Pagode antiche e magnifiche, paesaggi incantevoli, gentili ingegneri affittacamere, ma anche architetture in disfacimento, strade piene di miseria, bambini lavoratori e racconti di campi profughi. Il Myanmar dei profondi cambiamenti politici, in transizione verso la democrazia dopo 50 anni di dominio militare e 60 anni di una guerra civile ancora in corso in diverse zone del paese, ci viene raccontato attraverso lo sguardo attento di una viaggiatrice critica.
Yangon sta cambiando velocemente, pur non essendo più la capitale ufficiale, rimane comunque il centro più importante del Myanmar. Vent’anni fa era una città silenziosa, ferma nel tempo, sprofondata nel verde dei suoi parchi e dei suoi viali. Ora, all’inizio del 2015, essi non bastano a contenere un traffico esagerato che ha spinto in questi giorni gli autisti dei bus a lasciare il lavoro, protestando per gli ingorghi che bloccano per ore le strade. Cantieri di nuovi edifici, alberghi e centri commerciali sorgono ovunque e occupano gli spazi verdi che ancora rimangono.
Scelgo una sistemazione vicina al centro e alla cattedrale cattolica, dove grandiosi edifici pubblici in stile classico, con archi e colonne in mattoni, ricordano il ruolo di capitale nel periodo coloniale britannico. Nei viali che conducono alla Sule pagoda, trovo cucine di strada. Mi siedo su sgabelli minuscoli tra i veicoli parcheggiati. Mi vengono serviti gustosi piatti tipici: zuppe di vermicelli, ravioli fritti, insalate piccanti di papaia. Gli indiani friggono di tutto, lattuga, uova, melanzane e tortini di farina di ceci e riso. Le interiora di animali sono infilate in spiedini che vengono fatti cuocere in orci pieni di brodo bollente.
Yangon ha ancora molto fascino, anche se il degrado continua implacabile. Lungo i marciapiedi, le lastre di pietra sconnesse lasciano intravedere lo scolo delle acque luride. Sulle facciate elaborate di edifici decrepiti e coperti di muffa resta una traccia di delicati colori pastello. Lungo i muri e sui tetti crescono cespugli e, addirittura, alberi, che lentamente apriranno ferite.
Ho parlato con Kaythi, una signora birmana di Sydney conosciuta in albergo: vuole farmi conoscere suo padre che ha 86 anni e sta scrivendo le memorie degli ultimi 70 anni di storia birmana. Era in marina durante la guerra, poi ha combattuto contro i Karen1. Per molti anni ha lavorato nel commercio marittimo, riuscendo a far emigrare la famiglia in Australia. Oggi ammette che se avessero vinto i Karen la storia del Myanmar sarebbe stata certamente migliore.
Conobbi la popolazione Karen nel 1994, a Pathein, capoluogo della regione di Ayeyarwady, sul delta del fiume Irrawaddy, apprezzando la loro fierezza, l’onestà e l’ospitalità. Ebbi un’esperienza molto bella nel complesso cattolico di S. Peter. Era zona off limits per noi stranieri, vi rimasi per 10 giorni sorvegliata dall’esercito, con la proibizione di uscire dal convento senza la compagnia di almeno due suore.
Ora che è possibile viaggiare nelle regioni un tempo proibite, dove le minoranze sono sempre state ostili alla dittatura, cercherò di scoprire altre realtà.
Bagan, regione Mandalay
Mi trovo davanti alla pagoda più famosa di Bagan, Ananda. Mi fermo a chiacchierare con il ragazzino che sta vendendo bottiglie di benzina per le motorette. Si chiama So. Il nostro è un discorso fatto a gesti. Non conosco il birmano, e lui sa solo poche parole in inglese. Chiedo se mi può scrivere il suo nome. Non può. Non è mai andato a scuola.
Incontrerò ancora bambini lavoratori come lui, efficienti e professionali nelle loro mansioni. So ha 10 anni, cinque fratelli, una mamma semi cieca, il padre non lo ha mai conosciuto.
Una signora in moto si ferma per fare benzina. Si presenta, e mi spiega: la scuola è a pagamento e molte famiglie non possono permettersi la spesa, e nemmeno di rinunciare al lavoro dei bambini. So Mi U mi pare piccolo per i suoi 10 anni. Lo guardo: ha una macchia scura sul volto, i capelli neri sono ritti e corti.
Bagan è zona di interesse storico archeologico, ma l’Unesco non ha approvato i pesanti lavori di restauro fatti dalla giunta militare. I siti protetti del Myanmar sono altri, poco conosciuti e di difficile fruizione. Comunque qui, nascosti nella boscaglia, sorgono alberghi con piscina e campi da golf. Un tempo vi erano le case di bambù, sparse tra le rovine. Vent’anni fa gli abitanti furono spostati nella New Bagan. A ciascuna famiglia fu assegnato un lotto di terreno su cui costruirsi una casa, nulla di più.
All’ostello incontro Valentina e Francisca, due cilene di Santiago. Ambedue laureate in legge e di famiglia palestinese. I genitori, da piccoli, lasciarono i loro villaggi presso Betlemme nel ’47, e vi ritornarono in visita coi figli solo 50 anni dopo. Jessa e il fidanzato, invece, sono originari di un paesino di Vancouver Island, Canada. Insegnanti di inglese, non avendo trovato un impiego in patria, si sono trasferiti in Cina, dove lavorano in una scuola privata.
Ne incontro molti di cinesi o di stranieri che vivono in Cina.
Ngapali, stato Rakhine
Lo stato Rakhine si trova nell’estremo Ovest del Myanmar, al confine col Bangladesh. Il volo fa scalo a Ngapali, località turistica sul mare delle Andamane.
Su Su e Simon sono miei vicini di capanno e mi invitano per un pranzo tipico birmano: zuppa di budi, una specie di zucchino, in brodo di cipolle e zenzero, e pollo fritto alla curcuma. Su Su è nata a Pathein e lavora come infermiera a Londra. Simon è nato nel ‘46 dal matrimonio di un ufficiale di marina inglese, di stanza a Moulmein, capitale dello stato Mon, con una donna birmana. «Avevo sei anni quando ci siamo trasferiti a Londra. Mia madre ha trovato difficile adattarsi alla nuova vita, con quattro figli da allevare senza gli aiuti che aveva in patria». Ora Simon vorrebbe ritornare a vivere a Yangon, ma il lavoro che sa fare, urbanista, è pagato pochissimo.
A Ngapali i terreni vicini al mare sono stati acquistati da cinesi e da grossi gruppi che hanno costruito alberghi di lusso.
Prendo la bici e raggiungo un villaggio di pescatori. La tradizione di fare seccare al sole il pesce piccolo è rimasta limitata a una zona della spiaggia. Vedo scaricare decine di grosse razze e mi unisco al drappello di curiosi. Poi proseguo per il capo che chiude la baia a Sud. Qui attraccano barche che portano passeggeri e casse di pesce molto pesanti. Noto la fatica dei quattro uomini che sollevano le casse. Fatica e povertà non sono cambiate, anche se ci sono alberghi e ristoranti ottimi.
Vedo che si lavora per sistemare le strade e costruire ponti in cemento. Sono molte le ragazzine occupate nei cantieri a spalare ghiaia e trasportare mattoni per 4-5 dollari al giorno.
Conosco Benno, un altornatesino che abita a Bangkok con la moglie, artista cinese. Lì ha fondato una onlus «Aiutare senza confini». Conosce il Myanmar da 15 anni e mi aggioa. Pare che a Mandalay i funzionari governativi corrotti facciano avere ai cinesi documenti falsi per poter comprare proprietà.
Thandwe
Il pick up carico di passeggeri sale nella valle un tempo coltivata a riso. Vedo che hanno costruito una casa di riposo, un campo sportivo e due monasteri. Le giovanissime monachelle e le anziane con il loro abito rosa e la testolina rapata, un tempo erano rare. Credo che i monasteri femminili siano utili come ricoveri per donne anziane e sole, e per giovani orfane. Qualche edificio storico, dal sapore esotico, è rimasto. Scomparso in un incendio il bel mercato di legno nero, dove gentili sartine con grappoli di orchidee sui capelli erano al lavoro nel settore dei tessuti. Ora, in una nuova e anonima struttura in cemento, si vende roba cinese, dai colori sgargianti e fibre sintetiche.
Salgo su una moto taxi e mi faccio portare alla missione cattolica, a un paio di km dal centro. Trovo il parroco, padre Michele, che è appena arrivato dopo la visita ai suoi villaggi.
Quando arrivarono i primi missionari francesi, dedicarono la chiesa a Nostra Sisgnora de la Salette, ed eressero il bel crocifisso sul colle.
Siamo sulla cresta di una serie di colline che si perdono all’orizzonte. Cupole dorate di piccole pagode brillano lontane. La maggioranza dei birmani è buddista, e i missionari portato il vangelo presso le minoranze, da sempre ribelli verso il potere centrale.
Sittwe, stato Rakhine
Il territorio che sorvolo oggi è fatto di estuari, isole di sabbia, meandri di fiumi e rari segni di insediamenti umani. Prima di atterrare noto gli allevamenti di gamberi e una struttura che potrebbe essere un campo profughi. Penso alla comunità musulmana che sta attraversando un periodo drammatico della sua storia nel paese2. La maggioranza buddista dello stato Rakhine discrimina ed emargina le minoranze su base religiosa ed etnica.
Un monaco buddista di Mandalay (Ashin Wirathu, fondatore del movimento «969», riquadro p. 25, ndr), è tra i più violenti sostenitori di tale politica.
Ho l’occasione di incontrare un gruppo di giovani australiane che lavorano nei campi profughi. Quando chiedo notizie dei Rohingya, vedo che i loro visi si rabbuiano e mi correggono subito. Questi islamici perseguitati non vogliono essere chiamati così, il termine per loro è offensivo. Capisco che il tema è delicato e che le ragazze non sono autorizzate a parlarne con estranei. Incontro a cena Laura, un’italiana impegnata anche lei sul campo, qui da tre anni. Mi da alcune informazioni utili, che non trovo su guide e web. Anche gli alberghi usati dagli operatori di Ong sono difficili da trovare, si scoraggiano le visite.
Nelly
Una donna mi invita in casa sua, in un andito chiuso da un’inferriata. Nelly mi fa sedere su un minuscolo sgabello di plastica e si presenta. È un’insegnante, e mi parla della sua vita. Poi si offre di accompagnarmi alla chiesa cattolica di Sittwe. Quando il conducente del risciò si ferma davanti alla scuola di Sant’Anna, Nelly incomincia a recitare il Padre Nostro in inglese. Ho visto le immagini buddiste nella sua casa e la foto di un monaco cui è molto devota, ma il ricordo della Convent school, dove ha studiato da ragazza, la commuove. «Ho pianto quando hanno nazionalizzato le scuole cattoliche (nel 1965, ndr). Mia madre era insegnante, di sangue cinese. Mi aveva mandato a Yangon a studiare dalle suore, ho ricordi felici di quegli anni». Entriamo nella scuola matea, frequentata da bimbi di etnia Chin. Anche le maestre e il parroco sono Chin, come gli orfani che vengono ospitati nel complesso di edifici voluti dai missionari americani 140 anni fa. Anche qui la chiesa è dedicata a N.S. de la Salette.
Mrauk U, stato Rakhine
Per arrivare a Mrauk U, capitale nel secolo 16°, luogo remoto dove sorgono monumenti straordinari ancora poco visitati, ci vogliono quattro ore di navigazione. Arrivo al molo che fa ancora buio. Salgo sul ponte superiore del battello e osservo lo spettacolo dell’imbarco. Le passerelle sono due assi sulle quali la gente passa con carichi incredibili, senza perdere l’equilibrio. Fa freddo, ma mi accoccolo sull’assito del ponte in compagnia di donne e bambini, avvolti da coperte. In lontananza vedo monti azzurri e voli di gabbiani su un fiume ampio che sconfina col mare. Più avanti il fiume si restringe e compaiono delle reti triangolari. I pescatori sono al lavoro, le loro capanne su palafitte e le barche formano un paesaggio sereno. Prendo alloggio in una struttura vecchia ma simpatica, dove incontro viaggiatori come Beate e Volkmar, da tre mesi in giro per il Myanmar. Lui è un fisico di Friburgo. Beate è stata infermiera e ora che è in pensione ha convinto Volkmar a lasciare il lavoro per viaggiare. Ceniamo insieme a Htum Shwe, un ingegnere birmano che ha ereditato il complesso e lo sta trasformando in una pensione. Vive e lavora a Yangon, dove risiede con moglie e figli. Una volta al mese arriva per seguire i lavori. La sua era una famiglia di proprietari terrieri di Sittwe che perse tutto con la riforma socialista.
Pagode a Mrauk U
Vedo le bambine andare al pozzo, caricarsi sul fianco grandi brocche di alluminio. Una di loro ha un viso assorto, bello, con la pasta di tanakha sulle guance. Veste alla marinara, con la casacca bianca e blu che contrasta con la povertà dell’ambiente. Mi indica un colle con la pagoda più bella, Mahabodi swegu. Mi avvio su un sentirnero impervio e raggiungo la pagoda nascosta dai cespugli. Entro e noto le pareti scolpite a fasce, con le storie di Buddha e la vita di villaggio di 400 anni fa. Battaglie, animali, anche un uomo con la testa in giù, come quelli che ho visto scolpiti sulle chiese più antiche in Sardegna. Proseguo per visitare altre pagode e vedo una ragazzina, seduta al bordo della strada sterrata, con un neonato in grembo. Ha una piaga sul viso triste, il suo sguardo sgomento mi dice che non è consapevole del fatto di essere madre, non credo abbia più di quindici anni. Le capanne sono povere e sporche, si cucina sulla terra, si dorme su pavimenti di bambù sollevati da palafitte, tutti insieme. Promiscuità, miseria e ignoranza.
Mrauk U è un cantiere aperto, stanno aprendo alberghi e asfaltando strade, sperando nel turismo. Alle 7 del mattino passano i pick up a prendere le giovani che lavorano nei cantieri. Le più grandi lavorano sulle strade in costruzione, lisciando la graniglia nera con le mani. Con un cappello conico e un bavero sul viso spalano la sabbia e la ghiaia. Gli uomini guidano rumorosi mezzi che sembrano assemblati per gioco.
I templi sono di pietra scura, sembrano fortezze con tanti stupa a campana. Chi arriva qui rimane incantato dai tramonti e dalle albe che si possono ammirare dall’alto dei colli, in un’atmosfera magica.
Claudia Caramanti
(fine prima parte – continua)
Note:
1- Il conflitto, che gli esperti definiscono a «bassa intensità», continua a mietere vittime e a causare sofferenza. Tutto è iniziato nel 1949. Dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna, alla fine del secondo conflitto mondiale, il nuovo presidente del paese, Aung San – padre di Aung San Suu Kyi, futuro leader della Lega nazionale per la democrazia (Ndl) e Nobel per la pace – aveva firmato, in accordo con i capi delle diverse comunità etniche che compongono il complesso mosaico birmano, il «Trattato di Planglong». L’accordo offriva a ciascun popolo la possibilità di scegliere – entro il termine di dieci anni – il proprio destino politico e sociale. Questo trattato non è stato mai rispettato da Rangoon (Yangon) perché, dopo un colpo di stato e l’uccisione di Aung San, il potere è passato alla dittatura militare del generale Ne Win. Così, da sessantasei anni a questa parte, i Karen – un popolo che conta ben sette milioni di persone – imbracciano le armi.
2- Sulla situazione vedi Stefano Vecchia, Quando l’islamofobia è buddhista, MC luglio 2013.
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