Diritto di libertà interiore

La tensione alla libertà interiore, ricercata comunitariamente, è uno dei cardini del sufismo, e anche uno dei motivi per cui è sempre stato considerato pericoloso, sia dal potere teocratico che da quello laicista. Una storia raccontata dal «santo» sufi Jalâl al-Dîn Rûmî, detto Mawlânâ, illustra, come una parabola, la strada per realizzarla.

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La purificazione interiore è l’obiettivo verso cui tende il sufi nel suo rapporto con il Dio Altissimo, Onnipotente e Misericordioso (che è lo stesso Dio del musulmano «ordinario»). Raggiungere uno stato di «annientamento», di spoliazione da tutto, dall’individualismo, dall’egoismo, dalle passioni disordinate che possono governare l’uomo, e divenire libero di innalzarsi verso Dio. Si tratta del fanâ’, di quella condizione che talvolta viene confusa con una specie di nirvana. Ma nel nirvana non si sa dove sia l’anima o la creatura, mentre il sufi sa perfettamente dove si trova, anche quando è sospeso tra il cielo e la terra, in quello stato particolare definito «tra i due mondi», la barzakh.

Il sufismo, nella sua tensione verso la purificazione mistica, è un fatto della vita pratica, vissuta: riguarda l’esistenza concreta del fedele. Non si può percepire in profondità cosa sia questa corrente mistica dell’Islam, se non si scende nel concreto della vita, se non si assiste, ad esempio, alla pratica dello zikr, la ripetizione del nome di Dio, se non si partecipa alla danza dei dervisci rotanti. E non si può partecipare della sua forza liberatrice se non si vive comunitariamente: perché quella dei sufi non è una ricerca individualista, ma bensì comunitaria. Ricercano insieme la liberazione interiore. È questo il motivo per cui la loro esistenza fa temere i diversi poteri, tanto quelli religiosi integralisti quanto quelli politici laicisti (cfr MC ago.-sett. e nov. 2015). Il fatto che esistano dei gruppi di ricerca interiore, mette in scacco, da un lato la frammentazione della società voluta dai regimi laicisti, e dall’altro il conformismo uniformante dei regimi teocratici, tra cui quelli musulmani. La ricerca di una spiritualità della libertà interiore può infatti sfociare anche in una ricerca di libertà sociale.

La poesia di Dio

Per comprendere come avviene l’elevazione dell’animo e della persona del sufi, c’è una complessa rete di pratiche rituali che sarebbe utile conoscere. Ma per comprendere il cuore delle aspirazioni mistiche dei sufi, di liberazione interiore, può bastare leggere alcuni dei suoi testi tradizionali.

Il sufismo si esprime eminentemente in poesia, e non è un caso che nei paesi musulmani la poesia sia ancora oggi un mezzo di contestazione sociale. Alcuni mistici trasmettono l’anelito alla libertà interiore e, spesso, a quella civile, proprio tramite la poesia. Lo si intuisce bene da una storia contenuta nel poema Mathnawî di Jalâl al-Dîn Rûmî, quasi una parabola con un pappagallo e il suo padrone come protagonisti, in cui è contenuta tutta la tensione del sufismo verso la purificazione e liberazione.

C’era un mercante che aveva un pappagallo

«C’era un mercante che aveva un pappagallo; un bel pappagallo imprigionato in una gabbia1. Il mercante si preparò per un viaggio: decise di andare in India. Generosamente disse ad ogni schiavo […]: “Che cosa vuoi che ti porti?”. Ognuno gli chiese ciò che più desiderava: il brav’uomo si impegnò con tutti. Poi disse al pappagallo: “Che regalo ti piacerebbe che ti portassi dal paese dell’India?”. Il pappagallo rispose: “Quando laggiù vedrai i pappagalli, spiega loro la mia sventura e dì loro: ‘Il tal pappagallo, che ha nostalgia di voi, per desiderio del Cielo è nella mia prigione. Vi saluta, chiede giustizia, e desidera conoscere da voi un rimedio e un modo per essere ben guidato’. E dice ancora: ‘È bene che, avendo nostalgia di voi, io renda lo spirito e muoia nella separazione? È giusto che mi trovi in una crudele prigionia, mentre voi siete sui teneri arbusti o sugli alberi? È questa la fedeltà degli amici?’”. […] Il mercante accettò quel messaggio e promise di portare il saluto del pappagallo ai suoi simili.

Giunto ai limiti più estremi dell’India, scorse nella pianura un gruppo di pappagalli. Fermò il suo cammello, poi trasmise il saluto, adempiendo così al suo incarico. Ed ecco che uno dei pappagalli si mise a tremare violentemente, il suo respiro si fermò e cadde morto. Il mercante si rammaricò di aver dato quelle notizie, e disse: “Sono venuto a distruggere questa creatura. Certamente era un parente del mio pappagallino […]. Perché ho fatto questo? Perché ho portato quel messaggio? Con una parola stupida ho distrutto questa povera creatura”. […].

Il mercante concluse le sue faccende e toò a casa col cuore lieto. Portò un dono a ogni schiavo, fece un regalo a ogni schiava. “Dov’è il mio regalo? – chiese il pappagallo -. Raccontami ciò che hai detto e che cosa hai visto”. “No – egli rispose – veramente mi pento, torcendomi le mani e mordendomi le dita. Perché mai, per ignoranza e follia, ho portato un messaggio tanto stupido?”. “Padrone – disse il pappagallo – di che cosa ti penti? Che cosa mai ti provoca collera o dolore?”. “Ho riferito i tuoi lamenti – rispose – a un gruppo di pappagalli simili a te. Uno dei pappagalli capì il tuo dolore, che gli spezzò il cuore, tremò e morì. Mi sono addolorato. Pensavo: ‘Perché ho detto ciò?’ Ma a che serve pentirsi dopo aver parlato?” […].

Quando l’uccello udì ciò che quel pappagallo aveva fatto, tremò violentemente, cadde e rimase stecchito. Il mercante, vedendolo cadere così, diede un balzo e gettò in terra il suo berretto; si buttò per terra e si lacerò il vestito […]. Gridava: “Oh, bel pappagallo dalla voce soave! Che cosa ti è successo? Perché sei diventato così? Oh! Ahimé per il mio uccello dalla dolce voce! Oh! Ahimé per il mio amico intimo e mio confidente! Oh, ahimé per il mio uccello melodioso, vino del mio spirito, mio giardino e mio dolce basilico!” […]. Il mercante, logorato dal dolore, dall’angoscia e dalla nostalgia, pronunciava centinaia di frasi, a volte in polemica con se stesso, a volte giustificandosi, a volte supplicando, a volte appassionato di verità, a volte di irrealtà […].

Dopo di ciò, lo buttò fuori dalla gabbia. Il pappagallino volò via fin su un alto ramo. Quel pappagallo morto prese il volo come quando il sole balza in avanti da Oriente. Il mercante rimase stupefatto per ciò che l’uccello aveva fatto; senza capire, improvvisamente intuì i segreti dell’uccello. Alzò il volto e disse: “Oh, fammi la grazia di spiegare questo fatto. Che cosa ha fatto quel pappagallino laggiù perché tu imparassi il modo di preparare questo cocente stratagemma per me?”. Il pappagallo disse: “Con la sua azione, mi ha consigliato: ‘Rinuncia al fascino della tua voce e al tuo affetto, poiché è stata la tua voce che ti ha condotto alla schiavitù’. Esso ha fatto finta di essere morto per darmi questo consiglio intendendo: ‘Tu che sei divenuto un cantore per il fior fiore della società e per la gente comune, per ottenere la libertà muori come faccio io’”. Così il pappagallo gli diede uno o due consigli pieni di saggezza, poi gli rivolse il saluto della separazione. Il mercante gli disse: “Va’, che Dio ti protegga! Adesso mi hai mostrato una nuova via”, e disse a se stesso: “Questo consiglio è per me; seguirò la sua via, poiché quella via è radiosa. La mia anima sarebbe forse inferiore a quella del pappagallo? Ogni anima deve seguire una via così buona”».

Commento al racconto

Si tratta di un testo con intenti performativi: leggendolo si ha l’impressione di crescere nella libertà e si può immaginare il sufi che si lascia portare dalle sue parole aprendosi sempre più a Dio.

Il pappagallo incarna l’anima del sufi, o anche il desiderio umano di vera pace e di vera liberazione. È anche il simbolo dell’essere che ripete senza una vera logica le parole ascoltate: esso ripete, ma senza capire necessariamente i suoni che pronuncia. La storia inizia con la presentazione della situazione: il pappagallo è imprigionato, come l’anima dell’uomo. Il mercante è il suo padrone incontestato. C’è in questo passaggio tutta la visione del sufismo: l’anima profonda e autentica dell’uomo è in gabbia, imprigionata in mille lacci che la tengono legata al mondo. Il mercante è simbolo della più bassa mondanità dell’uomo che viaggia per il mondo in cerca di godimento. La sua logica tiene in scacco tutti, servi e pappagallo: «Cosa vuoi che ti porti dall’India?». Per mantenere i servi asserviti e il pappagallo in gabbia, promette regali. Ma il pappagallo ha un guizzo di profonda intelligenza interiore, e chiede al padrone di portare il suo lamento e la sua domanda di liberazione ai suoi simili.

Il pappagallo è attanagliato dalla domanda più lancinante che abita l’animo umano: la condizione in cui si trova, e che gli sembra naturale, è una condizione che porta alla libertà?

Il pappagallo della storia ci dice che il sufi si domanda in continuazione se quel che sta vivendo è una prigione dell’anima che porta alla libertà, oppure è inganno. Se la gabbia fosse davvero la sua situazione naturale – si potrebbe dire metafisica -, allora perché desiderare uscire di gabbia? Il pappagallo, in fondo, non desidera uscire di prigionia, ma soltanto conoscere la verità. È la verità, in realtà, che rende liberi, e se il pappagallo conoscerà la verità grazie ai suoi amici dell’India, sarà pago e felice.

La storia ci dice inoltre che la verità si conosce anche grazie alla compagnia degli amici. La ricerca, che tende a una spiritualità della libertà interiore, è comunitaria, è possibile solo in gruppo, ha quindi dei risvolti sociali.

Il racconto prosegue con il mercante che si reca in India, e qui trova dei simili del suo animale domestico. Dopo aver comunicato loro il messaggio del suo pappagallo, uno di essi cade morto. Il mercante è assalito dalla tristezza, ma sembra che essa non provenga dalla compassione per la sorte dell’animale, quanto piuttosto dal pensiero della morte in sé, e quindi della propria morte, tant’è vero che poi se ne torna a casa «lieto». Si scoprirà poi che il pappagallo indiano non è morto davvero, ma il mercante non sa andare al di là delle apparenze terrene che lo tengono schiavo.

In contrasto con la stupidità mondana del mercante, il pappagallino sa interpretare correttamente la morte bizzarra del compagno indiano. Egli intuisce immediatamente la comunicazione profonda che il suo simile gli invia tramite il mercante. E applica quanto gli è stato suggerito: fa finta di morire.

Se il pappagallo capisce subito il segreto inviatogli, il mercante invece rimane ingabbiato nel suo più profondo egoismo individualistico: piange e si dispera, ma dalle parole che pronuncia si capisce che non è il pappagallo a interessargli, quanto piuttosto la sua voce soave, e «l’intimo confidente, giardino e dolce basilico». Il suo amore è tutto intriso di motivi individualistici. Nel suo soliloquio si accusa e si giustifica, supplica e chiede di vedere la verità. Il suo agitarsi dipende dal fatto che non accetta che il suo io sia scosso da un fatto apparentemente privo di logica umana: il mercante non sa andare al di là dell’apparenza della morte.

Allora ecco il colpo di scena: il pappagallo «morto» trova la libertà proprio attraverso la morte. Ha appreso ciò che cercava, la verità della sua situazione, cioè che non è libero, che viene tenuto imprigionato dalla sua stessa voce melodiosa. Ha capito che deve morire a se stesso per trovare la totale liberazione. Il sufi ama ripetere la parola del profeta Muhammad: «Morire prima di morire», che significa proprio questo, sopprimere da sé, dal proprio animo, tutto quanto è negativo e impedisce la liberazione e la purificazione.La storia si conclude con le parole del mercante che esprimono la sua nuova consapevolezza: tutto ciò che è successo con il suo pappagallo è un insegnamento per lui, perché anche lui possa trovare la libertà. La libertà interiore infatti è contagiosa, e diffonde libertà attorno a sé.

I sufi grazie al loro intimo anelito alla liberazione totale diffondono quindi un messaggio di libertà, del diritto di ciascuno alla salvezza da tutto ciò che tiene ostaggio l’animo umano.

Alberto Fabio Ambrosio

Note

1 – Per tutta la storia, si veda: Jalâl al-Dîn Rûmî, Mathnawi. Il poema del misticismo universale, Bompiani, Milano 2006, vol. 1, pp. 187-210.




Pornografia del dolore

Qualcuno la chiama «pornografia del dolore», e la definisce uno sfruttamento dei drammi altrui per ottenere denaro. Qualcun altro, invece, pensa che mettere lo spettatore di fronte a immagini forti serva per spingerlo a reagire a un’ingiustizia. Il dibattito va avanti da anni e, nel mondo della cooperazione, con particolare intensità. Lo riprendiamo ora per capire a che punto siamo.

 

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Per parlare delle immagini con cui rappresentiamo i paesi in via di sviluppo bisognerebbe cominciare dal principio. Cioè dalla fonte dell’immagine, colui o colei che ne è il soggetto. A chiunque abbia passato più di qualche giorno in viaggio in Africa è capitato di puntare l’obiettivo della macchina fotografica o della videocamera e di trovare, dall’altra parte della lente, una mano aperta a coprire il volto e la voce di qualcuno che dice pas de fotos, no picture: niente foto (o video). Chiedere perché no? ottiene una serie di possibili risposte. Fra queste: «perché ho vergogna», «perché poi la usi per fare soldi», «perché in Europa fate vedere solo che siamo poveri». Queste frasi non rappresentano, ovviamente, l’unico punto di vista, ma sarebbe fuorviante non tenee conto.

Quando ci si trova in un paese in via di sviluppo perché si è operatori di Ong o organizzazioni inteazionali, però, le persone con cui si hanno contatti sono nella maggioranza dei casi i beneficiari dei progetti di cooperazione. È raro che una mano si frapponga fra volto e obiettivo perché in genere c’è un rapporto di fiducia fra chi raccoglie le immagini (di solito un membro dell’organizzazione oppure un professionista da questa incaricato) e chi viene ritratto, che è informato e consapevole.

Però, anche con queste premesse, che uso è davvero corretto fare di quelle immagini? È giusto mostrare persone in un momento di sofferenza, dolore, difficoltà estrema se lo scopo è coinvolgere attraverso tv e giornali quanta più gente possibile a sostenere iniziative che mirano a eliminare quella sofferenza, difficoltà e dolore? Ed è lecito tentare di allargare l’audience servendosi di personaggi famosi in grado di catturare l’attenzione di quella parte di pubblico che meno s’interessa di questi problemi? Queste sono le domande intorno alle quali ruota il dibattito che, ciclicamente, rimette in discussione i metodi usati dalle organizzazioni per la raccolta fondi.

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Spot contro la fame o fame di spot?

L’episodio che negli ultimi mesi ha riaperto la polemica è uno spot della ong Save The Children, che dal 2013 ha lanciato una campagna di raccolta fondi sostenuta da video. L’ultimo, dell’inizio 2015, mostra «John», un bambino malnutrito, che respira con affanno, con la pancia gonfia, la pelle disidratata e lo sguardo intontito. Dopo di lui, una bambina piange sommessamente e un altro piccolo è appoggiato al fianco della madre, debolissimo e con le ossa visibili sotto la pelle. (La versione inglese del video include anche, alla fine, l’immagine di una borsa con il logo della ong che i donatori riceveranno come ringraziamento per il contributo).

«Immagini strazianti che durano un’eternità», hanno commentato Pier Maria Mazzola e Marco Trovato di Africa, la rivista dei Padri Bianchi, in un editoriale dal titolo Fame di spot. Dopo i bambini degli altri video, rincarano gli autori, «adesso tocca a John impietosire i telespettatori per strappar loro nove euro al mese». Questo «ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano», spinge Mazzola e Trovato a chiedersi che ne è stato della Carta di Treviso, il protocollo su informazione e minori approvato nel 1990 da Ordine dei giornalisti italiani e Telefono Azzurro: è un documento che disciplina solo l’informazione giornalistica, «ma la questione riguarda tutti». Al punto 7 la Carta afferma che «nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi a un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona». «Vale solo per i bambini bianchi?», chiedono gli autori.

Quello della tutela dei minori non è l’unico problema. Ce n’è un altro al quale, ammettono gli editorialisti, anche i missionari in passato hanno contribuito: quello di rafforzare «il già ben radicato immaginario coloniale dell’Occidente sull’Africa». Cioè di continuare a dipingere il continente – e il Sud del mondo in genere – come un luogo bisognoso e indifeso il destino del quale deve essere deciso altrove, sdoganando così un colonialismo «a fin di bene».

Daniele Timarco, direttore dei programmi inteazionali di Save the Children Italia, intervistato da Eleonora Camilli su Redattore Sociale, ha opposto che quelle immagini sono quelle viste ogni giorno dagli operatori impegnati sul campo: «Proprio perché inaccettabili, sono immagini anche giuste da trasmettere con l’obiettivo di sensibilizzare e spingere le persone a reagire con indignazione». «Le immagini sono state realizzate con il consenso dei genitori», ha aggiunto Timarco, «con il coinvolgimento dei bambini e delle bambine e della comunità stessa. Molto spesso sono le famiglie stesse che ci chiedono di raccontare la loro vera storia, di far vedere la drammaticità delle loro situazioni». Quel che interessa Save the Children, ha concluso il suo funzionario, è «toccare la coscienza delle persone al di là del contributo economico».

Di confine fra sensibilizzazione e pornografia del dolore, peraltro, si era già parlato con Mission, il «reality umanitario» che vedeva impegnati diversi personaggi televisivi – Al Bano, Paola Barale, Emanuele Filiberto di Savoia e altri – in viaggi su campo in diversi paesi africani e latinoamericani. In quell’occasione la reazione del mondo delle Ong fu altrettanto polemica e le argomentazioni a favore e contro molto simili (vedi MC 3/2014 p. 74).

La situazione normativa

Il dibattito si è riaperto lo scorso novembre con la proposta di Nino Santomartino, responsabile della comunicazione dell’Associazione delle ong italiane (Aoi), di avviare un tavolo di lavoro con organizzazioni no profit, realtà della comunicazione e dell’informazione, professionisti, consulenti e ricercatori. Obiettivo: arrivare a «un codice di condotta e a un organismo autonomo di autodisciplina». I riferimenti normativi non mancano, vedi il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale emanato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria. L’articolo 46 del codice è tutto dedicato alla comunicazione sociale, che deve evitare di «sfruttare indebitamente la miseria umana nuocendo alla dignità della persona, né ricorrere a richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustificatamente allarmismi, sentimenti di paura o di grave turbamento».

Vi sono poi diversi testi che possono orientare la riflessione, come le linee guida elaborate dalla soppressa Agenzia per il Terzo settore o la Carta di Trento per una migliore cooperazione, documento la cui redazione ha coinvolto molte realtà no profit italiane. Molto citato è il Codice di condotta adottato dalle Ong irlandesi: i principi cardine richiedono, fra le altre cose, di rappresentare non solo il contesto specifico ma anche quello più ampio, di evitare immagini e messaggi che possano creare uno stereotipo, discriminare persone, situazioni o luoghi o creare sensazionalismo, di non utilizzare immagini, messaggi, e casi di studio senza la piena comprensione, partecipazione e autorizzazione dei soggetti coinvolti, garantendo loro la possibilità di comunicare le loro storie o versione dei fatti e rispettare la loro volontà di essere o meno nominati o identificati.

Ma il problema sta nelle immagini?

In attesa delle evoluzioni normative che il tavolo di lavoro proporrà, vale comunque la pena di chiedersi se questa vicenda non sia il riflesso di un insuccesso che ha radici più lontane.

Save the Children ha fatto sapere che la campagna ha permesso alla ong di «acquisire più di 14.000 nuovi donatori regolari». Il punto, allora, non è solo «il cliché dello scheletrino africano», il punto è che quel cliché funziona. I donatori di Save the Children sono «colonialisti a fin di bene»? Forse. Impegnarsi a contribuire ogni mese non è più il non informarsi per pigrizia e il limitarsi a lavarsi la coscienza per Natale. Però, forse, potrebbero fare un salto di qualità in più, che non riescono ancora a fare perché nessuno ha fornito loro le informazioni che permetterebbero di tenere a bada le emozioni e di ragionare, come ricorda il sociologo Fabrizio Floris, sul fatto che «la fame ha cause legate alla iniqua distribuzione delle terre fertili, alla mancanza d’acqua, al cambiamento climatico, alle guerre, alle dittature che usano gli aiuti in cambio di consenso, alla scarsa produttività agricola e zootecnica: la pancia gonfia è l’effetto».

Chi doveva fornire queste informazioni se non le organizzazioni che lavorano sul campo e perché, dopo trent’anni di cooperazione, ancora questi temi faticano a uscire dal recinto degli addetti ai lavori?

Mettere un limite normativo all’uso d’immagini è un modo per evitare di diffondere un messaggio parziale e fuorviante. Trovare un modo efficace di diffondere un messaggio corretto, però, è un’altra storia. La mani aperte a proteggere i visi dagli obiettivi probabilmente servono anche a dire che è mancato questo.

Chiara Giovetti

 

5 domande a padre Gigi Anataloni

direttore di Missioni Consolata

 

Direttore, la compassione è un tema caro ai cristiani e mai come ora, con il Giubileo sulla misericordia in atto. Come si distingue fra compassione e pietismo?

Compassione è «patire con». Ha compassione non tanto chi versa una lacrima, mette una monetina o stacca un assegno e poi continua come prima, ma chi si sporca le mani, chi fa diventare l’emozione uno stimolo per cambiare il suo stile di vita oltre che per aiutare gli altri a migliorare la propria.

«Poografia del dolore» significa usare il dolore per vendere. Sei d’accordo con questa definizione, usata da chi critica l’uso d’immagini forti per le campagne di raccolta fondi?

L’espressione è provocatoria e fa riflettere. La condivido, certo, e mi chiedo perché proprio quel mondo che ha criticato tanto i missionari del passato accusandoli di patealismo, oggi senta il bisogno di comunicare così. Mi sa tanto di una mossa quasi disperata in risposta all’assuefazione e all’indifferenza, alla crisi economica che attanaglia tutto e tutti, ai tagli degli aiuti pubblici per la cooperazione, al moltiplicarsi di onlus (anche micro) che erodono l’efficacia del 5×1.000 e frammentano la base dei sostenitori, e all’aggravarsi dei problemi di tutti in questa situazione di «terza guerra mondiale» e di emergenza climatica. Il rischio, nell’uso di immagini simili, è quello di peggiorare sia l’assuefazione che l’indifferenza. Ma quando le proposte ragionate non funzionano, che fare?

Lo spot di Save The Children, come a suo tempo il reality Mission, sono solo gli episodi più recenti di un fallimento comunicativo che sembra avere radici più lontane. Che cosa si doveva fare diversamente – anche nel mondo missionario – per comunicare il Sud del mondo senza pietismi e stereotipi?

Più che di fallimento comunicativo direi che si tratta di un cambiamento profondo nel modo di comunicare. Un tempo, e vado indietro anche cent’anni, erano solo le poche riviste missionarie, come MC, che pubblicavano immagini forti. Anzi, posso dire che le edulcoravano perfino per renderle più accettabili al nostro pubblico (per esempio, mettevano i vestiti a chi normalmente non li aveva). Il risultato era comunque garantito, sia nel cercare di presentare con rispetto che nel suscitare sentimenti di partecipazione. Oggi, invece, le immagini forti arrivano a tutti: tante, troppe, insistenti. Il disastro diventa spettacolo e si confonde con la fiction. Di conseguenza, ecco il problema: come far capire che non si tratta di una fiction e come catturare l’attenzione abbastanza a lungo da far sì che l’emozione diventi azione, sia pur breve, puntuale e mirata? Ecco le immagini che toccano prima il cuore, nella speranza che arrivino anche alla ragione. Un nome, una storia, un’immagine penetrano più di un ragionamento. Solo una minoranza – e sono quelli che già si impegnano nella solidarietà a vari livelli – hanno voglia di andare oltre le prime emozioni per approfondire e cambiare il proprio modo di vivere.

Credo che il mondo missionario cerchi da anni di offrire una comunicazione onesta sul Sud del mondo. Il risultato? Forse un frutto sono le centinaia (o migliaia) di Ong (e le persone che in esse si impegnano non solo a dare qualcosa ma anche a camminare con…) che fanno una cooperazione diversa e responsabile. Perché altrimenti ci sarebbe da essere scoraggiati: le riviste missionarie sono drasticamente ridimensionate, i missionari sono una specie in via estinzione, al volontario subentra il volonturista, le disuguaglianze sociali sono aumentate ovunque – primo mondo compreso, c’è la «pornografia del dolore»…

Immagini «pugno nello stomaco», gadget, accessori alla moda in regalo ai donatori: le Ong si sono adeguate a un approccio più tipico del profit. E il profit, dal canto suo, si sta avvicinando, almeno superficialmente, alla cooperazione allo sviluppo (vedi iniziative delle aziende, specialmente quelle più grandi, volte a farle apparire impegnate nel sociale). Come giudichi questa «contaminazione»?

Mi confonde che Ong e onlus, ma anche noti santuari e Istituti di carità, si affidino ad agenzie specializzate nell’e-commerce e fundraising, soprattutto in periodi ad alto impatto emotivo come il Natale. O dovrei consolarmi con «il fine giustifica i mezzi»? Mi domando però cosa possa significare in questo contesto la frase di Gesù «semplici come colombe e scaltri come serpenti». E non ho risposte certe. Conosco la difficoltà oggettiva di chi ha urgenza di fondi e non riesce a convincere i donatori nel modo corretto e nel rispetto dei beneficiati. Allora, anche per i più motivati e responsabili, c’è il rischio di cedere alla tentazione del «lassativo» del diavolo, come diceva un vecchio missionario: «Il denaro è sterco del diavolo, ma se trovassi il lassativo giusto gli farei avere una bella diarrea». Però – e credo fortemente in questo – penso che a lungo temine sia meglio rischiare l’impopolarità della correttezza che cercare il risultato immediato. Anche una sola persona in più che aiuti per le giuste ragioni è più importante di cento che sganciano soldi per togliersi il disturbo o per sentirsi a posto.

Sulla base di quali criteri e principi MC sceglie le immagini che pubblica?

Bellezza, rilevanza, verità. L’immagine deve essere «bella» e presentare bene e con rispetto la persona che vi è rappresentata. Idealmente l’immagine dovrebbe essere quasi un’opera d’arte. Poi deve essere «rilevante» rispetto alla storia raccontata ed essere «veritiera» (rispecchiare quanto più possibile la verità della situazione e dei fatti, senza manipolarla). In quale ordine usare questi tre criteri? Dipende. Certo la bellezza passa a volte in secondo piano, perché molti dei nostri corrispondenti non sono fotografi professionisti e fanno foto esteticamente «povere», nonostante abbiano molta verità da comunicare.

La verità, però, non è sempre piacevole. E se è discutibilissimo che un’Ong debba sfruttare l’immagine dei vari piccoli «John» del mondo, è ancor più discutibile, anzi è vergognoso, che esistano ancora dei bambini che vivano nelle condizioni di quel piccolo. E questo bisogna avere il coraggio di dirlo, con forza.

Chi.Gio.




I perdenti 11: i giovani della rosa bianca

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La «Rosa Bianca» è il nome assunto da un gruppo di giovani universitari di Monaco di Baviera che si costituirono in un piccolo ma significativo movimento di resistenza all’interno della Germania nazista. Il gruppo era composto da 5 studenti: Hans Scholl, sua sorella Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, tutti poco più che ventenni. A essi si unirà il professore universitario Kurt Huber. Sebbene tutti fossero studenti universitari, i ragazzi avevano fatto il servizio militare partecipando agli eventi bellici sia sul fronte francese che su quello russo dove erano stati testimoni delle atrocità commesse contro la popolazione civile e in modo particolare contro gli ebrei. Essi erano convinti che la guerra scatenata dal nazismo avrebbe portato alla distruzione e alla sconfitta della Germania. Il loro modo di pensare si era formato seguendo le tesi del Quickbo (Sorgente di vita), un movimento culturale fondato e seguito dal sacerdote di origine italiana Romano Guardini (1885-1968).

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La loro resistenza al nazismo si svolse principalmente all’interno dell’ambiente universitario della Baviera, riuscendo a stampare e distribuire clandestinamente sei volantini il cui contenuto avrebbe dovuto risvegliare la coscienza del popolo tedesco. Più la guerra si prolungava, più il gruppo della «Rosa Bianca» assumeva una posizione decisa contro Hitler, non solo distribuendo opuscoli all’interno dell’università, ma addirittura incollandoli sui cancelli di ingresso e dipingendo slogan anti hitleriani sui muri di Monaco e all’interno dell’edificio universitario. Scoperti da un bidello nazista, vennero arrestati dalla Gestapo, torturati e condannati a morte per decapitazione il 22 febbraio 1943 dopo un processo di poche ore.

Con i fratelli Hans e Sophie Scholl abbiamo voluto approfondire la loro storia di oppositori al nazismo. Sebbene calpestati, vilipesi e di fatto perdenti di fronte alla tirannia scatenata da Hitler, restano nella coscienza collettiva dei tedeschi e degli europei in generale, i veri vincitori dello scontro che avvenne in quegli anni.

la_rosa_biancaSophie e Hans, come vi è venuto in mente di opporvi al nazismo in una forma che era già fin dall’inizio destinata all’insuccesso?

Dopo la sconfitta di Stalingrado nel febbraio 1943 fu chiaro, anche se non si osava dirlo apertamente, che le sorti della guerra erano segnate e che la Germania sarebbe stata sconfitta.

Altri cittadini come voi avevano la stessa sensazione, eppure non mossero un dito. Cos’è che vi ha spinto ad agire così pericolosamente in un ambiente come quello universitario profondamente segnato dall’ideologia nazista?

Noi e i componenti del nostro gruppo rigettavamo la violenza nazista che la nostra patria, la Germania, stava attuando in gran parte d’Europa. Noi tutti credevamo in un’Europa federale che aderisse ai principi cristiani di tolleranza e giustizia.

Anche il fatto di avere come riferimento Romano Guardini, vi dava una spinta ulteriore per non restare con le braccia conserte di fronte alla rovina della vostra patria.

Oltre che da Romano Guardini il nostro modo di pensare e di agire era stimolato anche dal parroco di Soflingen, un quartiere di Ulm in cui era presente una forte resistenza cattolica al nazismo, da Franz Weiss, da Carl Muth e da Theodor Haecker, intellettuali cattolici antinazisti, il cui pensiero influenzò molto le scelte di resistenza non violenta del nostro gruppo.

Con questi riferimenti religiosi e culturali non vi limitaste a una resistenza passiva, ma decideste di agire stampando e distribuendo volantini.

Sì. E fu una cosa non da poco tenendo conto che la carta era razionata e tutto era controllato. Anche ottenere buste e francobolli a sufficienza richiedeva molta prudenza per non dare nell’occhio. Producemmo sei volantini, gli ultimi due più forti degli altri. Infatti l’intestazione che avevamo messo ci autodefiniva: «Il movimento di resistenza in Germania».

Se non sbaglio, anche altri in Germania agivano allo stesso modo.

Ad essere sinceri il nostro modo di agire fu ispitaro dalla lettura di un volantino che arrivò nelle nostre case riportando le idee del vescovo di Munster (Monaco), Clemes August Von Galen (1878-1946 – ora beato), il quale certamente non le mandava a dire a Hitler: le sue omelie erano un vigoroso atto d’accusa contro l’ideologia nazista. Von Galen, fu uno dei pochi vescovi tedeschi che si oppose apertamente a quell’ideologia, e per questo si guadagnò il titolo di «leone di Munster».

sophie-scholl-640x250Ma anche a casa vostra l’atmosfera che respiravate non era certamente favorevole al nazismo.

Nel gennaio del ’42 nostro padre Robert venne denunciato da una sua impiegata per aver definito Hitler «un flagello di Dio» e per aver detto che la guerra di Russia era un massacro insensato e che i sovietici avrebbero finito per conquistare Berlino.

Che conseguenze ebbe?

Prelevato dalla Gestapo, torturato e interrogato, venne condannato a 4 mesi di carcere che praticamente significarono la rovina economica della nostra famiglia, anche se un volta scontata la pena fu rilasciato.

Fu l’anticipazione di quello che in seguito successe a voi.

A quel tempo chiunque osava mettere apertamente in dubbio l’autorità del Führer e criticare quello che lui affermava, ovvero voler costruire un nuovo Reich che sarebbe durato oltre mille anni, veniva visto come un nemico della patria.

Quando decideste di passare all’azione?

Nell’estate del ’42, dopo aver battuto a macchina e ciclostilato qualche centinaio di copie del primo volantino, cominciammo a lasciarlo nei locali pubblici, alle fermate dell’autobus, nelle cabine telefoniche o a gettralo lungo le strade dai tram di notte.

Nessuno vi sorprese mentre compivate queste azioni di volantinaggio?

No, e sappiamo con certezza che anche la Gestapo, pur indagando meticolosamente su chi poteva essere il responsabile di queste azioni, non riusciva a cavare un ragno dal buco.

E voi non commetteste nessun errore compiendo queste azioni rischiose?

Purtroppo sì, il 18 febbraio del ’43, noi due all’interno dell’Università salimmo fino all’ultimo piano con una valigia contenente 1.500 copie del sesto (e ultimo) volantino. Una volta in cima alle scale, lanciammo verso gli studenti che stavano nell’atrio sottostante i nostri volantini. Un bidello ci vide e ci denunciò. Fummo arrestati e nel giro di pochi giorni la stessa sorte toccò agli altri membri della «Rosa Bianca», oltre a un’ottantina di persone che fiancheggiavano le nostre azioni contro il nazismo.

Alla Gestapo non pareva vero di avervi finalmente tra le mani.

Iniziarono subito a interrogarci, pestarci e a torturarci; alcuni di loro restarono sorpresi dal coraggio e dalla determinazione con cui rivendicavamo le ragioni del nostro dissenso all’ideologia nazista e a Hitler.

Prevedendo che vi aspettava la condanna a morte, quale fu il vostro atteggiamento di difesa?

Per prima cosa noi due cercammo di attribuirci interamente le colpe di cui tutti erano accusati allo scopo di scagionare gli altri membri della «Rosa Bianca». Allo stesso tempo, per far capire ai giudici nazisti che non eravamo un gruppo di esaltati, affermammo durante il processo: «Sono in tanti a pensare quello che noi abbiamo detto e scritto; solo che non tutti osano esprimerlo a parole».

Truccate le prove per la vostra condanna, il processo si concluse come volevano i gerarchi nazisti?

Naturale. Dopo un dibattimento farsa, il giudice Roland Freisler, emise il verdetto con queste parole: «In nome del popolo tedesco, gli imputati sono condannati a morte per favoreggiamento antipatriottico del nemico, alto tradimento e demoralizzazione delle forze armate. Inoltre il tribunale del popolo constatato che essi attraverso volantini hanno propagandato idee disfattiste, sabotato l’organizzazione militare e civile del sistema di vita del nazionalsocialismo del nostro popolo, insultato il Führer nella maniera più vile e infame aiutando in tal modo i nemici del Reich. Pertanto essi sono condannati a morte tramite ghigliottina».

 

I giovani del gruppo della «Rosa Bianca», composto da cattolici ed evangelici che cercavano di vivere con coerenza la loro fede, chiedono di ricevere i sacramenti prima dell’esecuzione. Cristoph Probst, l’unico a non essere battezzato, riceve il battesimo, la comunione e l’estrema unzione dal cappellano cattolico Heirich Sperr, al quale consegna un biglietto da dare alla madre su cui è scritto: «Ti ringrazio di avermi dato la vita. A pensarci bene, non è stata che un cammino verso Dio». I fratelli Hans e Sophie che vengono giustiziati in un’altra ala del carcere, vorrebbero un prete cattolico, ma non potendolo avere si confessano e celebrano la Santa Cena con il cappellano evangelico Karl Alt. Prima dell’esecuzione ai due fratelli viene permesso un ultimo e breve incontro con i genitori. Impressionato dal loro atteggiamento, uno dei secondini racconterà in seguito: «I giovani della “Rosa Bianca” si sono comportati con un coraggio fantastico, tutto il carcere ne fu impressionato. Perciò ci siamo accollati il rischio di riunire ancora una volta i condannati, volevamo che potessero fumare ancora una sigaretta insieme, non furono che pochi minuti ma certamente fu un gran regalo per loro». Le ultime parole di Cristoph Probst sono: «Fra pochi minuti ci rivedremo nell’eternità!». Poi si lasciano condurre alla ghigliottina senza battere ciglio, mentre viene condotto al patibolo Hans Scholl grida: «Viva la libertà!». Il 19 aprile 1943 sono processati tutti gli altri. Tredici sono ghigliottinati nei mesi successivi e altri trentotto incarcerati. Con la caduta del regime nazista vennero portate alla luce le molteplici attività che il gruppo della «Rosa Bianca» fece per opporsi al nazismo. Ancora oggi essi rappresentano la forma più pura di opposizione alla tirannia hitleriana in terra germanica, senza essere mossi da interessi personali o di partito, tutto il loro modo di vivere e di agire era mosso dalla fede cristiana e dall’amore per la libertà.

Don Mario Bandera, Missio Novara




Beato Giuseppe Allamano

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CAllamano logoari amici lettori,
è con piacere che vi presento questa edizione rinnovata della pubblicazione dedicata al beato Allamano. Non stamperemo più l’allegato che ricevevate tre volte all’anno, sostituito da ora in avanti da questo inserto che manterrà una sua precisa identità e apparirà cinque volte all’anno alternandosi con l’inserto «Amico».
Non vogliamo sia solo una operazione di risparmio, pur necessaria di questi tempi, ma speriamo sia un modo efficace per farvi avvicinare con più familiarità a un santo che per noi significa molto, il beato Giuseppe Allamano, il quale ha ispirato e cambiato la nostra vita con il suo stile semplice che insegna a essere «santi e missionari».

Gigi Anataloni