano alcuni lustrascarpe ufficiali, con tanto di sedia con il logo della città. Su un altro lato sta il bianco Palacio de Carondelet, il palazzo presidenziale che ospita il governo e il presidente della Repubblica. Su quello opposto i palazzi (modei) del governo municipale. Infine, sul quarto lato troneggia la cattedrale metropolitana sulla cui scalinata in pietra scura siedono cittadini e turisti.

La «Revolución ciudadana» e l’economia

A pochi metri dalla scalinata della chiesa c’è un assembramento di una ventina di persone, uomini e donne di mezza età. Ci avviciniamo per capire meglio e, con grande sorpresa, ci accorgiamo che stanno parlando di politica. Al centro, un uomo sorregge un cartello, titolato Pensamiento libre, con fotografie di volti di politici e altre persone influenti che vengono definiti golpisti e fautori di una restaurazione conservatrice (restauración conservadora) a discapito della Revolución ciudadana (la «Rivoluzione dei cittadini»), il nome dato al programma di governo del presidente Rafael Correa, un economista di formazione cattolica.

Una donna dice: «Guardiamo agli altri paesi e facciamo il confronto. Il nostro paese ha avuto 9 anni di stabilità e di pace». Si riferisce al periodo di presidenza di Rafael Correa, in carica dal gennaio 2007. Alcuni – la maggioranza – annuiscono con la testa, altri non condividono. Un uomo interviene per dire che la vita è troppo cara (cosa reale, anche a causa della dollarizzazione, l’adozione del dollaro statunitense come valuta nazionale, avvenuta nel 1999). Un altro ribatte che i beni di prima necessità come il pane hanno da anni lo stesso prezzo. Un altro parla del lavoro. «A volte per noi uomini manca. Però se uno ha voglia di lavorare, qualcosa trova. Certamente occorre adattarsi. Se l’unico lavoro è scaricare patate, io lo faccio». Non c’è abbastanza produttività, grida una persona con uno zainetto. Gli risponde un uomo che indossa un paio di occhiali: «Il governo fa strade e ospedali e io ne sono contento. Ma non può pensare a tutto. La gente deve lavorare, perché bisogna seminare per poter raccogliere».

Una persona grida che il governo è corrotto. Un giovane con caschetto da ciclista gli risponde: «Queste persone sono quelle che mai avevano pagato le tasse. Sono le persone che sfruttavano i lavoratori».

Sull’economia dell’Ecuador le opinioni sono però molto discordanti. In generale, si concorda che in questi anni sono migliorati molti servizi pubblici: la rete stradale, le scuole, gli ospedali. E il tasso di povertà è passato – stando a cifre ufficiali – dal 36,74% del dicembre 2007 al 23,28% del dicembre 20151. Nonostante i miglioramenti, dunque, una persona su 4 è povera. Nella (sacrosanta) lotta alla povertà, il governo Correa ha anche utilizzato lo strumento (non esente da rischi) del sussidio, il cosiddetto Bono de Desarrollo Humano: 50 dollari mensili distribuiti a 2 milioni di persone (su una popolazione di 16). Detto questo, si obietta però che nessun presidente ha potuto disporre di tante entrate pubbliche come Correa e che non c’è corrispondenza tra l’ammontare di queste e le spese pubbliche. Tra l’altro, dato che le entrate derivano per la quasi totalità dalla vendita delle risorse petrolifere, oggi, con il crollo verticale del prezzo del petrolio, le debolezze strutturali dell’economia stanno venendo alla luce. Senza arrivare a sposare il giudizio categorico dell’economista Eduardo Válencia Vásquez, professore alla Pontificia Università Cattolica dell’Ecuador (Puce), che considera Correa affetto da «attitudine politica bipolare» (socialista a parole, neoliberista nei fatti)2, è certamente vero che l’economia ecuadoriana è rimasta ancorata a un modello estrattivista e monoculturale, che tra l’altro sta producendo gravi danni all’ambiente e ai diritti delle popolazioni indigene.

La «Revolución ciudadana» e i media

L’uomo che sorregge il cartello dice: «Qualcuno dice che in Ecuador non c’è libertà d’espressione. Questo è un falso. Però se io sono ingiuriato o calunniato, debbo essere protetto e il colpevole deve pagare». Nel 2013 l’Ecuador ha varato una legge sui media, la Ley orgánica de comunicación, che – pur partendo da buoni principi (democratizzare la comunicazione, impedire le concentrazioni, eccetera) – ha finito con l’esercitare pressioni indebite sui media. Fermiamo un giovane che si aggira con una piccola macchina fotografica e un registratore. «Tutti dovremmo essere giornalisti. Perché la verità è un diritto. La verità è vita», ci spiega.

Nel dicembre 2015 ci sono stati 15 emendamenti alla Costituzione, votati dall’Assemblea legislativa (senza alcuna consultazione popolare)3. Uno di essi ha trasformato la comunicazione da «diritto» a «servizio pubblico». Secondo molti esperti, questo è un passo indietro perché attribuisce allo Stato il potere finale di decidere sulla libertà d’espressione.

La «Revolución ciudadana» e l’istruzione

Un uomo ci tira in disparte per farci sapere la sua opinione: «Abbiamo un presidente di prima classe amato dal popolo. È una persona che, ad esempio, ha dato istruzione gratuita e le migliori università del mondo ai nostri giovani. È una leggenda. Oserei dire che è un miracolo di Dio». Si riferisce ai programmi denominati Escuelas del Milenio (a discapito, però, delle scuole bilingui) e Globo Común, con quest’ultimo che permette ai migliori studenti di andare a studiare a spese dello stato in molte università inteazionali.

A Quito il sole è ormai calato e la nuova temperatura suggerisce di indossare una maglia. L’improvvisato, e sorprendente, dibattito pubblico tra persone della strada sta volgendo a conclusione.

Prima di andarcene, alcuni ci ricordano che domani, lunedì, potremo vedere il presidente Rafael Correa salutare la piazza dal balcone del suo palazzo, come fa quasi tutti i lunedì in occasione della cerimonia del cambio della guardia.

Saluti e applausi

È lunedì e la Piazza Grande è in fermento. Davanti al Palacio de Carondelet sono state sistemate delle sedie pieghevoli dove siedono alcune classi di giovani studenti, tutti indossando le rispettive divise scolastiche.

Dai lati si muovono verso il centro della piazza i Granaderos de Tarqui, lo speciale corpo dell’esercito adibito a scorta presidenziale: c’è la banda musicale e il gruppo a cavallo. Intanto, sulla torre del palazzo, viene issata un’enorme bandiera nazionale. Dal terrazzo del palazzo presidenziale si affaccia finalmente Rafael Correa, circondato dai suoi collaboratori. Lui saluta la folla in tripudio.

La banda militare – composta da trombe, sassofoni, clarinetti, tromboni e tamburi – inizia a suonare, subito accompagnata dal canto spontaneo delle persone in piazza. Dietro la banda, con passo cadenzato, sfilano i lancieri e sui lati della piazza i granatieri a cavallo.

Tutta la cerimonia – dura pochi minuti – si svolge con ordine e sincronia sotto gli occhi del presidente, che al termine saluta dal balcone, prodigo di sorrisi.

Momenti intensi che qualcuno potrebbe definire d’impronta populista, ma che in realtà sono parte di una sorta di «Dna latinoamericano» che non va disprezzato, perché in qualche modo avvicina la gente comune al mondo della politica. Tuttavia, in questi anni di Revolución ciudadana molte speranze si sono rivelate infondate ed errori (economici e culturali) sono stati commessi.

Con i controversi emendamenti costituzionali del dicembre 2015 è stata anche introdotta la possibilità della rielezione senza limiti per tutte le cariche pubbliche. Per la presidenza questa possibilità sarà però possibile soltanto a partire dal 24 maggio 2017. Dunque, alle prossime elezioni del febbraio 2017 Correa non potrà ripresentarsi. La sua è stata una buona mossa, indipendentemente dal fatto che essa sia stata dettata da una scelta etica o da mero opportunismo politico.

Vicino a noi, un vecchietto indossa uno spolverino con una foto del presidente. Gli chiediamo un parere su Correa: «È il migliore presidente che l’Ecuador abbia mai eletto. Ho 86 anni, ma con lui arriverò a 100». Un altro signore si avvicina a noi: «Adesso sì che abbiamo un paese di tutti. Soprattutto di quelli che prima non avevano voce».

Detto questo, occorre constatare che l’Ecuador non è diventato il paese del «buen vivir» (sumak kawasay, in lingua quechua), come prometteva la Costituzione del 2008. Peraltro bellissima.

Paolo Moiola
(fine prima puntata)