Ogni anno oltre tre milioni di persone nel mondo perdono la vita a causa dell’alcol. Ma il problema non riguarda solo il singolo individuo. Da qui la creazione di «club» in cui intere famiglie si riuniscono per superare insieme le difficoltà.
C’è Franco, 68 anni, ex dirigente di una multinazionale, andato in crisi con il sopraggiungere della pensione; Maria, caduta in depressione in seguito alla morte del marito; Giulia e Gianni, che dopo molti tentativi hanno dovuto rassegnarsi a non avere figli; e poi Marcello, che ha solo 17 anni ma già da sette si ritrova ogni settimana con il padre e gli altri membri del club. Un club «speciale» dove si può ridere e scherzare, ma anche piangere e sfogarsi; dove tutti fanno amicizia e finiscono per brindare ai successi l’uno dell’altro: ma sempre, rigorosamente, senz’alcol. Stiamo parlando dei Cat, i Club alcologici territoriali fondati negli anni ‘60 dallo psichiatra crornato Vladimir Hudolin e presenti oggi in oltre 30 paesi del mondo.
Metodo ecologico-sociale
Nell’ospedale psichiatrico di Zagabria dove lavorava, Hudolin si era accorto che molti pazienti erano alterati non perché «matti», ma perché sotto i fumi dell’alcol. Si convinse allora che i bevitori non erano malati da trattare con i farmaci (o, peggio ancora, viziosi da disprezzare), ma persone che avevano sviluppato un’abitudine di vita scorretta, portatrice di sofferenze fisiche, psicologiche, relazionali. Per uscie, il bevitore doveva quindi cambiare le sue abitudini modificando il proprio stile di vita. Il che poteva avvenire in modo tanto più facile e duraturo quanto più nel processo di cambiamento era coinvolta l’intera famiglia. Nasceva così il metodo ecologico-sociale. Sociale perché, attraverso le famiglie, produce un effetto positivo sull’intera società: infatti i problemi alcol correlati (patologie fisiche e psichiche, incidenti d’auto o sul lavoro, violenze domestiche, ecc.) interessano il 75% della popolazione. Ed ecologico perché, per una vita più sana, occorre ripulire non solo l’ambiente ma anche la cultura (vedi box), liberandola dagli aspetti che favoriscono l’impiego di sostanze dannose. Esistono infatti in tutto il mondo tradizioni che favoriscono il consumo di alcol, ad esempio alcune popolazioni latinoamericane consigliano alle puerpere di bere birra per aiutare la produzione di latte. Anche in Italia ci sono credenze, soprattutto d’origine contadina, molto radicate: «Avevo 5 anni e il nonno nei giorni di festa insisteva per farmi bere lo spumante, dicendo: dai che ti fa bene, prima inizi e più ti rafforzi», racconta Mario, che da adulto ha dovuto rivolgersi ai club per risolvere quello che per lui era diventato un problema.
Lo spazio per i bambini
Oggi in Italia i club alcologici sono 2.050, e raggruppano 20.000 famiglie. La partecipazione di queste, spiega Stefano Alberini dell’Acat, l’associazione dei club, «costituisce una differenza significativa rispetto ad altri gruppi di auto mutuo aiuto (che spesso, inoltre, tendono a considerare il bere come una malattia a tutti gli effetti, nda)». Il coinvolgimento dei familiari nei club hudoliniani avviene quasi in maniera naturale: «È raro che un bevitore prenda l’iniziativa di chiedere aiuto, per vergogna o perché nega il problema anche a se stesso. Nella maggioranza dei casi sono proprio i familiari a contattarci e, specie all’inizio, sono loro che cominciano a frequentare il club per primi».
Ma come funziona la vita dei club? Ognuno comprende da 2 a 12 famiglie che si riuniscono a cadenza settimanale, bambini inclusi, insieme a un facilitatore detto «servitore insegnante» (lo si può diventare dopo una specifica formazione, aperta anche a chi è già membro di un club).
Negli incontri ognuno si esprime in libertà, racconta come ha trascorso la settimana, condivide dolori e difficoltà, ma anche conquiste e progetti per il futuro. «Ci si concentra sul qui e ora, evitando di rivangare gli aspetti penosi del passato e cercando di far emergere le risorse e le forze positive» spiega Alberini, da 26 anni servitore insegnante a Guastalla (Re). Le regole del club sono poche ed essenziali: puntualità, divieto di fumare o usare il cellulare durante gli incontri, ascoltare gli altri senza giudicare, rispetto della privacy e segretezza su quanto viene detto.
Potrebbe stupire la partecipazione dei bambini, visto lo «spessore» dei discorsi e degli argomenti affrontati, e visto l’orario (in genere i club si riuniscono dopo cena per un’ora e mezza, due). In realtà la loro presenza è molto positiva: «Portano freschezza, allegria e serenità», dice Franco, membro di un club di Livoo, e lo è sia per gli adulti che per loro stessi. Lo conferma Alessio, che oggi ha 20 anni e frequenta un club dall’età di 8. «A casa stavo male, mio padre beveva ed era spesso assente, non aveva mai tempo per me o per mia madre, rientrava tardi ed erano continui litigi. Anche mamma aveva iniziato a bere. La prima volta che siamo andati al club, a fine serata il servitore insegnante ci ha detto di buttare tutte le bottiglie che c’erano in casa, e noi l’abbiamo fatto. Ero piccolo, e durante gli incontri mi facevo i fatti miei, giocavo, disegnavo, però ogni tanto tendevo l’orecchio. Capitava anche che intervenissi, rimproverando mio papà se lo sentivo raccontare bugie…». Un’esperienza che, alla fine, è stata positiva per tutta la famiglia: il papà di Alessio ha smesso di bere, diventando poi lui stesso servitore insegnante di club. E Alessio (che, inutile dire, è astemio) ne ha seguito le orme: da un anno è facilitatore di un club, e da cinque fa sensibilizzazione nelle scuole sui rischi legati ad alcol, fumo, gioco d’azzardo.
Famiglie solidali
Ma se qualcuno è meno fortunato e non ha familiari che possano (o vogliano) partecipare al club? «Questo è stato il mio caso», racconta Bianca, 51 anni, che frequenta un club a Torino. «Ho iniziato a bere dopo la morte di mia madre, anche lei con problemi di alcol, e sono andata avanti per otto anni. A un certo punto ho sentito di aver toccato il fondo e, malgrado un’enorme vergogna, mi sono rivolta a un club. Ho trovato però incomprensione e ostilità da parte di mio fratello e di mio padre che, visti i trascorsi familiari, mi hanno liquidata dicendo di aver “già dato”». Nel club Bianca ha trovato una seconda famiglia, che l’ha aiutata a ricostruirsi una vita. «Adesso non bevo da quattro anni, ho di nuovo un lavoro, e c’è stato anche un riavvicinamento con mio padre. Ma, certo, non avere vicini i miei cari mi ha reso tutto più difficile».
In casi simili, all’interno del club è prevista la figura di «familiari solidali» che affiancano la persona sola: possono essere amici o altre famiglie del club. «Si tratta di una forma di cittadinanza attiva, quella solidarietà intesa come interdipendenza fra individui di cui parlava Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis: non una vaga compassione o un superficiale intenerimento per chi si ritiene “portatore” del problema, ma un’autentica condivisione, perché comprendo che potrei essere io a trovarmi al posto dell’altro», spiega Alberini. «Come dice la Sollicitudo, tutti siamo responsabili di tutti. E alla fine, come sanno bene i servitori insegnanti e i membri del club, partecipare agli incontri è per ciascuno fonte di benessere e arricchimento personale, e occasione per sviluppare nuove amicizie». Spezzando il cerchio della solitudine in cui l’alcol imprigiona.
Astinenza e sobrietà
L’approccio hudoliniano punta non tanto all’astinenza, cioè la rinuncia all’alcol, quanto alla sobrietà intesa come percorso di crescita e maturazione. «Se, ad esempio, uno smette di bere ma continua con i suoi vecchi comportamenti, in famiglia e fuori, significa che non è ancora sobrio», spiega Alberini. A cambiare stile di vita dovrebbe essere l’intera famiglia, sia smettendo di bere, per rispetto e sostegno alla persona, sia cercando di intervenire sulle dinamiche relazionali che sono causa/effetto del problema.
Non bisogna però pensare che i club siano la panacea per tutti i mali. Roberto, 60 anni, la maggior parte dei quali passati a bere, ci racconta: «Sono in un club da un anno e mezzo, e adesso sto bene, ma ho dovuto seguire un lungo percorso in cui è stato fondamentale l’appoggio che ho trovato al Sert (Servizio per le tossicodipendenze). Non credo che ce l’avrei fatta solo attraverso la solidarietà e l’amicizia che si creano nei club o in altri gruppi di auto aiuto». Dietro l’angolo c’è poi sempre il rischio di ricadute, anche dopo molto tempo. «Sono stato 15 anni senza bere, poi un giorno, convinto di aver superato definitivamente il problema, sono entrato in un bar per un bicchiere. Ma dopo il primo non sono riuscito più a fermarmi», racconta Giovanni. «Per fortuna l’esperienza passata mi ha fatto risuonare un campanello d’allarme, e dopo una settimana ho deciso di tornare al club, che avevo lasciato da un paio d’anni. Lì sono stato accolto a braccia aperte e ho potuto ricominciare».
Ma se è vero che i club non risolvono tutto, è anche vero che vantano percentuali di successo molto alte: l’astinenza media (superiore ai 3 anni) per quanti li frequentano regolarmente è infatti del 73%. «Un risultato notevole, visto che solo il 20% di chi si rivolge ai servizi pubblici riesce a smettere di bere», osserva Alberini. «Inoltre, in tempi di crisi e tagli alla sanità, un metodo come quello dei club, praticamente a costo zero, andrebbe diffuso in maniera capillare su tutto il territorio».
Stefania Garini
Storia del Giubileo 6. Il Giubileo
Abbiamo già visto che tutto ruota attorno alla questione della proprietà della terra, dopo l’editto di liberazione del re Ciro (538 a.C.), contesa tra i possessori di fatto che non erano stati deportati e gli esiliati rientrati che vantavano il diritto legale alla proprietà.
Schiavi per debiti
Il rientro dall’esilio, quindi, non è stato quel trionfale e giornioso ritorno descritto dai testi sacri, ma un doloroso incidente che ha portato quasi a una guerra civile. Da un lato, per i residenti che non erano stati deportati, i nuovi arrivati erano intrusi, anzi «stranieri», venuti a scombussolare la loro tranquilla, anche se povera, esistenza. Erano passati cinquant’anni da quei fatti dolorosi e l’esilio era un ricordo nella memoria. Da parte loro, gli immigrati ritornati, pretendevano di rientrare in possesso di tutte le proprietà che erano stati costretti a lasciare per la violenza dell’invasore di allora. Si erano dunque creati due partiti contrapposti, di cui abbiamo un indizio forte nel capitolo 5 del libro di Neemia.
Quando una famiglia povera faceva un debito gravoso, dava in pegno un figlio o una figlia «come schiavo» che poteva essere trattenuto per sei anni, ma non oltre (cf Dt 15,12). Nella situazione di estrema povertà di quel tempo, i ricchi erano arrivati a prendere come ostaggi-schiavi molti ebrei, cioè fratelli dello stesso popolo e della stessa religione. Neemia aveva imposto il condono dei debiti e la libertà delle persone, proibendo in nome di Dio che un ebreo potesse essere schiavo di un ebreo. Qui troviamo già il primo nucleo di quello che si svilupperà in seguito e che prenderà il nome «Giubileo», che è dunque un istituto giuridico per rispondere ai problemi sorti con il ritorno degli esiliati nella terra d’Israele.
Il Giubileo è la risposta che Israele produce per la soluzione di questi problemi che apparivano senza apparente sbocco: due contendenti avanzavano diritti sulla stessa proprietà. Districare la matassa dopo cinquant’anni non era facile. Solo una scelta drastica poteva imporsi e allo stesso tempo essere stimolo per un progetto futuro. Nasce così il Giubileo che è lo sviluppo naturale dell’Anno Sabatico. Mentre questo riguardava un periodo relativamente corto (sette anni), per il Giubileo si prende la misura «cinquantenaria» che era il periodo di tempo che interessava nella disputa tra residenti e rientrati.
A circostanze nuove, nuova teologia
Oltre che ricostruire il tempio, Esdra e Neemia dovettero riorganizzare la religione, il culto annesso e le leggi che regolavano la vita cultuale del santuario, dimora di Dio. In questa prospettiva si raccolsero testi e tradizioni del passato, specialmente della tribù di Giuda, ma anche di alcune delle dieci tribù del regno del Nord, facendo una straordinaria opera di redazione finale della raccolta di «scritture» che divennero poi quello che oggi conosciamo come «Toràh» (ebraica) o «Pentateuco» (greco). Ciò avvenne intorno al 444 a.C. Si ripensò anche la cosmogonia, cioè l’origine dell’universo, inventato da Dio per creare lo scenario nel quale si sarebbe svolta la storia dell’alleanza tra il «Dio Onnipotente e Creatore» e il «più piccolo tra tutti i popoli» esistenti sulla terra.
La narrazione della creazione, che non è un racconto storico (anche il più sprovveduto se ne rende conto), ha anche uno scopo pedagogico perché l’autore vuole fare un’analogia: come Adamo è stato posto nel giardino di Eden in qualità di custode e servo, così, allo stesso modo, il popolo eletto è stato collocato nella terra promessa d’Israele perché la abiti, la coltivi e la custodisca come corpo prolungato dei Patriarchi e come segno della fedeltà di Dio. Anzi come corpo esteso di Dio perché la terra è «lo sgabello» del trono della sua gloria: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi» (Is 66,1). Questo testo è la conclusione del libro del Terzo Isaia, vissuto in esilio con i deportati. Egli, sviluppando la teologia universalistica del profeta Isaia storico, quello vissuto nel sec. VIII, consola gli esiliati e li incita al ritorno, facendo rivivere la loro storia attuale come una ripetizione di eventi antichi, come l’esodo e la creazione che vengono «ingigantiti» per motivi di natura teologica.
Nuovo concetto di «proprietà»
Il concetto di «popolo eletto» come «proprietà [di Dio] fra tutti i popoli» (Es 19,5), diventa una chiave teologica con la quale s’interpreta presente, passato e futuro. Tra il VI e il IV secolo in Babilonia e a Gerusalemme nasce un laboratorio in cui tutto si rinnova. Dalla storia passata, che viene riletta e ingigantita, nasce l’istituto del «sabato» come cuore della vita d’Israele e del culto, in sostituzione dei sacrifici; si crea il canone della Bibbia (intorno al 444 a.C.) nella forma dell’attuale Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio). E la storia «sacra», essendo «scritta», diventa «Sacra Scrittura», cioè testo normativo e immutabile della volontà di Dio.
Per dare «peso» alla« ricostruzione del futuro», fondato sulla religione e sull’appartenenza al «popolo eletto», tutto è ripensato e riformulato: i riti e i culti, la circoncisione, il sabato, le leggi di purità, i sacrifici, la Pasqua, il calendario e l’uso della terra. Tutto è proiettato «alle origini», trasformando una normale storia di tribù, spesso banale, in una grande epopea, una saga di natura «storica» rivisitata come in un fantasmagorico «kolossal» proiettato nella notte dei tempi. Esso legge la storia contemporanea (ritorno dall’esilio) come un processo che parte dall’iniziativa di Dio sul Sinai, e prima ancora dalla liberazione dalla schiavitù d’Egitto (assonanza con la schiavitù in Babilonia).
Nel primo racconto della creazione (Gen 1), scritto in ambienti sacerdotali, si afferma con chiarezza che nell’atto di creare Adamo ed Eva, Dio stesso li pose nel «giardino di Eden perché gli ubbidissero e lo custodissero» (Gen 2,15). Si ribalta il concetto di «proprietà»: non è l’uomo proprietario della terra, ma è la terra che indica come deve essere ascoltata e custodita. L’uomo diventa il custode, il servo del creato sul quale solo Dio esercita la sua autorità, mediata certamente dall’uomo che è «immagine di Dio» (Gen 1,27). Lo stesso concetto di «sottomettere la terra» (Gen 1,28) non è assoluto, perché è connesso alla luogotenenza esercitata da Adamo in nome di Dio di cui è plenipotenziario e da cui dipende. È Dio che controlla il comportamento dell’uomo.
L’esodo però è la risposta alla promessa fatta ai Patriarchi, che a loro volta sono l’esito della fedeltà che è il contrario della ribellione di Adamo ed Eva che a loro volta erano stati i protagonisti e i signori della creazione regalata loro da Dio come premessa e promessa della terra d’Israele, la terra dell’Alleanza e del tempio del Signore. Il raccordo tra i Patriarchi e la terra d’Israele è la figura di Mosè che ha il compito di dare compimento alla volontà di Dio. Mettendo l’istituto dell’anno sabatico tra le norme di Esodo e Levitico, facendolo risalire addirittura a Mosè, i redattori del Pentateuco stabiliscono il criterio «teologico» per risolvere il contenzioso sorto tra residenti e rimpatriati dall’esilio sul possesso della terra.
Nei libri di Levitico s’inseriscono le regole che riguardano il Giubileo, dando loro il valore di una norma antica proveniente direttamente da Dio, in base al principio, formulato in questo periodo, che la terra d’Israele è «esclusiva proprietà di Dio». Se la terra è di Dio nessuno può avanzare diritti e ciascuno deve avere la coscienza di essere solo un usufruttuario temporaneo. La terra di Palestina è per Israele «terra promessa» ai patriarchi, quindi terra di ospitalità su cui nessuno può avanzare diritti.
Il nome «Giubileo»
In ebraico l’anno giubilare si chiama «Shenàt jòbel» che tradotto alla lettera significa «Anno dell’Ariete» perché l’inizio e la fine dell’anno giubilare erano annunciati dal suono del «qéren jobèl – corno di ariete» che richiama uno degli eventi più importanti della Toràh e successivamente della tradizione giudaica: il sacrificio di Isacco sul monte Moria (Gen 18,1-19). Poiché il racconto è conosciuto, non ci attardiamo su di esso, ma rileviamo solo gli elementi che interessano il nostro discorso sul «Giubileo».
Dio chiede ad Abramo di sacrificargli il figlio unigenito. Abramo, uomo dalla fede indiscussa, non mette in dubbio l’intenzione di Dio e ubbidisce, perché Dio sa quello che fa, e si appresta a sacrificare il figlio, sebbene il suo cuore sanguini e le sue lacrime si mescolino a quelle del figlio. Secondo la tradizione giudaica, Isacco incoraggia il padre Abramo a ucciderlo rispettando tutte le regole prescritte per i sacrifici offerti a Dio per non rendere invalida, anche involontariamente, l’offerta della sua vita. Abramo quindi supplica Dio, in nome della fede di Isacco, che ha accettato liberamente l’aqedàh-legatura alla legna del sacrificio, che in futuro, quando i suoi discendenti, pregando, chiederanno qualunque cosa in nome dei meriti di Isacco, Dio li esaudisca in ogni loro richiesta. La tradizione cristiana ha visto in Isacco una prefigurazione di Cristo «legato al legno della croce»: come Isacco stava per essere immolato all’età di 37 anni (Gen R 55,4), così Gesù fu legato e sacrificato sulla croce alla stessa età (cf L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei, II. Da Abramo a Giacobbe, Adelfi Edizioni, Milano 1997, 97-102).
Il racconto ha un valore di contestazione dell’usanza diffusa dei sacrifici umani per motivi religiosi: infatti il Dio che apparentemente chiede la morte sacrificale del primogenito di Abramo, sospende la mano del padre obbediente che non osa discutere l’ordine di Dio e lo sostituisce con un «ariete» che Abramo scorge impigliato tra i rami. Il messaggio è chiaro: il Dio d’Israele non vuole la vita umana, lui che la crea e Abramo e Isacco, padre e figlio, ringraziano Dio con un olocausto che Dio stesso «ha provveduto sul monte».
Qui sta la ragione per cui si suona il «corno dell’ariete – qèren yobèl» sia per il Giubileo sia l’Anno Sabatico, sia al tramonto del venerdì per annunciare l’arrivo dello Shabàt, sia in tutte le feste importanti della vita d’Israele. Dio ha salvato Isacco, e il suono del corno di ariete ricorda a Israele che Dio salva il suo popolo, anche quando non lo merita. Il suono del corno diventa il simbolo, il segno della liberazione di Dio e viene proiettato indietro, fino alle pendici del Sinai, dove Dio parlava a Mosè al suono del corno di ariete (cf Es 19,13.19). Il suono del corno precede l’arca dell’alleanza e guida alla battaglia della presa di Gerico (Gs 6,4-6.13).
Il suono del corno squillerà ogni 49 anni per dare inizio al giubileo del cinquantesimo anno, anno di grazia e di liberazione, di salvezza e di perdono totale:
«10Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi toerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. 11Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. 12Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. 13In quest’anno del giubileo ciascuno toerà nella sua proprietà. 14Quando vendete qualcosa al vostro prossimo o quando acquistate qualcosa dal vostro prossimo, nessuno faccia torto al fratello. 15Regolerai l’acquisto che farai dal tuo prossimo in base al numero degli anni trascorsi dopo l’ultimo giubileo: egli venderà a te in base agli anni di raccolto. 16Quanti più anni resteranno, tanto più aumenterai il prezzo; quanto minore sarà il tempo, tanto più ribasserai il prezzo, perché egli ti vende la somma dei raccolti. 17Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore, vostro Dio. 23Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. 24Perciò, in tutta la terra che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni» (Lv 25, 10-17.23-24).
Questo è il punto di partenza dell’istituto del Giubileo che, in una fase di riforma religiosa e sociale, è codificato nella tradizione posteriore che però viene addirittura fatta risalire a Mosè, agli eventi del Sinai per dare a questa norma un peso di notevole importanza e coagulare attorno ad essa l’unità di tutto il popolo nuovo di Israele, composto dai residenti che mai lasciarono la terra di Palestina, ma anche dai rimpatriati che, liberati da Ciro, rientravano come stranieri nella «loro» terra che non avevano mai visto né conosciuto perché spesso erano nati e vissuti solo in terra d’esilio. La riforma non riguarda solo la terra, ma si presenta come una legge complessa che concee le persone, l’economia, il latifondo, la redistribuzione della ricchezza e il concetto di proprietà «privata», la quale nell’insegnamento biblico non ha mai attecchito.
In un tempo di crisi socio-religiosa (post esilio) nulla di più spontaneo che ritornare indietro, alle proprie origini, ripensarle alla luce dei nuovi eventi e «riscrivere» la storia come premessa per un nuova avventura, incastonata dentro un contesto ampio, antropologico, cosmico che si perde nella notte dei tempi e che raggiunge il cuore di Dio creatore che come all’inizio creò l’universo, ora crea di nuovo il suo popolo. Sacerdoti e classi dirigenti si servono della religione che ripensano e riformulano rivisitando narrazioni, tradizioni, epopee e preghiere del passato per dare risposta ai nuovi problemi che la Storia di «oggi» pone, imponendo una soluzione. Il Giubileo è un momento di questo processo che appartiene a un passaggio cruciale, una svolta decisiva che bisogna cogliere, se non si vuole perdere l’appuntamento con se stessi e il futuro.
Paolo Farinella, prete
(6, continua)
Allamano sacerdote missionario
La Pasqua che stiamo celebrando riassume tutta l’azione di Dio che per amore ha mandato a noi il suo Figlio. Egli ha portato a compimento la salvezza. È il vertice dell’Antico e del Nuovo Testamento. Per questo la Pasqua è considerata «la festa delle feste», «a cui convergono tutti i misteri della nostra religione» (S. Leone Magno). Ha anche un richiamo esplicito alla Missione. Alle prime persone che incontra, il Risorto dice: «Andate ad annunziarlo»; e agli apostoli: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi»; e prima di salire al cielo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Gv 20,21; Mc 16,15).
beato Giuseppe Allamano
La Pasqua è anche la «festa della fedeltà». Richiama il battesimo e le promesse a esso collegate, l’ascolto della Parola di Dio e l’invito a farsene annunziatori e testimoni. Per i missionari della Consolata vi è un ulteriore richiamo: a essere fedeli alla loro vocazione secondo il carisma e lo spirito del beato Allamano. Per questo egli ha dato «come speciale protettore» dell’Istituto S. Fedele da Sigmaringen: missionario, primo martire di Propaganda Fide. Il 24 aprile 1900, nel giorno della celebrazione liturgica del Santo, l’Allamano spedì la lettera al Card. Richelmy per la fondazione dell’Istituto, dopo averla posta sull’altare durante la celebrazione della Messa. E a noi raccomanda: «Imitatelo nella fedeltà ai vostri doveri presenti e futuri; fedeltà universale, cordiale e semplice, nelle cose grandi e piccole; nel corrispondere alle grazie di Dio e a lasciarvi formare… per riuscire degni missionari».
Ma la Pasqua richiama un’ulteriore fedeltà, anch’essa testimoniata dall’Allamano: essere fedeli alla vocazione sacerdotale. Tutto quello che ha fatto, ha nel sacerdozio la motivazione. Per lui il sacerdote è missionario di natura sua. Anche se incardinato in una diocesi, il sacerdote non può preoccuparsi soltanto dei problemi del suo territorio, deve aprirsi a tutto il mondo. È la qualifica data all’Allamano dal Decreto sulle sue virtù eroiche: «Nella mirabile schiera di Servi di Dio fioriti nella Chiesa Torinese… si distinse per aver percepito il dovere di ogni Chiesa locale di aprirsi alla missione universale». Una missione che, come ribadisce il Concilio Vaticano II, riguarda ogni sacerdote. L’ordinazione sacerdotale, infatti, «non destina a una missione limitata e ristretta, ma a una vastissima missione, fino ai confini del mondo, come quella di Cristo». Lo hanno ripetuto i Papi più recenti ed è un richiamo insistente di Papa Francesco sulla «Chiesa in uscita» verso le periferie non solo geografiche, ma anche umane.
padre Gottardo Pasqualetti
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Kenya lago Turkana vento di sviluppo
La zona intorno al lago Turkana è la più povera e lasciata a se stessa del Kenya. Da qualche anno a questa parte, però, qualcosa è cambiato: un giacimento di petrolio, il progetto dell’impianto eolico più grande d’Africa, la diga sul tratto etiope del fiume Omo, un enorme bacino sotterraneo d’acqua hanno portato l’area al centro dell’attenzione. E davanti a una sfida decisiva.
Quando si cerca di descrivere Loiyangalani, villaggio «dalle molte piante» sulle rive del lago Turkana, è facile venire colti dall’ansia da prestazione. D’istinto, viene voglia di cercare una combinazione di parole originale, unica e definitiva per un posto che non ha niente di già visto, per un posto che somiglia solo a se stesso. Qualcuno parla di paesaggio lunare, altri dell’angolo remoto di mondo dove Dio ha accatastato tutti i sassi che erano avanzati dalla creazione, altri ancora di tempo sospeso, promemoria per un’umanità che dovrebbe ricordarsi da dove viene.
Forse l’unica operazione davvero onesta è quella della semplice elencazione: montagne di pietre nere, colline di roccia marrone, sabbia ocra, sassi bianchi, l’acqua del lago: turchese la mattina, verde petrolio a mezzogiorno, blu turbante di tuareg la sera. Donne turkana coperte di rosso e di collane di perline, pochissimi uomini, almeno durante il giorno, perché la gran parte sono fuori dal villaggio col bestiame. Capanne a forma di igloo di paglia gialla, ghiaia grigia, chiazze di erba cresciuta dove il sole s’è distratto, dimenticandosi di seccarla. Capre, cammelli, zebù, qualche asino. Le acacie, quelle sì identiche ovunque, capaci di crescere anche fra i sassi, testarde e indifferenti. L’antenna bianca e rossa della rete cellulare, rare casette squadrate di cemento.
Un elenco, certamente non completo, per descrivere un luogo speciale.
Le piaghe: siccità, conflitti, analfabetismo
Quel che è certo, invece, è che la zona intorno al lago Turkana è la più povera del Kenya. Tanto per cominciare, è collegata malissimo con il resto del paese: da Nairobi a Loiyangalani, occorrono tre giorni di 4×4, due per i più audaci; gli abitanti della zona parlano di «andare in Kenya» quando si accingono a uscire dal loro distretto.
La parte a Ovest del lago, la Turkana County, e quella a Est, la Marsabit County, hanno tassi di povertà del 94 e del 91 per cento. Seicentomila persone vivono con meno di 1.562 scellini keniani al mese (circa 15 euro) nelle zone rurali, e 2.913 (circa 30 euro) nelle zone urbane. Con trenta gradi d’inverno e quarantacinque d’estate, frequenti ondate di siccità e qualche rara ma devastante inondazione, la popolazione della zona vive prevalentemente di pastorizia, integrata con la pesca. Il tasso di analfabetismo è intorno all’85 per cento (96 per le donne), quello di infezione da HIV oltre l’undici per cento, circa il doppio di quello nazionale. Gli scontri fra gruppi etnici, connessi principalmente ai furti di bestiame e alle conseguenti rappresaglie, non hanno mai assunto le dimensioni di un conflitto su ampia scala, ma hanno accompagnato la storia della convivenza nell’area da tempo immemorabile, con tutti i morti e i feriti che inevitabilmente si contano in un luogo dove anche una banale ferita come un taglio può essere fatale, vista la carenza di centri sanitari. Qualcuno calcola che ogni maschio, dai 17 anni in su, abbia un AK47 e il banditismo è un fenomeno tutt’altro che sconosciuto.
Questo è il contesto, già di suo non certo facile, sul quale si sono innestate negli anni Dieci di questo secolo una serie di scoperte e di eventi che mettono il Turkana davanti a un bivio: da una parte la strada del salto di qualità, dall’altra quella della distruzione senza appello.
Acqua che viene, acqua che va
Nel 2013 il governo del Kenya e l’Unesco hanno annunciato che la ricerca da loro condotta con finanziamenti giapponesi ha portato alla scoperta nella Turkana county (dall’altra parte del lago rispetto a Loiyangalani) di un enorme riserva sotterranea di acqua. Si tratta di due bacini, uno vicino alla città di Lotikipi e l’altro, molto più piccolo, a Lodwar (capitale della county e sede della diocesi). Solo Lotikipi dispone, a una profondità di circa trecento metri, di oltre duecento miliardi di metri cubi, pari a circa nove volte le riserve totali del Kenya. Lo sfruttamento delle risorse idriche, una volta portata l’acqua in superficie, sarebbe anche sostenibile, perché il bacino ha un rifoimento annuale spontaneo più che sufficiente – 3,4 miliardi di metri cubi – grazie all’acqua proveniente dalle montagne dell’Etiopia. A fronte di un consumo annuale di acqua pari a 2,7 miliardi di metri cubi all’anno per tutto il paese, la stima è che il bacino garantirebbe acqua all’intero Kenya per settant’anni.
Ma il condizionale è ancora d’obbligo. Intanto perché il trovare l’acqua e il renderla disponibile, con tutto l’investimento in perforazioni e infrastrutture connesso, sono due cose molto diverse. E poi perché nel marzo 2015 alcuni test su pozzi scavati a Lotikipi hanno rivelato che l’acqua è troppo salina per il consumo umano, almeno secondo il Rift Valley Water Services Board, e dovrebbe quindi subire un lungo e costoso processo di desalinizzazione. Altre fonti suggeriscono invece che i rapporti basati sui test sono troppo pessimistici, che in altri pozzi il grado di salinità sarebbe molto inferiore e che comunque l’acqua sarebbe adatta almeno per usi agricoli e per abbeverare il bestiame.
Mentre le ricerche per stabilire la fruibilità di quest’acqua sono ancora in corso, gli effetti di un altro mega-progetto idrico, stavolta in un paese confinante, rischiano invece di essere drammatici. La diga Gibe III sul fiume Omo, in Etiopia, è entrata in funzione lo scorso ottobre. Secondo Addis Abeba, la diga dovrebbe aumentare del 234 per cento la produzione elettrica etiope: 1.870 megawatt che andranno ad alimentare le ambizioni industriali nazionali e ad aumentare l’esportazione di energia all’estero. Regolando il flusso del fiume, inoltre, la diga servirà i progetti di irrigazione su larga scala che il governo etiope intende realizzare nella vallata dell’Omo.
Ma, avverte Survival inteational, l’Omo fornisce al lago Turkana circa il novanta per cento delle sue acque e l’irrigazione in Etiopia potrebbe ridurre della metà l’afflusso idrico facendo abbassare il Turkana di venti metri. Il danno per l’ecosistema sarebbe pesantissimo, inducendo non solo una drastica riduzione della disponibilità di pesce ma anche un inasprirsi della siccità che porterebbe a ulteriori conflitti, anche transfrontalieri, fra le migliaia di pastori della zona in cerca di acqua per gli animali.
Le promesse non mantenute del petrolio
A complicare ulteriormente il quadro è arrivata, nel 2012, la scoperta di un giacimento di petrolio – dalla capacità quantificata in seicento milioni di barili – fra Lokichar e Lodwar, nell’area a Ovest del lago.
La multinazionale anglo-irlandese Tullow Oil, insieme alla compagnia partner canadese Africa Oil e, più di recente, alla danese Maersk, prevede di cominciare lo sfruttamento commerciale dei pozzi nel 2020 ma, a dar retta al quotidiano online Business Daily, il governo keniano sta spingendo per anticipare i tempi. In ballo, funzionale all’esportazione di petrolio, c’è la costruzione dell’oleodotto Lapsset (Lamu Port Southe Sudan-Ethiopia Transport), che collegherebbe il porto di Lamu (sull’Oceano Indiano), alla città di Isiolo, nel centro del Kenya, per biforcarsi poi in due bracci, uno diretto in Etiopia e l’altro in Sud Sudan e Uganda.
Mentre la Tullow Oil si è affrettata fin dal 2012 a pubblicizzare sul proprio sito i progetti di cooperazione che sostiene nell’area del giacimento e a istituire borse di studio per studenti keniani, sul campo le difficoltà non hanno tardato a manifestarsi. In un articolo dello scorso luglio, l’Economist raccontava delle diffidenze fra le compagnie petrolifere, che lamentano la difficoltà a trovare localmente personale qualificato, e la comunità locale, che teme di essere «scippata» degli impieghi migliori a favore di personale proveniente da altre aree, e minaccia ricorsi contro i possibili danni ambientali.
Nel 2013, un gruppo di quattrocento lavoratori ha attaccato gli impianti di trivellazione chiedendo più lavoro e più benefici, mentre nel 2014 il crollo del prezzo del petrolio ha indotto un altro ridimensionamento, almeno nell’immediato, delle speranze delle popolazioni del Turkana: finché il greggio resta sotto i 70 dollari al barile, stimano gli esperti, non è conveniente continuare le operazioni di estrazione. E infatti la Tullow negli ultimi mesi ha decisamente spinto sul freno.
Il vento dello sviluppo
Se il petrolio frena, il vento accelera: il mega-progetto della wind farm, il parco eolico, sarà completato entro ottobre 2016, annuncia la Kenya Electricity Transmission Company (Ketraco), che sta supervisionando i lavori di costruzione. La Lake Turkana Wind Power Limited, consorzio titolare del progetto prevalentemente composto da aziende private nordeuropee, prevede di produrre i primi 50 megawatt a settembre, mentre i 310 megawatt totali dell’impianto a pieno regime saranno immessi nella rete elettrica kenyana entro luglio 2017.
Siamo ora sulla riva orientale del lago Turkana, a una quarantina di chilometri da Loiyangalani. Qui verranno installate 365 turbine con una capacità di 850 kilowatt ciascuna su una superficie di circa 160 chilometri quadrati, per un costo complessivo vicino ai 700 milioni di dollari: l’investimento privato più consistente nella storia del Kenya indipendente, capace di fornire al paese circa un quarto dell’energia di cui ha bisogno. Il Turkana è particolarmente indicato per lo sfruttamento dell’energia eolica, poiché il vento in questa zona permette di raggiungere un fattore di capacità – cioè il rapporto fra l’energia effettivamente prodotta e quella che l’impianto è capace di produrre in condizioni ottimali costanti – del 62 per cento, contro il 25-35 per cento degli altri impianti. La Banca Mondiale, all’inizio fra i sostenitori del progetto, si è sfilata nel 2012 dopo avere sollevato dubbi sulla capacità del sistema kenyano di assorbire davvero tutta quell’energia, sottolineando il rischio per i consumatori di pagare annualmente l’equivalente di cento milioni di dollari per elettricità di fatto non utilizzata.
Nessuno dei membri del consorzio, per la verità, ha fatto una tragedia del ritiro della Banca, anzi, pare che alla Ketraco qualcuno abbia perfino commentato: meglio così, tanto creava solo inutili ostacoli. Tanto più che, se ancora c’erano dubbi sull’affare rappresentato dal parco eolico, ci ha pensato Google a fugarli, buttando sul piatto quaranta milioni di dollari per riservarsi il 12,5 per cento delle quote una volta che l’impianto sarà funzionante. Il colosso statunitense ha così voluto ribadire il suo interesse per le energie sostenibili e, ovviamente, anche per l’opportunità di aumentare i propri clienti, dal momento che elettricità e Inteet vanno a braccetto.
Pro e contro
Anche nel caso del parco eolico non mancano le perplessità e i contrasti, a cominciare dalle difficoltà di comprensione del progetto da parte della popolazione locale nella fase iniziale delle consultazioni. In più ci sono anche ricorsi legali da parte dei rappresentanti comunitari contro le violazioni del diritto alla terra (soprattutto per garantire il diritto di pascolo) nelle aree dove saranno installate le turbine. A questo si aggiungono poi – come per gli impianti petroliferi – le aspettative non sempre soddisfatte delle comunità riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro (i locali non sono preparati per un lavoro così diverso dalla pastorizia e dalla pesca), l’arrivo di personale esterno e l’incremento del flusso turistico grazie a strade migliori, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento dei prezzi, incidenza di malattie sessualmente trasmissibili e impatto complessivo su una comunità finora fortemente isolata.
Da ultimo, a complicare la situazione, ci sono i contrasti sulla spartizione dei benefici tra la Marsabit county (con i Turkana e altre etnie) e la Samburu county (prevalentemente Samburu) che condividono gli incerti confini proprio nell’area del wind park.
Progetti come questi, come minimo inducono un miglioramento dal punto di vista delle infrastrutture, a cominciare dalla costruzione delle strade e, come dice un leader comunitario citato dal Guardian, «offrono ai bambini una scelta che i loro padri e nonni non hanno avuto». Ma è proprio su questo che si gioca la partita: se non ci sarà una chiara ed equa ripartizione dei benefici e un coinvolgimento reale delle comunità, il Turkana non sarà un modello di sviluppo per tutta l’Africa ma un incubo fatto di sfruttamento, devastazione degli ecosistemi e migrazione forzata di migliaia di persone verso le già affollate e dolenti periferie urbane.
Chiara Giovetti
Vecchio continente nuova missione
Iniziamo in questo numero una serie di brevi articoli per raccontare la nostra (come vissuta e sentita da noi missionari della Consolata) missione nel vecchio continente. Come è oggi, e come sogniamo che sia domani.
L’Europa, un tempo bacino di vocazioni missionarie e deposito di risorse per la cooperazione, ha cambiato volto. Non siamo semplicemente passati da un tempo di vacche grasse a uno di vacche magre: il cosiddetto «vecchio continente» è diventato qualcosa d’altro. Sono cambiati i contesti culturali, sociali e religiosi, e questa mutazione (ancora in atto) è stata talmente veloce da coglierci impreparati. Cambiano le istituzioni, fra cui anche la Chiesa, e oggi, ci dicono le statistiche, il Vangelo trova più facilmente casa altrove. In alcuni dei nostri paesi siamo ancora pieni di diocesi, vescovi, strutture, ma le chiese si svuotano, e al di fuori di esse non si vede un grandissimo fermento ecclesiale, soprattutto fra i più giovani. L’inarrestabile fenomeno migratorio sta cambiando in maniera irreversibile le nostre città e i nostri paesi. Di questi tempi, per trovare non cristiani, non dobbiamo più andare in Agrica o nell’estremo Oriente: li troviamo «comodamente» dietro l’angolo. Sono coloro che vengono da altre culture e tradizioni, ma anche gli stessi europei che, per mille ragioni diverse, hanno abbandonato la Chiesa e, spesso, anche la pratica personale della fede.
Di fronte a questa lettura della realtà, pur superficialmente tratteggiata, anche i missionari della Consolata si stanno interrogando sul ruolo da assumere oggi in Europa. Appare chiaro che esso non può essere uguale a quello di un tempo. La missione di una volta non esiste più; facciamo fatica a rendercene conto, ma questa è la realtà. Oggi, la media dei missionari europei è avanti negli anni, e la maggior parte delle nostre attività si svolge in altri contesti. Cambia, in modo significativo, anche la nostra geografia vocazionale. Infatti, sono ormai parecchi i confratelli provenienti da altri continenti, in particolare da quello africano, che lavorano oggi in Europa.
A partire da questo mese, vi racconteremo come stiamo provando ad assumere le esigenze di questa nuova missione, con profonda attenzione ai tempi che viviamo, e nella fedeltà al nostro carisma. La chiamata ad annunciare il Vangelo è per sempre; cambiano gli stili, si modificano i contesti, ma il mandato missionario alla testimonianza e all’annunzio resta invariato. Per questo motivo, da qualche tempo, abbiamo intensificato la riflessione sulla nostra missione in Europa, partendo da quanto già facciamo in alcune realtà ad gentes che ci vedono impegnati in Italia, Spagna e Portogallo.
Il primo obiettivo che ci siamo dati consiste nello stabilire una concordanza sui criteri comuni che fanno di noi dei missionari della Consolata ovunque siamo e da qualsiasi parte del mondo proveniamo. Questo è il primo fondamentale passo per arrivare alla redazione del «Progetto missionario del Continente Europa», che stiamo preparando per vivere con maggior entusiasmo ed efficacia la nostra missione al servizio delle chiese locali. Vorremmo farlo in modo originale e creativo, mettendo in gioco le caratteristiche proprie del nostro carisma, il bagaglio di esperienza missionaria maturata in altre aree del mondo e il ricco patrimonio della convivenza interculturale che, se ben vissuta, può diventare oggi uno strumento potente di evangelizzazione.
Ugo Pozzoli
Questi brevi articoli sono pubblicati in contemporanea su Antena misionera in Spagna e Fatima missionaria in Portogallo.
I perdenti 13 i Cristeros e il beato Miguel Agustin pro
Nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica del mondo, il Messico, tra il 1925 e il 1929, visse un periodo tragico della sua storia. Al governo della Repubblica si era installato un gruppo di potere formato in prevalenza da massoni anticlericali, denominato «gli uomini di Sonora». Tra i vari provvedimenti che essi presero, spicca l’inasprimento delle leggi anti religiose. Con il presidente Plutarco Elia Calles, queste leggi vennero imposte in maniera rigorosa in tutta la Federazione Messicana. Alla Chiesa venne tolta ogni autonomia giuridica, furono espulsi tutti i sacerdoti stranieri e furono confiscati tutti i beni delle istituzioni cattoliche: chiese, conventi, seminari, scuole, istituti di carità, ecc. Dall’agosto del 1925 la Chiesa sparì completamente dalla vita pubblica del religiosissimo popolo messicano. Fu a questo punto che accadde una cosa incredibile: migliaia di persone di ogni condizione sociale si diedero alla macchia dando vita a una insurrezione spontanea, motivata dal fatto che se «Cesare diventa un tiranno, il popolo ha diritto di difendere la propria libertà».
I generali dell’esercito federale pensavano di sconfiggere in poco tempo quegli insorti inesperti e male armati, tuttavia l’organizzazione si consolidò in quanto sostenuta dalla maggioranza della popolazione e nacque così la «Cristiada», l’insurrezione di «Cristo Re», che coinvolse milioni di persone, preoccupò le Cancellerie di mezzo mondo e costrinse i papi a intervenire. L’esercito cristero in poco tempo si organizzò e divenne una formidabile difesa per la popolazione inerme. La reazione dello stato centrale fu rabbiosa e fece massacri indiscriminati, campi di prigionia, impiccagioni di massa.
In quegli anni furono scritte pagine luminosissime da parte di umili e semplici cristiani che volevano vivere la loro fede. Ne parliamo con padre Miguel Agustin Pro (nome completo José Ramón Miguel Agustín Pro Juárez), che fu uno dei martiri di quel periodo convulso della storia del Messico.
Padre Miguel, come ebbe inizio questa tragedia?
Dopo il trentennale governo di Porfirio Diaz, un presidente che si era convertito dopo la morte della moglie, presero il potere elementi giacobini e radicali chiamati «gli uomini di Sonora», i quali fecero approvare dal parlamento una costituzione ferocemente anti religiosa. La Chiesa accusata di essere retrograda e responsabile di tenere il popolo nell’ignoranza dei propri diritti, fu privata di ogni possibilità di intervento sul piano religioso e sociale a favore della popolazione.
Ovviamente questa era una campagna di menzogne fatte circolare ad arte in certi ambienti per privare la popolazione di un supporto istituzionale sicuro.
Mai menzogna nel mio paese fu più ignobile di questa, in quanto i cattolici erano i più attivi nel paese. Il vivace laicato messicano aveva elaborato ambiziosi programmi di sviluppo ispirandosi all’enciclica «Rerum Novarum» di papa Leone XIII; inoltre c’erano associazioni di mutuo soccorso, patronati di beneficenza e una miriade di gruppi che si prendevano cura dei giovani e dei più poveri. C’erano anche molte cornoperative sociali, per aiutare i più bisognosi.
Ma tutto ciò non fu sufficiente a fermare la crudeltà di chi aveva preso il potere.
Certo che no. La requisizione dei beni fu accompagnata da uno spietato controllo poliziesco che impediva ogni forma di manifestazione religiosa pubblica o privata. Questo spinse prima pochi gruppi di persone, poi interi villaggi a darsi alla macchia per conservare gli ideali e i principi religiosi che da secoli caratterizzavano il popolo messicano.
Nasceva così la «Cristiada», una resistenza armata per difendere la Chiesa e i cristiani.
Questi rebeldes, come venivano definiti dal potere massonico, erano in gran parte contadini, ma tra le loro fila vi erano anche operai, impiegati, funzionari, avvocati, studenti e altra gente di città. La lotta era sostenuta, nelle aree urbane, anche da una resistenza passiva che ricorreva a boicottaggi, foiva false informazioni alle truppe federali e, nel contempo, cercava di far continuare la vita sacramentale, come era già avvenuto in passato nell’Inghilterra anglicana e, solo pochi anni prima, nella Russia sovietica.
Quale ruolo ebbero le donne in questa insurrezione?
Migliaia di donne, inquadrate nelle brigate di Santa Giovanna d’Arco, sfidando ogni sorta di pericolo, procuravano munizioni ai Cristeros i quali, lungo gli anni, erano cresciuti di numero arrivando a essere quasi cinquantamila combattenti. A causa dell’assenza dei loro uomini dai villaggi, erano loro a portare avanti il lavoro nei campi, a organizzare incontri di preghiera e a provvedere in ogni modo all’educazione dei figli.
Cosa ha contribuito a far sì che i Cristeros diventassero un’armata capace di tenere in scacco l’esercito regolare?
Enrique Gorostieta, un generale che si definiva ateo ma affascinato dall’ideale dei Cristeros, si era unito ai ribelli e in breve ne era diventato il comandante. Grazie alla sua capacità professionale i Cristeros non persero più una battaglia, sconfiggendo l’esercito federale dovunque, e tenendolo in scacco per anni, nonostante che quest’ultimo godesse di un massiccio appoggio economico e logistico da parte delle logge massoniche degli Stati Uniti.
Una guerra, anche se di difesa, comunque provoca sofferenze, lutti e distruzione.
La prova che il Messico ebbe ad affrontare fu devastante sotto ogni aspetto, il paese restò diviso tra zone controllate dai Cristeros e zone controllate dai Federali. L’economia crollò, i morti furono decine e decine di migliaia, gli storici parlano di circa centomila vittime, contando anche coloro che morirono di malattie e di fame nei campi di prigionia.
La festa religiosa di Cristo Re era stata istituita da Pio XI nel 1925. «Viva Cristo Re» fu il grido che gli insorti adottarono per sostenersi a vicenda nei conflitti che ebbero con i federali.
Il grido di «Viva Cristo Re» si udiva sempre più frequentemente e nella comunità cristiana lo si ripeteva in continuazione. Insieme a questa invocazione si gridava anche «Viva la Vergine di Guadalupe», con ciò si riaffermava la divinità di Cristo Re dell’Universo e ci si poneva con fiducia sotto la protezione della «Morenita» (così il popolo messicano chiama la Madonna di Guadalupe).
La guerra della «Cristiada», con i suoi morti, i suoi martiri e i suoi umili eroi, è poco conosciuta anche in America Latina, al di fuori del Messico è pressoché ignorata.
È vero. Eppure siamo di fronte al caso eclatante di un esercito che vince tutte le battaglie ma perde la guerra perché depone le armi su richiesta dei propri vescovi, e di riflesso della Santa Sede, che volevano evitare un ulteriore bagno di sangue specialmente alla popolazione inerme ed innocente. Non furono le armi a sconfiggere i Cristeros, ma la diplomazia internazionale con gli Arreglos (accordi) del ’29, che ponevano fine agli eventi bellici: la Chiesa accettava pesanti limitazioni pur di mantenere la libertà della pratica religiosa.
I cristiani messicani diedero una bella testimonianza di fede nonostante l’uragano antireligioso che si era abbattuto sul tuo paese.
Nella tormenta di quegli anni il Signore fece emergere persone meravigliose. Voglio ricordare in particolare un adolescente di appena 14 anni: José Luis Sanchez Del Rio, che si unì ai Cristeros diventandone il loro portabandiera. Nel corso di una battaglia il piccolo Josè cedette la propria cavalcatura al generale Luis Guizar Morfin perché si mettesse in salvo dicendogli: «La vostra vita è più utile della mia». Catturato dai federali non gli fu fatto nessun processo ma si accanirono su di lui percuotendolo e seviziandolo, gli spellarono le piante dei piedi, lo fecero camminare sul sale e lo condussero al cimitero, dove esasperati dalle sue continue grida:« «Viva Cristo Re», lo uccisero con un colpo di pistola.
Stessa sorte toccata anche a te o sbaglio?
Nato nel 1891, nel 1911 ero entrato nella Compagnia di Gesù. Inviato a completare gli studi in Belgio, fui ordinato sacerdote nel 1925. Venuto a conoscenza di quanto stava succedendo nella mia patria, chiesi ai miei superiori di tornare in Messico. Una volta rientrato iniziai a svolgere clandestinamente un’intensa attività assistenziale e pastorale, celebrando la Messa nelle case private e portando l’Eucaristia di nascosto agli ammalati e a coloro che me lo chiedevano (a volte oltre 500 al giorno). La mia allegria e la mia chitarra mi aprivano molte porte. Ero anche l’animatore spirituale della Liga Nacional para la Defensa de las Libertades Religiosas, una delle tante organizzazioni nate tra il popolo per resistere alla repressione anticattolica.
E quando ti scoprirono, che successe?
Nel 1927 venni arrestato con la falsa accusa di aver partecipato a un attentato contro il generale Alvaro Obregón, candidato alla presidenza repubblicana. Ignorando tutte le testimonianze in favore della mia innocenza e senza farmi nessun processo, il 23 novembre 1927 mi portarono davanti ad un plotone di esecuzione insieme a mio fratello Humberto. Mentre i soldati scaricavano su di me il piombo dei loro fucili, consegnavo il mio corpo all’amata terra messicana e rendevo la mia anima a Dio gridando: «Viva Cristo Re».
Il 20 novembre 2005 papa Benedetto XVI ha beatificato sia il piccolo José Luis Sanchez Del Rio che padre Miguel Agustin Pro insieme ad altri 11 martiri di quella persecuzione decisa a estirpare il cattolicesimo dal Messico. Oggi possiamo dire che se quel paese è rimasto cattolico lo deve in gran parte a quegli umili, piccoli-grandi eroi, che sacrificarono la vita per la causa del Vangelo e per il diritto alla libertà religiosa. Va detto che gli Arreglos, ovvero gli accordi tra lo Stato Federale Messicano e la Chiesa Cattolica, posero fine alla lotta armata ma non alle malversazioni che il governo centrale continuò a esercitare sulla Chiesa e i suoi fedeli. I Cristeros che fecero ritorno alle loro case, una volta disarmati, subirono numerose e feroci vendette dai militari federali nonostante le garanzie verbali di incolumità loro promesse. Morirono più Cristeros dopo gli accordi che durante la guerra. Vi fu una caccia all’uomo spietata, la repressione andò avanti in forma surrettizia fino alla fine degli anni ’30 e la Costituzione messicana con risvolti anticlericali rimase in vigore fino al 1992.
Quando Papa Wojtyla si recò a Puebla nel 1979, per aprire i lavori dell’Assemblea dell’Episcopato dei paesi latinoamericani, fu accolto dalle autorità messicane come «Signor Wojtyla», ma il calore entusiastico della gente semplice, che Giovanni Paolo II sperimentò lungo le strade del Messico, fece capire al Papa e al mondo intero che il sacrificio dei Cristeros non era stato consumato invano.
Don Mario Bandera, Missio Novara
Video e films.
La musica secondo Ennio Morricone
Mi ha molto colpito la tenerezza con cui il maestro Ennio Morricone ha dedicato a sua moglie Maria la conquista dell’Oscar 2016 per la colonna sonora tratta dal film di Quentin Tarantino The Hateful Eight.
Ennio è da mezzo secolo un’eccellenza italiana nel mondo, e il premio dell’Academy lo meritava già da quasi tre decenni, da quando, nell’87, un dio del jazz come Herbie Hancock, gli soffiò sul filo di lana la statuetta che avrebbe meritato per la fantastica colonna sonora di Mission, il film sulla lotta dei gesuiti in favore degli indios (foto in pagina, ndr). Nel corso degli anni Morricone avrebbe regalato le sue inimitabili note a centinaia di film. Senza pretese e lamentele. Non solo per la sua ben nota timidezza, ma per la capacità (unica) di rispettare il prossimo riconoscendo sempre i meriti di chi concorre con lui in qualche cosa.
Quando si è trattato, però, di dare un piccolo spazio alla sua gioia, questo maestro 87enne, allievo di Goffredo Petrassi per i corsi di composizione, non ha avuto timore, fuori da ogni schema, di apparire normale e di ringraziare la compagna della sua vita, la madre dei suoi 4 figli, fra cui Andrea, direttore d’orchestra come lui, che la notte del 28 febbraio lo ha accompagnato sul palcoscenico di Los Angeles. In una sala rutilante dove quasi tutti avevano inventato per l’occasione il loro copione, Ennio ha scelto il basso profilo: Maria, i ragazzi, la musica, le invenzioni stilistiche negli arrangiamenti che lo hanno consacrato alla grandezza.
È sempre stato così Ennio.
C’è stato un tempo, per esempio, in cui la sua capacità di arricchire le canzoni dei cantautori della casa discografica Rca (attiva in Italia dal 1949 al 1987, ndr) lo aveva già fatto scegliere come un collaboratore indispensabile per i vari Gino Paoli, Luigi Tenco, Edoardo Vianello, Umberto Bindi e tanti altri. Morricone prendeva queste composizioni scarne, anche se singolari, e le trasformava in vestiti della domenica, della nascente musica pop italiana, pur senza mai gloriarsene. Sapore di sale come Abbronzatissima o Lontano Lontano erano creature dei giovani artisti che stavano nascendo in quell’inimitabile laboratorio che fu la casa discografica di via Tiburtina.
Morricone inventava perfino i riff (in una composizione è la frase musicale ripetuta, ndr) per arricchire queste canzoni. In molti ne usufruirono, ma Ennio non se ne è mai vantato. Era il suo lavoro e basta.
Lo stesso atteggiamento ebbe quando cominciò a divenire un mito per la scrittura e per gli arrangiamenti dei «weste all’italiana», quel mondo inventato dai film di Sergio Leone. In quelle colonne sonore entrarono schiocchi di frusta, rumori inattesi, «assoli» di tromba e di armonica a bocca, invenzioni di un maestro che, come ha ricordato Andrea Penna sul Manifesto, ha pure militato per decenni e con impegno tra le file del gruppo di improvvisazione di Nuova Consonanza (associazione per la promozione della musica, ndr), alzando spesso la voce per l’assenza della musica negli insegnamenti scolastici.
Visto che Ennio mi onora della sua amicizia, mi piace ricordare alcuni aneddoti personali. All’epoca dell’affermazione della Rca italiana, nacque a Mentana, non lontano da Roma, una specie di villaggio della musica: avevano infatti preso casa in campagna Sergio Endrigo, Sergio Bardotti (noto paroliere e cantautore morto nel 2007, ndr) e due futuri Oscar come Ennio Morricone e Luis Enriquez Bacalov (nel 1996 per Il postino, ndr). Senza contare che poco lontano, a Tor Lupara, ci stavano pure Gianni Morandi e Franco Migliacci e che, a un certo momento, in fuga dalla dittatura instauratasi nel loro paese, arrivarono anche artisti brasiliani, in particolare Chico Buarque e Toquinho. Li ospitò tutti Bardotti, che trovò, nel sottoscala, un posto anche per Lucio Dalla. Ciò che agglutinò quella banda di musicisti fu il calcio, specie le partite del sabato in cui, nel campo regolamentare fatto costruire da Morandi, ci si riempiva di calci e dove eccelleva Pierpaolo Pasolini. L’unico che faceva l’osservatore con commenti tecnici era il maestro Morricone, già geniale con la sua musica, ma non versato per i dribbling e per gli schemi. Fu una stagione indimenticabile. Qualche tempo dopo incominciai a condurre Blitz, la domenica pomeriggio di Rai2, e sicuro dell’amicizia di questi artisti, quasi ogni domenica invitavo Ennio Morricone che però non veniva mai. Un giorno gli chiesi perché. Fu drastico e definitivo nella risposta: «Mi stupisco di te che fai pure il giornalista sportivo. Tu mi inviti sempre quando la magica Roma gioca in casa e io, in questa congiuntura, non sono agibile perché sono all’Olimpico e non posso, e non voglio, cambiare programmi». Dovetti mettermi a studiare il calendario-gare della Roma per averlo in studio.
Anni dopo, nello spirito d’amicizia di cui mi ha sempre onorato, insieme ai 45 componenti dell’Orchestra Roma Sinfonietta venne a tenere un concerto in Irpinia, a Torella Dei Lombardi, il paese natale di Sergio Leone, dove per 5 stagioni ho diretto il «Festival del cinema weste». Ennio in quell’occasione vinse la sua timidezza e, a sorpresa, incominciò a raccontare la sua vita. Quando non riusciva a spiegarmi i segreti della sua professione, scendeva dal palcoscenico, si metteva al piano e chiedeva aiuto alla musica, al suo modo di amarla, di spiegarla, di interpretarla. Sua moglie Maria, che come sempre lo accompagnava, mi disse alla fine che non lo aveva mai visto così soddisfatto. La stessa Maria a cui Ennio ha pubblicamente e teneramente dedicato il suo Oscar.
Gianni Minà
Centroamerica la violenza fatta famiglia
Il fenomeno delle bande di strada in Centroamerica
Quasi una guerra
L’America Latina è la regione del mondo con più omicidi di bambini e adolescenti: una media di 12 ogni 100mila abitanti nel 2012. El Salvador è il paese in cima alla classifica: 27 ragazzi assassinati ogni 100mila persone (circa 1.600 ogni anno). Nel solo 2015, nel paese del beato Oscar Romero, il numero di omicidi assoluto (non dei soli minori di 20 anni) è impressionante: 6.657, su una popolazione di circa sei milioni (111 persone ogni 100mila). Una delle principali cause di tanta violenza sono le pandillas callejeras: bande di strada composte da giovani delle zone più povere del paese, che hanno progressivamente assunto – anche a causa delle politiche criminalizzanti e repressive – i connotati di vere e proprie organizzazioni criminali transnazionali, con decine di migliaia di membri, principalmente in Centroamerica e negli Stati Uniti.
El Salvador è un piccolissimo stato dell’America centrale, affacciato sull’Oceano Pacifico. Le spiagge dorate, i fiori coloratissimi, il paesaggio punteggiato di vulcani. Non è un paese in guerra. Eppure, ogni giorno decine di madri seppelliscono i propri figli, spesso appena adolescenti, ammazzati da altri giovani. Se guardiamo al dato generale delle morti violente, il 2015 è andato oltre le peggiori previsioni: 6.657 corpi di ogni età riconsegnati alla terra, più del doppio di quanti ne ha inghiottiti il Mediterraneo a seguito dei naufragi di migranti, il 70% in più rispetto all’anno precedente.
Secondo il rapporto dell’Unicef del 2014, con dati riferiti al 2012, intitolato Hidden in plainsight. A statistical analysis of violence against children («Nascosto in bella vista. Un’analisi statistica sulla violenza contro i bambini»), l’America Latina e i Caraibi sono la macro-regione con il più alto tasso di vittime di omicidio, sia rispetto alla popolazione generale che ai minori di 20 anni. In vetta alla classifica troviamo proprio il paese del beato Oscar Romero. In quel territorio più piccolo della regione Lombardia, e con 4 milioni di abitanti in meno, la violenza sembra aumentare di anno in anno: nel solo mese di gennaio 2016, infatti, si sono registrate già 738 uccisioni.
Migliaia di membri in Centroamerica
La guerra tra bande di strada, le cosiddette pandillas, o maras, è probabilmente la causa principale di un numero così alto di morti e di una presenza tanto intensa della violenza. Per quanto il fatto che non vengano quasi mai compiute indagini approfondite, e che raramente queste sfocino in un processo, fa sì che non vi siano dati certi per distinguere gli omicidi attribuibili alle pandillas da quelli che derivano da altre forme di criminalità, senz’altro presenti e non trascurabili, le bande costituiscono certamente il più importante problema criminale e sociale del paese.
Sono due le organizzazioni più estese: la Pandilla Barrio 18 (conosciuta anche come Mara 18th street, M-18) e la Mara Salvatrucha (MS-13). Entrambe nate negli Usa, ora sono presenti soprattutto in El Salvador, Honduras e Guatemala. In questi tre paesi dell’America centrale, i membri delle due gang sono stati stimati nel 2012 dall’Unodc complessivamente in 54mila1. Ottomila membri del Barrio 18 e 12mila della MS-13 nel solo El Salvador, cioè 323 mareros ogni 100mila abitanti. Se una città come Torino fosse in El Salvador ne conterebbe circa 2.800. Lo stesso Unodc, nel 2007, stimava i membri delle due maras nel Salvador in 10.500 unità: nel 2012 erano quindi raddoppiati rispetto a soli cinque anni prima.
Attività criminali
Le attività criminali principali delle maras, oltre agli atti di violenza che spesso sfociano nell’omicidio di mareros avversari, sono l’estorsione ai danni di imprenditori locali, di compagnie di autobus, di semplici cittadini, spaccio di droga, furti, rapine, omicidi su commissione.
Benché siano state scoperte collaborazioni tra pandilleros e organizzazioni del narcotraffico latinoamericano, esse non sembrano essere determinanti, e in ogni caso, in quelle circostanze, i membri delle gang svolgono generalmente il ruolo di «semplice» manovalanza.
Il fenomeno è divenuto talmente preoccupante da indurre il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti a definire per la prima volta, nell’ottobre 2012, la Mara Salvatrucha un’organizzazione criminale transnazionale, inserendola in una lista nella quale compaiono anche Camorra, Yakuza (la mafia giapponese), Brothers’ Circle (organizzazione con base in paesi dell’ex Unione Sovietica, coinvolta nel traffico di droga), Zetas (uno dei maggiori cartelli messicani della droga): «MS-13 è composta da almeno 30mila membri in una serie di paesi, tra cui El Salvador, Guatemala, Honduras e Messico – si legge nel documento dell’US Treasury Department -, ed è oggi uno dei gruppi criminali più pericolosi e in rapida espansione nel mondo. MS-13 è attiva negli Stati Uniti, con almeno 8.000 membri […]. La natura criminale di MS-13 si può riscontrare in uno dei suoi motti, “Mata, roba, viola, controla” (“uccidi, ruba, stupra, controlla”). Sul fronte interno, il gruppo è impegnato in molteplici reati, tra cui omicidio, estorsioni, traffico di droga, traffico di esseri umani, prostituzione. […] Le cliquas (gruppi) locali della MS-13 prendono direttive da leader residenti all’estero […]. Il denaro generato dai gruppi locali negli Stati Uniti viene mandato alla leadership del gruppo in El Salvador».
Allo stato attuale è difficile trovare dati attendibili circa il numero di mareros nel mondo e la loro diffusione nei diversi continenti, sembra certo, tuttavia, che il fenomeno non si sia espanso al di fuori di quello americano. Nonostante si senta parlare di tanto in tanto di bande di latinos presenti anche in alcune città europee e italiane – è noto il caso del gruppo di giovani che nel giugno 2015 hanno assalito con un machete il controllore di un treno in Lombardia -, non è stato trovato alcun loro legame diretto con le organizzazioni del Centroamerica. Le gang del nostro continente non sono affiliazioni della MS-13 o della M-18. I gruppi presenti in Italia che assumono il nome delle bande salvadoregne si ispirano a esse, ne assumono certamente alcuni caratteri, ma non sono cliquas e non ricevono ordini da El Salvador.
Annalisa Zamburlini
Dalle strade di Los Angeles al Centro America
Vivere e morire per la banda
Le due più grandi e pericolose pandillas si chiamano Barrio 18 e Mara Salvatrucha. In guerra tra loro e con le istituzioni dei paesi in cui sono diffuse, sono responsabili di molti crimini, tra cui migliaia di omicidi. Gli Usa, paese in cui sono nate e da cui sono state esportate in Centro america negli anni ‘90, le considerano delle vere e proprie organizzazioni criminali transnazionali.
Nate dal disagio di fasce di popolazione emarginate, crescono grazie all’ingiustizia strutturale presente in quei paesi. I loro membri, spesso volontari, a volte reclutati con la forza, sempre sono costretti a rimanere: pena la morte.
La loro diffusione pare inarrestabile, tanto più quando la si vuole fermare con la repressione.
C’è stato un tempo in cui «pandilla» e «mara» significavano semplicemente gruppo o combriccola. Da qualche decennio, nel cosiddetto «triangolo Nord centroamericano» (El Salvador, Guatemala, Honduras), questi termini si sono trasformati nel nome proprio di un fenomeno sociale di proporzioni e drammaticità inaudite. Le celebri Pandilla Barrio 18 (il cui nome è dovuto al luogo di origine, la 18^ strada di Los Angeles) e Mara Salvatrucha MS-13 (probabilmente da mara – gruppo -, salva – salvadoregni -, e trucha – astuti -, seguito dal numero con cui si era denominata l’alleanza delle pandillas latinoamericane del Sud della Califoia), sono le due gang più grandi e pericolose, a cui se ne aggiungono altre: Barrio 18 Revolucionarios e Barrio 18 Sureños, la Pandilla Mao Mao e la Mara Mirada Loca.
Origini statunitensi
Fin dagli inizi del ‘900 gli Usa furono meta di immigrazione per molti messicani, a cui seguirono, nella seconda metà del secolo, migliaia di centroamericani in fuga da povertà, repressione politica e guerre. Nelle città di destinazione (in particolare Los Angeles), i migranti vivevano in quartieri marginali e sovraffollati ed erano vittime di discriminazione sociale e lavorativa. Spesso gli adulti, costretti a lavorare molte ore al giorno, trascuravano la cura dei figli, che passavano tutto il loro tempo in strada. Questi giovani, gravati dalla povertà e dall’esclusione sociale all’interno di una società materialista e relativamente benestante, erano molto meno inclini dei loro genitori ad accontentarsi della sopravvivenza. Tra le «risposte» che essi svilupparono per far fronte alla condizione di emarginazione, vi furono i gruppi di strada, in spagnolo chiamati pandillas o maras.
Erano semplici gang composte da giovani latinos che si riconoscevano in un’identità comune (la nazionalità o la lingua, il modo di vestire, la musica ascoltata, ecc.). Negli anni ’80 due grandi bande assunsero il predominio sulle altre: erano la Pandilla Barrio 18 (in origine composta prevalentemente da messicani) e la Mara Salvatrucha (MS-13), formata da salvadoregni.
La rivalità tra le due bande nacque, per ragioni difficili da rintracciare, nei primi anni ’90, quando iniziò una feroce guerra che ha provocato fino a oggi decine di migliaia di vittime.
Deportazioni in massa
Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 gli Stati Uniti decisero di fronteggiare la violenza e la delinquenza causate dalle gang giovanili rimpatriandone in massa i componenti. In particolare, dopo che El Salvador pose fine alla guerra civile con la firma degli accordi di pace del gennaio 1992, il Servizio per l’immigrazione e la cittadinanza (The United States Immigration and Naturalization Service), attraverso la Violent Gang Task Force, intensificò l’attività di identificazione e rimpatrio degli immigrati con precedenti penali. Nel 1996 il Congresso approvò una nuova e più restrittiva legge sull’immigrazione, che portò al rimpatrio di decine di migliaia di centroamericani. Le conseguenze di quella legge si registrano tutt’oggi: secondo il Dipartimento della sicurezza intea degli Stati Uniti, le persone con precedenti penali arrestate all’interno degli Usa ed espulse verso altri paesi, in particolare El Salvador, Honduras, Guatemala e Messico nel 2013 è stato di 110.115 unità.
Il fenomeno delle espulsioni negli anni ‘90 riguardò persone che spesso avevano vissuto gran parte o tutta la loro vita negli States. Queste, arrivate nei loro paesi d’origine, si trovarono di fronte a un mondo estraneo, che tentava faticosamente di rialzarsi dopo decenni di violenze politiche, militari e sociali, con istituzioni fragili e altissimi livelli di povertà e disoccupazione. Privati della possibilità di inserirsi positivamente nel nuovo contesto sociale, i pandilleros nordamericani portarono in El Salvador, Honduras e Guatemala il loro stile da gangster di strada e, con esso, la rivalità tra le due grandi maras, la MS-13 e la M-18. Nel tempo, le due bande si sono trasformate in reti transnazionali (che collegano i tre paesi centroamericani e gli Usa), alle quali appartengono migliaia di piccole cellule locali chiamate cliquas.
Vita da pandilleros
Le due grandi pandillas si assomigliano per organizzazione e regole di condotta. Entrambe infatti prevedono un violento rito d’ingresso (i ragazzi in genere subiscono un pestaggio da parte dei membri della gang, le ragazze invece possono scegliere se subire un pestaggio o uno stupro di gruppo), in entrambe viene attribuito ai nuovi membri un nome nuovo, entrambe hanno un rigido codice comportamentale, basato sull’obbedienza, il rispetto per il gruppo e la solidarietà tra i membri. Le due maras si contrappongono l’una all’altra e la fedeltà al gruppo esige che i propri membri attacchino e, se possibile, uccidano gli avversari.
Abbiamo chiesto a Jorge González Méndez, cornordinatore dell’area Studio e ricerca dell’Unità di Giustizia minorile della Corte Suprema di Giustizia di El Salvador, quale sia il codice di comportamento vigente all’interno delle pandillas. La sua risposta non ammette mezze misure: «Semplicemente vivere e morire per la banda. Una volta che la persona è accettata all’interno della pandilla, uscie è estremamente difficile, se non impossibile. L’adesione e la fedeltà al gruppo devono essere totali. Non bisogna inoltre dimenticare che la pandilla, per molti ragazzi, sostituisce la famiglia: è l’unico ambiente in cui trovano solidarietà, mutuo aiuto, protezione, senso di appartenenza e legame con un territorio». Valentina Valfré, project manager di Soleterre Onlus, con l’amarezza di chi ha visto le bande inghiottire alcuni ragazzini inseriti nei progetti dell’Ong commenta: «È facile reclutare adolescenti che non hanno famiglia o che vivono una situazione di grave marginalità […]. Abbandonare la banda significa condannarsi a morte: se non ti uccidono i tuoi compagni lo faranno quelli della banda avversaria».
La banda come famiglia
Quali sono le ragioni che spingono verso la pandilla? In El Salvador, Honduras e Guatemala l’ingiustizia strutturale, che fu tra le principali cause delle guerre civili, è ancora lontana dall’essere sanata. Periferie urbane fatte di baracche, flagellate dalle calamità naturali e prive dei servizi indispensabili, e campagne poverissime e arretrate, con strade impraticabili, fanno da contraltare a quartieri lussuosi, centri commerciali luccicanti, auto di grossa cilindrata e resort esclusivi. La povertà, l’elevato tasso di disoccupazione, le difficoltà nell’accesso all’istruzione superiore (basti pensare che in El Salvador vi è una sola università pubblica, con tre sedi, a fronte di decine di università private, troppo costose per i figli dei campesinos), gli elevatissimi livelli di violenza intrafamiliare, l’ingente numero di gravidanze precoci e di madri che crescono i figli da sole, senza un compagno (situazioni dovute anche alla perdurante cultura machista), costituiscono l’incubatrice sociale del fenomeno delle bande e della loro escalation violenta. La cliqua, cioè il sottogruppo locale che fa capo alla grande pandilla, diventa la nuova famiglia, capace di rispondere al profondo bisogno di appartenenza, identità e protezione proprio di ogni persona, soprattutto se adolescente.
Reclutamento forzato
Non tutti i pandilleros però si avvicinano spontaneamente alle bande, spinti dal fascino della vida loca e dai bisogni materiali e sociali. Uno degli aspetti più drammatici del fenomeno riguarda il reclutamento forzato di bambini e adolescenti, che costringe interi nuclei familiari a spostamenti all’interno del paese o a migrare all’estero, nel tentativo di proteggere i propri figli.
Un elemento estremamente interessante della vida pandilleril riguarda i tatuaggi: fin dall’epoca statunitense, le pandillas ricorrono ai disegni sulla pelle per suggellare l’appartenenza alla banda. Jorge González spiega: «I tatuaggi indicano l’appartenenza alla pandilla, e solo coloro che hanno superato il rito di iniziazione della banda possono utilizzarli. Ogni banda ha i suoi simboli e i suoi disegni. In passato, il viso e il petto tatuati indicavano che la persona aveva conseguito particolari meriti all’interno del gruppo. Oggi – spiega González – la pratica dei tatuaggi sta diminuendo, in quanto i pandilleros hanno un maggiore bisogno di passare inosservati». Infatti, da quando l’appartenenza stessa a una banda può portare all’arresto, i poliziotti e i militari sono soliti fermare i giovani per strada, immobilizzarli e sollevare loro le magliette per verificare l’eventuale presenza dei disegni incriminanti.
Convivere con le pandillas
Terrore, rassegnazione, rabbia. Sono questi i termini che descrivono la situazione di chi vive nei territori controllati dalle pandillas, di quelli che i mareros chiamano «civili», mutuando il linguaggio bellico. Nella maggior parte dei casi la gente non riesce a opporsi al potere della banda, che impone le proprie regole per esercitare le sue attività criminali. Solo raramente la popolazione di un quartiere o di un villaggio riesce a resistere all’infiltrazione delle bande o a contenee le pretese di dominio.
Lo strapotere delle maras, la loro guerra aperta con le autorità, il clima di insicurezza, spingono ogni anno migliaia di persone ad abbandonare il proprio luogo di residenza. Accanto a coloro che cercano rifugio in altre zone del paese o all’interno del Centroamerica, vi sono migliaia di altre persone che intraprendono il pericoloso percorso migratorio verso gli Stati Uniti e il Canada, pur sapendo che l’attraversamento del Messico e l’ingresso illegale negli Usa li esporrà alla violenza dei trafficanti, agli interessi di organizzazioni criminali tra le più pericolose al mondo, e di autorità pubbliche corrotte, e al rischio del rimpatrio.
Responsabili, ma non di tutto
Secondo Jorge González Méndez, le stime dell’Unodc sul numero di pandilleros presenti in El Salvador sono troppo ottimistiche, e ci dice che altre parlano di circa 60mila membri (su una popolazione di poco superiore ai sei milioni di abitanti: un pandillero ogni 100). Quali che siano le stime più attendibili, si tratta comunque di numeri impressionanti. Essi tuttavia non possono in alcun modo giustificare la criminalizzazione e stigmatizzazione dell’intera popolazione adolescente e giovane, di fatto portata avanti dai mezzi di comunicazione e da gran parte delle forze politiche. Allo stesso modo, è semplicistico ed errato attribuire l’intera responsabilità della violenza in El Salvador alle maras, facendone un capro espiatorio per tutti i problemi del paese.
Gli effetti delle politiche di «mano dura»
A partire dal 2003, in El Salvador, il fenomeno delle pandillas è stato affrontato attraverso le cosiddette politiche «di mano dura», e provvedimenti legislativi repressivi, che prevedevano l’inasprimento delle pene e permettevano arresti di massa di giovani delle aree urbane marginali.
Tali provvedimenti non accompagnati da alcuna politica sociale, insieme alle massicce campagne mediatiche criminalizzanti, non hanno raggiunto l’obiettivo desiderato, e hanno anzi favorito un processo di cambiamento e aggravamento del fenomeno. Gli arresti di massa costrinsero i mareros a nascondersi, isolando ulteriormente le cliquas dal resto della società. Il forte clima di sospetto nei confronti di chiunque fosse vicino, anche solo in apparenza, a una mara, rese ancora più difficile l’integrazione sociale dei giovani provenienti dalle comunità marginali, e pressoché impossibile il reinserimento degli ex pandilleros. L’incarceramento di molti compagni e capi rafforzò la coesione e l’organizzazione delle pandillas, sia all’interno delle carceri, sia all’esterno. Anche la solidarietà nella cliqua divenne più forte: i pandilleros in libertà si organizzarono per aiutare i compagni detenuti, foendo loro beni e denaro, e ostacolando le indagini e i processi attraverso le minacce ai testimoni. Aumentarono quindi le necessità economiche e la strutturazione dei gruppi, spingendo le pandillas a «professionalizzare» la loro attività criminale, soprattutto nell’ambito delle estorsioni. Inserendosi nel commercio della droga e prestando la propria manovalanza come sicari, le bande hanno decisamente superato – ma non annullato – l’aspetto simbolico della violenza (affermare il proprio dominio sulla pandilla rivale e sul territorio), acquisendo i tratti tipici dei gruppi criminali organizzati. L’inserimento della MS-13 nell’elenco delle organizzazioni criminali transnazionali da parte del Dipartimento del Tesoro degli Usa ne è in qualche modo la certificazione.
Dalla tregua all’escalation
I due governi di sinistra, guidati da Mauricio Funes (dal 2009 al 2014), e da Salvador Sanchéz Cerén (dal 2014 a oggi), nonostante le promesse, non hanno saputo prendere le distanze dalle politiche repressive e persecutorie attuate dai governi del precedente ventennio, guidati dal partito della destra nazionalista Arena. In prossimità della fine del suo mandato, il presidente Funes tentò di arginare la violenza crescente stipulando un accordo segreto (la cosiddetta «tregua») con le pandillas. Tale patto, raggiunto con la mediazione di un militare, di un parlamentare ex-guerrigliero e di un vescovo castrense, impegnava la MS-13 e la Barrio 18 a smettere i reciproci ammazzamenti in cambio di alcuni benefici, tra cui il trasferimento di trenta capi mareros da un carcere di massima sicurezza a un istituto con un regime meno severo, dove sono consentite le visite dall’esterno, e una minore persecuzione da parte delle autorità nei territori controllati dalle bande. L’accordo non comprendeva alcun impegno, da parte delle maras, in merito all’abbandono di tutte le altre attività criminali che, grazie alla riduzione della repressione, sono quindi aumentate.
Funes, di fronte alle polemiche sollevatesi nel momento in cui l’accordo è venuto alla luce, ha più volte confermato e poi smentito il fatto, contribuendo all’inasprimento di un clima politico già aggressivo, creando sfiducia e disorientamento nei cittadini. La tregua, che ha portato a un significativo – per quanto temporaneo – calo degli omicidi e ad alcuni altri piccoli successi (ad esempio la proclamazione dei «santuari di pace», cioè di centri abitati in cui le maras s’impegnavano a non commettere crimini), si è progressivamente dissolta fino all’avvio di una recente escalation di violenza che ha fatto sprofondare El Salvador in una situazione peggiore di quella precedente.
Una situazione fuori controllo
Sempre più frequentemente le organizzazioni per i diritti umani e i media indipendenti denunciano abusi di potere di poliziotti e militari, che sarebbero responsabili dell’uccisione di decine di pandilleros o sospetti tali. Inoltre, il ritrovamento di cadaveri di affiliati alle bande, freddati nottetempo con un colpo alla nuca da distanza ravvicinata e le mani legate dietro alla schiena, ha riattivato l’allarme nei confronti dei gruppi di sterminio: formazioni criminali, eredi degli squadroni della morte attivi durante la guerra civile, composte da militari e poliziotti che agiscono al di fuori del controllo dello stato, con l’obiettivo di «ripulire» il paese dalle maras.
L’esperienza della tregua ha mostrato che non vi sono scorciatornie per la risoluzione del problema delle bande di strada. In assenza di politiche di prevenzione e reinserimento sociale capaci di offrire alternative concrete ai giovani, qualunque accordo con i leader di questi gruppi è destinato a fallire e a far aumentare il loro potere di ricatto nei confronti dello stato.
Strategie efficaci cercasi
Con la sensibilità di chi da decenni si batte per i diritti dei minori, specie se segnati dalla violenza agita o subita, Jorge González lamenta la mancanza di una politica nazionale specifica per l’infanzia e l’adolescenza, che consideri il contesto familiare e sociale in cui il ragazzo autore di reato è cresciuto, e che investa realmente e con convinzione nella prevenzione e nel recupero.
Lo studioso esperto di giustizia minorile prova a ipotizzare quali potrebbero essere le strategie politiche, sociali ed economiche utili a migliorare la situazione. Innanzitutto ci parla dei salari: «La maggior parte delle offerte di lavoro prevede il salario minimo, che non raggiunge i 300 dollari mensili. Inoltre, il “settore” che tira di più è quello del lavoro irregolare, dove non vi è nemmeno un contratto a sancire i diritti minimi e la protezione sociale. In questo scenario, le economie criminali esercitano un fascino irresistibile sui giovani privi di prospettive. Abbiamo urgente bisogno di politiche sociali che tutelino i giovani e le famiglie, aumentando significativamente i posti di lavoro regolari che diano accesso a salari rapportati al costo della vita». Un secondo ambito di intervento per Jorge González Méndez dovrebbe riguardare le forze dell’ordine: «Anche i poliziotti vanno salariati meglio, affinché siano più motivati e non si facciano facilmente corrompere. L’esercito, che in questi tempi difficili è chiamato a collaborare con la polizia in compiti di sicurezza pubblica, necessita di formazione specifica».
Urge inoltre contrastare il reclutamento dei bambini da parte delle bande: «Le scuole devono essere difese e bisogna proteggere i bambini nel percorso casa-scuola-casa». Altra priorità riguarda le carceri: quelle salvadoregne (e centroamericane in generale) assomigliano più a gironi infeali che a luoghi di risocializzazione. Non si può mettere una persona in una cloaca e pensare di tirarla fuori pulita. Il livello di degrado, violenza e sovraffollamento dei centri di reclusione per adulti e minori rende difficoltoso anche il lavoro delle organizzazioni umanitarie più combattive.
Annalisa Zamburlini
I casi di gang di giovani latinos in Italia
Le pandillas a Milano
Nel giugno 2015, alla periferia del capoluogo lombardo, un gruppo di latinos ha aggredito un capotreno ferendolo gravemente. I media hanno lanciato l’allarme delle gang giovanili nelle nostre periferie. Ma, pur essendo un fenomeno da monitorare con attenzione, i gruppi in Italia sono pochi, poco organizzati e, soprattutto, non sono legati alle maras salvadoregne.
L’11 giugno 2015, un gruppetto di giovani latinoamericani che viaggiava abusivamente su un treno alla periferia di Milano ha aggredito a colpi di machete il controllore, ferendolo gravemente. Secondo le indagini, gli assalitori appartengono alla Mara Salvatrucha. Questo triste episodio ha fatto riaccendere i riflettori sulla radicazione delle bande latinoamericane in alcune città europee, in particolare Milano, Genova, Roma, Napoli, Barcellona e Madrid. Si tratta di un arcipelago di raggruppamenti (Latin Kings, Latin Forever, Trinitarios, Netas, MS-13, Barrio 18, Comando, e altri), spesso organizzati sulla base del paese di provenienza (Ecuador, Perù, Bolivia, Repubblica Dominicana, El Salvador), eterogenei per livello di strutturazione e coesione intea, con una prevalente funzione di aggregazione identitaria e sociale, che in alcuni casi si sono resi responsabili di fatti criminosi, di diversa gravità.
Ricongiungimenti famigliari
Come spesso capita, la sovraesposizione mediatica di alcuni gruppi devianti (cioè che vengono socialmente percepiti come non rispondenti alle regole sociali condivise dalla maggioranza in un certo contesto storico-sociale) causa una percezione amplificata e distorta nell’opinione pubblica, generando uno sproporzionato allarme sociale. È quanto è capitato lo scorso giugno, ed è per questo che riteniamo importante sottolineare un primo dato, per quanto ovvio sia: il fenomeno delle bande non riguarda tutti i giovani latinoamericani presenti nel territorio italiano. Tra le migliaia di latinos che vivono nella città di Milano, solo poche centinaia, forse 150 o 200, hanno in qualche modo a che fare con esso.
Dai dati raccolti attraverso il progetto «Latinos. Interventi per l’integrazione sociale di giovani latinoamericani» – che negli anni 2010-11 ha portato alla costituzione di un tavolo di rete tra diverse realtà del milanese2 interessate dal fenomeno delle pandillas -, e dalle testimonianze di diversi ragazzi, emerge che molti membri di bande hanno alle spalle una storia di ricongiungimento familiare: l’esperienza di una migrazione difficile e molte volte non voluta.
Le vicende raccontate spesso si assomigliano: una famiglia di provenienza segnata dalle difficoltà economiche e da una figura patea assente o, comunque, marginale (come accade di frequente nelle società latinoamericane). Una madre che migra affidando alle cure dei nonni o di altri familiari i figli ancora piccoli, i quali sperimentano il loro primo grande trauma. La possibilità del ricongiungimento familiare che arriva dopo diversi anni, quando la madre si è regolarizzata. Il minore, ormai adolescente, che intraprende il viaggio per raggiungerla, a volte senza sapere che si tratta di un viaggio «di sola andata», e che viene quindi esposto al nuovo trauma del distacco dagli adulti che lo hanno cresciuto e dagli eventuali fratelli, nel caso in cui il progetto di ricongiungimento riguardi un figlio per volta.
Giunto in Italia il ragazzo si trova spesso a vivere con una madre pressoché sconosciuta, che sovente ha costituito, a volte a sua insaputa, una nuova famiglia e ha avuto altri figli. Quella madre e il padre (quando c’è) sovente sono impegnati diverse ore al giorno in lavori socialmente poco riconosciuti, vivono in piccoli appartamenti e non godono del benessere che il figlio si aspettava di trovare, illuso dal potenziale d’acquisto che nel suo paese avevano le rimesse provenienti dall’Europa.
In molti casi il ricongiungimento avviene ad anno scolastico avviato (cioè a gennaio, poiché in diversi paesi latinoamericani il calendario scolastico coincide con l’anno solare), circostanza che fa aumentare le difficoltà di inserimento del giovane, già disorientato per il fatto di trovarsi in un paese freddo, profondamente diverso dal suo, di cui non parla la lingua, in un periodo della vita, l’adolescenza, di per sé difficile.
Il vissuto di esclusione, il risentimento verso la famiglia, il bisogno di ritrovare elementi della propria «vita precedente», spingono il nuovo arrivato a cercare la vicinanza e l’affetto di coetanei che abbiano condiviso la stessa esperienza.
Fuga dal reclutamento
Una delle organizzazioni partner del Progetto Latinos è stata la Ong Soleterre Strategie di Pace, che, operando sia in El Salvador (con attività di prevenzione rivolte ai ragazzi dei quartieri più violenti, e con un difficile lavoro di sensibilizzazione e coinvolgimento delle istituzioni) che a Milano (attraverso il Centro per cittadini e famiglie migranti), ha un osservatorio privilegiato sul problema delle bande, principalmente su quelle di derivazione salvadoregna (la MS-13 e la 18). «I giovani migranti salvadoregni faticano a integrarsi anche tra i loro connazionali adulti», ci spiegano Valentina Valfrè e Chiara Lainati, rappresentanti di Soleterre, «dal momento che si sono verificati anche qui episodi di minacce e di estorsioni, la comunità salvadoregna ha timore che i nuovi arrivati siano già coinvolti con le pandillas. Inoltre, negli ultimi tempi, con l’aumentare della violenza nella madrepatria, stanno diventando più numerosi i casi di ragazzini che arrivano in Italia per fuggire al reclutamento. Seguono la strada del ricongiungimento o si appoggiano a familiari e conoscenti già emigrati, grazie anche al fatto che un cittadino salvadoregno non necessita di visto per entrare in Italia». Il Centro per famiglie migranti della Ong intercetta molti di questi giovani e, insieme ad altre realtà del territorio, li supporta anche nel lungo iter per la richiesta dello status di rifugiato, che però non sempre viene concesso.
Andrea De Liberto, giudice onorario del Tribunale per i minori di Milano, ci racconta di aver seguito anche casi di padri che, per sottrarre i figli alla violenza e al rischio di reclutamento, abbandonano il proprio lavoro e interrompono il percorso scolastico dei figli, portandoli dalla madre in Italia e chiedendo poi il permesso di soggiorno temporaneo sulla base dell’art. 31 del d.lgs. n. 286/98, che consente al genitore di restare sul suolo nazionale per assistere i figli minori.
La banda come famiglia
Trauma da migrazione, marginalità sociale, solitudine, disagio adolescenziale sono quindi tra gli elementi che spingono alcuni giovani latinos (e non solo) verso l’arcipelago delle bande. Laddove lo stato, la famiglia, la scuola, le Chiese e le altre agenzie di socializzazione non riescono ad arrivare, rischiano di svilupparsi forme di socializzazione alternativa, che possono assumere i caratteri della devianza o della delinquenza.
Eleonora Riva, psicologa transculturale e psicoterapeuta, responsabile scientifico del Centro Clinico Transculturale e Direttore del corso di specializzazione in psicoterapia Transculturale della Fondazione Cecchini-Pace di Milano, ci spiega: «Le bande rispondono a esigenze sociali, culturali, valoriali e bisogni pratici non colmati da altri enti. Il problema è che ci dimentichiamo che esse costituiscono un sistema normativo e di valori che è anche positivo. Lo stare insieme di un gruppo di spacciatori si esaurisce nell’attività criminale, le bande, invece, si costituiscono come una “famiglia”, come un gruppo sociale, rispondendo di fatto a una serie di esigenze anche formative. Se, nei confronti di un ragazzino che frequenta le bande, agiamo come se appartenesse a un qualsiasi gruppo delinquenziale, otterremo scarsissimi risultati. Uscire dalle bande è solitamente molto più difficile, per una serie di vincoli e di rischi (c’è un dazio da pagare: ad esempio, sei destinato a prendere un sacco di botte quando incontri per strada qualcuno del tuo gruppo o dei gruppi avversari), e soprattutto perché nessuno sostituisce i benefici dell’appartenenza alla banda, che risponde al bisogno di una famiglia, di valori, di riconoscimento sociale». Se è paradossale che le bande siano spesso il luogo in cui questi minori imparano per la prima volta a rispettare delle regole, il problema chiaramente è che queste non sempre coincidono con quelle della società che le circonda.
Le bande non sono tutte uguali e la maggior parte sono inoffensive
Cappellino calcato in testa, auricolari incollati alle orecchie, rosario indossato come un amuleto, pantaloni larghissimi sotto i quali nascondono un macete, felpa con cappuccio. Slang spagnolo. È questo l’identikit dei latinos che i media sono soliti presentarci ogni qualvolta si verifichi un episodio di violenza che ne vede qualcuno protagonista.
Il dott. De Liberto si oppone a questo processo di stigmatizzazione: «Come sempre, bisogna fare delle distinzioni. La maggior parte di questi giovani sono dei “disadattati” che vivono nell’eco della banda, ne riproducono certi canoni, ma non sono affatto pericolosi. Stiamo parlando di ragazzini che si fanno bevute al parco, vanno in discoteca – a Sud di Milano, in zona Corvetto, un locale molto in voga tra i latinos è il Matinè -, passano il tempo lì, soprattutto alla domenica, ma alle 10 di sera vanno a casa».
Più che di bande, in questo caso potremmo parlare di gruppi di strada, così poco strutturati – a differenza delle pandillas salvadoregne – da raccogliere anche adolescenti non originari dell’America Latina, marocchini, tunisini, ragazze slave, che sono quindi del tutto estranei alla retorica dei giovani latinos, ma dei quali condividono il malessere e il disadattamento dovuto alla condizione di adolescenti e di immigrati.
Il pericoloso «salto di qualità»
Solo in alcuni casi l’identificazione con il gruppo e lo stigma sociale portano all’assunzione di un’identità deviante che sfocia nella criminalità. «Il salto di qualità – prosegue De Liberto – si ha quando assumono un soprannome e iniziano a tatuarsi, anche in posti molto visibili come la faccia e le mani. Il tatuaggio è il segno di un’appartenenza al gruppo che si vuole esibire, che fa sentire forti ed è più importante di tutto il resto. È a questo livello che diventano pericolosi, soprattutto tra di loro: dal momento che molti di questi ragazzi non sanno nemmeno perché stanno insieme, devono eleggere un nemico, che può essere un nemico immaginario o realissimo, come la banda concorrente, verso cui canalizzare l’energia e la violenza, e dare così un senso al loro stare insieme». Questi ragazzi sono solitamente i «capi», quelli cui gli altri più giovani e meno organizzati cedono il posto in discoteca alla sera.
La dipendenza emotiva dal gruppo e l’assunzione di sostanze (marijuana, cocaina, alcol), sono fattori che favoriscono i comportamenti contrari alla legge. «La trasgressione è vissuta come una scelta di gruppo, con la tipica frammentazione delle responsabilità. In sede penale è difficile far capire loro che se in gruppo hanno rubato un cellulare, tutti hanno responsabilità, non solo chi ha materialmente afferrato l’oggetto. Nei percorsi di recupero si punta molto a potenziare la capacità di scelta indipendente, anche per aiutare il soggetto ad assumere una sua identità, che lo porti a prendere le distanze dal gruppo e, di conseguenza, ad assumere consapevolezza rispetto al reato. Spesso in quella fase riescono a mettersi dalla parte della vittima e a comprenderne il vissuto».
Niente a che fare con le bande del Salvador
L’assalto al capotreno del giugno scorso costituisce un fatto drammatico e inusuale. È infatti raro che i membri delle gang latine di Milano, anche di quelle più strutturate e con connotati più violenti, esercitino una tale violenza nei confronti di persone estranee all’arcipelago delle bande. I reati di cui solitamente si rendono responsabili verso «gli estei» sono rapine, scippi e piccoli furti, finalizzati a ottenere i soldi necessari per le feste, la birra e le sostanze stupefacenti.
Tutte le testimonianze e gli studi consultati concordano sul fatto che, diversamente da quanto avviene in El Salvador e in altri paesi latinoamericani, le bande presenti nel milanese non controllano il territorio. Le nostre città non sono spazi «vuoti», dove qualche decina di adolescenti e giovani può imporre il proprio predominio. «Agli occhi della criminalità organizzata autoctona e internazionale – commenta De Liberto -, i leader più pericolosi delle “nostre” bande sono degli strani elementi folkloristici, a cui magari vendere alcol o sostanze, ma di un livello criminale così basso che mai affiderebbero loro attività illegali o il controllo del territorio. Oltretutto, a partire dal 2012, le azioni cornordinate della Procura minorile e di quella degli adulti, basate sulle indagini e soprattutto sulle intercettazioni delle comunicazioni che i membri delle gang si scambiavano tramite messaggi, telefonate e Facebook, hanno portato a numerosi arresti, favorendo la trasformazione e il processo di involuzione delle bande». D’altra parte, non si può nemmeno affermare che questi gruppi si costituiscano sulla base di un’appartenenza territoriale: a differenza delle pandillas latinoamericane, dove la dimensione del barrio (quartiere) è molto forte, le aggregazioni latine milanesi sono formate da giovani che abitano in parti diverse della città e che si riuniscono sulla base di una condivisione simbolica e valoriale.
La connessione tra le bande made in Milan e quelle radicate nei paesi latinoamericani e negli Stati Uniti è molto labile: «Si tratta di un involucro esterno – ci spiega ancora De Liberto -. Non sussistono legami criminali, anche perché da noi il controllo criminale del territorio c’è già. Le bande assumono la parvenza delle pandillas, legata alla ritualità, ai tatuaggi, al bere, ai codici di comportamento (ad esempio il pestaggio, la punizione per chi vuole andarsene, ecc.), ma non si può certo pensare che gli ordini arrivino da oltreoceano».
Offrire percorsi alternativi
Partiamo da un dato di fatto: le bande a Milano sono in declino, soprattutto nell’ambito minorile. In una società in rapida trasformazione, anche le forme del disadattamento e della marginalità sociale sono destinate al mutamento.
Dal fenomeno delle bande però possiamo trarre alcune indicazioni, certo non inutili di fronte all’attuale emergenza migratoria che sta portando nelle nostre città giovani ancora più traumatizzati, spaesati e soli dei figli dei lavoratori provenienti dall’America Latina.
Eleonora Riva, ripensando ai giovani dei gruppi di strada che ha seguito, insiste su un punto che ci pare cruciale, quello delle alternative che la nostra società è in grado di offrire loro. «La famiglia non c’è o è molto problematica; la scuola, che fa fatica ad accogliere i bambini stranieri nati in Italia, spesso non è in grado di farsi carico delle esigenze dei ragazzi immigrati già grandicelli. Entrare a far parte di una banda significa acquisire una famiglia su cui poter contare, permette un’appartenenza che la biologia e la migrazione non hanno concesso. I nostri servizi falliscono quando mettono il minore davanti a questa opzione: o esci dalla banda e sei solo, o rimani nella banda e finirai in carcere. Molti scelgono la banda perché sanno che questa, a differenza dei servizi sociali, non li abbandonerà, provvederà ai loro figli mentre loro sono in carcere, e all’uscita offrirà loro un posto dove andare. Lavorare con le bande è più difficile che affrontare altri tipi di delinquenza, nei quali se esci dal giro, o se vieni arrestato, ti ritrovi senza amici. Le bande non ti abbandonano, se le lasci sei tu il traditore.
La prevenzione e il recupero avranno possibilità di successo quando offriranno opportunità concrete e accessibili, che tengano conto della situazione di svantaggio di questi ragazzi e della loro cultura, che non perpetuino quella che noi psicologi chiamiamo violenza strutturale, cioè il fatto che gli “ultimi” hanno meno possibilità di accedere alle risorse, di determinare il proprio percorso di vita, di raggiungere gli standard di prestazione richiesti per ottenere i benefici che la scuola, il mondo del lavoro, i servizi sociali, che sono basati su un sistema premiale, offrono».
Il richiamo all’accessibilità dei contesti che offrono forme di socialità alternativa alle bande è molto forte anche nelle parole del giudice De Liberto: «Una politica sociale preventiva deve passare dalle scuole (soprattutto quelle dell’obbligo), dagli oratori, dai centri di aggregazione giovanile, dove devono esserci persone capaci di ascoltare il disagio di questi ragazzi e di proporre attività di bassa soglia, dove sia facile entrare e partecipare, e che non richiedano grandi competenze, soprattutto linguistiche. Bisogna impegnarsi per prevenire la ghettizzazione dei nuovi arrivati, evitare che incorrano subito nello stigma e quindi si rivolgano al leader latinoamericano che è qui da più tempo e si è costruito un’autorità. Di formule educative di questo tipo, di cui si contano già esperienze positive, non possono che beneficiare anche molti ragazzi italiani, che con alcuni loro coetanei stranieri condividono la solitudine, il vuoto e la noia…».
Annalisa Zamburlini
NOTE
1) U.N. Office on Drugs and Crime, Transnational organized crime in Central America and the Caribbean: a threat assessment, 2012.
2) Il Progetto Latinos è stato cofinanziato dall’Unione europea e dal ministero degli Intei nell’ambito dei «fondi per l’integrazione di cittadini di paesi terzi». Ha visto come partner l’Associazione Comunità nuova Onlus, la Cooperativa sociale Codici, l’Associazione Soleterre Strategie di pace Ong, l’Associazione Suonisonori Onlus. Al tavolo di rete hanno aderito il Comune di Milano, il Tribunale ordinario, il Tribunale per i minorenni, il Centro per la Giustizia minorile della Lombardia, la Procura della Repubblica, la Questura, il Provveditorato regionale lombardo dell’Amministrazione penitenziaria, la sezione milanese dell’Associazione nazionale Magistrati per i Minorenni e la Famiglia, i Consolati generali di El Salvador e dell’Ecuador, l’Ufficio scolastico regionale a Milano, l’Asl, il Centro per l’Etnopsichiatria dell’A.o. Niguarda, la Cooperativa Arimo, la Cooperativa Il Minotauro.
Grandioso
Su Facebook ho trovato una storia scritta da una brillante giovane avvocata africana. L’ho tradotta liberamente dall’inglese, eccetto il nome del protagonista che è in italiano anche nell’originale.
«C’era una volta un uomo chiamato Grandioso. Era un ladro, di quelli d’alto bordo. Eppure tantissimi, affascinati dalla sua grande ricchezza, lo amavano e ne tessevano lodi sperticate. Grandioso era generoso con la sua “corte” e, furbescamente, condivideva il suo bottino con i più fedeli tra i suoi ammiratori diventati guardiani del suo tesoro. Non discriminava Grandioso. Derubava grandi e piccoli, uomini e donne, ricchi e poveri, senza guardare né religione né appartenenza etnica. Era imparziale. Rubava a tutti e faceva sparire i pochi che osavano opporsi al suo strapotere.
Più rubava, più lo applaudivano. Più lo celebravano, più gli offrivano occasioni di rubare. Certo, perfino lui si meravigliava della stupidità dei tanti che lo ammiravano anche quando, apertamente, svuotava le loro tasche. E nessuno osava alzare un dito contro di lui. Così continuava a rubare senza freni. Era davvero il “ladro” per eccellenza.
Tutti contenti, dunque? Non tutti. Ogni volta che lui si arricchiva rubando, i figli e le figlie dei suoi fan accumulavano un debito, perché ricadeva su di loro il dovere di risarcire i derubati. Così ogni bambino di quel paese veniva al mondo già indebitato. E non finiva mai. Appena un debito era ripagato, Grandioso rubava ancora di più …».
La storia finiva così, in sospeso, rimandando a una seconda puntata. Fin troppo facile vedervici l’allusione a tanti capi di stato africani, da Mugabe a Museveni, da Kabila e Nkurunziza – per fare solo pochi nomi – che «per il bene della nazione» perpetuano se stessi accumulando immense ricchezze di cui rendono partecipi solo una stretta cerchia di cortigiani privilegiati, mentre la maggioranza della popolazione vive sotto la soglia della povertà.
Non facciamo fatica nemmeno a riconoscervi i «nostri» grandiosi, nascosti sotto i volti noti della politica e anche dei carrieristi del mondo ecclesiale o tra i corrotti e i corruttori di ogni tipo che infestano il nostro paese. Grandiosi con i soldi degli altri, sempre pronti a cavalcare l’onda per una manciata di voti, maestri di trasformismo e manipolatori di opinione. L’abbiamo visto nei fiumi di parole per la legge Cirinnà, nell’ambiguità su Siria, Libia e migranti, nell’affare degli F-35, nei trucchi delle primarie, nei giochi di potere per Roma, nei fallimenti delle banche, nella gestione dei grandi temi che ci agitano come famiglia, eutanasia, coppie dello stesso sesso, utero in affitto e adozioni.
Il nostro patriottismo è gratificato quando vediamo italiani nelle classifiche dei più ricchi del mondo di Forbes e Fortune, ma ci dimentichiamo facilmente che quando la ricchezza è troppa, difficilmente si coniuga con l’onestà ed è spesso accumulata a prezzo di lacrime e sangue, quelli della gente comune, i nostri e quelli di tanti altri poveri sfruttati nel mondo. I Grandioso non ci sono solo in Africa.
Penso invece a un altro grande, Grandioso davvero. Uno che per pagare le tasse si è affidato alla fortuna di una moneta trovata nella bocca di un pesce. Un tale che non si è lasciato abbagliare dal tintinnare delle monete d’oro o d’argento dei ricconi e ha saputo invece vedere i centesimi donati da una povera vedova. Un uomo autentico che ha scelto di vivere da povero per essere libero, pur di non diventare schiavo di ricchezze accumulate sul dolore degli altri. Uno che è finito in croce e ha rivelato tutta la sua grandezza proprio quando i suoi uccisori pensavano di averlo spogliato di ogni dignità. Un grande che il nostro collaboratore don Mario Bandera chiamerebbe certo il «Perdente per eccellenza»: Gesù di Nazareth, figlio di Dio, figlio di Maria, figlio dell’uomo e prototipo di ogni uomo vero.
Un uomo che ha rovesciato i paradigmi del nostro pensare: il primo diventa l’ultimo, il servo è più grande del padrone, l’amore vince l’odio, il perdono è più forte della vendetta, il donare arricchisce e l’accumulare impoverisce e schiavizza, i bambini sono maestri di sapienza, i peccatori e le prostitute vengono prima dei ricchi e dei titolati, la misericordia è la più alta forma di giustizia, il timore di Dio è base della «Politica» e fonte di onestà, trasparenza, responsabilità civile…
Abbiamo appena celebrato la memoria della Pasqua del Signore, l’avvenimento centrale e discriminante della nostra vita cristiana. Viviamolo sul serio perché non resti una bella recita o uno spettacolo a lieto fine. Prendiamo coraggio, resistiamo all’appiattimento dell’indifferenza e dell’abitudine e poniamo concreti gesti d’amore, di gratuità e di sobrietà.