Il terrorismo nella nostra storia 2

Italia
Gian Carlo Caselli

 

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I ragazzi di oggi non lo sanno, ma c’è stato un tempo non lontano in cui il terrorismo era indigeno. In Germania, Giappone, Stati Uniti, Francia. E in Italia. Per la quale una cosa va evidenziata: diversamente da altri, il nostro paese ha saputo affrontare il fenomeno rimanendo all’interno dei confini dello stato di diritto. Sia chiaro: quello di oggi è un terrorismo diverso, ontologicamente diverso. Eppure i passi da compiere per sconfiggere fanatismo e violenza non differiscono da quelli del passato.

terr_bader_meinhofÈ estremamente arduo un raffronto fra il terrorismo «indigeno» (Brigate rosse, Prima linea e bande armate di destra) di cui ci si è dovuti occupare in passato nel nostro paese, e il terrorismo internazionale che di questi tempi investe – in maniera sempre più drammatica e pesante – diverse aree del globo. Si tratta infatti di mondi abissalmente e ontologicamente diversi. È tuttavia possibile trarre dall’esperienza passata una qualche generica indicazione.

Il terrorismo di sinistra – in particolare – non è stato un fenomeno esclusivamente italiano. Alla fine degli anni Sessanta gruppi simili alle Br e a Pl sono comparsi in altre democrazie industriali: la Rote Armee Fraktion (conosciuta anche come «banda Baader-Meinhof», ndr) tedesca, l’Esercito rosso giapponese, i Weather Underground e le Black Panthers statunitensi, la Nouvelle resistence populaire in Francia.

Caratteristica esclusiva del nostro paese, però, è stata quella di aver dovuto registrare un terrorismo – di sinistra e di destra – che ha raggiunto capacità offensive decisamente maggiori, rispetto a ogni altra situazione analoga, e assai più persistenti nel tempo (le «prime» Br durano circa 15 anni). Per di più con tendenza alla riemersione ciclica, quasi che la violenza terroristica sia un fiume carsico che non cessa mai di scorrere, neppure quando la storia sembra chiusa.

Nonostante questa pessima «esclusiva», possiamo rivendicare di essere stati il paese dell’antiterrorismo. Nel senso che abbiamo saputo – ben più che in altri paesi – reagire all’offensiva terroristica senza cedere alla tentazione di sbrigative «scorciatornie».

terr_aldo-moro-sequestrato-dalle-brigate-rosseL’obiettivo dei brigatisti era chiaro. Costringere lo stato (a forza di omicidi e «gambizzazioni») a gettare quella che, per loro, era solo una maschera. La maschera di una falsa democrazia, che una volta caduta avrebbe rivelato il volto autentico dello stato: autoritario e fascista. Così le masse avrebbero finalmente «capito» e si sarebbero aggregate intorno alle avanguardie combattenti, le Br. Ebbene, siamo riusciti a non cadere nella trappola di tirare fuori, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, il volto spietatamente repressivo, senza se e senza ma, dello stato. Ciò ci ha aiutati a risolvere meglio le questioni poste dal terrorismo. Perché la risposta a tali problemi dal punto di vista legislativo ha raschiato – lo ha detto più volte la Corte costituzionale – il fondo del barile della corrispondenza ai principi e precetti costituzionali, ma non è mai andata oltre. Perciò i principi fondamentali dello stato di diritto non sono mai stati abbandonati nel nostro paese, a differenza di quanto è accaduto – obiettivamente – in altri paesi.

Abbiamo elaborato una legislazione «specialistica», cioè mirata sulla realtà specifica dei fenomeni da affrontare, ma abbiamo respinto ogni «filosofia» che entrasse in rotta di collisione con i principi democratici. Specialistica ma non «speciale». Non abbiamo creato, in particolare, tribunali speciali e procure speciali, a differenza di altri paesi di democrazia occidentale. In Francia lo hanno fatto. Anche in Germania, in parallelo con l’epidemia di terroristi suicidi in carcere (era il 1977).

Abbiamo celebrato regolari processi, mentre in Gran Bretagna i terroristi dell’Ira (Irish Republican Army) sono stati rinchiusi in campi di concentramento, senza essere processati. Di più: il processo ai capi storici delle Br si è svolto nel pieno rispetto delle regole e persino della identità politica degli imputati (ammessi al controinterrogatorio delle vittime, come nel caso di Mario Sossi, magistrato sequestrato). In Usa problemi analoghi – per esempio nel processo a Bobby Seale (cofondatore delle Pantere nere, ndr) del 1969 per associazione sovversiva – sono stati risolti accusando l’imputato di oltraggio ogni volta che prendeva la parola. Alla fine, per farlo tacere, il giudice Julius Hoffmann fece legare Seale alla sedia con una catena e imbavagliare con nastro adesivo. Il merito del processo, in pratica, non fu trattato.

Nuovi strumenti italiani: la dissociazione

In Italia, va pure ricordato, si è cercato di trovare risposte anche utilizzando (con la stagione delle assemblee) gli strumenti della democrazia diretta: la libertà di associazione e di riunione, il confronto, il dibattito, il dialogo. Così coinvolgendo tutti in problemi che erano appunto di tutti, non delegabili esclusivamente alle forze dell’ordine e alle autorità preposte alla repressione.

Si sono persino cercate soluzioni politiche. Per esempio, con la legge sulla «dissociazione»: senza pentirsi, senza collaborare, i terroristi che lo volevano potevano ottenere forti riduzioni di pena, semplicemente sottoscrivendo una dichiarazione di dissociazione dalla lotta armata. Di fatto una specie di amnistia.

A fronte della tragedia del terrorismo e dello sforzo vincente delle forze sane del paese, rivelano tutta la loro inconsistenza le polemiche astiose scagliate – ieri come oggi – da vari intellettuali, o sedicenti tali, contro la legislazione antiterrorismo e contro i processi italiani. Ma quel che interessa, in questa sede, è soprattutto chiedersi – ferme restando le abissali differenze di cui abbiamo detto – se sia possibile seguire una strada analoga anche per il nuovo terrorismo transnazionale, in un quadro di fermezza che si combini con il rispetto delle regole fondamentali, all’interno dei singoli paesi e sul piano internazionale.

Gridare alla pace (ma soltanto di giorno)

Dopo l’11 settembre, molti sforzi sono stati fatti, molte energie sono state messe in campo per difenderci dall’aggressione criminale del terrorismo. Com’era necessario e inevitabile. La stessa cosa sta accadendo ora, dopo le stragi parigine del 13 novembre. Ma non ci siamo soffermati abbastanza – né allora né oggi – sul fatto che senza diritti non c’è giustizia, e senza giustizia non c’è pace.

Dovremmo partire dalle parole pronunziate da Giovanni Paolo II inaugurando la III Conferenza episcopale latino-americana di Puebla: «La pace intea e internazionale sarà assicurata solo se vige un sistema economico e sociale fondato sulla giustizia…». Significa che il precetto evangelico «fame e sete di giustizia» può anche essere tradotto in questi termini: che un sistema politico si ispiri a logiche di sicurezza è necessario, ma se, alla disperazione di chi vive nell’ingiustizia, si contrappone soltanto uno schieramento armato, se si negano aiuti (effettivi, seri) all’istruzione, alla sanità, allo sviluppo umano, ecco allora che finiamo per avvitarci dentro logiche contorte e inefficaci. Facciamo come Penelope: gridiamo pace di giorno, ma prepariamo ingiustizia (violenze) di notte. Un circolo vizioso che occorre rompere: anche perché esso rischia di introdurre poteri così assoluti da costituire un problema per le libertà e la democrazia, nel momento stesso in cui si compiono azioni finalizzate a tutelare (stando ai proclami anche esportare) proprio libertà e democrazia.

Buonismo, perdonismo, giustificazionismo:
mai sminuire il male

Occorre una coice etica in cui inserire valori di giustizia proclamati da organismi inteazionali. Piero Calamandrei (Le leggi di Antigone, 1946, Il Ponte, la rivista da lui fondata, ndr), riflettendo sul processo di Norimberga, chiedeva che le leggi dell’umanità (invece di essere soltanto frasi di stile, relegate nei preamboli delle convenzioni inteazionali) si affermassero come vere leggi sanzionate. Auspicava che l’umanità (da vaga espressione retorica) diventasse un ordinamento giuridico. Queste parole di Calamandrei possono assumersi come indirizzo ancora oggi: che siano le ragioni dell’umanità, sanzionate dal diritto internazionale, non la forza, non la violenza, a prevalere. In questo modo vincerebbe la saggezza, prima condizione della pace.

Ciò significa rinunziare alla legge del taglione (restituire al male ricevuto altrettanto, se non di più), per provare a vincere il male in modo diverso. Attenzione: questo non comporta affatto sminuire il male. Il male resta male, quindi nessun buonismo, perdonismo, giustificazionismo. Sarebbe vanificare la giustizia. Il problema è provare (per quanto difficile sia, e ferma restando la necessità di innalzare argini robusti contro il fanatismo e la violenza) a inventare forme di risposta che siano capaci di contenere il male, di fermarlo: senza tollerare o creare situazioni che invece lo incentivino senza fine. Il problema è di creare logiche che siano capaci, quanto meno si sforzino, di ricomporre una frateità ferita, divisa da inimicizie profonde. Cercando di essere fratelli oltre i vincoli biologici. Oltrepassando i vincoli delle etnie per provare a fare della moltitudine di popoli che coesistono nel mondo una famiglia nella quale non ci si scanni.

Mi rendo ben conto delle tante obiezioni possibili rispetto alle cose fin qui dette. Sempre più spesso ci si chiede se sia davvero praticabile il dialogo con chi è costituzionalmente sordo perché il suo fanatismo gli impone un unico scopo, quello di sterminare gli «altri». Ci si chiede anche se la fenditura tra musulmani e non (nel mondo intero e nei singoli paesi occidentali) sia ormai diventata così profonda da rendere gli uni e gli altri irreversibilmente estranei e nemici. Quanto è difficile l’emersione dell’islam moderato? E tale emersione è resa ancor più difficile dalla frattura generazionale che si registra nelle moschee? E come eliminare quei macigni che pesano sul quadro complessivo e lo schiacciano, come le enormi ambiguità di quanti (a partire dall’Arabia Saudita) finanziano il terrorismo, gli foiscono le armi e poi bombardano inserendosi in qualche «santa» alleanza? Come arrivare a una vera e autentica cooperazione internazionale, che non sia dettata solo da opportunismi contingenti (come nel caso dell’alleanza francese con la Russia, tutt’ora sotto embargo per i fatti dell’Ucraina)?

Sicurezza sì, ma con diritti e libertà

Vero è (lo ripete da tempo papa Francesco, con visione allargata ai problemi di tutto il mondo, senza strabismi nazionalistici) che siamo di fronte a pezzi – sempre più consistenti – di una «Terza guerra mondiale». Ma forse è un motivo in più – se davvero si vuole uscie – per ricordare che la sicurezza è certamente un bene fondamentale (da sempre obiettivo delle migliori intelligenze e dell’impegno più intenso). Un tema decisivo, che però non può essere esclusivo. Altrimenti c’è il rischio che diritti e libertà diventino ostaggio della sicurezza, con conseguenze a catena sempre più vaste e peggiori.

Senza nasconderci (ma nello stesso tempo cercando di reagire con forza ad ogni tendenza alla rassegnazione) che, sotto l’incalzare dei fatti, le parole – troppe volte – possono anche sembrare logore o inadeguate.

Gian Carlo Caselli


Questo articolo di Gian Carlo Caselli è stato condiviso con il quindicinale Rocca (n. 24 del 15 dicembre 2015).

 

L’autobiografia

SOTTO SCORTA

cop_caselli_libro_04È un umanissimo sentimento di amarezza quello che prevale in Nient’altro che la verità, il racconto autobiografico di Gian Carlo?Caselli. Un’amarezza che diventa una sorta di richiesta di perdono nei confronti delle persone a lui più vicine – i genitori (oggi scomparsi), la moglie Laura, i figli Paolo e Stefano – per «aver inflitto [loro] una overdose di preoccupazioni e di sofferenze» e averli fatti vivere «in mezzo ai mitra», in una «situazione da trincea, da filo spinato» (riferendosi a un’intera vita sotto scorta, iniziata nel 1974 e mai terminata). Un’amarezza che è delusione, rimpianto e, a volte, rabbia per alcuni eventi accaduti in 46 anni di magistratura. Come quando, era l’anno 2005, il governo Berlusconi, rabbioso per le incriminazioni di Giulio Andreotti e Marcello Dell’Utri, inventò una legge contra personam per impedirgli di essere nominato «procuratore nazionale antimafia».

Nonostante questo (e altro) la vita professionale di Gian Carlo Caselli è stata ricca di successi, prima nella lotta contro il terrorismo (1974-1986) e poi in quella, più dura, contro la mafia, combattuta dal palazzo di giustizia di Palermo, subito dopo gli omicidi di Giovanni Falcone (maggio 1992) e Paolo Borsellino (luglio 1992), amici e colleghi.

«Sono figlio – scrive nelle prime pagine – di una cultura cattolica e di sinistra. Il fatto di aver trascorso la mia infanzia a contatto con gli operai, le dure condizioni della fabbrica e i sacrifici dei miei genitori spiegano ad esempio la mia sensibilità nei confronti dei poveri, degli ultimi. Sono alla base del mio senso per la giustizia e dello sforzo per la legge come equità».

Se l’autobiografia inizia con il ricordo, recentissimo, della dura contrapposizione con una parte del movimento NoTav e i contrasti con i colleghi di Magistratura democratica, essa finisce con il richiamo alla Lettera ai giudici, la giustizia declinata secondo il pensiero di don Milani nel lontano 1965. Un testo che Gian Carlo Caselli propone come «incoraggiamento e speranza ai magistrati che verranno».

Paolo Moiola

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