Italia alcol non abusare

L’approccio ecologico-sociale di Vladimir Hudolin

Italia
Stefania Garini

Ogni anno oltre tre milioni di persone nel mondo perdono la vita a causa dell’alcol. Ma il problema non riguarda solo il singolo individuo. Da qui la creazione di «club» in cui intere famiglie si riuniscono per superare insieme le difficoltà.

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C’è Franco, 68 anni, ex dirigente di una multinazionale, andato in crisi con il sopraggiungere della pensione; Maria, caduta in depressione in seguito alla morte del marito; Giulia e Gianni, che dopo molti tentativi hanno dovuto rassegnarsi a non avere figli; e poi Marcello, che ha solo 17 anni ma già da sette si ritrova ogni settimana con il padre e gli altri membri del club. Un club «speciale» dove si può ridere e scherzare, ma anche piangere e sfogarsi; dove tutti fanno amicizia e finiscono per brindare ai successi l’uno dell’altro: ma sempre, rigorosamente, senz’alcol. Stiamo parlando dei Cat, i Club alcologici territoriali fondati negli anni ‘60 dallo psichiatra crornato Vladimir Hudolin e presenti oggi in oltre 30 paesi del mondo.

Metodo ecologico-sociale

Nell’ospedale psichiatrico di Zagabria dove lavorava, Hudolin si era accorto che molti pazienti erano alterati non perché «matti», ma perché sotto i fumi dell’alcol. Si convinse allora che i bevitori non erano malati da trattare con i farmaci (o, peggio ancora, viziosi da disprezzare), ma persone che avevano sviluppato un’abitudine di vita scorretta, portatrice di sofferenze fisiche, psicologiche, relazionali. Per uscie, il bevitore doveva quindi cambiare le sue abitudini modificando il proprio stile di vita. Il che poteva avvenire in modo tanto più facile e duraturo quanto più nel processo di cambiamento era coinvolta l’intera famiglia. Nasceva così il metodo ecologico-sociale. Sociale perché, attraverso le famiglie, produce un effetto positivo sull’intera società: infatti i problemi alcol correlati (patologie fisiche e psichiche, incidenti d’auto o sul lavoro, violenze domestiche, ecc.) interessano il 75% della popolazione. Ed ecologico perché, per una vita più sana, occorre ripulire non solo l’ambiente ma anche la cultura (vedi box), liberandola dagli aspetti che favoriscono l’impiego di sostanze dannose. Esistono infatti in tutto il mondo tradizioni che favoriscono il consumo di alcol, ad esempio alcune popolazioni latinoamericane consigliano alle puerpere di bere birra per aiutare la produzione di latte. Anche in Italia ci sono credenze, soprattutto d’origine contadina, molto radicate: «Avevo 5 anni e il nonno nei giorni di festa insisteva per farmi bere lo spumante, dicendo: dai che ti fa bene, prima inizi e più ti rafforzi», racconta Mario, che da adulto ha dovuto rivolgersi ai club per risolvere quello che per lui era diventato un problema.

Lo spazio per i bambini

Oggi in Italia i club alcologici sono 2.050, e raggruppano 20.000 famiglie. La partecipazione di queste, spiega Stefano Alberini dell’Acat, l’associazione dei club, «costituisce una differenza significativa rispetto ad altri gruppi di auto mutuo aiuto (che spesso, inoltre, tendono a considerare il bere come una malattia a tutti gli effetti, nda)». Il coinvolgimento dei familiari nei club hudoliniani avviene quasi in maniera naturale: «È raro che un bevitore prenda l’iniziativa di chiedere aiuto, per vergogna o perché nega il problema anche a se stesso. Nella maggioranza dei casi sono proprio i familiari a contattarci e, specie all’inizio, sono loro che cominciano a frequentare il club per primi».

Ma come funziona la vita dei club? Ognuno comprende da 2 a 12 famiglie che si riuniscono a cadenza settimanale, bambini inclusi, insieme a un facilitatore detto «servitore insegnante» (lo si può diventare dopo una specifica formazione, aperta anche a chi è già membro di un club).

Negli incontri ognuno si esprime in libertà, racconta come ha trascorso la settimana, condivide dolori e difficoltà, ma anche conquiste e progetti per il futuro. «Ci si concentra sul qui e ora, evitando di rivangare gli aspetti penosi del passato e cercando di far emergere le risorse e le forze positive» spiega Alberini, da 26 anni servitore insegnante a Guastalla (Re). Le regole del club sono poche ed essenziali: puntualità, divieto di fumare o usare il cellulare durante gli incontri, ascoltare gli altri senza giudicare, rispetto della privacy e segretezza su quanto viene detto.

Potrebbe stupire la partecipazione dei bambini, visto lo «spessore» dei discorsi e degli argomenti affrontati, e visto l’orario (in genere i club si riuniscono dopo cena per un’ora e mezza, due). In realtà la loro presenza è molto positiva: «Portano freschezza, allegria e serenità», dice Franco, membro di un club di Livoo, e lo è sia per gli adulti che per loro stessi. Lo conferma Alessio, che oggi ha 20 anni e frequenta un club dall’età di 8. «A casa stavo male, mio padre beveva ed era spesso assente, non aveva mai tempo per me o per mia madre, rientrava tardi ed erano continui litigi. Anche mamma aveva iniziato a bere. La prima volta che siamo andati al club, a fine serata il servitore insegnante ci ha detto di buttare tutte le bottiglie che c’erano in casa, e noi l’abbiamo fatto. Ero piccolo, e durante gli incontri mi facevo i fatti miei, giocavo, disegnavo, però ogni tanto tendevo l’orecchio. Capitava anche che intervenissi, rimproverando mio papà se lo sentivo raccontare bugie…». Un’esperienza che, alla fine, è stata positiva per tutta la famiglia: il papà di Alessio ha smesso di bere, diventando poi lui stesso servitore insegnante di club. E Alessio (che, inutile dire, è astemio) ne ha seguito le orme: da un anno è facilitatore di un club, e da cinque fa sensibilizzazione nelle scuole sui rischi legati ad alcol, fumo, gioco d’azzardo.

Famiglie solidali

Ma se qualcuno è meno fortunato e non ha familiari che possano (o vogliano) partecipare al club? «Questo è stato il mio caso», racconta Bianca, 51 anni, che frequenta un club a Torino. «Ho iniziato a bere dopo la morte di mia madre, anche lei con problemi di alcol, e sono andata avanti per otto anni. A un certo punto ho sentito di aver toccato il fondo e, malgrado un’enorme vergogna, mi sono rivolta a un club. Ho trovato però incomprensione e ostilità da parte di mio fratello e di mio padre che, visti i trascorsi familiari, mi hanno liquidata dicendo di aver “già dato”». Nel club Bianca ha trovato una seconda famiglia, che l’ha aiutata a ricostruirsi una vita. «Adesso non bevo da quattro anni, ho di nuovo un lavoro, e c’è stato anche un riavvicinamento con mio padre. Ma, certo, non avere vicini i miei cari mi ha reso tutto più difficile».

In casi simili, all’interno del club è prevista la figura di «familiari solidali» che affiancano la persona sola: possono essere amici o altre famiglie del club. «Si tratta di una forma di cittadinanza attiva, quella solidarietà intesa come interdipendenza fra individui di cui parlava Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis: non una vaga compassione o un superficiale intenerimento per chi si ritiene “portatore” del problema, ma un’autentica condivisione, perché comprendo che potrei essere io a trovarmi al posto dell’altro», spiega Alberini. «Come dice la Sollicitudo, tutti siamo responsabili di tutti. E alla fine, come sanno bene i servitori insegnanti e i membri del club, partecipare agli incontri è per ciascuno fonte di benessere e arricchimento personale, e occasione per sviluppare nuove amicizie». Spezzando il cerchio della solitudine in cui l’alcol imprigiona.

Astinenza e sobrietà

L’approccio hudoliniano punta non tanto all’astinenza, cioè la rinuncia all’alcol, quanto alla sobrietà intesa come percorso di crescita e maturazione. «Se, ad esempio, uno smette di bere ma continua con i suoi vecchi comportamenti, in famiglia e fuori, significa che non è ancora sobrio», spiega Alberini. A cambiare stile di vita dovrebbe essere l’intera famiglia, sia smettendo di bere, per rispetto e sostegno alla persona, sia cercando di intervenire sulle dinamiche relazionali che sono causa/effetto del problema.

Non bisogna però pensare che i club siano la panacea per tutti i mali. Roberto, 60 anni, la maggior parte dei quali passati a bere, ci racconta: «Sono in un club da un anno e mezzo, e adesso sto bene, ma ho dovuto seguire un lungo percorso in cui è stato fondamentale l’appoggio che ho trovato al Sert (Servizio per le tossicodipendenze). Non credo che ce l’avrei fatta solo attraverso la solidarietà e l’amicizia che si creano nei club o in altri gruppi di auto aiuto». Dietro l’angolo c’è poi sempre il rischio di ricadute, anche dopo molto tempo. «Sono stato 15 anni senza bere, poi un giorno, convinto di aver superato definitivamente il problema, sono entrato in un bar per un bicchiere. Ma dopo il primo non sono riuscito più a fermarmi», racconta Giovanni. «Per fortuna l’esperienza passata mi ha fatto risuonare un campanello d’allarme, e dopo una settimana ho deciso di tornare al club, che avevo lasciato da un paio d’anni. Lì sono stato accolto a braccia aperte e ho potuto ricominciare».

Ma se è vero che i club non risolvono tutto, è anche vero che vantano percentuali di successo molto alte: l’astinenza media (superiore ai 3 anni) per quanti li frequentano regolarmente è infatti del 73%. «Un risultato notevole, visto che solo il 20% di chi si rivolge ai servizi pubblici riesce a smettere di bere», osserva Alberini. «Inoltre, in tempi di crisi e tagli alla sanità, un metodo come quello dei club, praticamente a costo zero, andrebbe diffuso in maniera capillare su tutto il territorio».

Stefania Garini

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