«E date alle vostre spose la loro dote», recita il versetto 4 della Sura IV. Questa dote si chiama «mehrieh» e sta causando qualche problema. Diario (sorprendente) dalla quotidianità iraniana.
Teheran. Sono passati trentasette anni da quel gennaio del 1979 in cui lo scià abbandonò il paese. Trentasette anni di potere teocratico, in cui la Guida spirituale e il clero hanno avuto a disposizione ogni possibile mezzo per educare generazioni di iraniani secondo i migliori dettami della religione islamica: il pieno controllo su scuole, università, mezzi d’informazione, manifestazioni pubbliche, leggi. E un capillare apparato di propaganda. Trentasette anni sono un periodo sufficiente per trarre un bilancio. Chissà quali benefici risultati hanno avuto sulle giovani generazioni l’azione congiunta di tutte queste forze, nonché l’esempio personale e la parola di migliaia di religiosi presenti in tutte le istituzioni.
Sul vagone delle donne
Un mio giovane conoscente mi ha confidato: «Quando incontro una ragazza spesso mi trovo in imbarazzo, non riesco a capire se ci siamo già visti prima. Per me sono tutte uguali, non distinguo le facce: stesso trucco, stesso naso». Siamo a Teheran, la capitale, ma il discorso può valere anche per le altre città del paese.
Lavorando lontano da casa, ho la necessità di utilizzare spesso il metrò per lunghi viaggi da un capo all’altro della città, e salgo regolarmente sui vagoni riservati alle donne, all’inizio o alla fine di ogni treno. Mi sfilano davanti decine di volti, soprattutto di ragazze. Gli iraniani sono una nazione giovane e il popolo del metrò conferma questa tendenza: le persone di una certa età sono una netta minoranza, di anziani se ne vedono pochi. Con i miei cinquantasei anni mi trovo nella fascia alta, tra le passeggere che dovrebbero essere oggetto di una certa attenzione; i capelli brizzolati che spuntano dal foulard, le rughe e le borse sotto gli occhi non lasciano alcun dubbio.
Sulla banchina, in genere parecchio affollata, le persone in attesa tentano di disporsi in corrispondenza dei punti in cui si apriranno le porte del treno. Quando mi capita di trovarmi davanti alla porta, prima di salire tento sempre di fare uscire le passeggere, ma mi tocca sopportare una notevole pressione da dietro e sui fianchi, e mi succede anche di sentire irate esortazioni da parte di chi vorrebbe, invece, entrare subito per accaparrarsi un posto. C’è sempre qualcuna che scappa in avanti e, a forza di spintoni, si fa largo tra il flusso contrario. Mi è capitato spesso, scendendo, di trovarmi ad affrontare un simile arrembaggio. Una volta, mentre cercavo di sfondare il muro di passeggere in entrata per guadagnare l’uscita, ho infilato il piede nell’intercapedine fra vagone e banchina, e sono caduta indietro lunga distesa. Ho temuto seriamente di venire travolta. Fortunatamente non è stato così e ne ho riportato solo un grosso livido alla gamba.
L’accaparramento dei posti è frenetico, la turba delle donne si riversa dentro e, in un attimo, ogni posto è occupato, anche quelli non previsti, perché qualcuna, ancora in piedi, chiede a quelle sedute di stringersi e da sei posti se ne ricavano sette. Le vedo ora lì sedute, studentesse di scuola o universitarie per lo più, trentenni, quarantenni, qualche cinquantenne; indossano stretti spolverini, o ampi chador neri, larghe sciarpe appoggiate appena a metà testa, o severi maghnaè (sorta di foulard-passamontagna, stretti sotto il mento), labbra rosse, fondotinta, occhi cerchiati di matita nera, mascara a badilate, sopracciglia curatissime e ripassate col colore. I nasi sono quasi tutti piccoli e regolari, qualcuno è coperto da una spessa garza. Credo che non ci sia posto al mondo in cui ci si sottoponga con più frequenza a operazioni di chirurgia estetica per rifarsi il naso: le donne, come gli uomini. Ma la mia attenzione di solito cade sulle unghie dagli smalti sgargianti, quadrate, rotonde, a punta, a volte di una lunghezza inquietante. Come si fa a vivere, a lavorare, con unghie così? Come deve essere limitata la sfera delle attività consentite e quanto tempo ci deve volere per mantenerle così perfette! Chi se lo può permettere? Nella casa dei genitori è forse possibile condurre un’esistenza a misura di simili unghie, ma poi? Così, in previsione di lasciare il nido paterno, le ragazze si mettono alla ricerca di un buon partito.
Per evitare la polizia religiosa
Le questioni di cuore ormai sono diventate questioni di soldi. Ci si cerca e sceglie secondo parametri ben precisi: si guarda con che macchina vai in giro, che cellulare hai in mano, come sei vestito. Nelle strade alla moda dei quartieri residenziali a Nord di Teheran, dove si concentrano i milionari locali, il giovedì sera (il nostro sabato sera) si fanno le «vasche» con le automobili. Funziona così. Se sei ricco/ricca prendi la macchina del papà, altrimenti te ne fai prestare una da un amico/amica benestante. Così, al volante dell’ultimo modello di Mercedes, Bmw, Land Cruiser, ti metti a girare in cerca di qualcun altro/altra al volante di un’auto altrettanto prestigiosa. Quando lo/la trovi tiri giù il finestrino e avviene lo scambio dei numeri di telefono. Questo sistema ti evita di essere fermato per strada dalla polizia religiosa, che vigila affinché non avvengano contatti tra coppie non sposate, e ti assicura che la persona con cui ti incontrerai poi in un luogo privato disponga di una buona base economica.
Naturalmente, qui siamo ai punti più alti della scala sociale; non tutti sono in condizione di fare le «vasche» con la Mercedes, ma il principio della ricerca di una buona sistemazione attraverso il matrimonio è prioritario per tutte le classi sociali.
L’origine del mehrieh
La legge islamica prevede che il contratto di matrimonio contenga obbligatoriamente l’indicazione di un regalo, mehrieh, che il marito s’impegna a fare alla moglie. Mehrieh può essere una somma in denaro, una proprietà, o altri beni, come oro, giornielli, ma anche oggetti di uso quotidiano. Sono l’uomo e la donna con le relative famiglie a stabilie l’entità e la natura. L’impegno può essere assolto dal marito all’atto del matrimonio, o rimandato a un momento successivo, di comune accordo. In ogni caso, la moglie in ogni momento della sua vita matrimoniale può chiedere di avere il suo mehrieh. Quando è nata, questa istituzione, che trae origine dal Corano («E date alle vostre spose la loro dote», recita per esempio il versetto 4 della Sura IV), aveva lo scopo di garantire alla moglie un aiuto in caso di divorzio o di morte del marito. Ciò era giustificato dalla tradizionale subordinazione all’uomo della donna, dalla sua esclusione dalle fonti di reddito, dalla sua penalizzazione nella divisione dell’eredità di famiglia, dalla sua inferiorità rispetto alla legge, che rende il divorzio più facile per il sesso maschile. Il mehrieh, soprattutto se di valore consistente, è ancora visto come un mezzo per scoraggiare i mariti dal divorziare, perché in quel caso devono versare alla moglie quanto pattuito: l’obbligo è categorico e chi non lo assolve finisce in prigione. A parte che non pare una buona idea legare a un ricatto la tenuta di una relazione, e compensare con il denaro le anacronistiche sperequazioni stabilite dalla legge islamica nei confronti delle donne, vediamo quali risvolti ha assunto oggi questa istituzione.
Il peso delle monete (d’oro)
Fino alla generazione dei miei genitori, in Iran i divorzi erano una rarità, ma ciò non vuol dire che i mehrieh fossero ingenti. Al contrario. Al tempo la cosa era vista più come una formalità piuttosto che come il procacciamento di una rendita da parte della moglie. Tanto è vero che le donne non pensavano di fae richiesta e il suo valore era spesso puramente simbolico. Lo stesso vale, più o meno, per la generazione seguente, vale a dire le famiglie formatesi a cavallo della rivoluzione e negli anni immediatamente successivi. Dagli anni Novanta il numero di divorzi ha preso gradualmente a salire, mentre cresceva l’entità del mehrieh. Si è anche stabilita la consuetudine di definirli in termini di monete d’oro. Il numero delle monete d’oro che la futura moglie chiedeva di indicare nel contratto matrimoniale ha cominciato a lievitare: cento, duecento, trecento, mille! È partita una gara al rialzo, la consistenza del regalo promesso dal marito è diventata oggetto di vanto e segno di eccellenza. Una figlia non doveva avere meno dell’altra, l’amica meno dell’amica. Semmai di più. È addirittura diventato di moda chiedere un numero di monete d’oro corrispondente all’anno di nascita della donna. Quest’anno il calendario islamico segna 1394: se si segue questo criterio, il conto diventa molto salato. Le carceri si sono riempite di uomini impossibilitati a pagare. Altri hanno tentato la fuga all’estero. La fuga, tuttavia, non mette al riparo la famiglia del marito, che deve rispondere, per quanto può, in vece del congiunto. Tanto che il governo è dovuto intervenire con una legge che ha portato a 110 il numero massimo di monete esigibili dalla moglie, se il marito non è in grado di dare di più. Al prezzo attuale dell’oro, si tratta di circa 27.500 euro, in un paese dove lo stipendio medio è intorno ai 350 euro. È stato anche cancellato il rischio del carcere per il marito che dimostri di non poter pagare in un’unica rata il debito. Lo pagherà con modalità decise dal tribunale. Ciononostante, il numero dei divorzi è cresciuto in modo impressionante, soprattutto negli ultimi dieci anni. Le statistiche ufficiali dicono che l’anno scorso a Teheran ogni 100 matrimoni si sono registrati 70 divorzi. Questo indica che i soldi non tengono insieme una coppia, al contrario possono diventare proprio il motivo della sua separazione. Sono molte le donne che, dopo le nozze, si rivolgono al tribunale per avere un mehrieh che il marito non è in grado di pagare. Inutile dire che questo tipo di richieste hanno come esito il divorzio. Di storie simili se ne sentono spesso. Un mio conoscente, chiamiamolo Abbas, ha recentemente celebrato le nozze del figlio. Qualche tempo fa lo incontro. Non è più lui, sembra invecchiato di dieci anni. Decide di sfogarsi. Dopo quattro mesi di matrimonio la giovane nuora ha citato in giudizio il marito per avere il mehrieh. Quando Abbas ha tentato di far ragionare la ragazza è stato investito da una serie di oscenità. «Non ha avuto nessun rispetto dei miei capelli bianchi, mai sentito niente del genere». Abbas fa il tassista, la sua non è una famiglia benestante. Si può ben capire che una simile richiesta li abbia messi in crisi.
È chiaro che questa visione commerciale del matrimonio non porta buoni frutti. Un altro mio conoscente, chiamiamolo questa volta Jafar, e la moglie Mahnaz erano sposati da una decina d’anni, anche se il ménage era pesante. Non c’erano problemi economici, lui guadagnava bene: una macchina a testa, cellulari, vestiti quanti se ne volevano, viaggi anche all’estero, ma, finito il primo periodo di attrazione, i due avevano scoperto di avere poco da dirsi e solo l’abitudine li teneva insieme. Ognuno godeva della propria indipendenza. Lui si ricavava lo spazio per passare tempo con gli amici e corteggiare altre donne. Lei aveva le amiche, civettava con altri uomini, andava a trovare la sorella all’altro capo del paese, aiutava la madre che aveva un negozio di abbigliamento. Da tempo entrambi pensavano al divorzio, Mahnaz si comportava in modo da indurre Jafar a prendere l’iniziativa, così avrebbe avuto l’intero mehrieh e in più gli alimenti che l’uomo deve continuare a pagare alla moglie se è lui a voler divorziare. Jafar, invece, faceva di tutto per spingere la moglie a liberarsi di lui chiedendo il consenso al divorzio, così si sarebbe negoziato sul mehrieh, come poi è avvenuto. Adesso Jafar versa all’ormai ex moglie, a titolo di mehrieh, l’equivalente di una moneta d’oro al mese (ne avrà per cento mesi), convive con un’altra donna e non ci pensa proprio a risposarsi. Mahnaz abita con la madre, anche lei divorziata, ed è in cerca di un marito ricco. Questa volta dovrà accontentarsi di un vedovo, o di un divorziato, magari con figli. Nessun altro se la prenderà.
Sempre più donne scoprono che il mehrieh può diventare un buon business. Ci si sposa e poi lo si esige dal marito, oppure si chiede il divorzio. In questo caso, la donna deve rinunciare a una parte di mehrieh. Mentre, se il matrimonio non è ancora stato consumato, il suo valore è ridotto del 50%. Certo, il marito deve acconsentire, ma si può trovare il modo per indurre l’uomo ad accettare. Ogni tanto le cronache riportano storie di donne che sposano diversi uomini in poco tempo, solo per accumulare mehrieh.
È anche per questo che la durata media dei matrimoni è scesa precipitosamente: il 30% dei divorzi avviene entro un anno dalle nozze. Chi è reduce da un divorzio, poi, ci pensa bene prima di risposarsi e le convivenze aumentano.
Maria Chiara Parenzo*
(fine prima parte – continua)
* Maria Chiara Parenzo, nome di fantasia, vive e lavora in Iran.
Archivio MC:
Angela Lano, L’Ayatollah e il presidente, dossier, in MC agosto-settembre 2013;
Maria Chiara Parenzo, Ogni giorno è Ashura, in MC marzo 2014.