Storia del Giubileo 5. L’anno sabatico
Abbiamo chiuso la puntata precedente (cfr. MC 01-2/2016, p. 28) affermando che l’AT parla di due istituzioni, l’Anno Sabatico e il Giubileo. Abbiamo anche aggiunto che non bisogna confonderli, come spesso si fa, perché sono distinti tra di loro pur essendo connessi dal fatto che il Giubileo è uno sviluppo dell’Anno Sabatico. Precisiamo subito che Anno Sabatico e Giubileo, su cui tanto s’infioretta in commenti estemporanei, sono solo una «teoria» (sabatica e giubilare). Pur essendo descritto con rigorose norme dettagliate, assolutamente nulla ci garantisce che «la legge sia mai stata applicata» prima del ritorno dall’esilio di Babilonia (sec. V a.C.; cfr. R. de Vaux o.p., Les institutions de l’Ancien Testament, vol. I, 264-270, Paris, Les éditions du Cerf, 1958, qui 268).
Quest’affermazione molto impegnativa di uno dei più grandi biblisti del ‘900, che cercheremo di illustrare, è un motivo in più per evitare di leggere la Bibbia «alla lettera», che è il modo migliore per rovinarci la salute: occorre approfondire sempre i testi nel loro contesto storico e sociale. La Bibbia – non lo ripeteremo mai abbastanza – ha una storia travagliata e non è un libro scritto a tavolino, né una raccolta di codici e norme studiate in una biblioteca asettica, ma è il frutto di una lenta riflessione che nasce dalla vita per dare un senso all’esistenza, motivandola con ragioni di fede che per loro natura sono universali. Il punto di partenza deve essere la condizione socio-economica di quei tempi, cioè tutto quello che oggi chiameremmo «lo stato del welfare».
L’anno sabatico tra debiti e pegni
L’istituto «Anno Sabatico» riflette la predicazione sociale dei profeti Amos, Osea, Primo Isaia (sec. VIII-VII a.C.), specialmente nella Palestina del Sud, cioè nel regno di Giuda che ha il suo epicentro attorno al tempio di Gerusalemme. Le norme riguardanti il Giubileo invece sono codificate un paio di secoli più tardi, non prima del sec. VI-V a.C., e riflettono la situazione socio-economica del dopo esilio, quando ci fu non solo la ricostruzione del tempio e di Gerusalemme, ma anche la ristrutturazione e la riorganizzazione della società nei suoi assetti economici, politici, religiosi e sociali.
Nel NT non si parla mai né di Anno Sabatico né di Giubileo, tranne forse che in un fugace cenno in Lc 4,17-19, quando Gesù, iniziando il suo ministero, si presenta come il profeta della Misericordia di Dio, citando un passo del Terzo Isaia (61,1-2), del V sec. a.C., modificandone il senso:
«18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19a proclamare l’anno di grazia del Signore».
Gesù annunciando la «liberazione degli oppressi» che è «l’anno di grazia del Signore», tralascia l’espressione seguente del profeta: «Gioo di vendetta per il nostro Dio». Oltre a questo testo, in tutto il NT non c’è nessun altro cenno al Giubileo o all’Anno Sabatico. Nella prossima puntata parleremo dell’istituzione dell’Anno Sabatico che viene fatta prima del Giubileo biblico.
Il Deuteronomio al capitolo 15 (sec. VII-V a.C. ca.) descrive l’Anno Sabatico in relazione alle persone che sono coinvolte in una delicata e complessa questione di debiti e pegni. Per un debito contratto, uno poteva dare in pegno di garanzia la sua stessa libertà o il figlio, più spesso la figlia. Ogni sette anni, tutto questo doveva essere azzerato, ricostruendo la «status quo ante».
«1Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione (shemittàh). 2Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, poiché è stata proclamata la remissione per il Signore. 3Potrai esigerlo dallo straniero (Nokrì]); ma quanto al tuo diritto nei confronti di tuo fratello, lo lascerai cadere. 4Del resto non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi; perché il Signore certo ti benedirà nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà in possesso ereditario, 5purché tu obbedisca fedelmente alla voce del Signore, tuo Dio, avendo cura di eseguire tutti questi comandi, che oggi ti do» (Dt 15,1-5).
La questione era tanto complessa che si arrivò a valutare il valore delle proprietà fondiarie e patrimoniali in base agli anni che separavano dal settimo, l’anno sabatico. L’Anno Sabatico è un vero e proprio editto «di liberazione» dalla schiavitù. Nessuno che facesse debiti per necessità poteva essere ridotto in schiavitù per sempre. È la relativizzazione sia del denaro sia dei vincoli economici che devono sempre e comunque essere subordinati alla persona.
Viene spontaneo pensare – e così è – che durante l’esilio di Babilonia e specialmente dopo, al momento del rientro in patria, la norma dell’Anno Sabatico conceente gli schiavi, venisse estesa alla terra e agli animali per dare forza a una legge difficile da digerire da parte dei residenti che si trovavano di fronte i rimpatriati, i quali esigevano la restituzione delle terre che erano stati costretti ad abbandonare cinquant’anni prima, senza loro colpa.
Da parte loro, i residenti consideravano i nuovi arrivati come importuni e «forestieri» per cui la tensione sociale era alle stelle. Bisognava porre un rimedio e il legislatore ricorse all’istituto dell’Anno Sabatico che venne addirittura collocato al tempo della legislazione sinaitica, come «volontà espressa del Dio liberatore» per farla accettare da tutto il popolo.
La legislazione di Esodo e Levitico
Nel libro dell’Esodo leggiamo:
«9Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto. 10Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, 11ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo e ciò che lasceranno sarà consumato dalle bestie selvatiche. Così farai per la tua vigna e per il tuo oliveto. 12Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma nel settimo giorno farai riposo, perché possano godere quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero» (Es 23,9-12).
Il libro del Levitico dice le stesse cose, ma in modo più dettagliato:
«2Parla agli Israeliti dicendo loro: “Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: 3per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; 4ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore. Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna. 5Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra. 6Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e all’ospite che si troverà presso di te; 7anche al tuo bestiame e agli animali che sono nella tua terra servirà di nutrimento quanto essa produrrà”» (Lv 25,2-7).
I testi appartengono al «codice dell’alleanza» e contengono due indicazioni, una relativa alla terra (Lv 25,2-4; Es 23,10-11) e l’altra, solo nel testo di Esodo, al riposo settimanale (Es 23,12). Tutto è racchiuso dentro un precetto che riguarda «il forestiero», assunto come misura sia della propria identità (anche voi siete stati forestieri – Es 23,9) sia del riposo che deve essere riconosciuto (è un diritto!) a tutte le categorie «fragili» esistenti in natura (animali e persone, Es 23,12).
La preoccupazione sociale di salvaguardia non concee solo le persone giuridicamente abilitate, ma anche quelle che non hanno diritti e non hanno da mangiare, come i poveri, quelle sottomesse come gli schiavi e il forestiero, ma anche gli animali domestici e selvatici. È facile dedurre che qui si afferma il principio che «Dio è padre di tutte le cose», cioè della terra nel suo insieme.
In ebraico l’espressione «non la sfrutterai» (Es 23,11) è «tishmetennàh» dal verbo «shamàt – lasciare cadere/abbandonare/rimettere»; in altre parole: quello che la terra produce nel settimo anno deve essere «lasciato cadere» cioè essere «proprietà» dei poveri e degli animali selvatici. Si afferma anche l’attenzione particolare che si deve al «forestiero» (ebraico «ghèr»; greco «prosêlytos»), citato due volte all’inizio e alla fine del testo di Esodo, quasi a volee sottolineare l’importanza, perché gli stessi Ebrei che ritornavano o che erano nati a Babilonia erano dai residenti trattati come «forestieri».
Ghèr: lo straniero integrato e residente
Tre termini si usano nella Bibbia ebraica per definire lo «straniero»:
1. Zar/straniero oltre confine, con cui non si hanno rapporti. Siccome «nemico» in ebraico si dice «zar» (stessa radice), qui straniero e nemico sono sinonimi.
2. Nockrì/straniero nomade. È lo straniero temporaneo, quello che si ferma il tempo necessario per una sosta. È questa figura che diventa segno di Dio «che passa» e mette alla prova.
3. Ghèr è lo straniero residente che è integrato e fa parte del popolo; costui è «straniero» solo di nascita (origine). Egli è protetto giuridicamente e socialmente perché la sua presenza in terra d’Israele richiama alla coscienza del popolo di Dio di essere stato «straniero» in Egitto, oppresso e molestato dal faraone: «Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto» (Es 22,20).
In questo atteggiamento è già anticipata la radice dell’amore del prossimo come sarà formulata dal libro del Levitico per cui l’esperienza personale diventa misura dell’accoglienza dell’altro, posta anche come fondamento dell’identità di Dio stesso: «Amerai il prossimo tuo come te stesso: Io-Sono il Signore» (Lv 19,18) che Gesù assumerà come criterio centrale di tutta la Legge e della morale del suo Regno di Dio: «Ama il Signore… ama il prossimo tuo» (Lc 10,27). Non più «due amori», uno per Dio e uno per il prossimo, ma un unico amore a perdere senza chiedere in cambio nulla: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua vita e con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso [ton pl?sìon h?s seautôn»] (Lc 10,27; cf Mc 12,30-31).
Una legislazione «impossibile» da applicare
Occorre domandarci, però, se una norma del genere fosse concretamente praticabile; se, infatti, si si fosse attuata in modo rigoroso, non solo si sarebbero fermate l’economia agricola e pastorale (senza nutrimento, anche gli animali morirebbero), ma si sarebbe prodotto l’effetto di distruggere l’esistenza del popolo. Gli antichi popoli che circondavano Israele, con la terra avevano un rapporto di natura «sacrale», e il riposo settennale, tramandato nella memoria collettiva fin dalla notte dei tempi, poteva essere vissuto come un atto religioso «di restituzione» alla divinità della sua proprietà: ogni sette anni si faceva riposare la terra per affermare che l’uomo non ha diritto assoluto sulla terra, ma possiede solo un usufrutto. Tutto questo è un’ipotesi perché, nella Bibbia, solo dopo l’esilio comincia a fare capolino, mentre prima non v’è alcun testo che ne parli.
Nei tempi antichi non esisteva un metodo di concimazione integrato come lo sperimentiamo oggi, per cui era necessario fare riposare la terra al fine di farle recuperare i sali e le sostanze necessarie alla coltivazione. È certo che gli Assiri e i Cananei (prima degli Israeliti), usassero sistemi di alternanza della coltivazione, per cui dove si coltivava orzo, l’anno successivo di seminavano legumi e così via. Non è strano pensare che durante l’esilio gli Ebrei ne avessero appreso l’uso insieme alle tecniche che al rientro dall’esilio introdussero in Israele.
Il metodo delle coltivazioni a rotazione, cioè a raccolti alternati, s’impose e si perfezionò in vista dell’Anno Sabatico. La proprietà terriera venne divisa in sette lotti, rendendo non solo possibile l’attuazione dell’Anno Sabatico, ma anche redditizia la programmazione del riposo sabatico: ogni sette anni, solo un lotto restava incolto mentre gli altri sei erano coltivabili.
In tempi di crisi
In questo sistema socio-economico che si è sviluppò nei secoli, si aggiunse la teologia elaborata durante lo stesso periodo. I profeti del sec. VIII, prima dell’esilio, avevano centrato la loro predicazione sulla giustizia sociale come espressione compiuta della religiosità autentica. Basta leggere Isaia, Amos e Osea per rendersi conto degli strali che venivano lanciati contro le classi agiate che sfruttavano i poveri per capire che la condanna di Dio era assoluta perché non poteva darsi alcuna religione che non si facesse carico dei problemi sociali che si affrontano solo nella «giustizia sociale», che oggi definiremmo con termine moderno «equa redistribuzione della ricchezza».
La predicazione dei profeti fu ripresa durante l’esilio (II e III Isaia), dando sviluppo a quella teologia sociale che la casta sacerdotale codificò poi specialmente dopo l’esilio stesso. Durante l’esilio, il pericolo della «secolarizzazione» era stato grande perché con la distruzione di Gerusalemme e del tempio, erano crollate tutte le certezze del popolo, si era alimentata la depressione psicologica, la religione non era più un rifugio consolatorio e per di più, in terra straniera, mancavano gli strumenti per coltivare la propria identità e la stessa appartenenza religiosa. Non c’era il tempio, non vi erano più i sacrifici, non vi era più il culto; mancava tutto ciò che dava senso e vita al popolo quando viveva nella terra promessa. Terra promessa? Davvero Dio aveva fatto promesse? Dov’è Dio? Chi è Dio?
Nei tempi di crisi tutto si mette in discussione, anche le certezze che prima sembravano granitiche. Bisognava reagire, e ricostruire il cuore e la mentalità del popolo e non permettere che si rassegnasse alla disfatta. Compito della teologia sacerdotale era ricreare le condizioni per riorganizzare la religione non più attorno al tempio, che non c’era più, e alle sue attività cultuali, ma attorno alla «Parola» che sostituiva il «Santuario». Nasceva a Babilonia la «Sinagoga», cioè la casa della convocazione dell’assemblea, che si riuniva per leggere il proprio presente alla luce del proprio passato. Si ricostruirono le tradizioni e le s’inventarono anche, s’ingigantirono contenuti e portata di eventi passati che storicamente erano stati fatti appena significativi come l’esodo, come le figure dei patriarchi Giacobbe, Isacco e Abramo, ma questo appartiene alla prossima puntata.
Paolo Farinella, prete
(5, continua)