Eccomi con qualche importante aggiogamento da Bangui. Tra pochi giorni – dopo tre anni di attesa – la Repubblica Centrafricana avrà ufficialmente un nuovo presidente, questa volta eletto dal popolo e non dopo un colpo di stato, nella persona di Faustin-Archange Touadéra. L’elezione è stata un po’ una sorpresa in quanto Touadéra non era tra i favoriti. Ex-primo ministro di Bozizé – il presidente destituito dal colpo di stato del marzo 2013 – 58 anni, di confessione protestante, decano dell’università di Bangui e professore di matematica… dovrebbe avere tutti i numeri per prendere in mano le sorti di un paese provato da anni di guerra e di malgoverno. Siamo quindi autorizzati a dire che la guerra è finita per davvero? Preferiamo dirlo ancora sottovoce perché un po’ di prudenza e di realismo sono d’obbligo; ma c’è sicuramente un’atmosfera diversa e un grande desiderio di voltare pagina, chiudere questo triste capitolo della storia del paese e ripartire su nuove basi. Alcuni fatti sono incontestabili. Da quasi quattro mesi a Bangui – a parte qualche episodio isolato e senza particolari conseguenze – non si spara più. La campagna elettorale – chiassosissima, coloratissima e divertentissima – e le elezioni (presidenziali e legislative con primo e secondo tuo) si sono svolte senza grossi problemi o particolari incidenti. Se forse non sono state elezioni perfette, bisogna però considerare e apprezzare che sono state un passo importante e non scontato verso la normalizzazione del paese. Ma non ci facciamo illusioni: se la guerra è probabilmente finita, c’è però una battaglia importante da combattere contro la povertà e il sottosviluppo. Vi sono poi ancora alcune zone del paese dove l’autorità dello stato e le forze di pace faticano ancora ad imporsi. Inoltre, le minacce dei ribelli ugandesi del LRA, già attivi nella parte orientale del paese, come quelle di Boko Haram, attivi nel nord del Camerun, confinante con la parte nord-occidentale del Centrafrica, non sono da sottovalutare. C’è poi da vincere l’importante battaglia della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Se devo essere sincero, mi sembra che sia molto di più ciò che è da costruire per la prima volta, rispetto a ciò che è da ricostruire perché distrutto dalla guerra. Questi brutti anni di sofferenza hanno rivelato i mali antichi del paese, i problemi sottovalutati, le negligenze colpevoli e le occasioni mancate. Ora non c’è che da mettersi al lavoro. Tutti, a cominciare soprattutto dai centrafricani, che forse dovrebbero amare di più il loro paese, essere più esigenti nei confronti di chi li governa, smetterla di accusare gli altri, avere qualche ambizione e osare anche qualche sogno per un Centrafrica diverso. Ma anche il vostro aiuto e il vostro sostegno sono importanti. Ci avete seguito con passione e amicizia in questo notte di guerra… non abbandonateci in questa alba di pace che ci pare di intravedere all’orizzonte!
Non c’è dubbio che la visita di Papa Francesco a Bangui – il 29 e 30 Novembre 2015 – abbia notevolmente contribuito a questo cambio di rotta. Forse non è azzardato affermare che la visita del Papa – incerta fino all’ultimo – sia stata addirittura determinante. Ma andiamo con ordine…
Guerra, ritorno di fiamma
In effetti, tra la fine di settembre e l’inizio di novembre, la città di Bangui è stata nuovamente colpita da una fiammata di violenza, soprattutto nella zona del Km5. Barricate sulle strade, spari, saccheggi, case bruciate, una chiesa distrutta, evasione di massa dalla prigione, decine di morti, feriti, coprifuoco e, ovviamente, un nuovo movimento di profughi in fuga dai quartieri colpiti dalle violenze verso la zona sud della capitale. Gli scontri non sono mai stati così vicini al Carmel e per diversi giorni gli elicotteri da combattimento hanno sorvolato sopra la nostra zona. Per alcune settimane ci è come sembrato di trovare alla casella di partenza. Se a fine agosto contavamo circa 2.000 profughi attorno al convento, in quei giorni il loro numero è rapidamente aumentato, giungendo – nella fase più acuta dei combattimenti e soprattutto durante la notte – a circa 7.000 persone, tra le quali anche qualche vecchia conoscenza e non pochi bambini che, fuggendo, avevano perso i loro genitori. Ovviamente siamo stati costretti a riaprire il grande cortile all’intero del convento e, per qualche notte, anche la chiesa per permettere ai nuovi arrivati di dormire in sicurezza. I ‘vecchi profughi’, che erano ancora rimasti al Carmel, hanno dapprima preso in giro i nuovi arrivati e fatto qualche difficoltà, ma poi l’accoglienza è stata calorosa: “Ve l’avevamo detto che la guerra non era finita! E voi pensavate che fossimo rimasti qui solo per il riso e per i fagioli della Croce Rossa. Non importa. Ci stringiamo un po’ e ci sarà spazio anche per voi”. Non sono mancate le corse all’ospedale per qualche ferito o malato grave e le mamme che hanno dato alla luce le loro creature in situazioni precarie. Una donna ha avuto giusto il tempo di partorire in quartiere e poi, a causa dei combattimenti, è subito scappata qui da noi con la sua bambina in braccio. Un’altra ha partorito durante l’adorazione eucaristica della domenica. Non ha fatto in tempo ad arrivare al cancello del convento e ha partorito distesa per terra, in una tenda. Il nostro postulante Aristide è accorso, quasi a cose fatte, con fra Jeannot-Marie che, senza neanche togliersi il santo abito, ha fatto da aiuto-ostetrico… Un’altra ancora è riuscita a camminare fino al cancello. L’abbiamo subito accompagnata nella sala del capitolo dove si è distesa per terra. Aristide ha avuto giusto il tempo d’indossare i guanti e un grembiule… e abbiamo sentito un bambino piangere. Eravamo tutti alla ricreazione dopo cena. Quando la bimba è stata presentata non sono mancati gli applausi e il padre priore ha proceduto alla benedizione di rito. Se la mamma fosse partita un minuto dopo, o il convento fosse stato 50 metri più in là, avrebbe partorito chissà dove e chissà come!
Quando la città era semideserta – e anche noi per giorni abbiamo evitato di uscire – c’è stata però una persona che ha avuto il coraggio di raggiungerci per ben due volte, sfidando, con il suo immancabile sorriso e la sua ostinata voglia di pace, le barricate dei ribelli, portando riso, olio, sardine per i nostri profughi. Questa persona è mons. Dieudonné Nzapalainga, il nostro infaticabile arcivescovo.
Superata la fase più acuta dei combattimenti ci siamo organizzati, con l’aiuto di diverse Ong, per venire in soccorso di questo nuovo afflusso di popolazione. Dapprima è stato installato un nuovo serbatornio di acqua, poi sono state fatte alcune distribuzioni di cibo, sapone, vestiario e zanzariere. Sono ripresi i controlli dei bambini malnutriti e le iniziative in favore delle persone anziane o vittime di violenze. In collaborazione con l’Ong Enfants sans frontières siamo stati poi ‘costretti’, in tempi record, ad aprire una scuola elementare di emergenza… senza sedie e senza banchi, ma almeno al riparo del sole e della pioggia. La scuola è ancora funzionante e conta ben 927 allievi!
Papa Francesco
Potete quindi ben immaginare come un po’ di apprensione per la venuta del Papa fosse più che giustificata. Ma per fortuna Papa Francesco – dopo aver dichiarato di essere disposto a raggiungerci anche con il paracadute e di temere più le zanzare che la Seleka – è riuscito finalmente a venire a Bangui e il programma previsto è stato perfettamente rispettato. Quando lo attendavamo in migliaia, assiepati nella cattedrale in attesa dell’apertura della Porta Santa, temevo che Papa Francesco – pur di ricordarci che dobbiamo essere una Chiesa in uscita – sbucasse dalla sacrestia, aprisse le porte della cattedrale dall’interno verso l’esterno e ci facesse uscire tutti per le strade di Bangui fino al Km5. Ma il cerimoniale è stato rispettato, anche se con una piccola sorpresa che è anche una grande responsabilità: papa Francesco ha aperto la Porta Santa di Bangui dall’esterno verso l’interno e ha dichiarato che da quel momento Bangui sarebbe diventata la capitale spirituale del mondo. Ma le strade di Bangui Papa Francesco le ha percorse per davvero. E non ha temuto di attraversare – di fatto il primo a farlo, dopo l’ultima ondata di violenze e senza particolari misure di sicurezza – anche la temutissima zona del Km5 visitando la Moschea Centrale e incontrando i nostri fratelli musulmani. Questo e altri gesti, insieme ai diversi discorsi pronunciati nei due giorni trascorsi a Bangui, hanno di fatto segnato una svolta in questa brutta guerra nella quale il paese era caduto e dalla quale non riusciva a rialzarsi. Ci vorrà del tempo per valutare correttamente le conseguenze di questa visita, ma qualcosa è sicuramente cambiato, qualcosa è iniziato, e nessuno ha più voglia di tornare indietro.
Sorprese natalizie
Poi è arrivato Natale, ormai il terzo in compagnia dei nostri profughi. Per l’occasione abbiamo pensato di compiere un censimento da fare invidia a Cesare Augusto. Ci siamo quindi organizzati in modo che il censimento fosse fatto bene e in tempi rapidi. Una sera, a partire dalle 19.00 quando ormai tutti erano rientrati, ci siamo sparpagliati tra le tende del campo profughi. Ognuno di noi ha censito – persona per persona, indicando le dimensioni di ogni famiglia e il quartiere di origine – una delle dodici zone in cui è suddiviso il campo. È stata anche una bella occasione per stringere la mano a tutti i nostri ospiti. Quando è ormai notte, ad un giovane papà pongo la domanda di rito: “Quanti figli?”“Otto”, mi risponde con un sorriso e non poca fierezza. “Non è possibile! So mvene! Stai mentendo per avere più riso dalla Croce Rossa”.“Mbi tene mvene ape! Non mento! Se non ci crede, entri pure e verifichi. È una scuola matea”. Entro discretamente nella sua umile dimora e conto – su un solo letto e qualche stuoia – otto bambini e ragazzi, profondamente addormentati. “Mio padre ha avuto dieci figli ed io sono l’ultimo. Devo fare altrettanto”. Che dire? Paese che vai, usanze che trovi. A ciascuno le sue tradizioni, i suoi obiettivi e le sue unità di misura! Manca poco a mezzanotte e siamo tutti rientrati in convento. Il conto è presto fatto sommando i dati di ogni zona: nel nostro campo profughi abitano 5.031 persone. Dopo aver comunicato questo dato all’Alto Commissariato per i profughi scopriamo che il nostro è, per popolazione, il secondo campo profughi più grande dopo quello dell’aeroporto.
Anche questa volta, due giorni prima di Natale, la Provvidenza non ha mancato di sorprenderci. Una mamma molto buona si è presa a cuore i nostri bambini (ne ha messi al mondo cinque e quindi se ne intende) e ci ha fatto pervenire ben 1500 giocattoli in regalo per i tutti i nostri bambini: palloni, bambole, orsacchiotti, macchinine, pupazzi, giochi di società… Per una simpatica e curiosa coincidenza, questi doni per i più piccoli hanno viaggiato, sullo stesso aereo proveniente dalla Francia, insieme alle schede elettorali per i più grandi. Ma non è stato tutto. Tutti i nostri bambini – sempre grazie alla stessa persona – hanno ricevuto anche un grazioso libretto di preghiere tutto colorato e stampato apposta per loro. Siamo ormai capitale spirituale del mondo… noblesse oblige!
Ricominciare
A questo punto sono sicuro che avete una domanda: “Ma se la guerra è finita, perché questa brava gente non se ne torna a casa? Non stanno forse approfittando della situazione? Questa gente non se ne andrà più…”. La domanda è legittima e ce la poniamo anche noi ogni giorno; la risposta è più complessa e richiede discernimento e molta pazienza. Ci siamo dati – fin dall’inizio – alcune semplici regole: accogliere chiunque stia fuggendo (a condizione che non sia armato), non cacciare nessuno, rispondere alle urgenze (nei limiti delle nostre capacità e degli aiuti ricevuti), non fare nulla che favorisca la formazione di un villaggio attorno al Convento. L’impressione di chi viene a visitarci è che ormai il villaggio ci sia già – e anche grande e ben organizzato! – e che le condizioni di vita dei nostri profughi non siano poi così diverse da quelle di chi vive nei quartieri. Occorre però tenere presenti alcune cose. Questa povera gente non è venuta al Carmel per una vacanza: molti di loro hanno effettivamente perso la propria casa perché distrutta, bruciata, saccheggiata o rimasta senza il tetto. E non hanno i mezzi per ricostruirla. Chi aveva i mezzi è già rientrato. Molti hanno anche tentato a rientrare nei quartieri, ma poi sono stati costretti a ritornare da noi a causa degli avvenimenti dello scorso autunno. Non è poi psicologicamente facile rientrare da dove si è fuggiti, soprattutto se si è stati testimoni di violenze. Ci auguriamo che, una volta insediato il nuovo presidente e il nuovo governo, si possano creare le condizioni per un effettivo ritorno dei profughi ad una vita normale nei quartieri di origine. Molte Ong hanno già in cantiere diverse iniziative per incoraggiare e favorire il ritorno al quartiere e l’abbandono del campo profughi. Vi terremo aggioati.
Preghiera, la nostra forza
Nel frattempo – e chissà quanto durerà questo frattempo! – la nostra vita conventuale continua al ritmo della vita del campo profughi. A volte le nostre giornate procedono abbastanza tranquille e quasi dimentichiamo che accanto a noi vivono 5.000 persone; altre volte la loro presenza si fa invece sentire e bisogna intervenire senza ritardi. Molti ci chiedono dove abbiamo trovato la forza e il senso di questo pezzo di strada percorso insieme a questa gente in fuga dalla guerra. Senza fare della retorica e offrirvi una risposta preconfezionata e clerically correct, penso che la forza e il senso di questa avventura si rinnovino ogni giorno quando, insieme, ci ritroviamo per pregare e – per dirla nel gergo carmelitano – facciamo orazione. Un carmelitano senza orazione sarebbe come Roma senza il Colosseo, Parigi senza la Torre Eiffel, il Centrafrica senza bambini. Ogni mattina all’alba e ogni sera al tramonto, la nostra comunità si raduna per pregare insieme, per un’ora e in silenzio. Anche nei momenti più duri della guerra – anche quando il silenzio era solcato dallo scoppio delle bombe o dalle raffiche dei kalashnikov – siamo quasi sempre riusciti ad essere fedeli a questo appuntamento. Anche i profughi sanno bene che, durante questi due momenti di preghiera, possono disturbarci solo per cose importanti: solo se c’è qualcuno che ha fretta di nascere o se per qualcun’altro è giunto il momento di morire.
Quando siamo in orazione i rumori del campo profughi giungono fino alla nostra chiesa: quasi un sottofondo a cui siamo ormai abituati, un brusio che non ci distrae e che non ci disturba affatto, ma anzi sostiene la nostra preghiera. Ogni sera, mentre preghiamo, c’è un bambino che percorre tutte le strade del campo, gridando: “Petrole! Petrole! Petrole!”. Questo bambino non ha trovato un giacimento di petrolio nel ricchissimo sottosuolo del Centrafrica, ma semplicemente vende cherosene per le lampade che i profughi accendono davanti alle loro case, trasformando il Carmel in un bellissimo presepe. Mentre prego, quasi attendo la sua voce e mi piace ascoltarlo. E mi viene sempre in mente la parabola delle dieci vergini, riportata al capitolo 25 del vangelo di Matteo. Cinque vergini furono sagge e si procurarono una provvista di olio con la quale alimentare le loro lampade in attesa dello sposo. Le altre cinque non furono altrettanto sagge e, nel cuore della notte, si trovarono senza olio. Le cinque sagge – a dire il vero un po’ poco generose e un po’ molto supponenti – si rifiutarono di aiutarle e si misero addirittura a prenderle in giro, esortandole ad andare al mercato. Ma era impossibile comprare dell’olio a quell’ora della notte. Qui al Carmel, invece, da ormai più di due anni, c’è olio per tutti e se ne trova a qualsiasi ora del giorno e della notte. Anzi: c’è addirittura chi viene a venderlo davanti alla porta di casa. Per i Padri della Chiesa non c’era dubbio: l’olio in questione sono le opere buone, la carità che non deve mai mancare, anche nella notte più buia e nell’attesa più lunga, nella lampada della fede di ogni cristiano. Al Carmel siamo quindi fortunati: c’è olio in abbondanza per la nostra e la vostra carità. A qualsiasi ora del giorno e della notte. Lo Sposo è sempre tra noi. E grazie a voi e ai nostri profughi questa lampada non si è ancora spenta.
Un abbraccio e buona Pasqua!
Padre Federico, i fratelli del Carmel e tutti i nostri ospiti.
Un vecchio adagio popolare recita: “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi” facendo così risaltare il Natale come festa della famiglia mentre la Pasqua viene presentata come una festa un po’ più allargata con amici e parenti da trascorrere magari con la tradizionale gita “fuori porta”. Inutile aggiungere che per i cristiani la Pasqua è la Festa per eccellenza! Anzi a rigor di logica, ogni domenica (ma ancor più, sarebbe il caso di dire) ogni Eucaristia celebrata in un qualunque giorno feriale, è una Pasqua vissuta e celebrata dalla comunità (grande o piccola che sia) che si ritrova attorno all’altare.
La liturgia lungo i secoli ha elaborato, oltre al tempo di preparazione alla Pasqua, cioè la Quaresima, una settimana (definita per l’occasione Santa) ricca e piena di significati simbolici, tutti tesi a ricordare, valorizzare e celebrare il mistero della Passione, della Morte e Risurrezione di Cristo. Non solo la spiritualità cristiana, ma tutta la nostra cultura artistica, letteraria e musicale sarebbe molto più arida e povera, senza l’ispirazione che il Mistero Pasquale ha offerto lungo i secoli ai geni dell’arte, della poesia e della letteratura.
Ma oggi che significato ha la Pasqua? Per i credenti “dietetici” ovvero per coloro abituati ad accostarsi alle celebrazioni liturgiche con la mentalità della cura dimagrante, cioè prendere il minimo indispensabile per poi passare ad altre vivande più succulente, che senso ha la Pasqua? Per i cristiani “mordi e fuggi” cosa può significare una festa così pregnante dal punto di vista simbolico evocativo? Focalizzando ancor più la nostra attenzione sui tempi di crisi in cui ci troviamo a vivere, la Pasqua cosa può dirci? Può una ricorrenza così importante nel calendario annuale ridursi ad una domenica da cui ricavare qualche pia esortazione per vivere un po’ più morigeratamente o peggio ancora dedue un asettico “volemose bene” che si può adattare a Pasqua, a Natale, alla Festa della mamma, ecc. Per i credenti non dovrebbe essere molto difficile recuperare il senso più profondo della Croce, della Morte e della Resurrezione di Cristo, non limitandosi semplicemente a ricordare agli altri che è Pasqua, ma cercando di testimoniare la Resurrezione di Gesù nel concreto impegno di costruire una umanità nuova dove tutti possano partecipare al banchetto della Creazione.
Già gli ebrei celebravano la Pasqua ricordando la liberazione che JHWH aveva operato a favore d’Israele liberandolo dalla schiavitù dell’Egitto, una liberazione che non fu istantanea e immediata, ma che ebbe bisogno di passare dal crogiuolo del deserto, della prova, dell’abbandono, per poter alla fine approdare alla Terra Promessa. La Pasqua fu pertanto per il popolo ebraico un cammino verso la libertà, la stessa libertà che Cristo offre a chiunque decida di seguirlo cercando di vivere il messaggio di amore e tenerezza che Egli da sempre propone ad ogni persona, in ogni tempo, sotto ogni latitudine.
Scrive Sant’Agostino: “Tre sono le cose incredibili e tuttavia avvenute: è incredibile che Cristo sia risuscitato nella sua carne, è incredibile che il mondo abbia creduto ad una cosa tanto incredibile, è incredibile che pochi uomini, sconosciuti, inermi senza cultura, abbiano potuto far credere con tanto successo al mondo, e in esso anche ai dotti, una cosa tanto incredibile!” (Sant’Agostino – “La città di Dio” XXII, 5).
Forse lo stupore di Agostino è la miglior chiave interpretativa per la festività della Pasqua ai nostri giorni in quanto da credente egli sottolinea un avvenimento straordinario che si è imposto all’attenzione del mondo romano ma allo stesso tempo, anche alle persone di buona volontà, coloro che sono in ricerca, coloro che non accettano di subire passivamente le crisi periodiche del modello economico imperante. I commenti dei personaggi della politica e dello spettacolo, possono trovare in questa “buona notizia” le radici di una speranza che non costringe l’uomo contemporaneo al grigiore di una esistenza passiva e senza senso, ma lo proietta verso il vasto orizzonte del futuro con la consapevolezza che solo sperando l’inimmaginabile e contro ogni speranza si può davvero gettare le fondamenta per una società più giusta e solidale in cui tutti possano vivere con carità fratea nella giustizia e nella pace.
Buona Pasqua a tutti.
Don Mario Bandera
PASQUA 2016
il martirio delle suore in yemen
YEMEN
La superiora della comunità di Aden ha affidato a una consorella le drammatiche fasi dell’assalto alla casa di cura per anziani e disabili. Le suore sono morte per la “fedeltà” alla loro missione, facendosi trovare pronte “ad accogliere lo sposo”. Un sacrificio di sangue nella speranza che sia “germoglio di pace per il Medio oriente e perché serva a fermare l’Isis”. La lettera autografa (Pdf).
– “A causa della loro fedeltà, esse si sono trovate al posto giusto e al momento giusto, e si sono fatte trovare pronte per accogliere il loro sposo”. Con queste parole, suor Rio ha descritto il sacrificio delle consorelle missionarie della Carità massacrate ad Aden, nello Yemen, il 4 marzo scorso per “motivi religiosi”. La religiosa ha raccolto la drammatica testimonianza di suor Sally, superiora della casa per anziani e disabili teatro dell’attacco dei miliziani dello Stato islamico (SI). Unica sopravvissuta, suor Sally ha affidato alla consorella suor Rio il racconto dell’attacco, le violenze dei miliziani, le violenze perpetrare in nome e a causa della fede.
Il racconto è stato trascritto in un secondo momento da una terza religiosa, suor Adriana, che ha diffuso il testo (che trovate pubblicato in questa pagina) fra le varie comunità religiose degli Stati Uniti. Nei giorni scorsi mons. Edward Rice, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Saint Louis, ha citato diversi passaggi del drammatico racconto di suor Rio, elogiando il sacrificio compiuto dalle suore per la fede e il loro servizio per gli altri. Un servizio che riflette il carisma della fondatrice dell’ordine, Madre Teresa di Calcutta.
Ecco, di seguito, il drammatico racconto della mattinata dell’attacco, raccolto dalle missionarie della Carità e pubblicato dal National Catholic Register. Traduzione a cura di AsiaNews:
Come tutte le mattine, le suore hanno ascoltato la messa e poi hanno fatto colazione. Secondo consuetudine, il sacerdote è rimasto in cappella a pregare, e poi ha iniziato a sistemare le cose rimaste in sospeso nella struttura.
Alle 8 del mattino le suore hanno recitato l’apostolato della preghiera secondo le intenzioni e poi si sono dirette verso la casa.
Alle 8.30 un gruppo di miliziani dello Stato islamico vestiti di blu hanno fatto irruzione, uccidendo una guardia e l’autista.
Cinque giovani etiopi, di religione cristiana, hanno iniziato a correre in direzione delle suore per dire loro che membri dell’Isis avevano fatto irruzione ed erano lì per ucciderle. I cinque sono stati uccisi uno ad uno. I miliziani li hanno legati agli alberi, gli hanno sparato alla testa e poi gli hanno fracassato il cranio a colpi.
Le suore hanno iniziato a correre, a due a due, in direzioni diverse dato che all’interno della struttura vi erano in quel momento ospiti uomini e donne. Quattro donne che lavoravano nel compound hanno iniziato a urlare: “Non uccidete le suore! Non uccidete le suore!”. Una di loro è stata la cuoca per 15 anni del centro. I miliziani hanno ucciso anche loro.
Essi hanno preso per prime suor Judith e suore Reginette, le hanno legate, hanno sparato loro alla testa e hanno fracassato loro il cranio. Mentre le suore correvano in direzioni diverse, la superiora è corsa all’interno del convento per cercare di avvertire p. Tom.
In un secondo momento hanno catturato suor Anselm e suor Marguerite, le hanno legate, hanno sparato loro alla testa e poi l’hanno sepolta sotto la sabbia.
Intanto la superiora, pur provandoci, non riusciva ad accedere al convento. Non era dato sapere quanti uomini dell’Isis ci fossero nella struttura.
Ha visto tutte le consorelle e gli aiutanti uccisi. I miliziani dell’Isis volevano accedere al convento, per questo la suora ha cercato riparo nella cella frigorifera, perché in quel momento la porta era aperta. Vi erano membri dell’Isis dappertutto, in cerca della superiora, perché sapevano che le suore presenti nella struttura erano cinque. Sono entrati almeno tre volte nella stanza frigorifera. Suor Sally non si è nascosta, ma è rimasta in piedi, dietro la porta, e loro non l’hanno mai vista. Questo è un vero e proprio miracolo.
Nel frattempo, al convento, il sacerdote sentendo le urla ha consumato tutte le ostie. Egli non ha avuto il tempo di far sparire anche l’ostia più grande e ha disperso l’olio della lampada gettandolo nell’acqua.
Un vicino ha visto [gli assalitori] gettare p. Tom all’interno della loro auto. E di lui non si è più ritrovata alcuna traccia. Tutto il materiale sacro e gli oggetti di carattere religioso erano gettati a terra e distrutti – la Madonna, il crocifisso, l’altare, il tabeacolo, il sostegno per il libro delle letture – e anche i libri di preghiera e le Bibbie, completamente devastate.
Fra le 10 e le 10.15 i miliziani dello Stato islamico hanno concluso il loro raid e se ne sono andati.
Suor Sally è rientrata per raccogliere i corpi delle consorelle uccise. Le ha riunite tutti insieme. Poi ha visitato i pazienti e gli ospiti, uno ad uno, per verificare che stessero bene. E tutti erano sani e salvi. Nessuno aveva riportato ferite.
Un figlio della cuoca (uccisa nell’assalto) la stava chiamando sul cellulare. Dal momento che non riceveva risposta, egli ha chiamato la polizia e con gli agenti si è recato al compound, dove gli si è presentata agli occhi la scena del massacro. La polizia e il figlio sono arrivati verso le 10.30 del mattino.
La polizia ha cercato di portare via suor Sally, ma lei ha opposto un netto rifiuto dicendo che non avrebbe abbandonato queste persone in lacrime. “Non abbandonarci, resta con noi” le gridavano gli ospiti della struttura. Tuttavia, la polizia l’ha portata via con la forza perché i miliziani dello SI sapevano che, all’interno, vi erano cinque suore ed era pressoché certo che non si sarebbero fermati fino a che non avrebbero ucciso pure lei. Per questo, alla fine, ha dovuto accettare il fatto di andarsene. Ha preso un ricambio di abiti e i corpi delle consorelle; la polizia le ha trasportate fino a un ospedale gestito da personale di “Medici senza frontiere”, all’interno del quale avrebbe ricevuto protezione. Dato che non vi era spazio a sufficienza nella camera mortuaria dell’ospedale, la polizia ha portato i cadaveri delle religiose nell’obitorio di una struttura più grande.
Suor Sally ha detto a suor Rio di essere triste perché ora è sola non ha potuto morire con le sue consorelle. Suor Rio le ha risposto che Dio l’ha voluta come testimone, perché riferisse del massacro e le ha aggiunto: “Chi avrebbe potuto ritrovare i corpi delle suore e chi ci avrebbe potuto raccontare quello che è successo? Dio voleva che sapessimo”.
Il segretario particolare di papa Francesco ha contattato a più riprese le autorità dello Yemen, almeno una volta settimana per sincerarsi delle condizioni delle suore e rassicurarle circa la sua vicinanza. Oggi, il segretario del papa ha inviato un messaggio: “Voglio ringraziarvi, piccole missionarie della Carità oggi martiri”. Egli ha anche aggiunto che offre a loro le 40 ore di preghiera che iniziano il primo venerdì del mese.
Suor Sally ha raccontato a suor Rio che p. Tom diceva loro ogni giorno: “Siamo pronti al martirio”.
Suor Judith: hanno cercato in tutti i modi di farle compiere studi di alto livello, ma non sono riusciti a farla uscire dallo Yemen.
Suore Reginette: per lei erano previsti dei corsi di primo livello, ma non è stato possibile portarla via. Dio voleva che restassero lì.
Aden è una città portuale e ricca. Aden voleva crearsi una propria autonomia statale e amministrativa, per questo hanno favorito l’ingresso dei miliziani dell’Isis per combattere contro le autorità dello Yemen. Ecco perché l’Isis ha vinto ad Aden. Questo è stato il risultato della guerra dello scorso anno, con tutti quei bombardamenti. Hanno vinto, è finita così, ma l’Isis non se ne andrà. Essi vogliono impadronirsi del potere e sradicare la presenza cristiana. Essi non hanno ucciso le suore nel contesto della guerra, perché non avevano alcun interesse politico a perdere tempo con loro. Ma oggi, che sono l’unica presenza cristiana, l’Isis vuole sbarazzarsi di ogni minima traccia o presenza della cristianità. Ecco perché le suore sono delle vere martiri, perché sono morte per il solo fatto di essere cristiane. Avrebbero potuto morire molte volte durante la guerra, ma Dio ha voluto così perché fosse chiaro che esse sono delle martiri per la fede.
Suor Rio racconta che suor Sally si è completamente lasciata andare. La polizia ha cercato di farla andare via, perché i miliziani resteranno sulle sue tracce fino a che non l’avranno uccisa. Si è lasciata andare e ha detto a suor Rio che Dio faccia di lei ciò che vuole. Ha detto anche che gli altri musulmani le trattavano con rispetto. Ha detto anche di pregare perché il loro sangue sia germoglio di pace per il Medio oriente e perché serva a fermare l’Isis.
Ha detto anche che se hanno rapito p. Tom [di cui non si hanno notizie certe a distanza di due settimane dall’attacco, ndr] di aspettare un paio di giorni, e poi avrebbero chiesto un riscatto in denaro per liberarlo oppure il rilascio di alcuni miliziani detenuti in prigione.
Suor Rio ha detto che erano così fedeli, per questo l’Isis sapeva benissimo quando andarsene e quando fare irruzione. E a causa della loro fedeltà, esse si sono trovate al posto giusto e al momento giusto, e si sono fatte trovare pronte per accogliere il loro sposo.
Suor Adriana ritiene che l’aver spaccato loro il cranio potrebbe avere un legame malvagio con il passaggio biblico “e lei schiaccerà la testa del serpente”, in segno di disprezzo o come segnale ulteriore della loro malvagità.
Di seguito i nomi corretti delle suore:
Suor M. Sally, MC (Superiora, unica sopravvissuta al massacro)
Suor M. Anselm, MC (Bihar, India)
Sister M. Marguerite, MC (Rwanda)
Sister M. Judith, MC (Kenya)
Sister M. Reginette, MC (Rwanda)
perche no alla guerra in libia
Noi rappresentanti di movimenti, associazioni e gruppi del mondo della pace e della nonviolenza siamo preoccupati delle pressioni esercitate sul nostro governo perché assuma un ruolo guida nell’intervento militare in Libia a fianco di altre potenze occidentali. Il Presidente del Consiglio ha detto che “non è in programma una missione militare italiana in Libia”. Ne prendiamo atto. Ma i problemi restano:
il contrasto all’espansione del terrorismo del sedicente Stato islamico;
una minaccia alla sicurezza del nostro paese;
la stabilizzazione della nazione nordafricana.
La guerra non è il mezzo adeguato per sconfiggere il terrorismo né tantomeno per portare stabilità alla Libia. Basterebbe guardare alla storia di questi ultimi anni per capire che gli interventi militari non hanno risolto i problemi, li hanno invece aggravati.
A partire dalla dissennata guerra lanciata dalla Nato nel 2011 contro il regime di Gheddafi che avrebbe dovuto inaugurare un’era nuova di pace e democrazia. Invece la Libia è precipitata nel caos e nella guerra intestina. Non solo. Quella guerra ha posto le basi per altri conflitti. È ormai risaputo e documentato che il saccheggio di vasti arsenali di armi del colonnello durante l’operazione della Nato ha alimentato la guerra civile in Siria, rafforzato gruppi terroristici e criminali dalla Nigeria al Sinai e destabilizzato il Mali.
Di fatto nessuno dei conflitti iniziati dal 1991 ad oggi – Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Siria – ha risolto i problemi sul campo, anzi sono tragicamente aggravati. Il fallimento di tali operazioni è sotto gli occhi di tutti: milioni di profughi abbandonati al loro destino che fuggono a causa delle nefaste conseguenze delle recenti guerre.
Oggi poi, un eventuale secondo intervento armato in Libia avrebbe gravi ripercussioni anche sulla vicina Tunisia che teme il debordare della crisi libica oltre i suoi confini, mettendo a repentaglio il suo fragile equilibrio politico e il faticoso cammino verso la democrazia avviato in questi ultimi anni.
Inutile e ovvio dire che saranno i civili a pagare il prezzo più alto di imprese militari, anche nel caso di attacchi effettuati dai droni. Per quanto si voglia far credere che la precisione di tale aerei telecomandati non causerà vittime tra la popolazione, i fatti dimostrano l’esatto contrario. Indagini condotte su una lunga serie di attacchi hanno messo in evidenza che per un terrorista colpito i droni uccidono altre trenta persone circa, tra cui donne e bambini.
Se un intervento armato di polizia internazionale in Libia ci dovrà essere, sarà da considerarsi come estrema ratio, fatta nell’ambito delle Nazioni Unite e in seguito alla esplicita richiesta del governo unitario libico. Senza la quale – ammoniscono le autorità del governo di Tripoli – “qualsiasi tipo di operazione militare si trasformerebbe da legittima battaglia contro il terrorismo a palese violazione della nostra sovranità nazionale”.
Va aggiunto che la lotta al terrorismo dello Stato Islamico non potrà mai essere vinta con un dispiegamento di forze militari. Anche la macchina bellica più potente è inefficace di fronte al fanatismo e alla capacità di mimetizzarsi dei terroristi in grado di colpire ovunque nel mondo cittadini inermi con attentati sanguinari. La nostra penisola è in una posizione particolarmente vulnerabile perché è la più esposta per la sua vicinanza geografica alle coste libiche.
Per i motivi esplicitati qui sopra, ci rivolgiamo al governo italiano perché assuma un ruolo guida per indicare alla comunità internazionale la ricerca paziente e perseverante di una soluzione politica alla grave crisi libica.
A tale scopo proponiamo con urgenza che l’Italia si impegni:
a ricostruire l’assetto statuale della Libia, sostenendo con la diplomazia e la politica l’iniziativa per un accordo tra le controparti e la formazione di un governo unitario tra i governi di Tobruk e di Tripoli;
a coinvolgere gli stati membri della Lega araba e dell’Unione africana anche al fine di bloccare i finanziamenti ai movimenti terroristici islamici che provengono da Arabia saudita e Qatar, dal commercio di petrolio e di droga;
a valorizzare la partecipazione della società civile della Libia nel processo di ricostruzione della loro nazione;
a garantire da parte dell’Europa l’apertura delle frontiere per accogliere e assistere i profughi, mettendo in campo in campo un’operazione di salvataggio in mare.
Sulla base della nostra Carta costituzionale che sancisce che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie inteazionali» chiediamo al governo di adoperarsi con determinazione e concretamente al fine di promuovere e restituire pace e giustizia al popolo della Libia. Lavoro al quale partecipano da tempo schiere di cittadini che a vario titolo e in diverse organizzazione operano per la promozione della pace e della giustizia tramite l’educazione nelle scuole, con corsi di formazione alla nonviolenza attiva, con la disseminazione di informazione, con la ricerca, il monitoraggio e la denuncia di vendita illegale di armi e con una variegata gamma di iniziative e progetti.
Infine desideriamo rivolgere un appello a papa Francesco che negli anni del suo pontificato non si è stancato di dichiarare la propria ferma opposizione alla guerra. Che anche in questo caso levi la sua voce profetica per denunciare l’assurdità e l’immoralità di un intervento armato in Libia, sollecitando la comunità internazionale a cercare soluzioni pacifiche e giuste.
Efrem Tresoldi, direttore di Nigrizia; Mao Valpiana, direttore di Azione nonviolenta; Alex Zanotelli, direttore di Mosaico di Pace; Mario Menin, direttore di Missione Oggi; Filippo Rota Martir, direttore di Cem Mondialità; Marco Fratoddi, direttore di La nuova ecologia; Riccardo Bonacina, direttore di Vita;
Pietro Raitano, direttore di Altreconomia; Claudio Paravati, direttore di Confronti; Michele Bornato, direttore di Gaia; Pier Maria Mazzola e Marco Trovato, direttori di Africa; Silvia Pochettino, direttrice di Volontari per lo sviluppo; Redazione di Mondo e Missione; Antonio Vermigli, direttore di In dialogo; Luca Kocci, direttore di Adista; Luigi Anataloni, direttore di Missioni Consolata e segretario della Federazione Stampa Missionaria Italiana
marzo 2016 sommario
In questo numero: il dossier n. 2 sull’Is/Daesh e i suoi combattenti; reportage sui pulitori di latrine in India; l’Atlante della Giustizia ambientale; il punto sul Burundi; Porta santa a Guiúa; l’Anno Sabatico; la cannabis; Amico e tanto di più.
Paesi occidentali e arabi sono in guerra contro il Daesh. Eppure il Califfato di al-Baghdadi resiste e, anzi, cresce e raccoglie proseliti. Chi sono i jihadisti che si arruolano? E come si spiega la loro scelta?
2014-2016, i due anni dello «stato islamico»
La guerra (poco) santa del Daesh
Paesi occidentali e arabi sono scesi in campo contro il Daesh (il nome arabo dell’Is, il cosiddetto Stato islamico). Eppure il Califfato di al-Baghdadi resiste e, anzi, raccoglie proseliti. Chi sono i jihadisti che si arruolano? Da dove provengono? Come si spiega la loro scelta? In questo dossier – proseguimento di quello del gennaio 2015 – cerchiamo di fornire qualche risposta.
«I crociati divisi di Oriente e Occidente si pensavano al sicuro nei loro jet mentre bombardavano vigliaccamente i Musulmani del khil?fah (califfato, ndr) […]». Così inizia la prefazione al numero di dicembre 2015 della rivista «Dabiq», organo di stampa del Daesh. E prosegue: «Ma Allah ha decretato che la punizione si sarebbe abbattuta sui crociati guerrafondai da dove non si sarebbero aspettati. Così, i benedetti attacchi contro i russi e i francesi sono stati eseguiti con successo nonostante la guerra dell’intelligence internazionale contro lo Stato islamico. Entrambe le nazioni crociate hanno distrutto le proprie case con le proprie mani per mezzo delle loro ostilità verso l’Islam, i musulmani e il Califfato».
Il 13 novembre 2015 l’Occidente è scosso dagli attacchi terroristici a Parigi che provocano 129 morti tra Francesi, Europei e Arabi. Tale tragedia è preceduta da altre che non ricevono la stessa attenzione mediatica e politica: il 12 novembre in un quartiere sciita di Beirut vengono uccise 43 persone; il 31 ottobre, l’esplosione di un aereo russo sul Sinai dilania 224 tra adulti e bambini; il 10 ottobre, un attentato ad Ankara colpisce una manifestazione pacifica facendo 102 vittime; e poi ancora attentati, benché non tutti direttamente a firma del Daesh, in Iraq, Kenya, Mali, Somalia, Tunisia, Siria, Libia, Usa, Indonesia, Burkina Faso, sia precedenti che successivi ai fatti di Parigi.
L’elenco dei morti è lungo e, se guardiamo con attenzione ai luoghi e alle persone, notiamo che la stragrande maggioranza delle vittime degli attacchi è musulmana. Nella stessa Parigi, ad esempio, sono stati uccisi diversi arabi musulmani. Dunque, oltreché una guerra contro l’Occidente, è in atto una guerra intra e inter islamica, cioè tra fazioni e popolazioni musulmane, alimentata da odii settari, regimi e gruppi sanguinari, e da retaggi di guerre coloniali passate e presenti.
Dal 2011, gruppi legati ad Al-Qaida, di cui l’Is originariamente faceva parte, sono stati armati, addestrati, finanziati da Europa, Usa e alleati turco-arabi (tra cui l’Arabia saudita), per abbattere regimi e dittature non funzionali al dominio occidentale. Questi gruppi hanno contribuito a devastare Libia, Siria, Iraq e altri stati.
Testimonianze, documenti e foto dimostrano che organizzazioni armate e addestrate dalla Nato sono passate dalla Libia alla Siria. Esse hanno acquisito armi, competenze e conoscenze sufficienti per fare ciò che vogliono, e per sperimentare le loro tecniche di «guerra urbana» anche in Europa, com’è successo a Parigi. In questi casi non si tratta più di grandi organizzazioni terroriste, ma di «cellule» che, giunte dall’esterno o già presenti nel paese, si attivano dopo il «patto di alleanza» con il gruppo terrorista e l’ordine ricevuto.
Dabiq, manuali e war-game
Consultando la rete internet non è difficile incontrare la rivista dell’Is, «Dabiq», o «manuali del combattente» come l’How to survive in the west. A mujahid guide, 2015 (Come sopravvivere nell’Occidente. Una guida per il mujahid), da scaricare e leggere per apprendere l’arte della dissimulazione, o taqiyyah, e fingersi bravi cittadini allo scopo di preparare indisturbati l’attacco terrorista; per imparare i modi in cui ingannare gli odiati kuffar, miscredenti, tramite carte di credito clonate, phishing (furto di dati e informazioni personali), furti, o per imparare le tecniche della guerriglia urbana, descritte minuziosamente per la «cellula dormiente da attivare al momento giusto, quando la ummah (comunità dei credenti) ha bisogno di te», o, ancora, per diventare esperti nelle modalità «dark» di comunicazione tra combattenti via internet1, per non essere scoperti dalle polizie dei vari paesi.
«La guerra imminente per la conquista di Roma – si legge nel manuale del combattente – consisterà principalmente in guerra urbana dentro le città e le strade europee», come è accaduto a Parigi o a Tunisi. E per essere pronti, i combattenti islamisti si addestrano all’uso delle armi, si allenano in palestra, fanno arrampicata, giocano con videogame di guerra, tra i quali i famosi «Call of Duty».
Tutto, dall’uccisione del miscredente, al comportamento illecito, all’abuso, è giustificato attraverso ahadith2 (ovvero, i detti del Profeta) selezionati e menzionati ad hoc, e rafforzato dalla convinzione che governi e corporazioni occidentali si comportino da criminali. La distinzione, operata a volte da governi e media occidentali, tra jihadista «moderato» (utile ad esempio in Siria per destituire Al-Assad, ndr) e terrorista, non ha senso. Tutti attingono dalle medesime fonti.
«Tutti questi eccessi, il discorso del martirio, i comportamenti immorali, la dissimulazione, la violenza, costituiscono un abuso da parte dell’Is e degli altri gruppi, una strumentalizzazione politica della religione», ci dice Roberto Aliotta, musulmano sufi e responsabile di una comunità ad Albenga (Savona). «Senza una guida spirituale, il Sacro Corano diventa lo strumento per giustificare ogni genere di crimine. L’abbandono del sufismo da parte degli Arabi ha avuto effetti catastrofici e li ha fatti tornare all’epoca preislamica. L’Is, così come altri gruppi, utilizzano alcuni versetti del Corano e certi ahadith per giustificare le loro azioni e far scattare la trappola del takfirismo (l’ideologia che usa l’accusa di miscredenza e apostasia, cfr. il glossario). Purtroppo il salafismo attuale (che vorrebbe un Islam «puro» come quello delle origini) incoraggia l’interpretazione personale degli ahadith, inducendo all’esaltazione della propria visione, sia essa incline alle degenerazioni modeiste o alla superficialità dei “letteralisti”».
Alla conquista di «Roma»
«Conquisteremo la vostra Roma – si legge su «Dabiq» di aprile 2015 -, spezzeremo le vostre croci e renderemo schiave le vostre donne, con il permesso di Dio, il Glorificato. Questa è la sua promessa fatta a noi. Egli è glorificato e non manca nelle sue promesse. Se non raggiungeremo quel momento, lo raggiungeranno i nostri figli e nipoti, e venderanno i vostri figli al mercato degli schiavi».
L’11 dicembre 2015, il sito del quotidiano britannico Dailystar pubblica un video dell’Is intitolato Incontrando Dabiq. In esso viene proposta una visione apocalittica degli ultimi giorni sulla Terra3. Roma è presentata come lo scenario della battaglia finale tra i «crociati» e i «credenti», con sequenze che mostrano la Città del Vaticano e un’unità corazzata dell’Is che avanza verso il Colosseo. La preparazione di jihadisti, da parte dell’Is, a una missione suicida viene mostrata in una parte del video intitolata Le ultime parole prima dell’operazione di martirio.
Quando lo Stato islamico parla di «Roma», traduce il termine arabo al-R?m, i Romani, cioè i Bizantini dell’Impero romano d’Oriente, rifacendosi alla omonima sura XXX del Corano che, al versetto 2, fa cenno alla conquista di Bisanzio da parte dei persiani: «I bizantini sono stati sconfitti». Tuttavia la stessa sura prosegue preconizzando la rivincita dei Romani: «Ma loro, dopo la sconfitta, vinceranno». Essa infatti si riferisce a eventi contemporanei al profeta Muhammad che videro quest’ultimo parteggiare per i Bizantini. Nel 614, i persiani politeisti di Cosroe avevano, infatti, occupato Damasco e Gerusalemme, compiendo saccheggi e devastazioni, avevano colpito anche l’Egitto ed erano arrivati a minacciare Costantinopoli. Alla Mecca, i nemici dei primi musulmani si rallegravano per le vittorie dei Persiani, ma la piccola comunità del profeta parteggiava per i Bizantini, monoteisti. Diciamo che il Corano, dunque, tiene le parti dei Romani in quanto cristiani, cioè genti del Libro, contro i Persiani.
Dove attinge allora l’Is, per giustificare le minacce a «Roma»? Come di consueto, dalla miriade di ahadith. Esiste una profezia riguardante la conquista di Roma menzionata da ahadith di Sahih Muslim, riportati nel già citato numero di aprile di «Dabiq», in cui vengono nominate Costantinopoli e Roma: «Questi ahadith indicano che i musulmani saranno in guerra con i cristiani romani – si legge a pagina 33 -. Roma, nella lingua araba del profeta si riferisce ai cristiani d’Europa e alle loro colonie in Siria prima della conquista della Siria stessa per mano dei Sahabah (primi musulmani). Ci sarà una pausa in questa guerra dovuta a una tregua o trattato. Durante questo tempo, musulmani e Romani combatteranno un nemico comune».
Dunque, dal punto di vista della tradizione ortodossa, la pretesa dell’Is di far guerra a Roma, dopo Costantinopoli, avrebbe un fondamento? Sia i versetti del Corano sia gli ahadith che citano la guerra contro Roma sarebbero da contestualizzare storicamente, ma nell’Islam la lettura storico-critica dei testi sacri è negata. «Dabiq» allora interpreta la profezia dandole un valore escatologico, da fine dei tempi, per avvalorare la conquista di Roma in questa epoca storica. A partire da questa visione profetica «senza tempo» e «senza territorio», e mancando un capo religioso riconosciuto da tutta la ummah, chiunque, con un po’ di potere, può decidere di muovere guerra decodificando Corano e ahadith a modo proprio.
Contro i «crociati cristiani»
L’Is spiega il perché del suo odio contro i «crociati cristiani»: «Oh Americani ed Europei – si legge, sempre nello stesso numero di «Dabiq» -, lo Stato islamico non ha iniziato una guerra contro di voi, come i vostri governi e media cercano di farvi credere. Siete voi che avete iniziato la trasgressione contro di noi e dunque siete voi a meritare il biasimo e a pagare un alto prezzo. Pagherete il prezzo quando le vostre economie collasseranno. Quando i vostri figli saranno mandati a fare guerra contro di noi e toeranno a voi disabili, amputati, dentro bare o mentalmente malati. Quando avrete paura di viaggiare in altre terre. Quando camminerete per strada, girando a destra e a sinistra, temendo i musulmani. Non vi sentirete sicuri nemmeno nei vostri letti. Pagherete il prezzo quando questa crociata collasserà, e vi colpiremo nella vostra terra e voi, da quel momento in poi, non sarete più in grado di far male a nessuno. Pagherete il prezzo e noi abbiamo preparato per voi ciò che vi farà soffrire». Sarà la «campagna finale», la battaglia apocalittica che avverrà in Dabiq, territorio nella Siria settentrionale in cui la profezia pone l’atto conclusivo della guerra contro i Romani. Dunque, afferma l’Is, «preparatevi, colpiteci, uccideteci, distruggeteci. Non servirà a nulla. Sarete sconfitti, perché il nostro Signore, l’Onnipotente, ci ha promesso la vittoria contro di voi e la vostra sconfitta».
Fragilità psicologiche e sociali di chi si arruola
Il giovane jihadista – la ferocia dell’Is
Il desiderio del martirio, il sentimento di essere parte di una comunità eroica di invincibili, il senso di rivalsa verso un mondo che esclude e procura sofferenze, l’esaltazione religiosa, l’abuso di droghe, sono alcune delle caratteristiche dei giovani combattenti dell’Is, spesso con una vita poco o per nulla religiosa alle spalle.
Essere uccisi, è, per i combattenti dell’Is, una vittoria: «Questo è il segreto. Voi combattete un popolo che non può essere sconfitto», perché non ha paura della morte (cfr. «Dabiq», n. 4, 2015). Anzi, la invoca.
La componente tanatofila (amore per la morte) di questo radicalismo violento cavalca il concetto islamico di «martirio», shahadah, come potente arma di testimonianza e riscatto dei popoli contro l’oppressore, trasformandolo nell’aspirazione massima cui deve tendere il mujahid, il combattente. Diventa un fine, e non più un mezzo, della «teologia della liberazione islamica». In diverse pagine del citato manuale del mujahid viene ripetuta l’idea del sacrificio cui devono aspirare i «soldati» dell’Is: «Il vostro lavoro non finirà finché non otterrete il martirio. E chiediamo ad Allah che avvenga presto».
La martirologia fa parte del retaggio culturale religioso dei popoli musulmani, sia sunniti sia sciiti, e, secondo l’islamologo francese Bruno Etienne, nel suo libro L’islamismo radicale (Rizzoli 2001), ancora oggi termini come fity?n (giovane, eroe), muj?hid (colui che intraprende una lotta interiore, e anche militare, per il bene della comunità), fid?’o sh?hid (sacrificarsi per qualcuno o qualcosa), istishh?d (essere testimone tramite il martirio), «modeizzati dalle guerre di liberazione nazionale e rivoluzionaria, dall’Algeria alla Palestina», hanno una connotazione religiosa ed escatologica molto forte, soprattutto in relazione ad apostati, miscredenti, tiranni, oppressori. E, dunque, un fid?’?, uno che si immola individualmente, o un muj?hid, un combattente, morti, diventano martiri della fede: sh?hid.
Il giovane jihadista: chi è?
Ciò che hanno in comune i terroristi delle Torri Gemelle con quelli di Parigi e di altri attacchi in Europa e in altre regioni del mondo, è il fatto che non corrispondono al modello stereotipato del fanatico religioso: bevono alcornol, almeno fino a poco prima di immolarsi, hanno storie di droga, non frequentano le moschee, vanno con le prostitute e in locali equivoci, non pregano, i conoscenti li descrivono come allegri, socievoli, giovani che si divertono.
Queste considerazioni si applicano tanto ai jihadisti provenienti dalla classe media e alta, quanto a quelli delle classi popolari: sembrano semplici laici, per lo meno fino a poco prima degli attacchi.
Dunque, il jihadismo, tanto per i «nati musulmani», quanto per quelli che lo diventano, rappresenta una «conversione», una rinascita personale, una nuova vita. E ciò accade, in genere, poco prima che essi si arruolino nelle fila di qualche organizzazione.
In un certo senso la trasgressività delle loro vite anteriori alla conversione si trasferisce nella trasgressività di un Islam al di fuori della consuetudine ortodossa. Un fenomeno che assomiglia molto alle conversioni, nell’America Latina, alle sette evangeliche militanti da parte di giovani con dipendenze da alcol o con altri problemi sociali.
Non è un caso che diversi studiosi – tra cui psicologi, sociologi, antropologi e medici – parlino di forme di sofferenza psichica e sociale comuni ai vari jihadisti: depressione, isolamento, instabilità psicologica, ipersensibilità, debolezza, sentimento di alienazione o di non appartenenza a un luogo, un tempo, un territorio, una società.
Questo sembra, dunque, il retroterra comune sia al jihadista che arriva dai borghi ricchi delle città, sia a quello delle periferie, banlieue o bidonville, sia al musulmano di nascita, sia a quello convertito.
In tutti questi casi, la persona disagiata trova nelle reti sociali dell’Islam radicale le risposte che cerca.
Oltre a ciò, una sensibilità e un idealismo particolarmente spiccati, e la rabbia causata dalle ingiustizie sociali (presenti sia nel proprio territorio che nel resto del mondo), rappresentano una spinta per cercare giustizia e legge nell’Islam, percepito come «rivoluzione permanente» e, in particolare, nell’Islam più estremo e politicizzato, al di fuori della società occidentale, o dei regimi arabi corrotti.
Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Russia, Israele, ma anche Iran e alcuni governi arabi, sono considerati da questi giovani (e anche adulti) come il male che infesta il mondo e aggredisce la ummah islamica, e che deve essere combattuto.
Ecco, allora, che l’Is, con la sua propaganda di eroi, «giovani leoni», forti, palestrati, belli, cosmopoliti e «antagonisti» dei corrotti, riesce ad attrarre molti giovani in crisi di identità.
Islamisti radicali in Italia
In una nostra precedente inchiesta, risalente alla fine degli anni ‘90, per la quale intervistammo diversi uomini e donne, musulmani di origine o convertiti, di varie città italiane e distinte classi sociali, era emersa, tra le donne convertite a un Islam più radicale, l’alta incidenza di sofferenze psicologiche o familiari. Molte erano le persone con un passato di instabilità emotiva e affettiva, segnato da droga o etilismo, con esperienze di abbandono familiare, di padri fuggitivi o violenti, madri malate o incapaci di occuparsi di loro. Molte avevano esperienze di militanza in organizzazioni molto militarizzate di estrema sinistra o estrema destra.
Questa vita passata, segnata da sofferenze o rigida disciplina, veniva solitamente raccontata dalle interessate per indicare un prima e un dopo la «conversione» o, meglio, il «ritorno all’Islam», (secondo il concetto islamico per cui tutti, alla nascita, siamo musulmani, nel senso etimologico del termine, ossia creature sottomesse a Dio).
Anche tra diversi uomini emergeva un passato di droga, alcol, violenza personale, ex militanza in partiti estremisti. Le letture principali, per molti di loro, erano i testi classici del salafismo: Ibn Taymiyya, Sayyid Qutb, Albani, Mawdudi.
Negli anni tale situazione non è mutata, e, anzi, si è acutizzata. Spiega il già citato Roberto Aliotta: «Tra i convertiti che ultimamente si presentano nel nostro centro, vediamo soprattutto individui con disturbi gravi della personalità. E ci sono stati vari casi di musulmani immigrati che hanno manifestato attitudini violente nei confronti dei non musulmani, effetto di disordini mentali che la lettura di testi salafiti o l’ascolto di sermoni violenti, via internet, esasperano».
Le persone alla ricerca di un cammino spirituale si avvicinano all’Islam tradizionale e non hanno bisogno di aderire alla visione estremista della dottrina wahhabita neosalafita e delle sue diramazioni come il jihadismo e il takfirismo (cfr glossario).
Disordine mentale o reazione all’emarginazione politica e sociale?
Le testimonianze di 160 famiglie francesi con figli jihadisti costituiscono la base di una relazione redatta dal Cpdsi (Centre de Prévention contre les Dérives Sectaires liées à l’Islam, Centro di prevenzione contro il settarismo in relazione all’Islam)4. La ricerca ha messo in evidenza come una percentuale abbastanza elevata di giovani (40% degli intervistati) che si era unita a gruppi jihadisti soffriva di depressione o mostrava fragilità psicologiche. Ciò ha portato i ricercatori a supporre che «l’indottrinamento funzioni più facilmente con i giovani ipersensibili che si pongono domande sul significato della loro vita».
«Le famiglie che entrano in contatto con il Cpdsi – si legge nella relazione – sono tutte di cittadini francesi. Soltanto il 10% ha nonni che emigrarono o si installarono nella Francia metropolitana, dopo aver vissuto nei territori francesi in America, in Germania, in Algeria, Tunisia, Marocco o in Asia. Questi giovani influenzati dal radicalismo dichiarano di sentirsi “senza territorio”, appartenenti al “niente”, e cresciuti in un “blackout”».
Un altro dato interessante della ricerca, che riguarda l’84% dei jihadisti intervistati, è la loro provenienza dalla classe sociale media o medio alta, con una forte presenza di genitori insegnanti e con una formazione universitaria (50% dell’84%). Il restante 16% è diviso tra la classe popolare e quella alta. Oltre a ciò, l’80% delle famiglie si dichiara atea. Solo il 20% si definisce buddhista, ebrea, cattolica o musulmana.
La fascia di età più colpita è quella tra i 15 e i 21 anni (63%). Quella tra i 21 e i 28 anni corrisponde al 37%.
La ricerca, inoltre, mostra che, rispetto a un tempo passato nel quale le conversioni al radicalismo (islamico o evangelico) erano caratteristiche soprattutto delle classi popolari, con bassa scolarizzazione e instabilità, delle seconde generazioni di immigrati, e delle minoranze, negli ultimi tempi riguardano invece tutte le classi sociali. Come spiega Oliver Roy, esperto di geopolitica islamica e direttore di ricerca al Cnrs (Centre national de la recherche scientifique) di Parigi, nel suo volume Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo islam: «L’islamizzazione della periferia dell’Europa è un fenomeno reale, ma marginale […]. In realtà, non si può vedere nel radicalismo islamico la conseguenza dell’esclusione sociale, non fosse altro che per l’evidenza che molti militanti (e lo stesso Bin Laden, ad esempio) non hanno nulla di marginale, in termini socio economici».
Tuttavia, per altri studiosi, il radicalismo islamico (anche se non necessariamente quello di al-Qaida o dell’Is) rappresenta un potenziale di «rivoluzione» e ribellione contro lo status quo e contro l’emarginazione sociale e politica di masse di persone, sia in Occidente sia in Oriente. Per questo, anche noi crediamo che sia importante tenere accesi i riflettori sul tema dell’esclusione sociale dei musulmani in paesi come la Francia e l’Italia: la patria di «Liberté, Egalité, Frateité», infatti, secondo un’inchiesta di The Telegraph, «emargina, impoverisce e perseguita i musulmani. Delle 67.500 persone attualmente in carcere in Francia, circa il 70% è musulmano. Nelle prigioni, lasciati a se stessi, i giovani più vulnerabili trovano rifugio nei sermoni infiammati di alcuni personaggi radicali».
Per l’islamologo Massimo Campanini, docente di storia dei paesi islamici presso l’Università di Trento, il radicalismo islamico è, per sua natura, un’ideologia di opposizione che produce un islamismo politico.
Secondo Hrair Dekmejian, docente di scienze politiche all’Università della Califoia meridionale di Los Angeles, l’Islam radicale, in quanto movimento globale, nei confronti dei giovani europei e arabi può esercitare un potere di attrazione che si basa su sei punti: 1) offre una nuova identità a individui alienati che hanno perso il loro orientamento sociale e spirituale; 2) definisce una visione del mondo in termini inequivocabili, identificando le fonti del bene e del male; 3) offre forme alternative di confronto con un ambiente ostile; 4) fornisce un’ideologia di protesta contro l’ordine stabilito; 5) fornisce un senso di dignità e di appartenenza, e un rifugio spirituale contro l’incertezza; 6) promette una vita migliore in questa Terra e nei Cieli.
Più fragilità psicologica che economica
«Migliaia di giovani lasciano la vita confortevole in Europa per aderire allo Stato islamico, dove fanno addestramento per prepararsi alla guerra, e per morire, poi, in un attentato suicida, come gli attacchi di Parigi». Secondo Lamya Kaddor, autrice del libro Zum Töten Bereit (Pronto per uccidere), il ruolo degli europei – discendenti di immigrati e convertiti – nelle fila dello Stato islamico, è sempre maggiore. Lamya, figlia tedesca di immigrati siriani, vede il terrorismo islamico come un movimento di protesta di una generazione che si sente vittima della società, della scuola o della famiglia. «Cinque dei miei alunni, un giorno scomparvero e furono successivamente localizzati in Siria, dove erano andati a lottare con l’Is. Rimasi perplessa, tentando di capire le possibili cause. In tutti loro c’era una sensazione di esclusione, un deficit emozionale o semplicemente una mancanza di amore nella famiglia, che li rendeva facili vittime di moschee radicali. Gli imam radicali trovano ascolto dove ci sono giovani già disponibili, che tendono al jihadismo come manifestazione di un movimento di protesta di una generazione nata in Europa, che soffre per la mancanza di radici e perché vede i genitori vittime di discriminazione e dell’assenza di possibilità di mobilità sociale».
La voce di Ahmad Mansour (psicologo israelo palestinese, direttore del programma European foundation for democracy, attivo nella lotta contro l’estremismo islamico tra i giovani musulmani in Germania) si unisce a chi afferma che «i problemi che conducono i giovani ad aderire al jihad sono più psicologici che socio economici. Circa il 40% dei nuovi jihadisti soffre di depressione e scopre un’ideologia che va a riempire una vita giudicata come vuota. L’aspetto della violenza arriva successivamente».
La ferocia dell’Is
Tra i giovani seguiti dal Cpdsi per il suo studio, molti presentano sintomi come depressione, anoressia, autolesionismo, isolamento. Non si sono mai sentiti «connessi con il mondo», «capiti dagli altri», ma sempre «differenti», perché «Dio mi ha eletto come persona pura, capace di ricevere la verità per salvare il mondo dalla perversione». I ricercatori francesi spiegano che «in un primo momento, la fragilità dei giovani […] è il terreno fertile per l’ingresso nei movimenti radicali; […] la rottura con la società e la famiglia è una conseguenza dell’indottrinamento settario».
Instabilità e sofferenza, alcolismo e altri vizi, sembra fossero caratteristiche anche dalla personalità della giovane Hasna Ait Boulahcen, morta nell’esplosione provocata dal mujahid con cui stava nell’appartamento di Saint-Denis, a Parigi, durante il blitz della polizia, pochi giorni dopo gli attachi del 13 novembre. Un altro kamikaze di Parigi sembra frequentasse bar di trafficanti di droga.
Certamente i comportamenti border-line, tipici di ambienti di emarginazione sociale, potrebbero far parte anche della «dissimulazione» richiesta dalle regole del bravo jihadista. L’Is, però, mostra una ferocia così spettacolare che è difficile non pensare che i suoi membri non facciano uso di droghe o non siano vittime di qualche patologia.
Esistono diversi ahadith molto chiari in tema di «guerra»5: non si devono uccidere donne, bambini, vecchi; non si deve distruggere la natura; non si devono smembrare i cadaveri, ecc. Anche in questo, dunque, l’Is mostra inquietanti innovazioni verso un uso personale, strumentale della religione.
La diffusione del «Captagon»
In questi ultimi anni stanno emergendo dati sulla distribuzione e il consumo di droghe da parte di jihadisti in Siria e in altre zone di guerra.
Secondo quanto riportato dal quotidiano the guardian nel gennaio 2014, indagini realizzate separatamente dall’agenzia di notizie Reuters e dal Time magazine hanno portato alla luce il crescente commercio di Captagon, di fabbricazione siriana, un’anfetamina utilizzata in Medio Oriente, quasi sconosciuta in altre aree del mondo. Il Captagon genera proventi di milioni di dollari, alcuni dei quali sono usati per comprare armi.
In base alle fonti citate, il Captagon fu prodotto per la prima volta negli anni ‘60 per curare la narcolessia, la depressione, ma fu poi proibito negli anni ‘80 perché dava dipendenza. Tuttavia, ha continuato a essere usato in Medio Oriente, compresa la puritana e salafita Arabia Saudita, dove sembra essere molto popolare.
Uno psichiatra libanese, Ramzi Haddad, intervistato dal Time, ha affermato che il Captagon ha «gli effetti tipici di uno stimolante e produce una sorta di euforia. La persona diventa molto comunicativa, non dorme, non mangia, è energica».
Il narcisismo di combattenti «pop star»
Jihad: sesto pilastro dell’Islam radicale
Non sono rari i casi di islamisti militanti riconvertiti in Europa dopo una vita di indifferenza verso la propria religione di origine. È il desiderio di ritrovare un’identità e un’appartenenza. Il problema, in una comunità islamica che a volte si incontra più facilmente su internet che altrove, è la facilità di incappare in versioni fai da te della religione del Profeta.
Secondo Katherine Brown, del Dipartimento di Studi della Difesa al King’s College di Londra, intervenuta sul quotidiano brasiliano O Globo: «Lo Stato islamico non ha mai contato sui “lupi solitari”, come si è supposto recentemente. […] È, invece, molto comune […] la struttura di cellule con relazioni di fiducia stabilite soltanto tra “scelti”». Di un’analoga struttura selettiva, tra fiduciari, all’interno dei gruppi di combattenti in Libia, ci parla anche il libro Soldier for a summer (Soldati per un’estate) di Sam Najjair, ex foreign fighter, non Is, in Libia e Siria.
Nei loro testi, Daniele Conversi (professore presso la Facoltà di Scienze Sociali all’Università dei Paesi Baschi, Spagna) e il già citato Olivier Roy (autore de L’echec de l’Islam politique – Il fallimento dell’Islam politico), sottolineano come il radicalismo islamico rappresenti un veicolo e un prodotto della globalizzazione. In modo analogo, l’islamologo Bruno Etienne descrive la nascita dei movimenti islamici come risposta alla modeizzazione e come «islamizzazione della modeità».
Scrive Roy: «La religione, concepita come un insieme di norme decontestualizzate, può essere adattata a ogni società, proprio perché ha tagliato i propri legami con una determinata cultura e permette alla gente di vivere in una specie di comunità virtuale, deterritorializzata che include qualsiasi credente».
Negli ultimi decenni lo spostamento a Occidente di molte persone provenienti da paesi musulmani e la loro condizione di minoranza, incoraggiano la creazione di comunità religiose slegate dalle realtà islamiche d’origine. L’Islam stesso, come sistema di interconnessioni sociali e religiose, si reinventa: laddove in patria la comunità era il referente supremo, in «diaspora» i musulmani si riscoprono «individui» che operano scelte personali, spesso in rottura con la tradizione e la cultura della terra natale. Il proprio gruppo è percepito come «accerchiato», circondato da un ambiente ostile – dai kuffar -, tra cui è costretto a vivere, e dai quali va protetto, possibilmente chiedendo allo stato di riconoscee l’identità in quanto minoranza. Si vedano, ad esempio, i numerosi tentativi, iniziati già a fine anni ‘90, di «intese» tra Stato e comunità islamiche in Italia, tutti falliti anche per la mancanza di una leadership rappresentativa e «unitaria» dell’Islam italiano6.
In terra d’immigrazione molti musulmani riscoprono «radici» che non sapevano di avere, e un’identità specifica, in contrapposizione e antagonismo con quella dei «miscredenti». La reislamizzazione, la «rinascita» di molti musulmani (spesso laici nel paese d’origine) non è solo un fenomeno identitario, ma anche un processo di occidentalizzazione che, giocoforza, è un lasciare dietro di sé la propria cultura d’origine e le tradizioni.
Il jihad, sesto «pilasto» dell’Islam radicale
La modeità emerge in modo particolare nel rapporto tra l’Islam radicale e l’uso della violenza. Si tratta, come spiegano i musulmani tradizionalisti, di una innovazione, o bid’a, dunque un paradosso per i fondamentalisti. Questa innovazione si esplicita, per esempio, nel concetto di jihad (qui nel suo significato di sforzo minore, cioè militare), manipolato dall’ideologia wahhabita neosalafita, che diviene una priorità, trasformandosi in una obbligazione dell’individuo, fard al-’ayn, e, in questo modo, è imposta a ciascun musulmano, in qualsiasi momento, mentre nella tradizione ortodossa è considerato, invece, un obbligo collettivo limitato nel tempo e nello spazio, e obbligatorio nelle situazione di minaccia, cioè quando il D?r al-Isl?m, il territorio islamico, è in pericolo.
Tale innovazione, come sottolineano Roy e altri studiosi, fu introdotta da islamisti come Sayyed Qutb, teorico della Fratellanza Musulmana, un movimento neosalafita creato nel 1928 in Egitto, e da altri. Il jihad divenne, nel corso degli anni, un obbligo, il sesto «pilastro dell’Islam» da aggiungere ai cinque tradizionali: professione di fede, preghiera, digiuno nel mese di Ramadan, pellegrinaggio alla Mecca ed elemosina.
I gruppi del neofondamentalismo – sviluppatosi a partire dagli anni ‘80, di cui al-Qaida è una delle organizzazioni più note e a cui si aggiunge, oggi, anche l’Is -, che fanno del jihad un obbligo individuale vengono chiamati, appunto, jihadisti.
Tuttavia, come afferma Roy, la maggior parte dei conflitti definiti «religiosi» sono, in realtà, «etnico-nazionali», e in vari casi, non ultimi quelli in Iraq e in Siria, il jihad viene strumentalizzato dai neofondamentalisti così come dai governi occidentali, i quali esagerano la dimensione islamica per questioni di politica intea o estera. Spesso la violenza «islamica» è, in realtà, antimperialista e antiamericana (e antisionista). Sono, come spiega Roy, «i postumi della decolonizzazione».
I mezzi utilizzati dai jihadisti – ad esempio gli attentati suicidi – sono considerati antislamici dalla tradizione ortodossa, e sono un’introduzione modea mutuata da altre tradizioni e dalle lotte secolari di movimenti e gruppi nazionalisti. I militanti di al-Qaida, come quelli dell’Is, hanno tagliato i contatti con la famiglia di origine e con la propria patria (elementi anche questi in totale contrasto con la tradizione sociale e culturale dei paesi islamici), e sono molto criticati anche per questo dai musulmani tradizionalisti. Molti combattenti jihadisti, infatti, come dicevamo, si sono reislamizzati in Occidente o in paesi considerati «laici», come la Tunisia (da dove arriva la maggior parte degli aderenti ai gruppi del jihad uniti all’Is o alle reti di al-Qaida). Qui l’Islam è individuale, «fai da te», costruito attraverso i sermoni ascoltati in certe tv o siti internet, prodotti da predicatori improvvisati e con scarsi studi alle spalle. «Questi neofondamentalisti – scrive Roy – non riconoscono alcun maestro nell’Islam e, del resto, conducono spesso una vita molto poco conforme ai precetti della religione. […] È impressionante la continuità dell’azione di Bin Laden (e del “califfo” al-Baghdadi, leader dell’Is, nda) con il movimento antimperialista e terzomondista occidentale degli anni sessanta e ottanta». Probabilmente, ipotizza Roy, i giovani proletari o della buona borghesia che ora entrano nell’Is, sarebbero stati membri di gruppi rivoluzionari antimperialisti solo pochi decenni addietro. Tant’è che capita di leggere, nei social network, commenti ammirati di donne e uomini, un tempo militanti antisistema, di fronte alle gesta delle truppe dell’Is.
Tecniche di seduzione
Secondo il Cpdsi, quasi 20mila stranieri si sono uniti ai jihadisti in Siria e in Iraq: quattromila sono Europei. Come già accennato, raramente la radicalizzazione avviene nelle moschee o nei centri islamici: non è nei centri religiosi che i giovani si incontrano, ma nei cyber-café, nelle università, nelle librerie, nella rete internet.
Nei libri diario scritti da combattenti di ritorno dalla Libia o Siria, si apprende che uno dei percorsi comuni a molti giovani è l’incontro e la sensibilizzazione alla «causa» in un internet-café in qualche grande città europea o araba. La «riconversione» religiosa e la militanza politica arrivano quasi simultaneamente con la decisione di arruolarsi. È quanto è avvenuto con molti «ribelli» europei o arabo europei andati a combattere in Libia e in Siria a fianco di una delle formazioni della galassia di al-Qaida alleate della Nato.
Questi diari trasudano narcisismo, autoesaltazione e autoreferenzialità, e sono intrisi di racconti di violenza e abuso di armi. Gli autori si dipingono come «leoni», eroici guerrieri senza macchia e senza paura. Sono invece persone violente, amanti del potere, coinvolte in traffici loschi e retribuite generosamente. Infatti, un elemento comune a molti jihadisti è quello di essere arruolati come mercenari.
È proprio a partire dall’elemento narcisistico che Nazir Afzal, ex procuratore del Regno Unito, sentito dal The Guardian, descrive i terroristi dell’Is come persone disposte a correre dietro alla gloria vendendosi tramite video professionali che li fanno apparire affascinanti e sexy. Essi perseguono una propria autornaffermazione allontanandosi da amici e famiglia. Afzal vede una somiglianza emotiva tra gli adolescenti radicalizzati adescati on line dal jihadismo e quelli che in internet cercano un partner sessuale: «Le tecniche di seduzione sono le stesse». La radicalizzazione è veicolata on line e attraverso predicatori carismatici, che incentivano i ragazzi ad «andare verso il proprio lato oscuro». L’ex procuratore britannico crede, dunque, che tale fenomeno debba essere affrontato con l’aiuto di specialisti, come si fa con una dipendenza psicologica. E aggiunge che una delle questioni importanti è che i giovani attratti dal radicalismo considerano i predicatori salafiti e i leader dell’Is come «stelle» del cinema o pop-star.
A tal riguardo, una musulmana italiana ha scritto su Facebook: «Il problema è che i giovani di origine francese o algerina, o molti altri come loro, non apprendono l’Islam con l’aiuto di un imam vero, con una solida preparazione teologica, ma preferiscono ascoltare dei matti su YouTube. Questo succede in tutta l’Europa. Quando un centro islamico invita un teologo di al-Azhar, del Cairo, poche persone vanno ad ascoltarlo, ma quando è invitato un tele-predicatore, una “stella” radicale di YouTube, che usa un linguaggio violento e incolto, con scarsa conoscenza dell’arabo dotto e un uso massiccio della parola kuffar (miscredente), moltitudini di giovani affluiscono nelle moschee. Ci sono pure donne che sognano di diventae la terza o quarta moglie, sbavando come altre ragazze davanti a divi della musica. C’è un vuoto nelle comunità islamiche che va colmato da veri sapienti e sottratto agli shaykh fai-da-te».
Inteet, la nuova «ummah»
Inteet è un mezzo di comunicazione, uno spazio di sostituzione di una comunità, ummah, che è rimasta virtuale a lungo. È uno spazio virtuale sacro, divenuto l’unico territorio reale dal punto di vista del gruppo radicale, a partire dal quale è possibile proteggersi e lottare contro il «caos del mondo perverso».
Come rileva il Cpdsi, i giovani «infettati» da questo discorso, prima vivevano come individui globalizzati, ma non si sentivano parte di una cultura e di una comunità nazionale. E, così, il califfato dello Stato islamico, proclamato a giugno del 2014, «ha aperto il cammino per il riconoscimento di uno spazio territoriale comune, accettato dalla ummah globale», anche se internet continua a essere comunque il principale mezzo di comunicazione per il «passaggio dal territorio virtuale a quello specifico», dovunque l’Is si sia radicato fino a ora, dalla Libia all’Iraq.
Inteet è un potente mezzo di reclutamento e di scambio di informazioni per comunità con «valori» condivisi. Ed è solo dopo la seduzione virtuale che arriva il momento del sospirato incontro fisico con il gruppo jihadista, là, nel territorio dell’Is, dove il war-game si trasforma in realtà.
Angela Lano
siè spento il sole
Si è spento il sole. Era mezzogiorno quando si è eclissato, e ancora non torna. Il mondo è diventato cieco. Non vediamo più nulla. Nonostante qualche lume sia stato acceso dai centurioni lassù, sotto la tua croce, da questa distanza non riusciamo nemmeno a capire se sei ancora vivo.
E il terrore che le tenebre possano davvero avere vinto sulla luce ci sconvolge. Forse mai più toeremo a vedere?
Nell’angoscia che scuote le nostre viscere ci domandiamo perché hai permesso che ti prendessero? Perché non sei sceso dal patibolo? Perché non ha dimostrato a tutti che davvero eri il Figlio di Dio? E perché Dio non ha mandato i suoi angeli a salvarti? Quasi che fosse impotente.
Ci stringiamo gli uni agli altri nel buio, per sentirci meno persi, e percepiamo quanto siamo piccoli di fronte a tanta oscurità. Perché ci hai abbandonati, Signore? Quante cose ancora non avevamo capito, quante cose ancora dovevi insegnarci? Siamo solo creature fragili, fallaci. Con te ci sentivamo invincibili. Pensavamo che non avremmo più sofferto. Né fame, né malattia, né guerra, né tristezza, né morte. Invece sei proprio tu che muori, oggi. E le tenebre ci stringono per soffocarci.
Ma ecco che l’eclissi arretra. Non era definitiva, allora. La luce torna, e disegna impietosa la forma del tuo corpo inerme. Non sei più in vita. Ci sentiamo sconfitti, eppure sentiamo inspiegabilmente una piccola pace prendere posto in noi, in mezzo all’angoscia. Eri veramente Dio, eppure veramente uomo. Veramente capace di morire. Come noi. È come se il tuo morire ci dicesse che la nostra vita è così piena di dignità, per come è, da non avere bisogno di correttivi. Nemmeno per la morte.
Vediamo Maria. È lì, sotto il tuo corpo, Signore. Schiacciata dal peso della tua sofferenza, e della sofferenza del mondo intero. Eppure sta in piedi. Riusciamo a immaginare i suoi occhi, intensi come sempre, rapiti nella meditazione del tuo mistero. Accanto a lei c’è Giovanni. Ci fa un segno. Pare chiederci di aspettare qui, insieme. Poi sentiamo la voce di Pietro che ci si era avvicinato durante l’oscurità, dopo ore che non lo vedevamo più: «Non sia turbato il vostro cuore – sembra dire più a se stesso che a noi -. Abbiate fede, abbiate fede». Lo guardiamo, stupiti all’udire quelle parole che riportano alla memoria ciò che tu ci avevi detto, Gesù. Poi ci voltiamo di nuovo verso Maria. Sta venendo, in fretta, verso noi.
Buon cammino verso la Pasqua da amico.
Luca Lorusso
Cari missionari
Messe senza gioia
Carissimi Missionari e lettori della rivista,
il recente viaggio in Africa di papa Francesco ha risvegliato in me ricordi bellissimi. Ho avuto la fortuna, quasi vent’anni fa, di condividere due mesi della mia vita con padre Aldo Vettori (1931-2008), nella sua missione di Morijo, in Kenya. Le immagini trasmesse in tv mostravano un popolo in festa: i canti e i balli coinvolgevano tutti, la gente comune, ma anche i preti e le suore! Lo stesso spirito di gioia e di partecipazione che mi coinvolgeva durante le messe di padre Aldo. È da qui che nasce la mia provocazione: perché da noi, in Italia invece, a parte rari casi, la messa è pervasa da un clima mesto e austero? Sono solo io (e la mia misera fede) a percepire questo clima che di giornioso ha veramente poco? Come pensa la Chiesa di attirare i fedeli o di convertie di nuovi? Poi ci stupiamo e ci rammarichiamo se i giovani la domenica non vanno a messa ma preferiscono l’aperitivo con gli amici, il cinema, lo stadio, o programmi televisivi che di edificante hanno poco o niente. Scusate se le mie parole sono state un po’ forti. Vorrei tanto una vostra opinione, e se lo ritenete, anche quella dei lettori. A voi tutta la mia sincera stima.
Paolo Moreschi, Torino, 18/12/2015
Una delle tristezze più grandi che ho provato tornando in Italia, ormai ben sei anni fa, è stata quella di sentirmi dire, prima di una messa domenicale: «Sii corto. Qui mezz’ora di messa è già lunga». Venendo da un paese africano dove una messa domenicale di un’ora era considerata troppo corta, una richiesta così mi aveva lasciato senza parole. Il vangelo delle nozze di Cana, ascoltato la seconda domenica del tempo ordinario a metà gennaio, racconta di una festa di nozze senza gioia perché era venuto a mancare il vino, e il responsabile della festa manco se n’era accorto. È la parabola di una religione che ha perso la sua freschezza, che ha dimenticato la vivacità del primo amore e si è fossilizzata in ritualismi formali dell’obbligo: «Fare il precetto, prendere / non perdere / ascoltare la messa». Una religione che un tempo arrivava a discutere su quale fosse il momento dal quale fosse «valida» la messa: dall’inizio? dal Vangelo? da dopo la predica? Mentalità del passato, si dirà, ma dura a morire, nonostante il grande sforzo della riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II.
«Come pensa la Chiesa di attirare i fedeli o di convertie di nuovi?», chiede Paolo. Non basta certo l’entusiasmo del solo sacerdote per rendere viva una messa, e non è neppure il ritorno al barocchismo della liturgia tridentina che può restituire la gioia alle celebrazioni delle nostre comunità destinate a essere sempre più senza eucarestia domenicale a causa della mancanza di preti. La questione di fondo è: cosa intendiamo per Chiesa? Se s’intendono i preti, allora davvero caschiamo male. Nel giro di dieci anni quasi tutte le diocesi italiane (eccetto forse quelle del Sud) avranno perso circa la metà del loro clero, e i sacerdoti, sempre più anziani, gireranno come trottole per garantire almeno una messa domenicale alle molte parrocchie che serviranno.
È urgente convertirsi e pensare «chiesa» in un modo diverso: io, tu, noi, insieme, corresponsabili, tutti attori, tutti membri vivi e attivi della stessa famiglia, tutti «concelebranti», superando il binomio attore – spettatori. Solo allora la messa diventerà quello che è di natura sua, un banchetto nunziale.
Questo è il mio commento ai pensieri di Paolo, voi che ne dite?
Sri lanka
Sono contento che abbiate dedicato un reportage allo Sri Lanka (MC n.12/15), sarei stato ancora più contento se qualche parola fosse stata dedicata ai Vedda, minoranza etnica a serissimo rischio di estinzione. Da secoli contro i Vedda viene combattuta una guerra silenziosa, subdola, una guerra fatta con le armi convenzionali, ma ancora di più con le motoseghe, con i bulldozer, con la trasformazione di splendide foreste in piantagioni di tè, di riso, di palma e di altre monocolture che sono la gioia delle multinazionali.
Speriamo che la lettura dell’Enciclica Laudato si’ stimoli almeno i cristiani dello Sri Lanka ad impegnarsi di più per salvare, insieme agli ambienti naturali, anche il piccolo popolo dei Vedda. Speriamo che chi ha rappresentato lo Sri Lanka all’ultimo summit sul clima, abbia usato la sua autorevolezza per proteggere gli ultimi aborigeni, e il loro non trascurabile patrimonio culturale, da ulteriori abusi. A guadagnarci sarà il mondo intero.
Domenico Di Roberto 16/12/2015
Ucraina
Egregio direttore,
mi scuso se vi scrivo ma vorrei rispondere ad alcune inesattezze che il sig. Elia scrive nell’articolo «Kiev non parla russo» (MC 12/2015 p. 51). Mi permetto di farlo in quanto mia moglie è russa, e io, dai primissimi anni Novanta, ho vissuto e frequento quei luoghi. Anzi ero proprio là quando l’Ucraina e altre ex repubbliche sovietiche presero l’autonomia, come pure durante tutto il periodo della guerra cecena. L’articolo, dopo aver detto giustamente a inizio di pag. 52, «La rada, il parlamento, rimase per più di due decenni (20 anni…) prigioniera di una classe politica corrotta fino al midollo controllata da un pugno di oligarchi (ancora oggi metà del Pil è nelle mani dei 50 uomini più ricchi del paese)», prosegue usando la solita propaganda anti russa, omettendo che i pravy sektor sono fanatici ucraini, molti dei quali girano col «Mein kampf» di Hitler in tasca, e che furono gli ucraini a bombardare scuole, ospedali e case nel Donbass. Migliaia di famiglie russe sono fuggite perdendo tutto. Il bel governo ucraino non ammetteva neanche l’uso della lingua russa in nessun organo di stato né nelle scuole a super maggioranza russa, etc. I bei democratici americani, l’Occidente, pagano, corrompono e ricattano da anni i politici di Kiev. Gli Usa possono bombardare inermi feste familiari, appoggiare dittatori feroci come quelli che uccisero il grande mons. Romero, spiare gli alleati europei, etc. e va tutto bene, Putin invece è cattivo, non è democratico e non è simpatico come l’attore Obama, che vende armi all’Arabia Saudita per circa 10 miliardi di dollari all’anno… Prima di affrontare eventi complessi come quelli dell’ex Unione Sovietica, bisognerebbe aver vissuto là, ed essere persone libere di mente e di cuore. Come leggiamo spesso nella bella rivista MC. Tanti saluti
Alfio Tassinari 04/12/2015
Grazie dell’intervento. In realtà avevamo pubblicato con una certa riluttanza l’articolo in questione, che purtroppo riflette l’effettiva difficoltà di scrivere con obiettività su una realtà così complessa come quella dell’Ucraina.
Quando troppo è troppo
Gentili signori,
da tempo ricevo la vostra rivista. Da tempo, precisamente dopo l’articolo da voi pubblicato sul Venezuela di Chávez, non la apro neanche. Sono nata in Venezuela e sentire che Chávez è paragonato a Gesù è un po’ troppo. Oggi, invece, l’ho sfogliata (forse per lo spirito natalizio) e ho trovato un articolo firmato da Minà dove chiama «grande vecchio» quel mostro di Castro. Un giorno troveremo scritto che Mugabe è san Pietro. Allora io la vostra rivista non la voglio. Le suore della mia scuola a Caracas erano povere religiose cacciate dal regime dei Castro e conosco tante persone che hanno dovuto lasciare Cuba per sempre. Oggi un milione di venezuelani hanno lasciato il Venezuela caduto in mano ai narcoincompetenti. Vi prego di cancellarmi dalla vostra lista di spedizione. Grazie,
Patricia Schiavoni
03/12/2015
Dossier Concilio
Carissimo Gigi,
auguroni per il meraviglioso «A cinquant’anni dalla fine del Concilio Vaticano II» dei nostri missionari Antonio, Gaetano e Diamantino. In modo speciale quello di Antonio. E per il tuo editoriale: «Ho solo queste braccia e il bene che ti voglio». Auguri a te e a tutti i collaboratori della Rivista.
Pietro Parcelli 14/12/2015
Ricordando padre Franco
Pensavo che scrivere un pensiero su p. Franco, fosse facilissimo, eppure quando mi sono seduto e ho preso la penna in mano, mi sono trovato in difficoltà. Sono nato e cresciuto con Franco: da piccoli andavamo a giocare in località Stropei insieme a don Mario Sartori. Ci divertivamo con giochi semplici come semplice è sempre stata la vita di Franco, vita donata agli ultimi (certamente era sulla stessa linea di Papa Francesco). Sì, Franco viveva per gli ultimi, per coloro che vivono senza speranza: lui era sempre lì attento alle necessità di tutti quelli che incontrava sulla sua strada.
Ricordo l’ultima volta che è venuto a Spoleto nel giugno 2014. Fu invitato a parlare a un gruppo parrocchiale: anche se già malato, con un filo di voce, volle incontrare i ragazzi e motivarli a collaborare con entusiasmo per la missione di Wamba. Andammo a cena in una trattoria nei dintorni di Spoleto: i proprietari del locale rimasero colpiti dalla testimonianza molto toccante di p. Franco. Quanto bene hai fatto! Grazie Franco, ci manchi… Grazie per tutto quello che hai realizzato e per come sei vissuto… sono certo che oggi ci sei più presente di prima.
Quanto ci manchi! La tua «assenza fisica» pesa tantissimo, anzitutto per i tuoi parenti, ma anche per tutti gli amici che ti hanno conosciuto, apprezzato e amato; pesa per tutte le persone che hai saputo consolare con «il balsamo della consolazione che viene dall’Alto»; sì, tu sapevi trovare le parole giuste per ognuno, sapevi «piangere con chi piange e giornire con chi è nella gioia».
Quante lacrime hai asciugato, quanto conforto hai saputo offrire, quanto amore concreto hai donato ai moltissimi bisognosi (bisogno di pane, medicine, cure mediche, acqua, ecc.). Sapevi farti «tutto a tutti» come dice s. Paolo. Sei stato veramente pane spezzato per sfamare qualsiasi persona attanagliata dalla povertà. Sei stato il «vero samaritano» per i tanti feriti dalla vita e costretti a portare il peso dell’ingiustizia e dell’indifferenza. Chi colmerà il vuoto della tua assenza?
Anna e Tiziano Basso Spoleto, 28/12/2015
Ricordando Padre Vito Dominici
L’11 dicembre scorso a Nairobi, Kenya, ha terminato la sua vita terrena padre Vito Dominici, missionario della Consolata. La sua lunga vita è stata veramente un esempio di bontà ed altruismo. Era nato a Romallo (Tn) il 30.11.1927 e a 14 anni entrò nella Casa della Consolata della Madonna del Monte a Rovereto. Fu ordinato sacerdote dal Cardinal Fossati a Torino il 20 giugno 1954 e celebrò la sua prima Messa a Romallo il 4 luglio 1954. Dopo vari incarichi in Italia e un periodo trascorso in Inghilterra a imparare l’inglese, fu inviato in Kenya nel 1959, 56 anni trascorsi in Kenya non sono pochi! La sua ultima Missione è stata a Mujwa distretto di Meru.
Intervistato da Vita Trentina sei anni fa così rispondeva. «Il mio primo impatto non è stato facile. All’inizio avevo quasi voglia di andarmene ma poi, con il passare del tempo, mi sono abituato e ho trovato la mia collocazione nella loro società. I momenti più belli li ho vissuti nel vedere tanti africani seguire le lezioni di catechismo ed accostarsi ai sacramenti. Ora mi sento uno di loro!». Ogni quattro anni tornava in Italia e veniva a trovare i suoi famigliari, i suoi tanti benefattori e amici, ai quali lo legava una fitta e costante corrispondenza, per esempio il gruppo missionario di Romallo, sempre sollecito ad aiutarlo finanziariamente nelle sue opere di bene e costruzioni di varie chiese.
Quest’anno era ritornato in Italia a causa della salute malferma. I suoi superiori avevano prenotato solo il viaggio di rientro in Italia. P. Vito di ciò era preoccupato, la sua patria era l’Africa e si sentiva un vero africano. Nel novembre scorso, accompagnato da sua nipote, era venuto a Castelfondo e Romallo, proveniente dalla Casa Madre della Consolata di Torino. A Romallo aveva celebrato la S. Messa seguita da un incontro significativo con il gruppo missionario. Nel corso dell’incontro p. Vito ha ribadito più volte il suo desiderio di tornare «a casa sua, tra la sua gente». Il 19 novembre scorso, con l’autorizzazione dei suoi superiori, era partito da solo, a 88 anni, dall’aeroporto di Torino, con scalo Istanbul ed arrivo a Nairobi. Aveva successivamente inviato un messaggio «sono arrivato a casa mia, sto bene», ma ai primi di dicembre la sua tempra, seppure forte, ha ceduto per un edema polmonare nell’ospedale di Nairobi.
Iddio aveva esaudito il suo desiderio «morire fra la sua gente». A Romallo domenica 18 dicembre è stato ricordato con una Santa Messa concelebrata dal parroco don Mario e don Enzo Lucchi, suo intimo amico da una vita.
Nei suoi ultimi scritti affermava: «Una cosa è certa, che non vi dimenticherò mai nelle mie preghiere e anche il bene che mi avete fatto e voluto, rimarrà sempre fisso nella mia mente fino all’ultimo respiro e oltre».
Chi ha conosciuto p. Vito ne serberà certamente un gran ricordo, era mite ma coraggioso e caparbio nell’intraprendere e portare a termine i suoi programmi, sempre a favore dei più bisognosi in terra di missione.
Clauser Renato Romallo, 26/12/2015
A mani nude
I Valmiki, fuori casta, sembrano avere il destino segnato. Vuotare le latrine private. Qualcuno cerca di opporsi e liberarli da una vita tra le più degradanti. Ma la tradizione è più forte della legge. E della religione. Reportage dall’India.
Fino al matrimonio, Meena non era mai stata del tutto cosciente di essere una Dalit, ovvero un’intoccabile. Per l’esattezza, una Valmiki, cioè membro di un gruppo di fuoricasta che occupa i gradini più bassi nell’intricata gerarchia sociale induista. Lo erano i suoi genitori, ma lei si era sempre presa cura dei fratelli minori e non li aveva mai seguiti nei loro giri mattutini.
Una volta diventata madre, ha cercato lavoro, ma ha scoperto che non c’erano possibilità per una Valmiki come lei, se non pulire latrine. Per 15 anni, ogni giorno, ha così percorso le strade di Ramnagar, un sobborgo alla periferia Est di Nuova Delhi, reggendo sulla testa una cesta di vimini traboccante di escrementi umani. Lavorava per dieci famiglie della zona e cominciava il suo giro all’alba. Le facevano trovare la porta posteriore aperta. Lei si dirigeva in silenzio verso la latrina di casa e raccoglieva le feci aiutandosi con una scopetta o, a volte, a mani nude. Poi si spostava in un’altra casa. A fine mattina, svuotava il contenuto della cesta in una fogna aperta.
In cambio, ogni famiglia le versava 20 rupie al giorno (meno di 50 centesimi di euro, ndr), ma non sempre. A volte pagavano in ritardo, altre non pagavano affatto. Ma tutti le lanciavano i soldi a distanza.
La prima volta
Il primo giorno lo ricorda bene. Il tanfo proveniente dalla sua stessa pelle le ha aggredito le narici, lei ha provato a reprimere i conati di vomito, ma invano. Le vertigini l’hanno sopraffatta, e il contenuto della cesta le si è riversato addosso. I passanti le giravano al largo, guardandola furtivamente e procedendo oltre. Trattenendo il respiro fin quasi a soffocare ha raggiunto una pompa d’acqua nel cortile di una casa. Alle prime gocce spillate, è sbucata la padrona, che le ha urlato contro. «Quella donna apparteneva alla casta dei Brahmini, e quella era l’acqua con cui lavavano il tempio», ricorda oggi Meena. «Una come me l’avrebbe contaminata».
Come lei, secondo un rapporto del 2014 di Human Rights Watch, esistono tuttora nel paese almeno 300mila famiglie. Donne e uomini che sopravvivono con la pratica della raccolta manuale di rifiuti umani, nota come «manual scavenging». E questo nonostante una legge approvata dal parlamento indiano nel settembre 2013 l’abbia messa al bando, e una sentenza della Corte suprema del marzo 2014 abbia richiamato gli stati indiani a far rispettare la legge e ad avviare programmi di «riabilitazione» per i raccoglitori manuali.
Secondo Bezwada Wilson, fondatore e leader di Safai Karmachari Andolan (Ska), un’organizzazione che si batte per l’eradicazione della pratica della raccolta manuale, le leggi non bastano. «L’India si muove sempre in due opposte direzioni: il rispetto della Costitutione e la nostra cultura. E quest’ultima ruota attorno al sistema delle caste, che permea tutta la società indiana».
Figlio di raccoglitori manuali lui stesso, Bezwada ha abbracciato la battaglia contro la discriminazione di casta dopo aver letto «L’abolizione delle caste», un pamphlet scritto da Br Ambedkar nel 1936.
Oltre le caste
Una foto del primo intellettuale dalit indiano campeggia nell’ufficio di Bezwada, a Nuova Delhi, e in case dalit in tutto il paese. Il tema delle caste è stato al centro di una polemica, cruciale per le sorti dell’India, che Ambedkar, sconosciuto all’estero, ebbe con il ben più noto Mahatma Gandhi. Per quest’ultimo le caste erano il collante della società indiana, mentre per il primo cristallizzavano le strutture di potere, legittimando sopraffazioni e abusi.
Negli ultimi decenni, personalità dalit sono emerse nella politica indiana, ma le violenze di casta continuano, e i dati, quelli noti per lo meno, sono raggelanti: secondo l’Ufficio nazionale delle statistiche sul crimine, tredici Dalit sono assassinati ogni settimana, e almeno quattro donne dalit sono stuprate da membri di caste superiori ogni giorno. «Lo stupro di una donna dalit non è sempre percepito come un crimine», spiega Bezwada. «Per alcuni uomini di casta superiore, stuprare una Dalit è addirittura un modo per purificarla».
Soprattutto nel Nord dell’India, i Dalit sono associati ad attività che hanno a che fare con la materia organica, residuale: tagliano i capelli, trattano i cadaveri, conciano le pelli, puliscono latrine.
La raccolta manuale dei rifiuti umani è l’aspetto più evidente che alimenta l’intoccabilità, attraverso il contatto con liquami impuri che grondano tra i capelli, impregnano gli abiti, scivolano sulla pelle. La questione dei raccoglitori manuali s’intreccia così sia con la condizione dei fuoricasta che con le problematiche dell’igiene.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), circa la metà della popolazione indiana pratica ancora la defecazione all’aperto. Nelle aree rurali e nelle baraccopoli urbane, dove mancano fogne e fosse asettiche, le famiglie usano latrine a secco o le cosiddette wada, aree comunitarie che richiedono una pulizia manuale. Quando nel 2014, Narendra Modi è stato eletto primo ministro, ha annunciato una campagna nazionale per modeizzare la situazione sanitaria indiana. Da allora, le amministrazioni locali hanno messo a disposizione della popolazione dei fondi per l’acquisto di articoli sanitari. Ma sono molte le famiglie in povertà che riscuotono il contributo senza però cambiare le proprie abitudini igieniche, e continuano ad affidarsi ai Valmiki.
Puro e impuro
Secondo l’antropologo Assa Doron, non è solo una questione di latrine: la dicotomia tra puro e impuro è alle fondamenta dell’induismo. La pratica dei raccoglitori manuali appare difficile da sradicare perché crea, attraverso la degradazione e l’umiliazione dei Valmiki, la base materiale della rigida piramide sociale induista. Ma la religione è solo una delle lenti attraverso cui osservare il fenomeno.
A Durga Kund, un sobborgo di Varanasi, cuore della spiritualità induista, lo conoscono tutti come Safai Basti, il quartiere dei raccoglitori manuali. L’agglomerato di case basse sorge a poca distanza dal tempio principale, celebre per l’intonaco rosso fuoco che si staglia sul cielo dell’Uttar Pradesh, ma è distinto dall’abitato circostante come un’isola in mezzo al mare. Su quasi la metà delle centinaia di abitazioni spicca una croce. Molti dei Valmiki che vivono nella baraccopoli ammettono che, con la conversione al cristianesimo, speravano di sfuggire ai propri obblighi di casta. Come Saroch, oggi 40enne, rimasta orfana quando aveva 14 anni.
Racconta di aver provato a ribellarsi, rifiutando di seguire le orme dei genitori, ma nella comunità cominciò a circolare la voce che praticasse la magia nera. Si avvicinò così a una chiesa evangelica, immaginando che abbracciare una nuova fede avrebbe cambiato la sua vita. E invece rimase una Valmiki anche tra i nuovi confratelli cristiani, incapace di scrollarsi di dosso la sua identità di casta e trovare un lavoro diverso.
Inoltre, essendosi convertita, perse anche il diritto ad accedere al sistema di quote previsto nell’amministrazione pubblica per i Dalit. Saroch, anche se cristiana, riprese in mano la cesta di vimini dei genitori.
Il sistema delle caste che plasma il presente e il futuro dei Valmiki va così oltre l’induismo: riguarda anche cristiani, musulmani e, in misura minore, buddisti. È stato addirittura rinvigorito dall’apertura del paese al libero mercato. Come spiega Ramesh Nathan, segretario generale del Movimento nazionale dalit per la giustizia, l’ondata di privatizzazioni degli anni ’90 ha creato un sistema di appalti che premia gli imprenditori capaci di tagliare al massimo i costi. Un caso esemplare è quello della rete ferroviaria indiana, un gigante di 65.000 km su cui 14.300 treni trasportano 25 milioni di passeggeri ogni giorno. Gli scarichi l’hanno resa la latrina a cielo aperto più grande del mondo. Per ripulire i binari, le società private impiegano la manodopera più economica sul mercato: gli uomini valmiki. La servitù di casta si sposa così con la logica neoliberista.
Difficile uscie
Per le donne valmiki, impegnate soprattutto nella pulizia di latrine in case private, Ska ha avviato dei programmi di sostegno economico. A Ghaziabad, un villaggio a Nord di Delhi, una trentina di donne cuciono borse vendute nel circuito del commercio equo e solidale. L’età è varia, ma condividono esperienze simili. C’è chi ha praticato la raccolta manuale dall’adolescenza e chi ha cominciato dopo il matrimonio perché così faceva la famiglia del marito. Hanno abbandonato da poco l’attività ma molte continuano a soffrire l’umiliazione degli avanzi di cibo lanciati in una busta, o dell’acqua negata, o della loro stessa identità ridotta alle ceste che trasportano sul capo.
Nelle manifestazioni organizzate per richiamare l’attenzione del governo sul dramma delle donne valmiki, quelle ceste hanno alimentato dei falò, ma c’è chi non esclude la possibilità di tornare al lavoro di raccoglitrice manuale: anche chi si dice felice della nuova attività non riesce a liberarsi dal timore di essere prigioniera di un destino già tracciato.
Lo stesso fatalismo è espresso da Leela, che abita a pochi passi dalla casa in cui Meena vive con il marito e una figlia a Ramnagar. «Perché non sono riuscita a trovare un altro lavoro? Forse perché non era destino». Continua a pulire latrine nella zona, aiutata talvolta dalla figlia e dal figlio, mentre il marito lavora per una società che si occupa della manutenzione delle fogne. Un tempo si accompagnava a Meena, ma da un anno Meena ha preso un’altra strada: grazie all’aiuto di Ska ha ricevuto un risciò elettrico per il trasporto passeggeri. Leela nota che la vita di Meena è cambiata: sembra più sicura di sè e, anche se continua a subire discriminazioni, non ha più paura. «Dopo aver bruciato la sua cesta di Valmiki – dice Meena – non è certo il traffico di Nuova Delhi a spaventarmi».
Gianluca Iazzolino
Gianluca Iazzolino, africanista, è collaboratore di MC. | Eloisa d’Orsi, fotogiornalista freelance, collabora con diverse testate. I suoi ultimi lavori riguardano le frontiere in area Schengen (www.eloisadorsi.com).
Guerra, minerali e code di maiale
Gli stati dell’Unione birmana da sempre in guerra sono quelli con maggiori risorse. Sembra impossibile che paesaggi tanto belli, abitati da gente tanto vivace e attiva, siano stati, e in certi casi siano ancora, teatri di guerra e violenze.
La seconda parte del racconto di viaggio della nostra corrispondente si snoda nelle terre meno turistiche, perché più colpite dal regime, in cui si attende con speranza il cambiamento.
Ho deciso di spostarmi nell’estremo Sud Est del Myanmar, nella regione del Thanintharyi, al tempo degli inglesi conosciuta come Tenasserim. Sull’aereo che mi porta a Myeik incontro Leon, ingegnere cinese. Siamo gli unici visitatori di questa antica città di commerci, famosa da secoli per il suo porto. Raggiungiamo insieme la guest house, poi scendiamo a piedi verso il lungomare. La vista del fango nero, dell’immondizia e della plastica sul bordo mare mi urta. L’aria è calda e umida, il cielo grigio, ma la gente è vivace e attiva. Lo si deduce dal traffico di moto che rende difficile attraversare le strade.
Incontriamo Michel, ragazzo dall’aspetto sveglio, che si offre di accompagnarci nei dintorni. Visitiamo gli allevamenti di aragoste, esportate in Cina, Hong Kong e Singapore, e di pipistrelli, venduti a caro prezzo. Queste sono attività che, con le miniere e la pesca, danno ricchezza alla città.
Michel, il suo vero nome è Thu Yain Tun, lavora da quando aveva dieci anni. Ha imparato a fare il falegname e il meccanico. Dato che era bravo a scuola, lo hanno mandato per tre anni a Yangon: ora parla benissimo l’inglese e dà lezioni, anche nella scuola della Chiesa battista.
Tenasserim
La regione Thanintharyi è ricca di minerali preziosi come oro e platino. Al tempo della colonia, la sua produzione di zinco copriva il fabbisogno indiano. Per molti anni è stata off limits per gli stranieri perché in pochi conoscono l’inglese. John Kin Maung, un anziano ottantaseienne, invece lo parla molto bene. «La mia famiglia era originaria del Tamil Nadu, India – mi spiega -. Gli inglesi avevano bisogno di forza lavoro, non riuscivano a far lavorare i birmani, che non erano motivati». John ricorda con piacere la sua Convent school. «Quando c’erano gli inglesi tutto funzionava bene e le scuole cattoliche davano una buona istruzione. Quelle statali invece sono tuttora di livello molto basso. Si è cominciato a insegnare l’inglese quando la figlia del generale Ne Win, che studiava medicina, aveva voluto andare a Londra e si era scoperto che non era preparata». Scuote il capo e mi invita a casa sua, dove abita con figlia e nipoti. La sera, prima di cena, un gruppo di giovani si raduna per fare conversazione in inglese. Sono ragazzi svegli, curiosi. Hanno tutti lo smartphone e ci mettiamo a cantare le vecchie canzoni americane dei pionieri.
Per il fine settimana sono previste due celebrazioni. La prima è l’Union day, giornata simbolo di un paese diviso. Domani sarà il 13 febbraio, anniversario della nascita del generale Aung San, padre di Aung San Su Kyi.
Scopro che John ha una moglie che vive a Nay Pyi Taw, la nuova faraonica, assurda capitale del paese. Dopo 12 anni di carcere duro, nello stesso periodo in cui Aung San Su Kyi era ai domiciliari, lei ora è parlamentare del partito National League for Democracy. «Non ci vediamo molto. Raramente mia moglie viene a Myeik».
Matrimonio karen
Gregory è il giovane vice parroco di Myeik. Nato in un villaggio karen della regione che ha visto violenze inaudite durante la dittatura, a dieci anni fu inviato a Yangon per studiare. Il padre fu ucciso dall’esercito governativo un decennio fa nel suo villaggio, mentre cercava di difenderlo.
Ci sono sette moschee a Myeik, porto importante da almeno cinque secoli. La grande pagoda dorata sulla collina fin dall’alba è meta di fedeli che pregano e porgono offerte al Buddha. Oggi sono invitata a un matrimonio karen nella Chiesa battista, quella che è riuscita a fare più proseliti nel paese sin dall’ottocento. Arrivo che la cerimonia è già terminata e si sta facendo colazione, nel cortile tra la chiesa e il dormitorio dei ragazzi. Sono i Pwo Karen, tutti in costume bianco rosso e blu. Amici e parenti sono arrivati da Yar Aye, una delle isole che punteggiano la costa Sud Est del Myanmar e formano l’arcipelago Mergui. Sono agricoltori e pescatori e hanno viaggiato per otto ore su barche veloci. Con la marea bassa non si può partire: il mare qui è molto basso, oltre che caldissimo.
La mamma della sposa è una bella donna dall’aria serena: ha sei figli. La maggiore, di 39 anni, vive sull’isola e dirige la scuola per i sei villaggi. Gli altri figli hanno studiato e trovato lavoro a Yangon.
Loikaw, stato Kayah
Dall’aeroporto di Yangon sono partita per Loikaw, la capitale dello stato Kayah, il più piccolo del Myanmar, ma il più ricco di tradizioni ed etnie: Kayah, Kayoh, Karenni, Pa O, Kayen, Shan. Il bimotore a elica con 18 passeggeri si alza in volo su una coltre di polvere rossiccia, il colore di questo paese durante la stagione secca. Sorvolando Yangon noto la rete di canali che consente l’irrigazione delle risaie, verdissime.
Brenda è una giovane olandese, unica straniera, oltre me, sul volo: lavora per una Ong che opera a Loikaw, città aperta ai visitatori individuali da pochi mesi. La città si trova a circa 1000 metri di altitudine, circondata da monti e ricca di orti e giardini. Fa caldo, siamo sui 36°, ma verso sera la temperatura si abbassa molto. Esco dalla Guest house dell’Amicizia in cui sono alloggiata e sulla via principale trovo pronta una grigliata di spiedini vari: verdure, patate, pesci e code di maiale. La cuoca è abile, spennella gli spiedini con una salsa piccante e il prezzo molto basso: un dollaro.
U Soe Htwe è il padrone di casa che mi accoglie con grande gentilezza. È molto prudente nel parlare della difficile situazione di questa regione. U Soe aveva studiato ingegneria a Yangon, e nel 2002, ma a causa della guerra, ha dovuto lasciare il suo lavoro nelle miniere dello stato Kayah. Le due figlie sono riuscite a emigrare negli Usa, dove lavorano come infermiere, e la casa di famiglia è stata trasformata in pensione. Dei figli maschi, uno lavora a Nay Pi Taw, l’altro è rimasto in casa, con la famiglia. La moglie di U è una signora molto attiva in un’associazione per la promozione della donna birmana, ed è spesso in viaggio per Nay Pi Thaw. Nella locanda, immagini di Aung San Su Kyi sono appese ovunque. Gli altri ospiti sono quasi tutti operatori di Ong e volontari. I soli turisti sono una giovane armena di Boston e un canadese con i quali combino una gita nei dintorni. Il nostro autista è un geologo colto, che ha perso il suo lavoro in miniera anch’egli nel 2002. Ci porterà nelle vallate dove vivono le donne Padaung. Qui anche le bambine portano gli anelli al collo e vivono molto meglio delle loro sorelle senza anelli. Hanno case pulite e vendono monili e sciarpe colorate. Stanno anche asfaltando la strada che porta nei loro villaggi sulle montagne, rimasti isolati finora. Non vedo turisti.
Chiese
Loikaw ha alcune belle pagode, ma quello che colpisce è il numero delle chiese cattoliche. Una nuova cattedrale è stata costruita in stile locale, con decorazioni dorate, in contrasto con la semplice chiesa dei primi missionari.
Frequento la parrocchia di san Giuseppe, situata non lontano dall’ospedale nuovo, donato dai giapponesi. Partecipo alle funzioni del pomeriggio e conosco il parroco, padre Giulio, un Karen molto ospitale che mi offre gustose fette di mele e si propone di portarmi a visitare i villaggi dove i missionari del Pime, molti anni fa, hanno portato il Vangelo. «Arrivavano a piedi, da Taungoo, 500 km di strade impervie. Si era ai primi del Novecento. Hanno vissuto come i nostri contadini, lavorando la magra terra di queste montagne». Terra povera per coltivare, ma ricchissima di minerali, oro e pietre preziose.
Padre Galbusera è morto nel 2000, aveva 89 anni. La prima tappa la faremo nel villaggio in cui operò, dove troviamo la sua tomba ricoperta di fiori bianchi. Visitiamo alcune chiese, incontriamo i parroci. Avevo notato povertà nei villaggi, ma quando facciamo visita alla zia di Giulio, mi rendo conto del dramma di questa gente. Non c’è acqua, né luce, mentre nei grandi complessi militari che troviamo lungo la strada arriva luce, telefono, tutto. La zia ha 86 anni, un viso nobile, asciutto come tutto il corpo. I piedi credo non abbiano mai visto scarpe, veste una maglia piena di macchie, un loungji e un turbante. Ha avuto dieci figli, di cui quattro morti. Una figlia si avvicina, anche lei ha dieci figli di cui due morti. Un pronipotino le salta in grembo, li fotografo. Lei ci offre un sacchetto di foglioline. Si raccolgono da un albero e si cuociono col curry.
Nonostante tanta presenza cattolica, alcune piccole pagode spuntano sulle cime di questi monti ricchi di minerali. Gli stati birmani in guerra da anni sono proprio quelli più dotati di risorse naturali. Gli inglesi sapevano che questa era la loro colonia più ricca.
Hpa An, stato Kayin
Ritoo a Yangon e prendo il bus per Hpa An, la capitale del Kayin, altro piccolo stato da sempre in guerra, abitato dai Karen. Mi aveva detto qualcuno: vai nel Nord, sulle montagne, a Hpa Pom, ti siedi in riva al fiume, e vedrai tutti i tipi di pietre preziose. Pare sia vero.
Continuo a conoscere persone che lavoravano nel settore: geologi, ingegneri minerari e altri che hanno perso il lavoro nel 2002, all’inizio della guerra.
Questa regione del Myanmar è meravigliosa. Siamo in una piana alluvionale, percorsa da un grande fiume, il Thanlwin, che scende dalle montagne della Cina, e finisce il suo corso nel mare delle Andamane. Nelle fertili risaie a perdita d’occhio vedo case coloniche ombreggiate da grandi alberi che ricordano il Tirolo. Le famiglie hanno tanti bambini che ci salutano. Pare impossibile che questo territorio sia stato per anni devastato dalla guerra. Le montagne sono guglie di calcare in cui si aprono profonde grotte in parte ricoperte da vegetazione dove gli abitanti hanno creato luoghi di culto buddhista. Ne ho vista una, grandiosa, dove si trovano stupa dorati, migliaia di buddha di ceramica, piccoli e grandi, serpenti sacri e le immagini dei Nat, gli spiriti ancora venerati dal popolo. Una lunga fila di monaci di pietra si allinea lungo la strada che conduce dalla grotta alla fonte miracolosa. La popolazione è buddhista-animista, ma il conducente del mio taxi sostiene di essere buddhista-cattolico. Al tramonto scendo sulla riva del fiume, quando i pescatori rientrano nei villaggi. Come la mattina, anche la sera si alzano fumi dalle case. Si bruciano i rifiuti, le foglie secche, e si accendono i fornelli per cuocere e friggere il cibo.
Domenica delle Palme
Con qualche difficoltà riesco a trovare la chiesa cattolica della città. Mi siedo in un banco accanto a due giovani, Claire e Aye Pyone, che mi offrono le palmette che hanno intrecciato per la festa. Sono l’unica straniera e dopo la messa si avvicina un giovane prete, padre Ignazio. Ha trentanove anni ed è nato in un villaggio remoto nel Nord dello stato Kayin. La mamma è morta giovane, non si sa di cosa, perché non esiste assistenza sanitaria. Il papà era catechista e si recava nel villaggio materno, Le Too Po, per insegnare i canti. Là si sono conosciuti i suoi genitori. I villaggi e il Knu (Karen National Union) devono gestire le scuole, dove si parla la lingua kajin, molto diversa dal birmano. Qui gli alberi di teak sono stati tagliati da molti anni e non ricrescono più. Hpa An è diocesi dal 2009, prima dipendeva da Yangon. Davanti alla chiesa ci sono due belle case, una per le suore e l’altra per gli studenti dei villaggi remoti.
Campi profughi
Faccio colazione alla Guest House con ceci e chapati che la giovane moglie del padrone ha comprato al mercato. Khin Myo Thite è musulmana e appartiene al gruppo etnico più antico, i Mon, che ha dominato per secoli il paese. «Mio marito non sa l’inglese, appartiene alla generazione che non ha avuto la scuola superiore a causa della guerra». Da un anno la frontiera con la Thailandia, molto vicina, è stata riaperta. Arrivano da Bangkok giovani con zaino in spalla, e Khin dà loro una sistemazione e le indicazioni di cui hanno bisogno. Esco per andare a comprare frutta al mercato. Il pozzo davanti alla moschea è sempre attivo, con donne e uomini che riempiono i bidoni d’acqua. Sono in compagnia di Lillian, medico inglese che lavora da anni nei campi profughi in Thailandia. «Conosco il popolo del Myanmar – mi dice -, ora voglio conoscere il paese e rimango fino all’ultimo giorno consentito dal visto».
Parliamo dei campi profughi, dove vivono ancora molti birmani che sono stati cacciati dai villaggi. Vivere in un campo significa avere cibo, acqua e sanità, ma non è una vita normale. Difficile avere un lavoro, svolgere un’attività. Chi ha lasciato gli orrori della guerra non vuole più ritornare a casa.