Infanzia: sempre più a rischio?

400 milioni di bambini al mondo si trovano sotto la soglia
di povertà assoluta. E anche la crisi nei paesi ricchi ha conseguenze nefaste
sull’infanzia. Intanto gli Obiettivi del millennio arrancano. E in Italia cosa
succede?

L’immagine più
straziante del 2013 rimarrà quella delle piccole bare bianche, ognuna con un
orsacchiotto sopra, dei bambini annegati a Lampedusa.

Quanti
bambini muoiono nella fuga dalla povertà e dalle guerre non lo sapremo mai,
anche perché a volte non c’è traccia delle loro brevi esistenze negli elenchi
ufficiali.

Sappiamo
però quanti bambini vivono oggi nella miseria: secondo il rapporto «The state
of the poor» della Banca Mondiale, un terzo dei poveri del mondo sono minori,
400 milioni di bambini al di sotto dei 13 anni si trovano in uno stato di
povertà assoluta.

I
dati sul nostro paese sono altrettanto sconfortanti: in Italia un quarto dei
poveri assoluti sono minori. La povertà assoluta è, secondo la definizione
dell’Istat, «l’incapacità di acquisire i beni e i servizi necessari a
raggiungere uno standard di vita minimo accettabile».

Sempre
l’Istat ci segnala che in Italia nell’ultimo anno la povertà assoluta è
cresciuta del 29 per cento, ormai ci sono quasi 5 milioni di persone in stato
di grave indigenza, di cui oltre un milione sono bambini e ragazzi. L’Unicef e
tutte le agenzie specializzate sui problemi dell’infanzia concordano nel dire
che la povertà costituisce la principale causa di discriminazione di bambini e
adolescenti.

Per
questo suggeriscono di considerare il minore come titolare di un diritto alla
protezione di base, il che significa che se il bambino è in uno stato di
privazione a causa della condizione della sua famiglia, del suo gruppo sociale
o del luogo dove vive, le istituzioni pubbliche devono prendersene cura,
assicurandogli i diritti fondamentali e i servizi essenziali stabiliti dalla
Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989. Una Convenzione
che, si noti bene, tutti gli stati hanno ratificato, a parte Somalia e Stati
Uniti.

Ma
per troppe bambine e troppi bambini la Convenzione è come se non fosse mai
stata scritta.

La
situazione è così intollerabile che il presidente della Banca Mondiale, Jim
Yong King, nella conferenza di presentazione del rapporto sulla povertà, ha
avuto un moto di vergogna: «I bambini non dovrebbero essere così crudelmente
condannati a una vita senza speranza».

Grazie
all’impegno per gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio si sono fatti alcuni
progressi, ad esempio nel campo dell’educazione primaria in cui, tra il 1990 e
il 2010, il tasso di frequenza scolastica dei bambini nei paesi in via di
sviluppo è salito dal 60% al 79%.

Passi avanti sono stati compiuti anche per
combattere la mortalità infantile che negli ultimi vent’anni è stata dimezzata,
ma ancora oggi 12.000 bambini muoiono ogni giorno per malattie che si possono
prevenire e nell’Africa sub sahariana il tasso di abbandono scolastico,
specialmente delle bambine, è sempre elevatissimo.

Non
si sta facendo abbastanza. Finora gli obiettivi stabiliti non sono stati
raggiunti non perché siano troppo ambiziosi o tecnicamente inarrivabili, ma a
causa di misure inadeguate e investimenti insufficienti. Investimenti che si
sono drasticamente ridotti anche nei paesi colpiti dalla crisi, dimenticando
che il benessere di una famiglia e di una comunità dipendono dalla qualità dei
servizi disponibili e che la riduzione della spesa per scuole, presidi
sanitari, mense e altre forme di sostegno sociale, accresce il disagio dei
bambini.

In
Italia,
un esempio che ci tocca da vicino, dal 2008 la spesa per assegni
famigliari è stata ridotta, è stato azzerato il fondo per l’inclusione degli
immigrati e sospeso il contributo per l’alloggio ai nuclei famigliari da parte
di quasi tutti i comuni. Queste scelte, di cui sono responsabili i vari governi
che si sono succeduti nel nostro paese dallo scoppio della crisi a oggi, hanno
pesanti ripercussioni sulla sorte dei minori. Anche l’aumento della disoccupazione
si riflette su di loro, se i genitori perdono il lavoro, aumenta per i figli il
rischio dell’abbandono scolastico e, nelle situazioni di marginalità sociale,
quello del lavoro minorile.

Secondo
un recente studio della Fondazione Trentin e della Ong Save
The Children, in Italia ci sono 260 mila minori che lavorano,
un lavoro che si svolge prevalentemente in imprese famigliari, agricole,
dell’allevamento, della ristorazione, ma che per 30 mila  ragazzi fra i 14 e i 15 anni è svolto in
condizioni pericolose e di sfruttamento.

Le
vittime sono ragazze, provenienti dall’Est Europa o dalla Nigeria, sfruttate
nella prostituzione o ragazzi egiziani e cinesi sfruttati in attività
produttive, mentre fenomeni di tratta riguardano minori di origine Rom, coinvolti
in circuiti di accattonaggio e attività illegali.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Franz Jägerstätter e Josef Mayr-Nusser

 


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FRANZ JÄGERSTÄTTER nacque nel 1907 a Sankt Radegund, in Austria, e come semplice contadino visse le vicende della sua patria fino a che Hitler nel 1938 con l’Anschluss (ovvero l’annessione) inglobò l’Austria, facendola diventare parte integrante della Germania nazista. Come tutti i giovani del suo tempo, doveva obbligatoriamente prestare servizio militare e giurare fedeltà alla dottrina del nazional-socialismo e al Führer tedesco, cosa che egli si rifiutò di fare per la sua tenace convinzione che il nazismo fosse incompatibile con il Cristianesimo e che non potesse assolutamente mettere in secondo piano i principi evangelici per assumere quelli della dottrina nazional-socialista.  
JOSEF MAYR-NUSSER nacque nel 1910 a Bolzano da una famiglia di viticoltori. Benché cittadino italiano, sia pur di lingua tedesca, venne forzatamente arruolato nelle truppe delle SS naziste e inviato in Germania per essere addestrato e indottrinato al verbo nazional-socialista prima del giuramento al Führer. Unico tra tutte le reclute presenti, egli, con nobile gesto, si rifiutò di adempiere tale formalità. Entrambi questi giovani praticarono e vissero la fede cattolica in forma adamantina. Furono tra i pochi obiettori di coscienza al nazismo e si ribellarono a una visione della vita fondata sul dogma della superiorità della razza ariana, che il dittatore nazista voleva imporre con la forza nei paesi invasi, sconfitti e sottomessi dall’esercito tedesco. I due giovani hanno pagato cara la loro coerenza evangelica e la fedeltà alla loro coscienza modellata sul messaggio di Gesù di Nazareth. Furono condannati a morte e la loro esistenza fu stroncata in maniera tragica e feroce. Franz Jägerstätter è stato dichiarato beato nel 2007 da Papa Benedetto XVI (un Pontefice tedesco!), mentre per Josef Mayr-Nusser la diocesi di Bolzano ha avviato il processo di canonizzazione.
Franz e Josef, voi avete saputo offrire in tempi difficilissimi una testimonianza forte del Cristianesimo ascoltando la vostra coscienza. Avete dimostrato che è meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, una posizione che in tutta la storia del Cristianesimo altre figure di Santi hanno assunto fino alle conseguenze estreme, ovvero il martirio. Disubbidire alle leggi umane per essere fedeli a Dio, non è cosa da poco, è una scelta sublime!
Franz: Io partecipavo alla vita pubblica del mio paese e, in occasione del plebiscito organizzato dai nazisti per incorporare l’Austria alla Germania, fui l’unico a votare «no» nel mio comune. E una volta che l’annessione fu realizzata, mi rifiutai categoricamente di continuare a partecipare alla vita amministrativa del mio paese, in quanto trovavo la dottrina di Hitler incompatibile con la fede cristiana.   Josef: Noi sudtirolesi, per via della lingua, eravamo considerati gli alleati naturali degli austriaci e dei tedeschi. Io provenivo dalle fila dell’Azione Cattolica (che il fascismo aveva tentato di ostacolare in ogni modo) e trovavo sempre più difficile identificarmi con i progetti propugnati dalla stretta unione d’intenti tra l’Italia fascista e la Germania nazista. Inoltre mi risultava difficile aderire ai programmi che venivano imposti e che rendevano sempre più filonazista la politica italiana.
Al di là di queste considerazioni personali, varrebbe la pena che presentiate un quadro della vostra situazione, di modo che diventi per noi più facile capire il contesto in cui vi muovevate e comprendere nella sua valenza profetica il gesto che avete fatto.
Franz: Io fui allevato da mia nonna perché mia mamma mi generò da una relazione extraconiugale. Quando la mia mamma, dopo qualche anno dalla morte del mio papà naturale, sposò Heinrich Jägerstätter, questi mi adottò e ne assunsi il cognome. Nel 1933 morì senza figli propri e così ne ereditai le proprietà. Nel 1936 sposai Franziska Schwaninger e dal matrimonio nacquero tre figlie: Rosalia, Maria e Aloisia. Qualche anno prima avevo riconosciuto la pateità di una bambina nata da una relazione sentimentale con un’altra ragazza, Theresia Auer. Per dirla tutta, non ero «uno stinco di Santo» e anche la mia famiglia aveva qualche problema con la morale ufficiale della Chiesa.   Josef: Nella ditta in cui lavoravo a Bolzano, ebbi la fortuna di conoscere Hildegard Straub, una ragazza che era impiegata nello stesso posto e che proveniva anche lei dal gruppo dei giovani dell’Azione Cattolica altornatesina. Dopo un breve fidanzamento, nel maggio del 1942 ci sposammo e l’anno successivo nacque nostro figlio, cui demmo il nome di Albert.
Le vostre mogli - mi sembra di capire - avevano gli stessi sentimenti vostri, quindi da parte loro avete avuto un sostegno notevole nel dire di «no» a Hitler.
Franz: Con Franziska andai in viaggio di nozze a Roma; il matrimonio e quel viaggio segnarono una svolta nella nostra vita. La preghiera e la lettura della Bibbia divennero, per scelta comune, una consuetudine quotidiana. Ci sostenevamo reciprocamente nel nostro cammino di fede non tanto vivendo gli atti devozionali della comunità, quanto nel renderci consapevoli che la fede cristiana non poteva essere messa sullo stesso piano della dottrina nazional-socialista. Josef: Per far capire quanto intensa fosse la nostra scelta comune di vivere fino in fondo la fede cristiana e di non piegarci al nazismo, riporto qui quanto scrissi alla mia carissima Hildegard appena arrivato al centro d’indottrinamento delle SS di Konitz: «Ciò che affligge il mio cuore è che la mia testimonianza nel momento decisivo possa causare a te, fedelissima compagna, disgrazia temporale. Prega per me affinché nell’ora della prova io agisca senza timore ed esitazioni secondo i dettami di Dio e della mia coscienza».
Quindi eravate decisi non solo a rifiutare di imbracciare le armi per servire il vostro paese, ma anche di opporvi al cuore stesso del potere nazional-socialista rifiutando di giurare fedeltà a Hitler.
Franz: Nel 1940 fui arruolato dalla Wehrmacht, ma tornai a casa dopo un anno per la mia situazione familiare. L’esperienza negativa nell’esercito e il programma sull’eutanasia che il partito nazional-socialista portava avanti a vasto raggio rafforzarono la mia decisione di non tornare più alla vita militare. In quegli anni feci la scelta di diventare terziario francescano e questo irrobustì la mia idea di non mettermi al servizio delle smanie di potere del nazional-socialismo, quindi di non giurare a Hitler. Josef: Giurare è un verbo insopportabile, giurare a chi, a che cosa, per quali motivi, giurare a un uomo, a un dittatore, a un Führer, giurare per odiare, per conquistare e sottomettere altre persone, per incendiare la storia e impolverare la creazione di Dio, giurare per versare sangue innocente sulla terra? Giurare a Hitler era compiere un culto demoniaco, il culto del capo innalzato a idolo di una religione sterminatrice. Volete sapere com’era la formula del giuramento nazista? Era così: «Giuro a Te, Adolf Hilter, Führer e cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a Te e ai superiori designati da Te obbedienza fino alla morte, che Dio mi assista».
Certo che quel finale «che Dio mi assista» è più a una bestemmia che una preghiera.
Franz: Per nulla al mondo avrei pronunciato quelle parole. Dopo aver manifestato l’intenzione di non giurare a Hitler fui trasferito nella prigione militare di Linz, dove incontrai altre persone che opponevano resistenza al nazional-socialismo e si rifiutavano di fare il giuramento nazista. Josef: Può un cristiano pronunciare simili parole? Può egli mettere Dio al servizio del potere, della guerra, della furia distruttiva, della violenza fine a se stessa? Dio che è al di sopra di ogni legge, di ogni nome, di ogni spazio, di ogni luogo, come può farsi paladino di un dominatore senza scrupoli? Chi può manipolare ciò che di più sacro e intangibile appartiene alla fede? Più che mai ero convinto che non avrei pronunciato quel giuramento.
Nessuno cercò di dissuadervi da questa vostra decisione?
Franz: Oh sì! Molti cercarono di farlo. Chi mettendoci di fronte alle responsabilità verso la patria tedesca, chi ci diceva di giurare per evitare che la nostra famiglia subisse spiacevoli conseguenze. Persino il Vescovo della diocesi di Linz, Josephus Calasanz Fließer, mi consigliò di desistere dall’obiezione di coscienza. Solo la mia Franziska, benché conscia delle conseguenze, mi sostenne in questa decisione. Josef: Anche con me ci furono tentativi di farmi cambiare idea, ma devo dire che l’assistente dell’Azione Cattolica di Bolzano, don Josef Ferrari, invece mi sostenne nella decisione che avevo preso. L’unica che vibrò fino in fondo per il medesimo ideale restandomi accanto fino all’ultimo istante fu la mia amatissima Hildegard.
FRANZ JÄGERSTÄTTER fu condannato a morte e ghigliottinato il 9 agosto 1943 nel carcere di Brandeburgo. Dopo la fine della guerra, l’ua con le sue ceneri fu portata a Sankt Radegund, dove fu tumula il 9 agosto 1946. La sua figura di obiettore cristiano si delineò con chiarezza alcuni decenni dopo, grazie allo storico Gordon Charles Zahn, il quale ne scoprì l’epistolario conservato dalla famiglia da cui emerge con cristallina coerenza la sua fede e le sue profonde motivazioni per il rifiuto dell’ideologia totalitaria del nazional-socialismo e di ogni tipo di guerra. JOSEF MAYR-NUSSER, rinchiuso nel carcere di Danzica con l’accusa di tradimento, subì ogni sorta di torture e maltrattamenti. Condannato quindi a morte, fu destinato al famigerato campo di sterminio di Dachau. Un bombardamento alleato alla linea ferroviaria bloccò il treno alla stazione di Erlangen. Gravemente provato per via delle forti e continue privazioni cui era stato sottoposto durante la prigionia, morì nel vagone bestiame del treno il 24 febbraio 1945.
 
Don Mario Bandera - Direttore Missio Novara




Integrazione o disintegrazione?

Viaggio dove convergono le periferie del mondo: periferie
urbane, baraccopoli, marginalizzazione, migrazione, seconde generazioni, nuove
povertà. Ormai da anni è in corso un processo nel quale le nostre città e la
nostra società stanno cambiando volto.Con la tragedia di Lampedusa ancora negli occhi, mentre
molti media si concentrano sulle offese al ministro Kyenge e sulla polemica
intorno al reality «Mission», che cosa sta succedendo nelle nostre città? Che
cosa funziona, che cosa non funziona e perché nella trasformazione di quella
italiana in una società multietnica? Quanto contano i fattori culturale,
urbanistico, economico? MC propone una panoramica sul tema delle periferie e
sulla situazione europea e italiana che introduce un ciclo di reportage dalle
zone marginali italiane.

La lama
di un coltello posato su un piccolo tagliere di legno riflette l’azzurro del
cielo fra pezzetti di peperoni gialli e rossi tagliati in quadratini così
precisi da sembrare tessere di un mosaico; accanto, vicino a un canovaccio
candido ripiegato per fare da presina, l’acqua bolle dentro un pentolino di
metallo scaldato dalla fiamma blu di un fornello e un sacchetto di riso aperto
aspetta che una mano prelevi una manciata di chicchi e la getti nell’acqua
bollente. Il piano di lavoro di questa cucina è fatto di rocce scure e lucide
che digradano fino a tuffarsi nell’acqua; il soffitto è l’impalcato di un ponte
e i muri sono l’aria calda e asciutta dell’estate e le sponde erbose del
Tevere. Un uomo a torso nudo si muove in questa insolita cucina con movimenti
lenti e uniformi, i movimenti di qualcuno che ha imparato da tempo a fare i
conti con le irregolarità dei sassi e a mantenere l’equilibrio. La sua faccia è
rilassata, alza appena la testa ogni volta che una nuova coppia di piedi passa
all’altezza del suo naso un paio di metri più in là, sulla pista ciclabile che
costeggia il fiume.

«Ieri camminando in questa zona ho perso un ciondolo»,
gli domanda una passante, «lei per caso lo ha trovato?». «Io non so», risponde
l’uomo in un italiano stentato, «devi chiedere alla signora che sta là» e
indica un punto sul muro che riveste la scarpata, quasi all’altezza della
strada. Da qualche parte vicino al quel punto nel cemento deve esserci una
signora, probabilmente dentro a un alloggio di fortuna che un muretto nasconde
alla vista di chi passa sul lungotevere, costruito con i cartoni e le lamiere
recuperati da qualche discarica, o da un cantiere, o da un cassonetto
dell’immondizia. Quella signora forse sa che fine ha fatto il ciondolo perché
anche lei, come l’uomo che cucina i peperoni, abita lì e vede tutto quello che
nel corso di una giornata scorre, ritorna, si perde e si ritrova in quei venti metri
in riva al fiume.

La prima «rivelazione» che colpisce un osservatore delle
molteplici forme dei cosiddetti insediamenti urbani informali è che la
sensazione di disordine e di mancanza di logica che si può avere all’inizio è
in larga parte sbagliata: così come uno slum (baraccopoli) di una grande
metropoli del sud del mondo, apparentemente un agglomerato di puro caos,
polvere e sporcizia, è in realtà un micro-mondo altamente organizzato, allo
stesso modo nel nord del mondo, nelle periferie urbane e anche negli anfratti e
recessi del centro delle città, le persone si aggregano e si organizzano anche
se in condizioni abitative – ed è questo che genera la sensazione di disordine
– che risulterebbero inaccettabili per la maggior parte della popolazione urbana.

Come si legge nel dossier di Nigrizia sulle baraccopoli
d’Italia curato da Fabrizio Floris nel 2010, il cuore del problema sta in ciò
che si vede, o si crede di vedere, quando si passa accanto a questi
insediamenti: «Vedi ladri, approfittatori, gente a cui piace vivere così perché
è la loro cultura. Oppure vedi poveri da aiutare o l’effetto delle politiche
pubbliche mancate, sbagliate…». Si vede, o si pensa di vedere tutto questo,
cioè categorie, immagini, concetti: molto più raramente si vedono persone e si
percepiscono quegli spazi non come errore del sistema o bruttura da nascondere
ma come luogo che si è sviluppato all’interno di un processo storico nel corso
del quale sono cambiate le condizioni economiche, la società e, di conseguenza,
la città e i suoi spazi. Per farsi un’idea di questi meccanismi e processi
storici è utile partire dal luogo che per definizione si trova al margine: la
periferia.

Come nasce e che cos’è la periferia

In uno studio dell’Associazione nazionale dei comuni italiani del 2008 si tenta un’analisi dell’origine e della
natura delle periferie: le periferie, si legge, sono una «invenzione» della
città modea, che segue l’abbattimento – non necessariamente fisico – delle
cinte murarie di difesa che le nuove tecniche di guerra (ad esempio l’uso del
bombardamento aereo) hanno reso irrilevanti ai fini della protezione delle città.
Il vocabolario indica la periferia come «la parte estrema e più marginale,
contrapposta al centro, di uno spazio fisico o di un territorio più o meno ampio»
e la locuzione «di periferia» nell’uso comune indica non solo la collocazione
di un’area nel tessuto urbano, ma «aggiunge spesso una connotazione riduttiva,
di squallore e desolazione».

Non si tratta di un fenomeno nuovo: nasce infatti in
Europa in concomitanza con una fase avanzata del processo di
industrializzazione. In Italia, il fenomeno appare più in ritardo rispetto agli
altri Paesi europei e nelle grandi città conosce un boom negli anni della
ricostruzione successiva alla Seconda guerra mondiale. Numerose testimonianze
di quell’epoca raccontano delle condizioni di disagio e della mancanza di
servizi e infrastrutture patite dagli abitanti di queste aree periferiche. La
periferia come era intesa negli anni Cinquanta e Sessanta
era spesso una terra di nessuno ai margini delle grandi città dove gli
immigrati interni, che lasciavano le aree rurali italiane per le grandi città
dove sorgevano le industrie, potevano insediarsi, comprare un piccolo pezzo di
terra e cominciare a costruire piano piano una casa; oppure erano una sorta di
anticamera, un posto nel quale appoggiarsi fino a quando i risparmi fossero
stati sufficienti per potersi permettere una casa in quartieri più centrali
oppure, nei decenni successivi agli anni Settanta, in zone sempre estee ma
residenziali, a volte anche di lusso.

Oggi la situazione è in parte cambiata: la marginalità
sociale ed economica non corrisponde più così nettamente alla distanza dal
centro e le sacche di marginalizzazione sono distribuite sia verso l’esterno
della città sia negli spazi cittadini più centrali, se è vero che a Milano una
baraccopoli era sorta nella zona di Porta Romana (a un paio di chilometri dal
Duomo), mentre a Roma nel 2012 è stata smantellata una bidonville lungo
i binari della ferrovia nei pressi della stazione Ostiense, a meno di tre
chilometri dal Colosseo.

Gli insediamenti informali sono uno degli aspetti – forse
il più estremo – che accompagnano il disagio sociale, la povertà e la
marginalizzazione, non l’unico. Bidonville e periferia non sono
necessariamente sovrapponibili, né c’è una corrispondenza totale fra marginalità
socio-economica e nazionalità straniera.

Le periferie europee, una panoramica

Quando si pensa agli aspetti problematici legati alle
periferie urbane ritorna in mente l’episodio clamoroso degli émeutes (sommosse) nella banlieue di Parigi. Il 27
ottobre del 2005 a Clichy-sous-Bois, un comune pochi chilometri a est di Parigi
due adolescenti muoiono fulminati mentre si nascondono nella cabina del
trasformatore della Edf, la società francese dell’energia, tentando di sfuggire
alla polizia. In seguito alla diffusione della notizia scoppia una serie di
disordini che durerà tre settimane, allargandosi anche ad altre periferie del
Paese. Il bilancio finale sarà di quasi tremila arresti, oltre cinquanta
poliziotti feriti e circa novemila automobili date alle fiamme, numeri che
fanno della rivolta la più grande che si sia verificata nelle città francesi
dal maggio del 1968. Gli insorti sono quasi tutti di origine africana. Le
notizie degli scontri francesi hanno una grande risonanza mediatica
internazionale e portano alla ribalta della cronaca i temi del disagio e
dell’emarginazione nella banlieue francese raccontati in film come La haine (L’odio) di Mathieu
Kassowitz (1995).

Le altre capitali europee non sono estranee a questo
genere di tensioni. Nel 2011, dopo l’uccisione a Londra di un ventinovenne da
parte della polizia nell’ambito di un’indagine sui crimini da arma da fuoco
all’interno della comunità nera, un’ondata di violenza e saccheggi scuote la
Gran Bretagna partendo dai quartieri londinesi di Tottenham e Brixton e
estendendosi poi ad altre aree della città e del Paese. Mentre il governo e le
forze dell’ordine attribuiscono i disordini a criminali e teppisti, diversi
osservatori indicano fra le cause anche il disagio sociale, la disoccupazione e
la povertà che si stanno diffondendo a seguito della crisi finanziaria e delle
politiche economiche del governo britannico.

Un servizio della Bbc del febbraio 2012 illustra poi la
realtà degli slums ai margini di Londra, mostrando una delle zone a ovest
di Londra dove immigrati illegali provenienti prevalentemente dallo stato
indiano del Punjab vivono in circa 2.500 casette per la maggior parte abusive,
a volte prive di acqua ed elettricità, in cambio delle quali pagano affitti che
arrivano anche a ottocento sterline al mese. Attualmente, gli insediamenti
illegali a Londra sono, secondo le stime, circa diecimila.

Nemmeno la Svezia, spesso citata come modello di welfare
state
e capace, fino ad oggi, di limitare il disagio sociale, è immune dai
disordini. Nel maggio dello scorso anno, a Stoccolma la polizia uccide, nel
tentativo di disarmarlo, un immigrato di origine portoghese armato di coltello.
L’evento suscita una serie di rivolte che partono da Husby, quartiere
multietnico della capitale svedese, e si estendono nel corso di cinque giorni
ad altri quartieri ed altre città. Sebbene i disordini a Stoccolma abbiano
proporzioni differenti rispetto a quelle di Parigi e Londra, il fatto che la
pacifica e socialmente inclusiva Svezia abbia vissuto giorni di violenza e
scontri spinge molti commentatori a chiedersi: se l’instabilità può travolgere
perfino la Svezia, che cosa può succedere altrove, dove le condizioni sono già
più critiche e il disagio tangibile?

La situazione in Italia

In un articolo del 2005 il Sir (Servizio di informazione
religiosa) chiedeva a diversi esperti se i fatti di Parigi possono ripetersi
anche da noi. Francesca Zajczyk, docente di sociologia urbana all’università di
Milano-Bicocca, rispondeva che la principale differenza fra il caso francese e
quello italiano risiede nel fatto che oltralpe «la ghettizzazione riguarda
immigrati di seconda generazione, i quali sperimentano la disillusione, la fine
del sogno di integrazione e di benessere» mentre a Milano «sono immigrati di
prima generazione, spesso giunti da poco nel nostro paese. Per loro il sogno
italiano resiste ancora». Inoltre, aggiungeva la sociologa, in Italia «la
presenza straniera è più distribuita sul territorio. Questo mix sociale tende
dunque a ridurre o a stemperare la marginalità e svolge un ruolo di
ammortizzatore del disagio». Ciò premesso, concludeva Zajczyk, non si può del
tutto escludere l’ipotesi che la situazione che in Francia ha dato origine alle
rivolte interessi progressivamente pure altri paesi e, per effetto emulativo,
tocchi anche l’Italia.

Quanto al tema specifico degli insediamenti informali,
non ci sono dati certi e univoci circa il loro numero sul territorio italiano,
né è chiaro quante persone vivano in queste condizioni; le stime parlano di
circa seimila baraccopoli in tutta la penisola e di circa due milioni di
persone (non solo stranieri) interessate dal fenomeno degli alloggi informali.
Il censimento Istat del 2011 ha rivelato che in dieci anni le famiglie che
dichiaravano di vivere in baracche, tende o simili era più che triplicato:
oltre settantunomila contro le circa ventitremila del 2001.

Nel corso del 2014 Cooperando cercherà
di affrontare il tema delle periferie urbane, degli insediamenti informali e
del disagio con una serie di reportage sulle realtà e sulle esperienze in corso
in alcune città italiane. Particolare attenzione verrà data alla condizione dei
migranti, ma si cercherà di estendere il più possibile lo sguardo in modo da
far emergere un quadro il più verosimile possibile delle persone e delle storie
che abitano il margine e la periferia, ovunque questo si collochino nella città.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Il credo e la carta d’identità

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 16


L’alevismo è una espressione religiosa che alcuni aleviti
considerano parte dell’islam, mentre altri no. Un cittadino turco chiede che
sulla sua carta d’identità non venga indicata la sua appartenenza all’islam, ma
all’alevismo. Dopo il rifiuto della Corte d’appello e della Cassazione, l’uomo
si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Gli viene data ragione,
anche se su un aspetto diverso: la violazione della sua libertà di credo c’è stata a causa della presenza sul documento d’identità di
una casella dedicata alla religione di appartenenza.

Sinan Isik, un cittadino turco di
Izmir, l’antica Smie, nel 2004 chiese alla Corte d’appello della sua città di
cambiare sulla sua carta d’identità la dicitura «islam» con «alevita1». Secondo la legge turca, infatti,
sul documento di riconoscimento si deve indicare la confessione religiosa cui
si appartiene. Quella posta dall’ufficiale dello stato civile sul suo documento,
secondo Isik, era sbagliata.

Alevismo e islam

Gli aleviti sono una minoranza religiosa piuttosto consistente in
Turchia. A essa, infatti, appartiene almeno il 10% della popolazione, ma forse
anche di più.

Se l’alevismo sia o meno una confessione islamica è una questione
aperta. Una parte dei suoi membri lo crede, ma un’altra lo nega. Sinan Isik era
di questa seconda convinzione, sostenuta dalle associazioni che fanno parte
della Federazione degli aleviti Bektachi.

«Io ritengo, sulla base delle mie convinzioni – sostenne Isik –
che una persona non possa essere contemporaneamente alevita e musulmana. La
Repubblica di Turchia protegge nella propria Costituzione la libertà di
religione e di coscienza e mi rifiuto quindi di tollerare questa ingiustizia
che mi ferisce profondamente».

La Corte d’appello, qualche mese dopo, respinse la sua domanda,
sulla base del parere della Direzione degli affari religiosi da essa
interpellata. La Direzione è un organismo che dipende dal primo ministro e ha
il compito di occuparsi delle credenze, del culto e della morale dell’islam,
nonché della gestione dei luoghi di culto. Essa indicò l’alevismo come un
sottogruppo dell’islam che non può essere considerato una religione
indipendente. La dicitura «alevita» – secondo la Direzione degli affari
religiosi – non va quindi indicata sulla carta d’identità, dove non possono
essere riportate le sottoculture o le interpretazioni di una religione, ma solo
la dicitura generale per non compromettere «l’unità nazionale, i principi
repubblicani e il principio di laicità».

La Corte d’appello stabilì dunque che non vi era errore relativo
all’indicazione dell’appartenenza religiosa sul documento di riconoscimento di
Isik. Per chiarirlo ancora meglio, indicò che dal materiale stesso prodotto
dall’interessato a sostegno della sua richiesta, l’alevismo risultava
un’articolazione dell’islam. Gli aleviti infatti, ad esempio, considerano Ali
come il primo imam con un ruolo centrale nella loro confessione religiosa. Ma,
come quarto califfo, genero e successore di Maometto, egli è una delle
personalità più illustri dell’islam. Gli aleviti, insomma, secondo la Corte
d’appello, sono degli islamici, esattamente come cattolici, protestanti e
ortodossi sono tutti cristiani. Quando un individuo aderisce a una delle
interpretazioni dell’islam, rimane islamico.

Sull’obbligo di dichiarare
il proprio credo

Isik non accettò la sentenza e fece ricorso alla Cassazione,
precisando meglio la sua posizione. Oltre all’indicazione errata della propria
religione, egli infatti contestò il fatto stesso di doverla segnalare sul
documento d’identità. L’obbligo lo costringeva contro la sua volontà a rivelare
la sua appartenenza religiosa, violando, a suo parere, la Costituzione turca,
che nell’articolo 24 afferma: «Nessuno può essere obbligato a rivelare le
proprie credenze e le proprie convinzioni religiose». Anche il parere della
Direzione degli affari religiosi, che aveva considerato la sua confessione come
islamica, per Isik era inaccettabile.

La giustizia turca ha tempi invidiabili. Prima della fine di
quello stesso 2004 arrivò la decisione della Cassazione. Purtroppo per Isik,
anche questa a suo sfavore. La Cassazione infatti confermò la sentenza della
Corte d’appello, respingendo la sua richiesta. Per la Direzione degli affari religiosi,
così come per i giudici di primo e secondo grado, l’obbligo di indicare la
propria religione sulla carta d’identità non violava il principio di rispetto
della laicità prescritto dall’articolo 136 della Costituzione.

A sostegno di questa posizione c’era addirittura una sentenza
della Corte costituzionale turca del 1995, che difese quell’obbligo di legge:
«Lo stato deve conoscere le caratteristiche dei suoi cittadini» per esigenze di
ordine pubblico, di interesse generale e per «imperativi economici, politici e
sociali». La norma riguarda tutte le religioni, che vengono quindi trattate
allo stesso modo come deve avvenire in uno stato laico. Di conseguenza non crea
alcuna discriminazione tra i cittadini. Essa, infine, non si intromette nelle
credenze degli individui, o nella loro mancanza di credenze. In particolare,
non introduce alcun obbligo – incostituzionale – a divulgarle. D’altro canto il
codice civile turco permette a ogni cittadino maggiorenne di scegliere
liberamente la propria religione. Nel caso la cambi, è sufficiente che richieda
agli uffici dello stato civile di scrivere quella nuova.

Cinque giudici costituzionali su undici, si erano opposti alla
decisione degli altri sei, ritenendo incostituzionale la legge. La sentenza del
1995 fu, quindi, a strettissima maggioranza.

L’ostinazione di Isik

Sinan Isik non si diede per vinto, e si appellò alla Corte europea
dei diritti dell’uomo (Cedu). Poté farlo perché la Turchia, che non appartiene,
come noto, all’Unione Europea – è in corso l’esame della sua richiesta di
entrare a fae parte -, è però membro del Consiglio d’Europa, e ha quindi
sottoscritto la Convenzione dei diritti dell’uomo di cui la Cedu controlla il
rispetto.

Nel frattempo in Turchia fu introdotta una normativa più
tollerante che abrogava la precedente. Da quel momento le informazioni relative
alla religione dell’individuo sono inserite o modificate nei registri di stato
civile solo in base a quanto dichiarato per iscritto dall’interessato. È
previsto inoltre che la casella relativa sul documento d’identità possa essere
lasciata vuota o che l’informazione già trascritta venga cancellata.

Nel suo ricorso alla Cedu Isik ribadì le sue posizioni, ritenendo
che la normativa, anche se nel frattempo modificata, violasse l’articolo 9
della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (quella sulla libertà di
religione di cui abbiamo parlato anche nei due precedenti articoli, ndr.). Secondo lui, infatti, il rigetto
della sua domanda di sostituire «islam» con «alevita» sulla sua carta
d’identità, aveva rappresentato un’ingerenza dello stato nel suo diritto alla
libertà religiosa, oltre al fatto che la carta d’identità, presentata
continuamente e per i più svariati motivi, rappresentava di per sé una
divulgazione obbligatoria delle proprie opinioni religiose.

Durante il dibattimento, pure il rappresentante del governo turco
ribadì le posizioni della propria parte. Per rinforzarle, si riferì anche alla
sentenza della Corte costituzionale del 1995 già ricordata. «La Repubblica di
Turchia è uno stato laico – affermò – dove la libertà di religione è
espressamente consacrata dalla Costituzione». Negò che la legge contestata da
Isik andasse contro quel principio. Il contenuto della carta d’identità,
secondo lui, non poteva essere determinato in funzione dei gusti di ogni
persona: le confessioni che fanno parte dell’islam sono molteplici ed era
quindi necessario non menzionarle «per preservare l’ordine pubblico e la
neutralità dello stato».

La sentenza di Strasburgo

La Cedu diede ragione a Sinan Isik con la sentenza del 2 febbraio
2010: c’era stata effettivamente una violazione dell’articolo 9 della
Convenzione europea a causa dell’obbligo di indicare la propria religione sulla
carta d’identità. Anche il ricorso al parere della Direzione per gli affari
religiosi, secondo la Corte europea, era stata discutibile. Infatti in una
società democratica lo stato è il garante ultimo dei pluralismi, compreso
quello religioso. Le autorità dunque non possono privilegiare
un’interpretazione della religione a scapito di un’altra, o costringere una
comunità religiosa divisa a porsi, contro la sua volontà, sotto una direzione
unica: si violerebbe di nuovo, in tal caso, il dovere di neutralità e
imparzialità dello stato. Ricorrere al parere della Direzione degli affari
religiosi, che si occupa solo di affari riguardanti la religione musulmana, non
è conciliabile con tale dovere. Essa infatti è un organismo di parte, che
esclude l’esistenza dell’alevismo come religione a se stante.

È interessante, infine, pure quanto la Cedu affermò a proposito
della possibilità di lasciare vuota sulla carta d’identità la casella
riguardante l’appartenenza religiosa. Con la nuova legge, che lo prevede,
infatti, le istituzioni mantengono comunque informazioni sulla religione dei
cittadini nei registri di stato civile. La casella dedicata al credo
d’appartenenza, compilata o lasciata vuota, continua a esistere sulle carte
d’identità e rischia in entrambi i casi di diventare un’informazione sulle
convinzioni intime dell’individuo. Chi chiedesse di cancellare l’indicazione
religiosa potrebbe essere ritenuto avverso al divino, chi invece lasciasse
vuota la casella si distinguerebbe – contrariamente alla propria volontà e in
virtù di un’ingerenza delle pubbliche autorità – da chi invece vi indicherebbe
la propria appartenenza.

La Cedu, insomma, con la sua sentenza indicò qual era il vero
problema contenuto nel caso Isik. Esso non riguardava tanto il rifiuto in sé di
sostituire «islam» con «alevita» sulla carta d’identità, quanto la trascrizione
– obbligatoria o facoltativa che fosse – della religione sulla carta d’identità
che comportava, a causa dello stesso utilizzo del documento, la divulgazione
obbligatoria di convinzioni intime e personali. Era quella trascrizione che
andava tolta. Solo così, concluse la Cedu, sopprimendo cioè la casella dedicata
alla religione sulle carte d’identità, si sarebbe potuto riparare il danno
subito da Sinan Isik, rimediando alla violazione dei suoi diritti.

La decisione fu condivisa da sei giudici su sette. Anche l’unico
che non era d’accordo, per ragioni che non è qui il caso di esaminare, sostenne
comunque di non comprendere né l’interesse, né l’utilità di far comparire la
religione su una carta d’identità, anche se su base volontaria.

L’impegno degli stati

Le sentenze della Cedu diventano esecutive, perché gli stati che
hanno sottoscritto la Convenzione sono impegnati a conformarsi a esse. C’è un
Comitato dei ministri, cui le sentenze sono trasmesse, che ha appunto il
compito di sorvegliae l’esecuzione.

Questo permette di riprendere una considerazione fatta già nei
precedenti articoli: la Corte, di fronte alla condivisione dei principi da
parte di tutti i membri del Consiglio d’Europa, rende possibile uniformare
anche la loro applicazione nei vari stati. Questa funzione ne fa uno degli
strumenti più rilevanti per la costruzione in Europa di una comune coscienza
civile e della sua traduzione pratica.

Paolo Bertezzolo

 
Note:

1-
Gli Aleviti sono un gruppo religioso, sub-etnico e culturale
presente in Turchia che conta circa dieci milioni di membri. L’Alevismo è
considerato una delle molte sette dell’Islam.

L’Alevismo
è una setta unica nell’ambito dell’Islam sciita duodecimano, dal momento che
gli Aleviti accettano il credo sciita riguardo Alī
e i dodici Imam. Alcuni Aleviti non vogliono però essere descritti come Sciiti
ortodossi.

Non
sono da confondere con gli Alawiti presenti ad esempio in Siria.

Nel
capitolo dell’Inteational Religious Freedom Report for 2012 del
Dipartimento di stato Usa dedicato alla Turchia gli aleviti vengono stimati tra
i 15 e i 20 milioni, mentre si dà conto del fatto che i leader del gruppo
religioso sostengono essere 20-25 milioni gli aleviti in Turchia. Secondo il
suddetto rapporto, su una popolazione di 74,7 milioni stimata nel 2011, il 99%
è musulmano, di cui la maggioranza sunnita.

Circa
165mila cristiani delle varie Chiese, tra cui 25mila cattolici.

Paolo Bertezzolo




La piramide dell’ingiustizia

In povertà e in ricchezza / 1

I diritti umani appaiono sempre più come delle mere costruzioni
teoriche, lontane dalla realtà.Nel mondo odierno, a Nord come a Sud, si assiste a un
dominio delle libertà economiche che finiscono per prevalere su tutto e tutti.
Le conseguenze si vedono e si toccano con mano: un aumento progressivo delle diseguaglianze.
Non è un’affermazione politica o ideologica. È una constatazione di fatto.
Certificata da dati ufficiali (statistiche e indici), ma soprattutto dall’evidenza
quotidiana.

La prossima volta che – in un
ipermercato o in una boutique – staremo per acquistare un capo d’abbigliamento,
sarebbe importante ricordare questo numero: 1.1331.

Il 24
aprile 2013, a Savar, periferia di Dacca, capitale del Bangladesh, si è
sgretolato un palazzo di 8 piani conosciuto con il nome di Rana Plaza. Sono
morte (almeno) 1.133 persone e altre 2.515 sono rimaste ferite. L’80 per cento
erano donne2.
Nella costruzione venivano ospitate varie fabbriche d’abbigliamento, tutte
foitrici – in appalto o subappalto – di grandi marchi occidentali, compresa
l’italiana Benetton e la spagnola Zara (Inditex). In pochi anni il Bangladesh è
divenuto il secondo esportatore di capi d’abbigliamento al mondo dopo la Cina.

Made in Bangladesh

La tragedia del Rana Plaza non è un’eccezione. Al contrario: è la
normalità (come del resto in altri paesi, dal Pakistan alla Cambogia). Pochi
mesi prima, il 24 novembre 2012, ad Ashulia, altro sobborgo della capitale
bengalese, era bruciato l’edificio della Tazreen Fashions, altra fabbrica
d’abbigliamento che lavorava per marchi occidentali. Alla Tazreen erano morte,
asfissiate o bruciate, 112 persone (quasi tutte donne). Lì si confezionavano,
tra gli altri, capi d’abbigliamento della Faded
Glory, un marchio della Wal-Mart, la multinazionale
statunitense della famiglia Walton, seconda al mondo per grandezza, sempre al
vertice nella classifica delle multinazionali con la peggiore reputazione. Il
suo motto è «Save Money. Live better», «Risparmiare denaro. Vivere meglio»3: un risparmio e una vita migliore
ottenuti a scapito o sulla pelle di altre persone.

L’incendio alla Tazreen ne ricorda da vicino un altro, avvenuto
oltre 100 anni prima a New York, sempre in una fabbrica tessile e sempre avendo
come vittime giovani donne sottopagate. Quel giorno – era il 25 marzo 1911 – a New York morirono in 146. Le porte della Tringle Shirtwaist Company erano state
chiuse a chiave, ma i proprietari furono assolti da ogni responsabilità4. Come oggi lo sono o lo saranno
quelli delle fabbriche bengalesi5.

Una nota sull’etica (lo diciamo con amara ironia) delle
multinazionali dell’abbigliamento. L’11 e 12 settembre 2013, a Ginevra, in un
incontro organizzato per creare un fondo di risarcimento per le vittime degli
incidenti si sono presentati soltanto 9 marchi inteazionali su 286. Al 24 ottobre 2013 soltanto la
Primark (gruppo angloirlandese) aveva pagato qualcosa alle vittime del Rana
Plaza7. Intanto, a 10 mesi dalla tragedia, i 1.137 sopravvissuti della
Tazreen ancora attendono una compensazione per la sofferenza, le spese mediche,
la perdita del lavoro.

In Bangladesh su 5 milioni di lavoratori del tessile l’80% è
costituito da donne. Stando alla legge, l’orario di lavoro dovrebbe essere al
massimo di 10 ore giornaliere, ma il più delle volte si arriva a 14-16 ore, 7
giorni su 7. Le donne non potrebbero lavorare dopo le ore 20.00, ma arrivano in
realtà fino alle 22.00 o alle 23.00. Non hanno scelta: o accettano quelle
condizioni o perdono il lavoro. Nelle fabbriche del Bangladesh si riproduce la
struttura patriarcale che è diffusa a ogni livello della società bengalese8. E questo avviene nonostante il
primo ministro del paese asiatico sia una donna, Sheikh Hasina, in carica dal
2009 (ma che già goveò tra il 1996 e il 2001).

Fino al 1 dicembre 2013 il salario minimo (vigente dal novembre
2010) era di 3.000 taka ovvero 38 dollari al mese, uno dei più bassi del mondo9. Si consideri che in Cina esso è di
138, in Cambogia di 75, in Indonesia di 71, in Vietnam di 67, in India di 65. I
dati sono del Wall Street Joual, una delle bibbie del capitalismo mondiale10.

Per avere un termine di raffronto, abbiamo
fatto un piccolo esperimento (senza pretese di scientificità, ma abbastanza
indicativo). In un ipermercato di Torino abbiamo comprato una felpa made in
Bangladesh. Il capo d’abbigliamento era in offerta a 14,90 euro ovvero la metà
del salario mensile di un’operaia tessile di quel paese. Identicamente dai
francesi di Carrefour i vestiti marca Tex – maglie e tute made in Bangladesh –
erano in vendita tra i 10 e i 16 euro. Di solito, davanti a dati di questo
tipo, il commento più comune è: «Ma lì la vita costa meno». È stato però
calcolato che soltanto per coprire il suo fabbisogno alimentare un’operaia
tessile avrebbe bisogno di 2.350 taka al
mese, che salgono a 11.000 se la donna ha una famiglia11.

Questo è lavoro? La domanda è retorica, perché questo – certamente
– non è lavoro. È schiavismo legalizzato, che sarebbe rimasto nascosto ai più
se non ci fossero state le tragedie.
Dal Bangladesh, uno dei paesi più poveri del mondo12, passiamo agli Stati Uniti, uno dei più ricchi, certamente il più potente.

Made in Usa

A New York, lo scorso 5 novembre, si è chiusa l’esperienza
del sindaco Michael Bloomberg, il miliardario eletto nelle fila dei
repubblicani. È stato sostituito da Bill De Blasio, democratico di origini
italiane, che ha stravinto le elezioni forte dello slogan «Nessuno deve essere
lasciato indietro». Un’affermazione impegnativa. I 12 anni di Bloomberg (3
mandati, iniziati nel gennaio 2002) – descritti come esaltanti e ricchi di
successi – hanno lasciato un’eredità mai adeguatamente evidenziata: quella dei
senzacasa (homeless). A giugno 2013 è stato toccato il record di sempre con
50.900 persone – includendo 12.100 famiglie con 21.300 bambini -, che hanno
trascorso le notti nei dormitori pubblici della metropoli nordamericana13.
Peraltro, il numero, già altissimo, non include le migliaia di persone che non si
sono rivolte ai ricoveri cittadini (unsheltered homeless people),
scegliendo di dormire nella metropolitana o in altri spazi pubblici (giardini,
androni di palazzi, eccetera), soprattutto nel distretto finanziario di
Manhattan.

Negli
Stati Uniti il fenomeno dei senzacasa è l’aspetto più immediatamente visibile
della povertà, che evidenzia dati impressionanti, soprattutto per la prima
potenza mondiale. Nel 2012 il tasso ufficiale di povertà è stato del 15,0 per
cento, pari a 46,5 milioni di persone14. Molto
significativa è la composizione etnica dei poveri: i neri costituiscono il 27,2
per cento, gli ispanici il 25,6, gli asiatici l’11,7 e i bianchi non ispanici
il 9,7 per cento. E quella per età: con il 21,8 per cento di bambini (sotto i
18 anni) e il 9,1 per cento di persone con più di 65 anni. Le donne in povertà
sono almeno 25 milioni, pari al 55% del totale della popolazione povera.

Gli Stati Uniti, a torto o a ragione considerati
la «patria della libertà», non hanno mai codificato un diritto a un’abitazione,
alla salute o all’educazione. Però, hanno solennemente proclamato – Thomas
Jefferson, dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776 – il diritto alla «ricerca
della felicità» (the
pursuit of happiness
).

Invidia o avidità?

Queste
situazioni di mancanza di diritti – siano essi il diritto a un lavoro dignitoso
o il diritto a una casa – sono determinate da responsabilità singole, da colpe
individuali oppure da cause più generali e complesse?

T.
Harv Eker, miliardario canadese divenuto famoso scrivendo saggi su come si
diventa ricchi, ha scritto: «Gli individui poveri spesso guardano al successo
altrui con avversione, gelosia e invidia oppure tagliano corto con un commento secco: “Quegli stupidi coi soldi hanno
molta fortuna”. (…) È impressionante vedere il risentimento e addirittura i
sentimenti di vera e propria rabbia che molti poveri provano per i ricchi, come
se credessero che i ricchi siano la causa della loro povertà»15.

Ivan Boesky, famoso finanziere (raider) statunitense degli
anni Ottanta, ha invece descritto la filosofia comportamentale dei ricchi. Nel
maggio 1986, in una conferenza presso l’Università della Califoia, a Berkley,
disse: «L’avidità fa bene. Penso che sia salutare»16. Né
l’avidità né – men che meno – l’invidia possono tuttavia spiegare la
situazione.

La causa di questa compressione dei diritti, a Nord come
a Sud del mondo, è da imputare alla globalizzazione neoliberista, che è stata
imposta e che continua a essere imposta come l’unica strada percorribile per le
«magnifiche sorti e progressive» del mondo. La globalizzazione – definibile
come un’integrazione sempre più stretta tra le economie del pianeta – si fonda
su alcuni pilastri: la libera circolazione dei capitali (produttivi, ma
soprattutto speculativi), il commercio libero (da regole, limiti, controlli,
protezioni e garanzie sociali) e la riduzione del ruolo dello Stato.

Questa impostazione ha prodotto un allontanamento degli
estremi: una ristrettissima classe ricca sempre più ricca e una affollatissima
classe povera sempre più povera.

Negli ultimi 25 anni, dominati dal pensiero unico della
globalizzazione neoliberista, la piramide della stratificazione sociale (che è
sempre esistita) si è trasformata nella piramide delle disuguaglianze. O dell’ingiustizia,
se si vuole attribuirle un significato più politico.

Questo è avvenuto e sta avvenendo al Sud (che già partiva
da condizioni di svantaggio) come al Nord.

«La globalizzazione sta contribuendo in misura
significativa a far crescere la disuguaglianza» ha scritto Joseph Stiglitz17, premio
Nobel per l’economia 2001.

Ricchi (alla faccia della crisi)

Se non si vede o non si vuole vedere la realtà,
allora si può fare riferimento a statistiche ufficiali. Ebbene, tutti i dati –
indipendentemente dalla fonte di provenienza (come vedremo) – mostrano con
evidenza quanto affermato: il modello neoliberista ha portato alla
globalizzazione dei profitti ma certamente non dei diritti.

La crisi, iniziata (ufficialmente)
nell’agosto del 2007, ci scorre quotidianamente davanti agli occhi con i numeri
dei disoccupati e storie di ordinaria disperazione. Tuttavia, il mondo
dell’economia neoliberista è pieno di sorprese. Come dimostra il 2013 Credit
Suisse Global Wealth Report.
L’annuale rapporto della banca svizzera racconta – con dovizia di dati e
grafici – che la ricchezza globale ha raggiunto i 241 trilioni18 di dollari, record di ogni tempo. Rispetto all’ultimo anno c’è stato un
aumento del 4,9% (e del 68% rispetto al 2003). Gli analisti ci dicono che il 9%
della popolazione mondiale possiede l’83% della ricchezza globale. O ancora che
32 milioni di persone – pari allo 0,7% della popolazione adulta del pianeta –
possiede il 41% della ricchezza totale. La situazione è ben riassunta nella global wealth pyramid, la piramide della ricchezza globale.

Il rapporto di Credit Suisse dà i numeri e
spiega alcune dinamiche. Non si sbilancia in giudizi etico-morali e men che
meno contesta il sistema. Diversamente da quanto fa Zygmunt Bauman: la
ricchezza di pochi – dice il famoso sociologo – non avvantaggia tutti, come
leggenda vorrebbe. «In quasi tutto il mondo la disuguaglianza sta aumentando
rapidamente, e ciò significa che i ricchi, e soprattutto i molto ricchi,
diventano più ricchi, mentre i poveri, e soprattutto i molto poveri, diventano
più poveri»19.

Abbiamo visto la ricchezza globale e la sua
crescita a dispetto della crisi. Ora è interessante capire in che mani essa sia
concentrata.

Esistono molte indagini statistiche al
riguardo. La più famosa è senz’altro quella stilata annualmente dalla rivista Forbes. A marzo 2013 è uscita la sua annuale lista dei miliardari, con questo
sobrio sommario: «I nomi, i numeri e le storie dietro le 1.426 persone che
controllano l’economia del mondo»20. Anche
la periodica ricerca Capgemini/ banca Rbc conferma la crescita degli individui
ad alto patrimonio (Hnwi, in sigla inglese), sia in numero (12 milioni di
individui, +9,2% rispetto al 2011) che in ricchezza posseduta21.

Tuttavia, può essere molto più interessante
osservare quella stilata – si chiama Hurun Report – dalla Cina, paese comunista e seconda potenza economica mondiale.

Va ricordato che il 14 marzo 2004 Pechino ha
introdotto nella propria Costituzione del 1982 un emendamento (il IV) che – nel
suo articolo 6 (sono 13 in totale) – afferma: «La proprietà privata è
inviolabile. Lo Stato, secondo quanto stabilito dalla legge, protegge il
diritto dei cittadini alla proprietà privata e all’eredità sulla stessa».

Secondo l’Hurun Report, nella Cina del 2013 il numero dei milionari – dove per milionario si
intende una persona con minimo 10 milioni di yuan (pari a circa 1,2 milioni di
euro)22 – ha raggiunto la cifra di 1,05 milioni, con
un incremento del 3% rispetto all’anno precedente. Il numero dei miliardari
cinesi – intesi come persone con almeno un miliardo di yuan (121,6 milioni di
euro) – è invece passato a 11.380, con un incremento di 1.120 rispetto all’anno
precedente. Il rapporto disegna un profilo di
questa popolazione di supericchi: chi sono (gli uomini sono il 70% del totale),
cosa fanno, cosa comprano (dalle automobili agli orologi, dalle collezioni
artistiche alle proprietà immobiliari), che sport praticano (nuoto e golf sopra
ogni altro).

Insomma, una lettura interessante, perché
inaspettata. Anche se non per tutti. Scrive ad esempio don Vinicio Albanesi,
presidente della Comunità di Capodarco e fondatore dell’agenzia giornalistica
Redattore sociale: «Nel futuro che ci attende, i ricchi si assomiglieranno
ovunque e sempre più nella loro sfacciata opulenza, mentre i poveri saranno
livellati nel disprezzo, nell’abbandono e nella fame, a prescindere dal mondo a
cui appartengono».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua)

Note
 

1 – «Allora non bisogna
acquistare?». La risposta nella seconda puntata. Intanto anticipiamo il
riferimento principale, quello della «Campagna abiti puliti»:
www.abitipuliti.org. Il corrispondente sito internazionale è:
www.cleanclothes.org.
2 – Le cifre dei morti e dei
feriti variano leggermente a seconda della fonte. Queste sono tratte da alcuni
quotidiani britannici e dal «The Daily Star», quotidiano del Bangladesh.
3 – Sito: www.walmart.com.
4 – Olivier Cyran, In Bangladesh, gli assassini del prêt-à-porter, «Le Monde Diplomatique», giugno 2013, pag. 9. Sulla vicenda
dell’incendio della fabbrica di New York le informazioni più complete sono sul
sito della Coell University: www.ilr.coell.edu.
5 – L’ultimo incidente
risale all’8 ottobre 2013: a Gazipur, appena fuori Dacca, sono morti 7 operai
di una fabbrica tessile che lavorava per H&M (Svezia), Next (Gran
Bretagna), Carrefour (Francia) e gli inglesi di Asda (del gruppo Wal-Mart).
6 – Fonte: www.asianews.it.
7 – Fonte:
www.industriall-union.org.
8 – Alcuni dati per capire:
il 74% delle donne si sposa prima dei 18 anni, il 33% addirittura prima dei 15,
una donna su 3 rimane incinta prima dei 20 anni. Fonte: Women and girls in Bangladesh, Unicef 2010.
9 – A novembre 2013
lavoratori e sindacati hanno ottenuto un aumento a 5.300 taka al mese, circa 68
dollari, a partire dal 1 dicembre 2013. Fonte: «The Daily Star», Dacca.
10 – Fonte: «The Wall Street
Joual», 12 maggio 2013.
11 – Raccontato da Francesco
Pistocchini, in Compresi nel prezzo, rivista «Popoli», giugno-luglio 2013.
12 – E uno dei più densamente
popolati del mondo: 155 milioni di abitanti, 1.120 persone per chilometro
quadrato.
13 – Dati di «Coalition for
the homeless», rapporto del giugno 2013, reperibile sul sito.
14 – U.S. Census Bureau, Income, Poverty, and Health Insurance Coverage in the United
States: 2012, Washington, settembre
2013, pag. 13.
15 – T. Harv Eker, I segreti
della mente milionaria,
Gribaudi Editore, Milano 2008.
16 – Testuale: «I think greed
is healthy. You can be greedy and still feel good about yourself» ovvero «Penso
che l’avidità sia sana. Si può essere avidi e stare bene con se stessi».
17 – Joseph E. Stiglitz,
Il prezzo della disuguglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il
nostro futuro
, Einaudi 2013, pag. 106.
18 – È opportuno precisare: 1
trilione = 1.000 miliardi, mentre 1 bilione = 1.000 milioni = 1 miliardo.
19 – Zygmunt Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti”. Falso, Laterza, Bari 2013, pag.
13.
20 – Rivista «Forbes», 25
marzo 2013: «The World’s Billionaires. The names, numbers and stories behind
the 1.426 people who control the world economy».
21 – Hnwi = High Net Worth Individual, individui ad alto
patrimonio netto, che significa almeno 1 milione di dollari investibili,
escludendo l’abitazione principale, i beni di consumo e gli oggetti da
collezione (Capgemini / Rbc, World
Wealth Report 2013).
22 – Il cambio valutario: 1
rmb (ren min be) = 1 yuan = 0,12 euro.

Nella prossima puntata:

la concentrazione della ricchezza e la sua mancata
distribuzione; le sorprese dell’Indice di Gini; si può fare qualcosa per
ridurre le disparità create dalla globalizzazione neoliberista?; povertà e
ricchezza in Italia; i dati della Caritas e sue iniziative; la bibliografia e
molto altro ancora.

Paolo Moiola




L’Europa delle associazioni

Scambio tra volontari ospedalieri europei.


Quattro volontarie ospedaliere portoghesi passano tre
settimane negli ospedali piemontesi. Sono insieme ai volontari locali, alcuni
dei quali andranno in visita in Portogallo. È un programma europeo di scambio tra
volontari dell’Unione. Per conoscersi, capire, imparare e riportare a casa
qualche buona pratica. Cosa hanno scoperto nel nostro paese? Le abbiamo incontrate.

Branca Maria, Eugénia, Graça e
Manuela: le incontriamo per una cena al Caffè Basaglia, circolo Arci di Torino
nato per dare lavoro a persone con problemi psichici. Ma loro, le nostre amiche
arrivate da Lisbona, nel proprio paese si occupano di un altro tipo di disagio:
prestano infatti servizio di volontariato accanto ai malati oncologici per
conto della Lpcc, la Liga portuguesa contra o cancro.

«L’occasione che ci ha portate in Italia è stato uno
scambio tra il Nucleo regionale du Sul – la sezione della Lpcc che
include Lisbona, Madeira e le Azzorre – e l’Avo, Associazione Volontari
Ospedalieri del Piemonte, per conoscerci e confrontare le rispettive
esperienze. Noi siamo state qui tre settimane. Poi, a marzo, quattro volontari
italiani ricambieranno la visita», spiega Graça Almeida, 63 anni di cui 18
trascorsi come volontaria accanto ai malati terminali.

Un’Europa dalla base

«Questo gemellaggio tra associazioni europee è stato possibile
grazie a un progetto dell’Unione Europea, il progetto Grundtvig Life (=
esperienza sul campo)» spiega Leonardo Patuano, presidente dell’Avo Piemonte, «destinato
agli over 50 e basato sull’idea che il volontariato rappresenti una forma
importante di apprendimento “non formale”, da sostenere attraverso il dialogo
tra soggetti simili operanti in realtà e con prassi diverse». Un’iniziativa
interessante che dimostra come l’unità dell’Europa non passi solo per il
tramite degli interessi economici comuni, come è avvenuto di recente nei casi
Telecom (con la Spagna) e Alitalia (con la Francia), ma possa costruirsi
attraverso i legami sociali e la cittadinanza attiva.

Ma perché dal Portogallo hanno mandato tutte donne? «È stato un
caso, inizialmente doveva esserci anche un collega ma all’ultimo ha avuto un
problema familiare e ha dovuto rinunciare, così sono subentrata io» racconta
Eugénia Cunha Ferreira, 58 anni, di cui 7 al servizio dei malati oncologici in
ambito pediatrico.

«In effetti però l’80 per cento dei membri della Lpcc sono donne,
come ho visto anche nel caso dell’Avo; probabilmente il motivo è culturale, le
donne sono più “abituate” ad accudire e a prendersi cura degli altri».

Un impegno per la nazione

Nelle tre settimane trascorse in Italia le
ospiti portoghesi hanno incontrato le diverse realtà ospedaliere – ma anche
case di riposo, centri diui, hospices ecc. – dove
operano i volontari dell’Avo, spaziando su tutto il territorio piemontese (da
Torino a Borgomanero, da Cuneo ad Arona) e affiancando i volontari in servizio
nei vari reparti: oncologia, pediatria, ginecologia, geriatria…

«L’esperienza dei volontari qui e nel nostro paese non è del tutto
equiparabile, perché in Italia si interviene in ospedali “generalisti” mentre
noi ci troviamo in ospedali specializzati nel settore oncologico» nota Graça. «Tuttavia
– sottolinea Branca Maria Baptista, nella Lpcc da 18 anni – il servizio svolto è
sostanzialmente lo stesso: si tratta di fare compagnia alle persone malate e
alle loro famiglie facendole sentire accolte, ascoltate, attraverso l’offerta
di un sorriso, di una carezza, di una parola gentile…».

La Lpcc svolge anche servizi particolari, come il dono dei fiori
agli ammalati o il momento del caffelatte, «cioè portiamo in reparto bevande
calde e biscotti per i pazienti» spiega Eugénia Cunha Ferriera. «Questo è un
modo per rompere il ghiaccio, per creare un primo rapporto con i degenti o, nel
caso dei bambini, con i genitori, offrendo loro un momento di sollievo e
permettendogli di allontanarsi per un po’ sapendo che accanto ai loro piccoli
rimaniamo noi».

A differenza di quanto avviene in Italia, però, la Liga
portuguesa contra o cancro
deve provvedere anche ad altri bisogni dei
malati, oltre a quelli relazionali e di supporto immediato.

«Da noi il servizio sanitario pubblico non fornisce tutto, molti
strumenti e prestazioni sono a pagamento, e per tanti cittadini è impossibile
sostenerli di tasca propria», spiega Manuela Moreira, 63 anni e 14 di
volontariato. «Perciò noi interveniamo per i più bisognosi, su segnalazione dei
servizi sociali, foendo ad esempio le protesi per le donne operate al seno o
per i pazienti laringectomizzati e stomizzati, i farmaci e i macchinari per gli
ospedali. Finanziamo anche la formazione e la ricerca erogando borse di studio
destinate a medici e infermieri, e acquistiamo libri e riviste per le
biblioteche degli ospedali».

A caccia di fondi

Per fare questo la Lpcc mette in campo
diverse strategie di raccolta fondi. Ogni anno, ad esempio, dal 31 ottobre al 3
novembre vengono dedicati quattro giorni alla raccolta in piazza, che vede
coinvolto tutto il Portogallo. «Le persone rispondono con generosità al nostro
appello, perché la Liga è molto conosciuta e apprezzata», dice Manuela. Tant’è
vero che, pur contando su un numero di volontari relativamente contenuto (400 a
Lisbona, e circa 3.700 in tutto il Paese), la Liga riesce a mettere ogni anno
più di 500.000 euro a disposizione degli ammalati. «La maggior parte degli
introiti proviene proprio dalla raccolta in strada», osserva Maria Graça
Almeida, «poi abbiamo i finanziamenti di aziende e associazioni, i lasciti
testamentari e l’equivalente di quello che è il 5×1000 in Italia. Un’altra
piccola entrata è rappresentata dagli eventi sul territorio (spettacoli,
vendita di artigianato, ecc.) e dalle quote sociali che versiamo noi volontari:
ci viene richiesto un contributo minimo di 15 euro l’anno, ma c’è chi mette
molto di più».

A riprova dell’alta considerazione di cui godono i volontari in
Portogallo, ci sono le modalità in cui vengono «ufficialmente» inseriti nella
Liga: dopo un corso base e un tirocinio che dura dai 9 ai 12 mesi (ogni tre
mesi in un ospedale oncologico diverso) si svolge la cerimonia di consegna dei
camici con cui i neo volontari presteranno servizio. Ebbene, spiega Branca
Maria, «questa cerimonia assume i toni di una vera e propria festa nazionale, è
un momento di gioia e solennità, cui partecipa ogni anno anche la moglie del
presidente della repubblica».

«In Italia il volontariato non è altrettanto valorizzato, e i
nostri volontari – pur desiderando mettersi al servizio dei malati e
dell’associazione – non hanno la percezione di assumere un impegno nei
confronti dell’intera nazione», osserva Leonardo Patuano. «Tuttavia anche da
noi, pur svolgendosi in tono minore, il passaggio dal tirocinio al servizio
effettivo è sentito come un momento di grande emozione e di soddisfazione, per
il neo volontario ma anche per il tutor che l’ha seguito e per tutta l’équipe».

Per una Ue dei volontari

«Il tour delle volontarie portoghesi è stato organizzato
per dar loro la possibilità di sperimentare un ampio ventaglio di situazioni, a
contatto con realtà di diverse dimensioni» (le Avo del Piemonte vanno da quella
di Torino, con circa 1.000 volontari, a quella di Torre Pellice con una
cinquantina di presenze, nda) spiega Patuano; «e abbiamo voluto presentare anche altre realtà
d’impegno sociale oltre alle nostre: per questo la cena al Caffè Basaglia, o il
pranzo alla Cascina Roccafranca in occasione di un meeting di associazioni Lazio-Piemonte.
Nella Giornata nazionale dell’Avo abbiamo anche “sconfinato” fino a Roma, dove
le volontarie hanno avuto la possibilità, e direi la gioia, di assistere
all’Angelus di Papa Francesco». Un fitto calendario d’impegni, che ha però
lasciato spazio anche a momenti liberi, dedicati alle visite turistiche e al «lavoro»:
«Ogni giorno abbiamo redatto una sorta di diario dove annotavamo le varie
esperienze, gli incontri e le realtà osservate; al ritorno a Lisbona avremo la
responsabilità di trasmettere le conoscenze acquisite anche agli altri colleghi
della Lpcc», spiega Eugénia. E aggiunge: «Questi scambi servono per crescere e
arricchirsi, sono un primo passo per arrivare a un obiettivo a più lungo
termine: costruire una Unione europea dei volontari, in cui tutti possano
migliorare nel proprio servizio e operare in maniera più uniforme».

Una valigia piena di…

Ma in attesa di raggiungere questo obiettivo ambizioso, cosa
stanno mettendo in valigia le volontarie portoghesi? «Certamente quello che ci
porteremo a casa è il senso di calore, per la grande accoglienza e ospitalità
di voi italiani», dice Branca Maria. «Abbiamo trovato molta disponibilità,
alcuni volontari di Torino, incluso Leonardo, ci hanno accompagnate in ogni
spostamento facendoci da guide nel conoscere le realtà di sofferenza e gli
interventi per alleviare il disagio, che è fatto di malattia ma anche di
solitudine. E sono stati preziosi ciceroni, conducendoci alla scoperta delle
bellezze artistiche e naturali del vostro paese».

«Per noi è stato volontariato anche questo, un compito agevolato
dal fatto che le colleghe portoghesi parlavano benissimo la nostra lingua»,
dice Castiliano Boscolo, 60 anni, una delle guide «ufficiali». «Nel loro paese
hanno seguito un corso di italiano di 30 ore, come previsto dal progetto (lo
stesso faranno i volontari italiani che andranno a Lisbona, nda), e devo dire che l’hanno imparato
molto bene. Tant’è che gli ammalati avvicinati in queste settimane hanno
ricambiato le loro attenzioni con grande simpatia e affetto. E naturalmente si
sono sentiti anche un po’ onorati dal fatto di ricevere queste visite…
inteazionali!».

«Mi auguro che la nostra esperienza sia solo l’inizio di un
cammino, per crescere insieme, volontari italiani e portoghesi, e imparare a
stare vicini al disagio in maniera sempre più efficace», dice Branca Maria. «La
nostra speranza è che, in un futuro non troppo lontano, questa collaborazione
possa allargarsi anche ad altri paesi europei».

 
Stefania Garini
Intervista a Leonardo Patuano, presidente Avo Piemonte


Noi, volontari europei

Uno scambio tra chi pratica volontariato per conoscersi e
avviare rapporti duraturi nel tempo. Capire le differenze di servizio nei
nostri paesi, imparare. Perché «il volontariato richiede professionalità e
competenza».

Quali sono gli obiettivi dello scambio tra volontariato
italiano e portoghese?

«L’idea di partenza è quella di conoscersi meglio, per
scambiarsi a vicenda le “buone pratiche” e avviare rapporti di collaborazione
che durino nel tempo. Le colleghe portoghesi ad esempio sono rimaste molto
colpite dalla nostra capacità di operare “in rete” con altre associazioni
presenti sul territorio: nell’ospedale pediatrico di Torino ad esempio l’Avo
collabora con altre sei realtà, tutte impegnate, con competenze diverse ma
complementari, nell’assistenza al bambino malato e alla sua famiglia; in varie
Avo piemontesi si interviene poi accanto ai malati psichiatrici in sinergia con
associazioni di familiari e utenti. Si tratta di un’attitudine a non chiuderci
nel nostro orticello ma a cercare la collaborazione con altri per garantire un
servizio che risponda a 360° alle esigenze del malato. Ecco, questo modello
culturale, questo passaggio dalla “mia associazione” al “noi volontari” è stato
un aspetto apprezzato dalle colleghe portoghesi. E in fondo, è lo stesso
atteggiamento che ci ha spinti a guardare fuori dai confini nazionali. Da parte
nostra, siamo rimasti colpiti dalla concezione portoghese che considera il
volontariato un impegno da assumersi nei riguardi dell’intera nazione».

Come avete selezionato i volontari destinati allo
scambio?

«Intanto c’era un limite d’età perché il progetto
dell’Ue era rivolto ai volontari senior (over 50), per valorizzae
l’esperienza e per renderli più consapevoli della dimensione europea in cui si inserisce
il loro servizio. La selezione non è stata semplice perché le Avo del Piemonte
raggruppano circa 3.000 volontari, di cui 2.500 al di sopra dei 50 anni; perciò
sono andato in “missione” nelle diverse zone per presentare il progetto e fare
proselitismo tra i volontari. Alla fine è uscita una rosa di 10 candidati, e la
selezione si è svolta in base a precisi requisiti: la provenienza geografica,
in modo che fossero rappresentate le diverse realtà del territorio piemontese,
la capacità di restituzione dell’esperienza ai colleghi rimasti a casa, il
ruolo ricoperto all’interno dell’associazione, e ovviamente, come titolo
preferenziale, la conoscenza della lingua portoghese o dell’inglese».

Quali sono le aspettative rispetto a questa esperienza?

«Prima di tutto c’è una valenza formativa, i volontari
europei possono apprendere gli uni dagli altri sviluppando la propria capacità
d’innovazione. Ma soprattutto mi auguro che esperienze come questa servano per
darci una spinta in più nelle cose che già facciamo, spronandoci a farle sempre
meglio, rafforzando la nostra consapevolezza e le nostre motivazioni. Perché il
volontariato non è fatto solo di altruismo e buoni sentimenti, ma richiede
professionalità e competenza. Dobbiamo formarci e aggioarci di continuo, per
stare accanto alle persone più vulnerabili senza fare involontariamente danni,
ma offrendo loro un aiuto reale».

Stefania Garini

I numeri
La Liga Portuguesa contro il cancro
1941 l’anno di nascita
3.700 i volontari in servizio sul territorio nazionale
29 campagne di prevenzione,
26 convegni e 11
pubblicazioni per promuovere e sensibilizzare sulla salute
244.867 mammografie realizzate nel 2012 (in 25 unità mobili
e 3 fisse)
4.500 accompagnamenti
annui ai consulti psico-oncologici
36.000 alunni di scuole primarie e secondarie incontrati in
260 iniziative di (in)formazione
524.000 euro spesi nell’anno per acquisto di farmaci,
protesi, trasporti, alimenti per i malati.
www.ligacontracancro.pt
 
L’AVO Piemonte

2002 l’anno di nascita del cornordinamento tra tutte le Avo
piemontesi
3.000 i volontari in servizio sul territorio regionale
350.000 le ore annue di presenza gratuita accanto ai malati
e alle loro famiglie
17 le sedi principali e 17 le sezioni distaccate
36 i Comuni piemontesi dove l’Avo è presente
65 le strutture sanitarie dove si svolge il servizio

Stefania Garini




Ritorno alla schiavitù

A quattro anni dal terremoto è chiaro il disegno Usa per Haiti.


I soldi della ricostruzione gestiti per un piano internazionale
di sfruttamento dell’isola. Un presidente autoritario funzionale a questo
progetto e un esercito straniero (Onu) utile per attuarlo. Un ex dittatore sanguinario
ripulito dal passato e riabilitato. Ma ci staranno i discendenti di Toussaint
Louverture e Jean-Jaques Dessalines? O si sta preparando un’altra «rivolta di
schiavi»?

Sono passati quattro anni dal
terribile terremoto che uccise centinaia di migliaia di haitiani e commosse il
mondo. Un tempo nel quale si sarebbe potuta ricostruire la nazione. E invece?
Invece la popolazione è un’altra volta sull’orlo del baratro. E il paese non
riesce a smentire le sue connotazioni di «stato fallito» o «stato suicida»,
degli economisti la prima, degli esperti di cooperazione allo sviluppo la
seconda.

Elezioni made in Usa

Nelle controverse elezioni di fine 2010 – inizio 2011 il cantante
di kompa, legato alla destra militarista, vince fortunosamente e diventa
presidente della Repubblica. Martelly, arrivato terzo al primo tuo, sarebbe
escluso dal ballottaggio, viene invece ripescato e rimesso in competizione grazie
all’intervento del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton (in un viaggio
lampo ad Haiti del gennaio 2011). Un nome,
Clinton, che ha segnato le vicende del paese dal 1994 ai giorni nostri e
continuerà a influenzarle in futuro (vedi box).

«Ad Haiti assistiamo a una deriva
totalitaria, quasi fascista, del presidente Martelly, – denuncia Didier
Dominique, portavoce del sindacato operaio più importante di Haiti, Batay
Ouvriye – Fa quello che vuole. Dispone dei fondi che lo stato riceve, senza
consultare il parlamento. Sua moglie e suo figlio gestiscono molti soldi e
realizzano progetti a beneficio di persone amiche, grandi borghesi e grandi
proprietari terrieri che approfittano di questa situazione». Ma non basta. Il
bloccaggio politico-istituzionale è quasi totale. «Le elezioni amministrative
locali e di un terzo del senato continuano a non essere neppure programmate».
Il ritardo è ormai di due e tre anni rispettivamente. Così, scaduti i sindaci
ne sono stati nominati di nuovi da Martelly, mentre senatori e collettività
territoriali non sono state elette. «Posti che normalmente sono elettivi
diventano a nomina! Una pratica illegale».

«Esiste un conflitto tra potere legislativo
e potere esecutivo» incalza Antonal Mortimé, leader della Piattaforma delle
organizzazioni haitiane per i diritti umani (Pohdh), il maggiore cornordinamento
di associazioni di difesa dei diritti umani. «L’attuale presidente d’Haiti, a
nostro avviso, non vuole rispettare i principi della separazione dei tre poteri
dello stato garantiti dalla Costituzione del 1987, nei suoi articoli 59 e 60.
Ognuno dei tre poteri deve essere autonomo. A livello della giustizia sono
stati modificati alcuni giudici e giudici d’istruzione che devono essere
inamovibili secondo la Costituzione. Sono state, inoltre, nominate persone che
non avevano le qualifiche per esserlo. Nomine irregolari, fuori dal rispetto
delle norme. Sono stati cambiati procuratori o capi tribunale di Port-au-Prince
nove volte in due anni».

Succede pure che i presidenti di camera e
senato non presenzino con il presidente della Repubblica durante le
commemorazioni importanti, come il 18 novembre scorso, anniversario della
battaglia di Vertières che sancì la definitiva sconfitta delle truppe francesi
(napoleoniche) e aprì le porte per l’indipendenza. «Martelly blocca le leggi
votate dal parlamento non ratificandole, è chiaro che le massime autorità del
legislativo non si sentano di avallare l’operato di questo presidente» conclude
Mortimé.

Rispunta Duvalier

Ma Martelly non ci fa caso. Anzi. Le sue frequentazioni sono di
altro tipo. Jean-Claude Duvalier, il sanguinario dittatore (1971-86) rientrato
ad Haiti nel gennaio 2011 dopo 25 anni di esilio dorato e sotto processo per
crimini contro l’umanità, compare spesso a fianco del presidente nelle
cerimonie ufficiali. «Il ritorno alla dittatura duvalierista è chiaro anche
nelle apparenze» continua Dominique: «Il 12 gennaio 2012 all’inaugurazione
dell’Università a Limonade, nel Nord, a fianco di Martelly, erano presenti Bill
Clinton e Jean-Claude Duvalier». «Sì, è una frequentazione sistematica –
conferma Antonal Mortimé – ma non basta. Martelly ha restituito a Duvalier i
beni acquisiti illegalmente che gli erano stati confiscati dallo stato dopo la
sua fuga da Haiti (7 febbraio 1986, ndr). Inoltre ha ripristinato per Jean-Claude tutti i privilegi che
spettano agli ex presidenti. E, peggio ancora, il figlio Nicolas Duvalier è
consigliere politico di Michel Martelly».

Accusato di arresti arbitrari, torture, assassini politici, il «dossier
in giustizia» di Duvalier è bloccato alla Corte d’appello, e l’ex dittatore
vive tranquillo, nella più totale impunità, mentre vittime e famigliari riuniti
in un collettivo, portano avanti la lotta per vederlo condannato, appoggiate da
Amnesty Inteational, Human rights watch e la Federazione
internazionale per i diritti umani (Fidh).

Retromarcia sui diritti

Oltre al blocco politico e istituzionale l’altro dato preoccupante
è quello sulle violazioni dei diritti umani1. «Assistiamo ad arresti totalmente
illegali: un deputato, così come alcuni avvocati. Mentre un giudice che doveva
giudicare una procedura, recentemente ha attaccato il presidente in giustizia
ed è stato trovato morto» continua Didier Dominique.

Racconta Mortimé: «Nei due anni e otto mesi di presidenza Martelly
registriamo una regressione in termini di protezione e promozione delle libertà
individuali, e questo si manifesta in diversi modi, come minacce e aggressioni
a media indipendenti e giornalisti. La guardia di sicurezza ravvicinata del
presidente ha aggredito dei giornalisti nel Sud Ovest, e anche a Mirbalais nel
Plateau Central, a Port-au-Prince». Recente è il pestaggio di un giornalista
della radio Kiskeya e di una collega di radio Express2. I colpevoli
restano impuniti. Il presidente ha dichiarato più volte che i media fanno delle
cose inammissibili per fare spettacolo. «C’è inoltre una repressione
sistematica e sproporzionata contro le manifestazioni di oppositori politici e
contro membri dei movimenti sociali haitiani». Manifestanti che rivendicano
acqua potabile, igiene, educazione e altri diritti di base, oppure la
trasparenza nella gestione dei fondi pubblici. «Ad esempio il 18 novembre ci
sono stati 50 arresti nel Nord del paese, 5 arresti in capitale e diversi feriti».

Una forza d’occupazione

Continua Mortimé: «Ho visto soldati della Minustah (caschi blu
dell’Onu, ndr), a Port-au-Prince che appoggiavano la polizia nella repressione
di diverse migliaia di persone scese in strada. Questo succede anche nelle città
di provincia, Les Cayes, Jacmel, Cap Haitien, Petit Goave. Ma talvolta è la
Minustah stessa a reprimere i manifestanti».

Presenti nel paese dal 2004 i caschi blu dell’Onu hanno una
presenza massiccia e ben armata, e sono sotto comando brasiliano. I soldati
della Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti (Minustah)
si sono più volte macchiati di violazioni di diritti umani: «Violazione del
diritto all’integrità fisica, violazione del diritto di manifestare e
protestare. L’ultima violazione è stata lo stupro di un minore nella regione di
Léogane, da parte di soldati nepalesi», ricorda il segretario esecutivo della
Pohdh.

«A livello di diritti umani la presenza
della Minustah è una violazione del diritto all’autodeterminazione e alla sovranità
del popolo. La classe politica (di opposizione, ndr) e i media la chiamano forza di occupazione straniera e a livello di
masse popolari la gente cambia il nome in “Turistah”, ovvero turisti in armi».

Didier Dominique spiega: «Un’altra causa di
tensione sono i militari della Minustah. Forza sovra dimensionata, con
elicotteri e armi pesanti, superiore a quanto sia mai stato l’esercito haitiano
o attualmente sia la polizia. E agiscono in modo sproporzionato contro i
manifestanti, con una repressione estrema. Martelly ha chiaramente detto che le
forze dell’Onu sono il suo esercito, la sua protezione militare».

Il mandato della Minustah è stato rinnovato – come ogni anno – il
15 ottobre scorso per ulteriori 12 mesi. Ma il presidente uruguaiano, José
Mujica, sotto la pressione del suo parlamento, è intenzionato a ritirare le
truppe dal contingente se «il presidente Martelly non dimostrerà di operare per
la democrazia in Haiti». E il 31 ottobre scorso gli ha dato un ultimatum di 90
giorni. Il Brasile e l’Argentina andrebbero nella stessa direzione.

Esercito o gruppi armati?

Haiti è uno dei rari paesi al mondo senza esercito, abolito dal
presidente Aristide nel 1994 dopo il suo rientro dall’esilio. Ma Martelly fin
dai primi mesi del suo mandato, ha presentato un progetto per creae uno
nuovo. Oggi ufficialmente il progetto è abbandonato, ma ufficiosamente sembra
di no. Osserva Antonal Mortimé: «A più riprese sono spuntati gruppi armati che
si dicono ex militari, anche se vi partecipano pure dei giovani. Parlano alla
radio che si mostrano in allenamento. Nel Sud c’è un gruppo che si chiama
“repolice”, per opposizione alla polizia, sono un gruppo armato nel quale ci
sono degli ex militari. La gente del Sud, in particolare a Les Cayes, ha
denunciato il supporto del governo a questi gruppi armati paramilitari. Inoltre
il governo ha mandato in Ecuador 41 giovani per formazioni in diverse
discipline, che sono stati di fatto formati in caserma. Ora sono rientrati ad
Haiti ma non integrano la polizia. Ci chiediamo se sono gli ufficiali di un
nuovo esercito.

Senza contare che diversi posti strategici a livello politico e
nell’amministrazione pubblica sono occupati da ex ufficiali dell’esercito: il
ministero della Difesa, quello
dell’Inteo e il servizio Immigrazione. L’importante ministero della Giustizia
è diretto da un ex militare che viola sistematicamente la legge sulla polizia
nazionale, sullo statuto dei magistrati, sull’indipendenza della magistratura e
del Consiglio superiore della magistratura».

Haiti e gli «amici» Clinton

Ma perché ad Haiti la ricostruzione non ha funzionato, e chi tira
le fila?

«Martelly è l’esecutore di un progetto imperialista, che dopo aver
distrutto l’economia haitiana, punta a fare del paese un serbatornio di mano
d’opera a bassissimo costo» si scalda Didier Dominique.

«Il piano Usa è quello di creare ad Haiti delle “zone franche”
industriali per il tessile da un lato e delle aree di latifondo per l’agro
industria, per produrre soia, bioetanolo, banane dall’altro. Secondo la loro
ripartizione internazionale, il lavoro – mano d’opera a buon mercato – deve
foirlo Haiti. Ma questo è un piano estremamente esplosivo, perché sfrutta le
popolazioni, utilizza il lavoratore haitiano pagandolo 2-2,5 dollari al giorno.
Cifra con cui non può vivere. Si tratta di una situazione estrema a livello
economico».

Il sindacalista parla del «Piano Clinton», ovvero il piano che
Bill Clinton ha in serbo da anni per il piccolo paese caraibico: creare 40 zone
franche per l’industria manifatturiera tessile in tutto il paese. A parte il
vecchio Parc Industriel, nei pressi
dell’aeroporto (vedi foto), altre cinque sono in costruzione nella capitale. E
ancora in una zona Nord di Port-au-Prince, dove sono stati evacuati i
terremotati e si sono formati sterminati agglomerati di casupole e baracche
senza servizi, come il camp Corail. La zona franca sarà costruita proprio nei
pressi della «manodopera». Altre saranno realizzate lungo la frontiera – come
quella di Ouanaminthe dove la forza lavoro arriva da Haiti e i prodotti finiti
partono in Repubblica Dominicana – e nelle città costiere. Ogni zona franca è
composta da 30-40 fabbriche tessili, con 30.000 operai ognuna.

E tutto con i soldi della ricostruzione: il parco industriale di
Caracol, è stato l’unico grande progetto della Cirh (Commissione ad interim
per la ricostruzione di Haiti), istituzione che ha veicolato i fondi dei
governi donatori, presieduta dallo stesso Bill Clinton, che ritroviamo a fianco
della moglie Hillary – segretario di Stato Usa – all’inaugurazione dell’opera3. Notare che Caracol è nel Nord
quindi non in zona terremotata. «Clinton utilizza i fondi della ricostruzione
per portare avanti il suo piano». Continua Dominique.

«Tendenza schiavitù»

«Il piano è chiaro e si basa sul salario minimo che gli operai del
tessile dovrebbero avere. Secondo il codice del lavoro, articolo 137, il
salario minimo deve essere aggiornato ogni anno secondo l’inflazione, che
talvolta raggiunge il 100% annuo. Ma ad Haiti, sono passati cinque anni e il
salario è rimasto lo stesso.

Nel 2009 abbiamo fatto una grande lotta per avere 200 gourd al giorno (circa 5 dollari Usa, ndr), ma abbiamo ottenuto solo 125 gourd. Notare che il ministero degli
Affari sociali, che regola questi aspetti ha detto che ne occorrerebbero 300
per far vivere un operaio. Ecco l’aspetto criminale di questo governo».  Poi c’è stato il terremoto e la questione è
passata in secondo piano, per le autorità.

«Oggi c’è una nuova lotta sul salario minimo. Il governo ha
nominato una Commissione superiore del salario in risposta a una serie di
mobilitazioni che abbiamo fatto dal 2009 a oggi.

È una commissione tripartita, dove sono rappresentati il governo,
il padronato e i lavoratori attraverso i sindacati. Ma patronato e governo sono
d’accordo».

Batay Ouvriye organizza comunicati stampa, dibattiti,
mobilitazioni nelle varie zone sensibili, come a Ouanaminthe (frontiera Nord),
a Caracol, a Port-au-Prince.

Il sindacato chiede un salario minimo di 500 gourd (12,5
dollari) con delle misure di compensazione da parte del governo: trasporto,
cure di base (un dispensario presente in ogni parco industriale), una mensa con
un contributo per il cibo e la pensione per i lavoratori. Attualmente tutto
questo non esiste. Chiede anche rispetto per chi è iscritto alle organizzazioni
sindacali.

Il patronato invece punta a fermarsi alla metà e senza alcuna
misura di compensazione. 

Le principali marche che passano gli ordini per fabbricare
manufatti tessili ad Haiti sono statunitensi: Gildan, Levi’s, Hanes, Gap,
Wallmart. In passato vi era anche la Disney che in seguito a una campagna
internazionale di boicottaggio lasciò il paese.

«Il prezzo del lavoro dell’operaio, chiamato il paniere
famigliare, e trattato come una qualsiasi merce nel sistema capitalista, è
quello che deve garantire che possa vivere lui e la sua famiglia. Per il
patronato il salario deve permettere di essere competitivi a livello
internazionale, per questo va messo al ribasso. Io la chiamo “tendenza schiavitù”.
Ovvero, se avessero degli schiavi sarebbero estremamente competitivi. Questo
non è accettabile: il salario deve permettere la vita dell’operaio. Il livello
paniere famigliare, che è comunque dello sfruttamento, almeno permetterebbe
all’operaio di sopravvivere.

Sul mercato internazionale Haiti ha un grande vantaggio per gli
industriali: ha il costo della mano d’opera più basso delle Americhe e uno
delle tre minori al mondo, insieme a Sri Lanka e Bangladesh. La questione del
salario è mondiale e ad Haiti è un caso estremo».

Terra da esportazione

Poi c’è il piano per lo sviluppo dell’agro industria, che è ancora
in preparazione e i cui contorni non sono chiari. Esistono diversi progetti che
puntano alla produzione industriale di prodotti da esportazione, tra cui il
biocarburante. Per questo motivo parlamentari e gente vicina al governo sta
acquistando terre nelle zone sensibili, per rivenderle poi ai progetti di agro
industria oppure entrare a fae parte. I piccoli contadini sono espropriati
e  il piano è di creare operai agricoli
sottopagati.

Il terzo punto del governo per lo «sviluppo» di Haiti è il turismo
di alta gamma, e per questo hanno già costruito due hotel di lusso a
Petion-Ville (come l’Hotel Oasis) e un altro è in costruzione a Port-au-Prince.

«Nel suo insieme si tratta di un piano di dominazione e
sfruttamento economico sotto vari aspetti: salario minimo molto basso,
accaparramento di terre, proletarizzazione dei piccoli contadini, spostamento
di popolazione, speculazione fondiaria.

Ma c’è una ripercussione anche sulla politica: è un processo
imperialista che non ammette dibattiti alla camera, elezioni dei sindaci, delle
comunità territoriali, perché questo creerebbe un momentum democratico che questo progetto non
può supportare. Nella realtà questo piano necessita da un lato di
un’occupazione militare da parte di un esercito molto forte, che è la Minustha,
e dall’altro di un blocco del processo democratico con la formazione di
istituzioni, che era in costruzione da alcuni anni. In altri termini tutti gli
organi legislativi, giudiziari, il Consiglio superiore della magistratura,
devono essere controllate dall’esecutivo. Ed è quello che succede.

Ecco che il livello economico e quello politico sono estremamente
legati. E a essi si intreccia di conseguenza la situazione sociale, ormai
esplosiva. Ecco il perché di tutte queste manifestazioni a carattere politico:
vogliono cacciare Martelly, perché con lui non si potrà andare avanti nel
processo democratico e istituzionale. Mentre sale il costo della vita, i
trasporti sono sempre più cari e gli operai generalmente non mangiano a metà
giornata, altrimenti non portano niente a casa».

Il detonatore sociale

Se si legge nella chiave dei diritti umani: «In un paese in
estrema povertà, non possiamo parlare del godimento dei diritti socio economici
e culturali, come educazione, salute, alloggio, alimentazione, sicurezza
sociale. L’estrema povertà essa stessa è una violazione flagrante dei diritti
umani, non è garantito il diritto a un livello di vita sufficiente». Conferma
Antonal Mortimé. «Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale dicono che ad
Haiti il 70% della popolazione vive in povertà estrema, sotto la soglia di un
dollaro al giorno. Io penso che in realtà siano di più. Le persone che lavorano
sfruttate nelle fabbriche sono meno del 30% della popolazione. Non possiamo
parlare di diritto al lavoro.

La possibilità dell’escalation di violenza è alle porte. Esistono
già conflitti armati che fanno morti. Come nella città di Petit Goave, o a Cité
Soleil, grande bidonville di Port-au-Prince. Zone che il governo non
controlla totalmente».

Il fenomeno delle manifestazioni represse con vittime, morti,
arresti arbitrari, è in aumento. Sia come numero di manifestazioni che di
partecipanti: «C’è il rischio di sollevamenti popolari, ma anche di ribellioni
armate. Quello che stiamo vivendo è simile a quanto successe negli anni
2002-2003».

Marco Bello
 
Note
 

1 – Etat de lieux sur la situation des droits humains en Haiti
2011-2013
, Pohdh, www.pohdh.org.
2 – Alterpresse, 12 novembre 2013.
3 – La perla perduta, MC gen-feb 2013.
4 – Haiti, entre colonisation dette et domination, S.
Perchellet, Papda 2010.
5 – Refonder Haiti?, P. Buteau, R. Saint-Éloi, L. Trouillot, Mémoire
d’Encrier, 2010.

Thony
Belizaire, il fotogiornalista
haitiano dell’AFP che firma le due foto pubblicate a pag. 24 è morto il 21
luglio scorso a causa di un tumore alle vie orali a 54 anni. Rendiamo omaggio a
«Tobel», conosciuto e incontrato tante volte sulle difficili strade di
Port-au-Prince. Sempre con una macchina fotografica in mano.

 
I Clinton e Haiti

William Jefferson Clinton diventa
presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 1993 (rimarrà in carica fino al
2001). In quell’epoca il presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide è in esilio
a Washington ed è vicino agli ambienti democratici. Nell’ottobre 1994 Clinton
lancia l’operazione «Restore democracy» e invade Haiti con 20.000 marines: riporta Aristide al potere. Il
presidente haitiano è però costretto ad accettare tutti i diktat dei Piani di
aggiustamento strutturale. Clinton impone ad Aristide il famigerato programma
del Fondo monetario internazionale (Fmi) con il quale i dazi doganali di riso e
mais sono minimizzati. Quelli del riso passano dal 35% al 3%. Il riso americano,
sovvenzionato, costa meno di quello haitiano e invade il mercato interno. È la
fine dell’economia agricola haitiana e la fame per centinaia di migliaia di
produttori che si riversano in città. Haiti
importa il 75% del cibo che consuma.

Nel 2009 Bill Clinton viene nominato inviato speciale
dell’Onu per Haiti. Il 10 marzo 2010, in commissione esteri del Senato Usa, fa mea
culpa
: «Può essere stato positivo per i miei agricoltori in Arkansas, ma
non ha funzionato, è stato un errore. Io, nessun altro, vivo ogni giorno con la
colpa della perdita di capacità di produrre riso in Haiti per sfamare quella
gente, a causa di quello che ho fatto»5.

Dopo il terremoto del 2010, insieme a George Bush,
costituisce il Fondo Clinton Bush per Haiti. Dal giugno 2010 è alla
testa della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh)
che gestisce, senza alcun controllo, i 10 miliardi di dollari promessi per la
ricostruzione. Hillary e Bill Clinton inaugurano la zona franca di Caracol
nell’ottobre 2012.

Marco Bello

Marco Bello




Mandela: Tra i grandi della terra

Nelson Mandela: lotta armata e riconciliazione.


Nelson Mandela, ci ha lasciati il 5 dicembre 2013, all’età
di 95 anni. La sua lunga malattia aveva tenuto il mondo col fiato sospeso per
mesi. Dagli studi da avvocato alla rivolta armata, fino alla creazione di una nazione unita, un ritratto
inedito secondo padre Pearson, incaricato del collegamento tra i Vescovi
cattolici e il Parlamento sudafricano.

Nelson Mandela è
probabilmente stato una delle più importanti icone politiche del nostro secolo.
Egli è stato per il Sudafrica quello che Winston Churcill era stato per la Gran
Bretagna durante la seconda guerra mondiale, o il Mahatma Gandhi per le masse
di indiani del subcontinente o Martin Luther King per i discendenti degli
schiavi africani nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America. Sono tutti
leader, questi, che hanno mostrato coraggio, e sono degli importanti
riferimenti ancora oggi perché hanno indicato una direzione in alcuni dei più
bui e brutali periodi della storia dei loro paesi. Leader la cui leadership si è estesa ben oltre il loro contesto immediato e il loro tempo per
diventare parte nobile dell’umanità.

La
statura di Mandela è dimostrata dal fatto che gente di ogni schieramento
ideologico in Sudafrica è d’accordo nel sostenere che egli ha rappresentato ciò
che di più nobile c’è nelle aspirazioni del paese. Un altro segno di quanto il
mondo sia stato legato a quest’uomo è l’enorme quantità di libri e articoli
scritti su di lui, e i luoghi a lui intitolati in ogni paese.

Mandela
è stato visto come simbolo di riconciliazione, perdono, coraggio, saggezza e
giustizia. Valori veri di cui si ha bisogno nella maggior parte del mondo. Il
tratto che probabilmente, sopra a tutti gli altri, ha reso la sua vita così
affascinante è stato la sua capacità di incarnare con potenza quello che la
gente comune desiderava in risposta al deficit morale presente in molti aspetti
della politica e del mondo.

Il
suo sorriso sempre pronto e la sua cortesia vecchio stile hanno fatto di lui un
custode naturale di questi valori. In un mondo ossessionato dall’ego e dalla
magnificazione personale, il suo sacrificio di 27 anni passati in prigione, il
suo rifiuto di vedersi come l’eroe generale della rivoluzione sudafricana, e la
sua coscienza di essere stato uno dei tanti che hanno giocato un ruolo nel
lungo processo della libertà politica, sono sicuramente un raro esempio di
umiltà nell’ambiente politico. Questo è ancora più vero in un’epoca segnata
dalla corsa spietata all’auto promozione e all’affermazione radicale di sé. In
questo modo egli è stato, e continua a essere, visto come un profeta nello
stile di quelli biblici.

Fine stratega

Una delle abilità raramente riconosciute di
Mandela è il suo essere stato un potente stratega: lungo tutto il percorso
della sua vita, ha preso decisioni strategiche basate su quello che sentiva
potesse meglio servire il popolo oppresso del Sudafrica. Ma capì, e sviluppò in
diverse occasioni, la convinzione che la sua azione dovesse essere anche
orientata verso chi beneficiava dell’oppressione degli altri. La liberazione
era per lui indivisibile!

Da giovane prese la decisione cosciente di entrare nella
professione di giurista, sperando, in un paese nel quale sistematicamente si
sovvertivano i valori di giustizia e correttezza, di poter usare le sue
competenze per «portare avanti la lotta anche nella fortezza del nemico». Una
visione e un impegno a favore non solo della ricerca delle migliori vie per un
risarcimento storico, ma anche di un rinnovamento della disciplina giuridica in
un’epoca in cui i successi accademici per i neri erano molto difficili da
ottenere.

Anni dopo, esauriti tutti i mezzi pacifici per l’acquisto della
libertà per gli oppressi, ispirandosi ad altri movimenti di liberazione dal
colonialismo nel mondo, con un gruppo di colleghi formò l’ala militare
dell’African National Congress (Anc), allo scopo di usare atti di
violenza, simbolici e selezionati, contro installazioni dello stato. Mandela,
nel suo discorso dal banco del processo per tradimento, ricordò alla corte che
ogni mezzo di protesta pacifica era stato tentato e lo stato era diventato
sempre più violento nella sua repressione. Da un punto di vista strategico, una
più dinamica forma di resistenza era diventata necessaria. Fece allora il
famoso commento: «Il momento viene nella vita di ogni nazione in cui rimangono
solo due scelte: sottomettersi o combattere. Quel momento è ora arrivato in
Sudafrica. Noi non dovremmo sottometterci e non abbiamo scelta se non
rispondere con ogni mezzo in nostro potere in difesa della nostra gente, del
nostro futuro, della nostra libertà».

Riconciliazione

Più tardi, quando il movimento di liberazione andò al governo del
paese, Mandela prese l’impegno strategico e di principio di cercare la via
della riconciliazione. Già dalla prigione, prima di essere rilasciato, in
alcune sue note portate illegalmente fuori dalla cella, trasmetteva la chiamata
a prepararsi per un tempo di riconciliazione attraverso il perdono. La
citazione seguente è il tipico mantra politico che lui ha inculcato nella gente
attraverso tutto il paese: «Noi dobbiamo agire insieme come un popolo unito,
per la riconciliazione nazionale, la costruzione nazionale e la nascita di un
nuovo mondo. Che sia giustizia per tutti. Che sia pace per tutti».

Sostenendo questo Mandela creò i presupposti per prevenire ciò che
avrebbe potuto facilmente diventare un bagno di sangue. È stata la sua
insistenza tranquilla sulla persuasione, piuttosto che sulla coercizione, che
ha dato al Sudafrica le fondamenta non razziste sulle quali costruire il paese.
Il sogno non razzista è ancora lontano da essere realizzato ma almeno ha un
terreno condiviso, un consenso di base, una narrativa comune che indica la
direzione futura del paese.

Legata a questo c’è sempre stata in lui la qualità accattivante di
non mostrarsi come uno che aveva tutte le risposte alle domande e alle
posizioni ideologiche, ma piuttosto come qualcuno che era abituato, nel
linguaggio del poeta Rilke, a «vivere con le domande». In una società dominata
da una continua ricerca di risposte istantanee e da soluzioni spesso imposte da
chi ha la voce più forte, Mandela, tranquillo e riflessivo, ha cercato risposte
che potessero essere condivise dal maggior numero di attori, offrendo una forma
di leadership unica al mondo.

Mandela capì che dopo secoli d’ingiustizia razziale e terribile
oppressione, lasciare spazio al desiderio di vendetta ovvio in molte zone del
paese sarebbe stato disastroso, e così decise di lanciare una chiamata per la
riconciliazione e la costruzione della nazione.

La sua chiara comprensione fu che una lotta senza fine agli errori
del passato avrebbe portato meno risultati che un impegno a realizzare
giustizia in tutte le sfere: politica, economica e culturale. Ma capì pure che,
mentre bisognava evitare che il futuro fosse influenzato solo dal passato, si
sarebbe dovuta coltivare la memoria di quanto successo. E andò oltre,
istituendo la Commissione Verità e Riconciliazione per assicurare alla nazione
che non si sarebbe più tornati a ripetere i gravi errori del passato.

L’impegno continua

Una volta ritirato dalla vita politica, Mandela ha continuato a
spendere se stesso nel lavoro di riconciliazione, specialmente nel tentativo di
costruire una vita migliore per i bambini attraverso la sua Fondazione, la Nelson Mandela Children’s fund. Capì che dopo
aver vinto la libertà politica, occorreva dare contenuto a questa vittoria.
Egli vide inoltre che essa andava orientata a coloro che restavano i più
vulnerabili nella società, ovvero i bambini del paese. Anche nel periodo in cui
fu presidente, il compito di costruire scuole, in particolare in aree rurali,
fu una priorità nazionale. Di Nelson Mandela si può dire che sia stato un buon
interprete dei segni dei tempi.

Riconosciuto come «grande stratega», ciò che lo ha portato a
essere così popolare è stato il suo grande cuore, il suo amore appassionato per
la gente e un profondo senso dell’etica del servizio.

Mentre è stato restio a esprimere punti di vista religiosi e
preferenze confessionali in pubblico, le qualità personali appena descritte e
il suo impegno incrollabile per le chiese hanno creato un linguaggio condiviso
con la comunità religiosa. È stato certamente un linguaggio basato sui valori.

Ci sono stati anche meravigliosi e toccanti momenti in cui la sua
affinità con la comunità della fede è stata pubblicamente evidente.

Se incontravi Nelson Mandela ed eri vestito con l’abito da
sacerdote, egli inevitabilmente parlava chiaro e forte del suo rispetto per la
Chiesa, di quanto questa gli aveva dato nei suoi primi anni di formazione e
come, se non fosse stato per essa, lui e molti della sua generazione non
sarebbero arrivati dove sono arrivati. È stato generoso nel suo atto di
riconoscimento del ruolo della Chiesa nella lotta contro l’apartheid.

Una delle sue caratteristiche è stata quella di non dimenticare
mai una gentilezza personale ricevuta, e di ricordare la generosità degli
altri. Abbiamo visto questo quando visitò l’Irlanda. Nel mezzo di una visita di
stato sovraccarica chiese informazioni dell’ex cappellano di Robben Island (la
prigione di Mandela, ndr), padre Brendan Long, che era in ospedale, e parlò con lui al
telefono. Ricordò la vita in carcere e ringraziò padre Long per i suoi anni di
servizio, la sua gentilezza e generosità. Anni che marcarono indelebilmente lo
spirito del presidente che continuava a essere riconoscente a un umile
cappellano di prigione.

Sembra quasi una fiaba: un prigioniero uscito dopo 27 anni di
incarcerazione era diventato presidente.

E se questa storia contiene l’eco di un sogno, se ha gli elementi
di una fiaba, certo è importante ricordare che c’è chi ha lavorato per
realizzare questo sogno e lottato per rendere realtà una fiaba. Questa è
un’altra lezione di Nelson Mandela, quella di non abbandonare i propri sogni,
perché essi possono essere raggiunti e diventare, in un modo misterioso, la
storia, i mattoni di un nuovo mondo.

Peter-John Pearson*

*
Direttore del Southe African Catholic Bishops Conference Parliamentary Liason
Office, l’ufficio di collegamento tra Conferenza
Episcopale e Parlamento.

Peter_John Pearson




«Cosa vogliono di più ?»

La questione uigura.


Assieme al Tibet, lo
Xinjiang rimane una spina nel fianco di Pechino. Come conferma anche il
misterioso attentato avvenuto in piazza Tiananmen nell’ottobre 2013. Il governo
sta investendo molto in terra uigura. Vuole conquistae gli abitanti
rendendoli partecipi del «sogno cinese» (oggi incentrato su qualità, tecnologia
e istruzione). Ma forse questo sogno presenta un vizio di fondo: è calato dall’alto.
Prendere o lasciare.

Ping’an Jiating, casa – o anche famiglia – sicura, pacifica. Chissà se anche
quella di Usmen Hasan aveva affisso sulla propria porta l’adesivo rosso che i
comitati di quartiere di Urumqi donano ai nuclei familiari che «si comportano
bene».

Pechino, 28 ottobre 2013

Quando il 28 ottobre una Jeep bianca è andata a schiantarsi sotto
il ritratto di Mao Zedong in piazza Tiananmen, il mondo ha improvvisamente
scoperto lo Xinjiang: l’irrequieto «Far West» della Cina.

Due giorni dopo la folle corsa di quattrocento metri, che si era
lasciata dietro cinque morti (tra cui i presunti attentatori) e quaranta
feriti, le autorità di Pechino hanno messo il sigillo ufficiale sulla «pista
uigura», comunicando i nomi dei tre a bordo dell’auto: proprio lui, Usmen
Hasan, con sua moglie Gulkiz Gini e l’anziana madre Kuwanhan Reyim, tutti
inceneriti nel rogo della Jeep che – secondo la polizia della capitale –
avevano riempito di taniche di benzina, coltelli, spranghe di ferro e una bandiera
«con slogan religiosi».

La famiglia apparteneva all’etnia turcofona e musulmana dello
Xinjiang, gli Uiguri. Discendenti da tribù nomadi provenienti dalle terre che
oggi formano la Mongolia, sospinti a Sud-ovest dalla pressione di altri popoli
delle steppe, loro stessi prodotto del melting
pot asiatico, sono divenuti sedentari nel corso dei secoli
insediandosi nel bacino del Tarim, l’enorme area all’estremo occidente del
Celeste Impero che è oggi regione autonoma. Loro la chiamano «Turkestan
orientale», per la Cina è, appunto, lo Xinjiang. Estranei alla cultura han –
cioè dei cinesi maggioritari, per come li conosciamo noi – rivelano da tempo un
malessere che viene spesso spiegato ricorrendo alle categorie dell’integralismo
religioso o del conflitto etnico. Hanno nomi uiguri anche le cinque persone
(tre uomini e due donne) «collegate con l’attacco terroristico» e arrestate
nelle ore successive allo schianto della Jeep.

Funzionari cinesi hanno in seguito esplicitamente accusato l’Etim,
il «Movimento islamico del Turkestan orientale» (un’organizzazione di cui non
si conosce la reale consistenza), di essere l’ispiratore dell’attentato.

Ma già prima che il problema arrivasse nel cuore simbolico della
Cina, diversi «incidenti» (leggi «scontri tra le forze di sicurezza e Uiguri più
o meno militanti»), avevano lasciato decine di morti e feriti sul suolo dello
stesso Xinjiang. E proprio nel 2013.

La memoria torna quindi alla rivolta di Urumqi del 5 luglio 2009:
197 morti e 1.721 feriti secondo fonti ufficiali. Va detto che finora si è
sempre trattato di scontri a bassa componente militare; truculenti proprio
perché più simili a uno scannatornio realizzato con coltelli, mannaie e spranghe,
che ad attacchi con ampio sostegno di armi da fuoco o esplosivi. Tuttavia, secondo
il governo cinese, gli «incidenti» hanno senz’altro matrice separatista, sono
preorganizzati e collegati alla Jihad globale. Pechino non fornisce molte prove a sostegno di tali
affermazioni, ma c’è consenso tra gli osservatori indipendenti nel ritenere che
alcune frange estreme dell’indipendentismo uiguro cornoperino con altri gruppi
combattenti dell’Asia centrale, trovando spesso riparo nelle aree tribali del
Pakistan nord-occidentale.

Quello di piazza Tian’anmen è stato comunque un gesto eclatante, a
metà tra l’autornimmolazione dei tibetani e l’autobomba dei fondamentalisti
islamici. A Pechino, un’amica han – l’etnia maggioritaria in Cina – dice: «Ho
paura a passare per piazza Tian’anmen». Mentre su Weibo, il più importante social
network
cinese, circolano messaggi di questo tenore: «È la prima volta che
capito così vicino a un attacco terroristico». Oppure: «Possono davvero fare
questo in Tian’anmen? Mi sento improvvisamente angosciato, come si fa a
prevenire questi attacchi in futuro? Ispezioni dei veicoli?». È proprio l’effetto panico voluto da eventuali «terroristi».

Lati oscuri

Restano però parecchi punti oscuri nella versione ufficiale che
diversi media occidentali hanno da subito messo in dubbio, a differenza, va
detto per inciso, di quanto fecero in occasione dell’attacco alle torri gemelle
di New York: spesso per noi è «terrorismo» solo ciò che avviene a Ovest degli
Urali. Comunque sia, si tende a sostenere che, qualsiasi cosa sia accaduta in
piazza Tian’anmen, le sue ragioni vadano ricercate nella dura repressione che
Pechino compie da anni sugli Uiguri. E poi – si dice – possibile che una
famigliola si faccia indisturbata le migliaia di chilometri che separano lo
Xinjiang da piazza Tian’anmen a bordo di una Jeep con targa della propria terra
d’origine? C’è puzza di depistaggio o di strategia della tensione «secondo
caratteristiche cinesi» (a che pro? Non si sa).

Altri osservatori hanno invece ritenuto plausibile l’atto
terroristico «fai da te» compiuto da una famiglia votata al martirio, citando «Inspire»,
il magazine online del jihadismo globale, che nel suo secondo numero mette a disposizione
una semplice guida per trasformare un pick-up in un’arma micidiale (pag. 54): «La location ideale è un luogo dove ci sono il
maggior numero di pedoni e il minor numero di veicoli. In realtà, potreste
scegliere i camminamenti pedonali che esistono in alcuni centri città, il che
sarebbe favoloso». Uno stile vezzoso per la descrizione perfetta di quanto
accaduto in piazza Tian’anmen. Almeno apparentemente.

Fatto sta che il mondo ha scoperto lo Xinjiang attraverso il suo
volto peggiore e la domanda che ricorre è: Al-Qaeda è arrivata in Cina? È in
corso un salto di qualità nelle tensioni che percorrono l’estremo occidente
cinese? La sclerotizzazione del discorso porta inevitabilmente al circolo
vizioso terrorismo-repressione, in una regione che vive già sulla propria pelle
una progressiva, soffocante militarizzazione; in paradossale contrasto con la
totale libertà di movimento e le sempre maggiori aperture di cui beneficiano le
grandi città della Cina orientale. L’attentato ha fatto proprio questo: portare
un po’ di Xinjiang a Pechino. Con il clima che laggiù si respira.

E allora bisogna forse provare a raccontare la complessa realtà di
quella terra, dove siamo stati pochi giorni prima che il denso fumo nero di una
Jeep in fiamme oscurasse il volto di Mao Zedong.

L’idea: tanti progetti, poca politica

Sull’autostrada tra Urumqi e Turpan, il «grande sogno
cinese», slogan lanciato del presidente Xi Jinping, sembra dispiegato in tutta
la sua potenza. In un incredibile paesaggio lunare, le gigantesche turbine eoliche
si susseguono in file parallele per
chilometri e chilometri, come un futuristico esercito di terracotta in marcia
verso l’avvenire. Rappresentano la componente ambientale del «sogno»: costruire
una economia sostenibile. Lo Xinjiang deve diventare, nelle intenzioni di
Pechino, un hub energetico, commerciale, tecnologico, la porta
spalancata sulla modea Via della Seta.

A
Turpan, è in costruzione una «Ecocity» nuova di zecca proprio di fianco alla
preesistente città di 250mila abitanti, già antica oasi che costeggiava il
deserto del Taklamakan.

È un
perfetto esempio di ciò che la leadership
cinese intende per chengzhenhua, la
nuova urbanizzazione «sostenibile» che segnerà il futuro del Dragone. Ma è
anche la metafora che utilizzeremo per descrivere la questione uigura. Che è un
problema di uguaglianza nella diversità, come ci ha spiegato Wang Hui,
intellettuale della «nuova sinistra» cinese: «Da un lato è perfettamente
legittimo voler migliorare la situazione economica, ma attualmente c’è una
crisi ecologica che va di pari passo con una crisi culturale, perché lo stile
di vita di quella gente sta cambiando, e così abbiamo i conflitti in Xinjiang e
Tibet». Si tratta dunque di «rispettare la singolarità, la diversità, le
differenze senza rifiutare l’idea di base di uguaglianza», continua il
professore dell’Università dello Xinjiang. Toiamo alla ecocity di
Turpan. I pannelli solari sovrastano centinaia di villette a schiera già
costruite, mentre le strutture dei futuri palazzi governativi sono già ben visibili.
Questa città sostenibile occuperà una superficie di 8,8 chilometri quadrati,
darà alloggio a circa 60mila persone e sarà completata entro il 2020. C’è da
crederci.

«Verrà
alimentata da pompe geotermiche e pannelli solari – ci dice un ingegnere uiguro
coinvolto nel progetto – è previsto il trasporto pubblico esclusivamente
elettrico, mentre gli autoveicoli privati saranno deviati in grandi parcheggi».
Eppure il «sogno» non è per tutti.

C’è,
per esempio, la piccola storia di un giovane ingegnere civile e project
manager, che ci è stata raccontata da fonti che preferiscono mantenere
l’anonimato. Di etnia uigura, appena laureato, qualche anno fa fece domanda per
un buon lavoro in una compagnia di stato a Urumqi, casa sua. Ma fu respinto,
perché, gli disse il responsabile delle risorse umane, non avevano in programma
di assumere uiguri. Il giovane se ne andò quindi a Pechino, dove trovò lavoro
in una delle più grandi società di ingegneria della Cina. Ironia della sorte,
fu successivamente inviato a Urumqi per un grande progetto e, una volta lì,
incontrò lo stesso funzionario che l’aveva respinto diversi anni prima. Durante
una cena formale con il gruppo di Pechino, tra cui il giovane ingegnere, il
funzionario locale chiese: «Perché i giovani di talento dello Xinjiang non
contribuiscono mai allo sviluppo della propria terra?».

È una
storia comune in questa enorme fetta di Cina che è già Asia Centrale oppure si
tratta di casi isolati, semplicemente di ragazzi sfortunati? Raccontando queste
storie a conoscenti han, ci si sente rispondere: «L’esempio di un ufficiale
incapace non fa testo, e tieni presente che la maggior parte dei funzionari,
nello Xinjiang, è non-han. Anzi, il fatto che ci siano Uiguri istruiti e che
trovino lavoro dimostra proprio che le politiche di Pechino sono giuste. Il
governo tutela giustamente le minoranze, proprio perché altrimenti le
schiacceremmo numericamente. Così, per esempio, gli Uiguri possono, a
differenza nostra, avere più figli, sottraendosi al “controllo delle nascite”
(politica in via di riformulazione dal novembre 2013, ndr).
Inoltre hanno la libertà di festeggiare le proprie ricorrenze religiose. Cosa
vogliono di più?».

Saranno
dunque i nuovi grandi progetti energetici, tecnologici, le «grandi opere»
secondo caratteristiche cinesi (che qui sono grandi davvero) e l’apertura
all’Asia Centrale a guidare il popolo dello Xinjiang verso un futuro di
opportunità, verso il sogno cinese? Non è facile rispondere.

Hesmat
(nome fittizio), un altro architetto uiguro che se ne è andato dalla sua terra
ma che un giorno vorrebbe tornarci, la vede così: «C’è il rischio enorme che
questo sia un mianzi gongcheng – un
progetto «della faccia» (di facciata, diremmo noi) – mentre una crescita
sostenibile dello Xinjiang significa recuperare e ristrutturare le vecchie città,
dare opportunità alla popolazione locale. Questo deve venire prima o in
parallelo alla costruzione di nuove grandi opere. Ma non se ne vede l’ombra».

Per
molti Han, invece, gli Uiguri non fanno che lamentarsi e il problema, se mai, è
di educazione. «Le difficoltà sono date dalla disparità tra la modea Urumqi e
la parte sud dello Xinjiang che resta arretrata – ci dice un businessman che
opera tra la Cina e il Canada – ma mano a mano sarà risolta grazie allo
sviluppo, ai gasdotti e agli oleodotti, che porteranno soldi anche lì.
Tuttavia, per ora il processo è ancora lento. Per esempio, i testi scolastici
in uiguro arrivano solo fino alle scuole elementari. Così i separatisti si
fanno strada con i loro sermoni».

Quello
della lingua è un bel problema. Da una parte, dato che tutta l’economia della
madrepatria ruota attorno agli affari in lingua cinese, le autorità sostengono
che le minoranze devono prima e soprattutto imparare il mandarino, se vogliono
trovare il proprio posto nel mercato del lavoro. D’altra parte, molti Uiguri
trovano umiliante vedere la propria lingua relegata al ruolo di dialetto
locale, con il rischio che scompaia nel giro di qualche generazione.

Ed ecco un’altra storia che ci ha raccontato Hesmat. «Cinque anni
fa, una giovane donna uigura mia amica ha concluso un dottorato di ricerca in
fisica teorica presso una prestigiosa università giapponese. Tuttavia, le è
stato in seguito negato un lavoro all’Università dello Xinjiang perché avrebbe
dovuto passare l’Hsk (Hanyu Shuiping Kaoshi, l’esame di competenza linguistica certificata in mandarino),
anche se in realtà lei è ufficialmente cittadina cinese e parla perfettamente
la lingua. Delusa e mortificata, se ne è andata a Guangzhou, dove ha iniziato a
vendere vestiti a buon mercato. Ora è milionaria, ma non restituisce nulla del
proprio talento alla sua terra».

Il modello è questo

Il problema è così sintetizzabile: la Cina funziona da sempre per
progetti che piovono dall’alto, sulla base di un modello di sviluppo che appare
vincente. Oggi, stiamo assistendo alla transizione dal vecchio modello Deng –
basato sulle manifatture votate all’export – a quello che l’attuale leadership vuole imporre: più qualità, più tecnologia, più istruzione. Il
sorgere di decine di nuove città «tecnologiche» in tutta la Cina corrisponde a
questo grande sforzo. Lì, dovranno inurbarsi i contadini che sono rimasti
ancora indietro sulla scala del progresso, per evitare che migrino
disordinatamente come è successo finora, intasando le megalopoli già sature. Ma
è comunque un modello dall’alto in basso: può adattarsi alla diversità dei
luoghi e delle genti, in una Cina sempre più complessa e percorsa da culture
così distanti tra loro?

Secondo il businessman han «è sempre meglio provarci che lasciare tutto così com’è. Il
governo cerca di educare questa gente – aggiunge – ma i vecchi non ne vogliono
sapere; anche i funzionari uiguri ci provano, ma non è facile, quelli non
vogliono stare al passo con il mondo».

E poi c’è l’inevitabile stoccata a chi eserciti qualsivoglia
critica: «Voi occidentali non prendete mai in considerazione le enormi
difficoltà che si incontrano nel gestire l’immensa popolazione della Cina,
soprattutto dopo l’abietta occupazione coloniale, i massacri giapponesi, la
guerra civile, la guerra di Corea e la follia delle guardie rosse». E così via,
nella riproposizione circolare della storia patria.

Eppure non è solo un problema di vecchi che non ne vogliono
sapere. Ma di scelte fatte oggi, che possono però ipotecare il futuro.

Prendiamo la scarsità d’acqua. In questa terra desertica, l’uomo
ha risolto il problema da tempo immemore con quello stupefacente miracolo di
antica tecnologia che risponde al nome di karez: canali sotterranei che portano l’acqua dai lontani monti
Tianshan sfruttando la pendenza naturale (la depressione di Turpan è il terzo
luogo più basso della terra). Ma questo delicato ecosistema saprà sopportare
l’impatto di una nuova città da 60mila abitanti?

Secondo l’ingegnere uiguro, la città di nuova costruzione «è
progettata per funzionare in modo relativamente indipendente dalla città
esistente e le principali fonti di approvvigionamento idrico saranno diverse».
Tuttavia, «l’acqua potrebbe essere occasionalmente presa dalla riserva della
Valle dell’uva», cioè il bacino idrico che rifornisce la grande area ricoperta
di vigneti, che rende Turfan una delle capitali cinesi della frutta.

La nuova ecocity risolverà i problemi o ne creerà di nuovi? Che futuro avrà la
Valle dell’uva, elemento imprescindibile non solo per l’economia, ma anche per
la civiltà di questa zona? Una voce si rincorre incontrollata: «Il governo
prevede di trasformare la Valle in un enorme scenic spot per turisti – ci dice un uiguro la
cui famiglia ha una fattoria proprio lì – gli attuali residenti saranno
incoraggiati a lasciare le proprie case per andare nella nuova città». Leggende metropolitane? Forse, ma oltre a far
crescere la diffidenza nei confronti di Pechino, la voce crea già effetti molto
materiali: «Un giorno, vorrei tornare in questa fattoria e continuare il lavoro
di mio padre e di mio nonno – ci dice Tömür (nome fittizio), che fa l’operatore
sociale a Urumqi – ma proprio il mio vecchio non vuole lasciarmela in eredità.
Vuole vendere tutto».

Intoo a noi, i filari delle vigne circondati da alberi di
datteri, l’uva passa esposta a essiccare e il recinto con le tipiche pecore
dello Xinjiang, dotate di quella buffa riserva di grasso sotto la coda che
rende gli spiedini così gustosi.

Non possiamo verificare a oggi se questa grande opera sarà anche
ingegneria sociale oltre che civile, ma c’è da chiedersi se un eventuale
svuotamento della Valle dell’uva per trasferire la popolazione locale nella
nuova ecocity, darà luogo a un melting pot felice o sarà invece una nuova fonte di conflitto.

A ogni modo, è percepibile il rischio che l’ecosistema Xinjiang
possa essere ulteriormente sconvolto da enormi progetti imposti dall’alto per
fare di questa terra un trampolino di lancio per l’Asia centrale.

Sia inteso: lo Xinjiang ha bisogno di progresso. Degli 1,5 milioni
di bambini di strada che percorrono le città cinesi, rubando, prostituendosi,
vivendo alla giornata, si calcola che almeno 100mila siano originari della
grande regione autonoma: sono quasi tutti Uiguri e vengono da famiglie povere.
La loro condizione è resa peggiore dall’essere vittime designate di due
culture: quella musulmana, per cui rubare è peccato; quella han, che li
disprezza rinnovando il mito dell’uiguro-delinquente. Così, quando vengono
raccolti e rispediti a casa nell’ambito dei programmi di recupero del governo,
finiscono spesso per tornare sulla strada in quanto rifiutati dalle loro stesse
famiglie. Emarginati per sempre. C’è bisogno dunque di più ricchezza condivisa
e di sviluppo. Ma qual è, in definitiva, il prezzo del progresso? In un
contesto del genere, l’Islam radicale diventa una strategia di sopravvivenza
molto efficiente e flessibile. Altro che un virus d’importazione. Perché offre
sia una coice morale a chi lotta quotidianamente per una vita migliore e
nutre speranze di successo, sia una zona di comfort a chi è lasciato indietro.

L’architetto Hesmat, che un giorno vorrebbe tornare qui e aprire
un proprio studio, riconosce che «il fondamentalismo si sta allargando».
Qualche tempo fa era un giovane secolarizzato, non immune da qualche serata
alcolica durante i propri anni da studente. Oggi rispetta i dettami del Corano
senza strafare, studia e lavora: «Per sentirmi pulito», spiega. Lui riesce
ancora a mantenere il proprio equilibrio, tenendosi aggrappato al «sogno cinese».

Gabriele Battaglia

Il presidente Xi Jinping


La nuova via della seta 

A settembre, il presidente cinese Xi Jinping ha
completato un tour di dieci giorni in Asia centrale, con tappe in Turkmenistan,
Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan, al G-20 di San Pietroburgo e al summit
della Shanghai Cooperation Organization di Bishkek.

In Turkmenistan, Xi ha inaugurato
un giacimento di gas naturale; in Kazakistan ha promesso 30 miliardi di dollari
in progetti energetici e infrastrutturali. In Uzbekistan e Kirghizistan, ha
fatto promesse simili. In tutti i paesi visitati, il presidente cinese ha
cercato di dare solidità ai rapporti bilaterali: investimenti e sostegno
finanziario che arrivano dal grande portafoglio del Dragone, in cambio di una
sempre maggiore cooperazione sul piano diplomatico, della sicurezza regionale e
delle politiche energetiche.

A novembre 2013 la Cina ha concluso
il terzo Plenum del Partito comunista, decidendo di spingere sull’acceleratore
delle riforme economiche e sociali. Bisogna trasferire ricchezza alle famiglie,
creare il nuovo ceto medio e continuare quindi sulla strada dello «sviluppo
pacifico». Per farlo, sono necessari sia buoni rapporti con i paesi confinanti,
sia una rete efficiente e sicura di rifoimenti energetici.

Così, i flussi transfrontalieri si
intensificano in tutta l’area: ci sono le strade (il corridoio Kashgar-Gwadar,
dalla Cina al Pakistan ma anche un reticolo viario in costruzione più a Nord,
nelle repubbliche centro-asiatiche); c’è la ferrovia (il 17 luglio è stata
inaugurata la linea diretta da Zhengzhou, capitale della provincia dell’Henan,
ad Amburgo); ci sono soprattutto oleodotti e gasdotti, come quello dell’Asia
Centrale, che collega il giacimento turkmeno di Galkynysh allo Xinjiang.

Per dare un’idea dell’importanza
strategica di questa nuova «Via della Seta» multiforme, basti pensare che un
eventuale prolungamento dal porto pakistano di Gwadar allo Xinjiang del
gasdotto Iran-Pakistan – un progetto sempre più probabile – consentirebbe alla
Cina di utilizzare lo scalo sul Mare Arabico per trasportare via terra il
petrolio che arriva dallo stretto di Hormuz, risparmiando così tempo rispetto
alla rotta via mare e guadagnandoci anche in sicurezza (non ci sarebbe più da
pattugliare l’Oceano Indiano).

Ecco quindi l’importanza di quella
che ad Astana, capitale kazaka, Xi Jinping ha definito «cintura economica della
Via della Seta» che, lo sappiamo bene, anche in antichità era più un reticolo
di strade che una sola. Proprio come oggi. E che, proprio come oggi, convergeva
inevitabilmente sullo Xinjiang.

Gabriele
Battaglia


Pechino e la religione


L’Islam degli Uiguri

La popolazione uigura dello
Xinjiang (circa 9 milioni di persone) è in maggioranza musulmana sunnita. Sulle
montagne del Pamir esistono comunità kazake sciite, mentre l’immigrazione han
ha riportato nel territorio il buddhismo, presente anche in un’antichità di cui
resta traccia nelle numerose grotte affrescate.

La
Costituzione cinese garantisce la libertà di religione e, benché laica, non è
necessariamente in contraddizione con i precetti che garantiscono una condotta
islamica (maqasid al-Shariah). Un buon musulmano deve obbedire al
sovrano, anche se questi non professa la stessa fede, e gli sono preclusi atti
di ribellione: tutti precetti che si sposano perfettamente con le politiche e i
codici legali di Pechino. Esplicita è la condanna dell’hiraba, che molti
studiosi associano al terrorismo.

Più
contrastato è il tema del controllo familiare. Nell’applicazione della «legge
del figlio unico» (modificata il 15 novembre 2013, ndr), la Cina si è
dimostrata piuttosto rispettosa dei diritti delle minoranze e le coppie uigure
possono avere due figli se residenti in città e tre se vivono invece nelle aree
rurali. In teoria non è ancora abbastanza per la tradizione delle grandi
famiglie patriarcali locali, ma è un ottimo compromesso. È invece un problema
irrisolto quello dei matrimoni con i cinesi han, legali per lo stato, ma
che per gli Uiguri significano quasi sicuramente interruzione della linea
familiare e religiosa: la cultura della Cina «maggioritaria» è più globalizzata
e accattivante per i giovani figli di coppie miste.

Controverso è
anche il tema dell’educazione all’Islam, visto che la Costituzione cinese
prevede che a nessun cittadino della Repubblica popolare possa essere imposto
un credo religioso prima che diventi maggiorenne, mentre non esistono invece
limitazioni d’età per promuovere l’ateismo.

Suscitano
tensioni le misure di controllo via via più rigide sulle pratiche religiose,
dovute soprattutto al timore di infiltrazione fondamentalista. Tra queste, il
divieto di finanziare direttamente istituzioni religiose, come le moschee.

L’articolo 36
della Costituzione prevede che nessun individuo possa svolgere pratiche «che
nuociono alla salute dei cittadini», scontrandosi così, spesso, con il digiuno
durante il ramadan. Una clausola dello stesso articolo vieta inoltre le
pratiche «che disturbano l’ordine pubblico», lasciando molta discrezionalità ai
funzionari chiamati ad applicarla: può anche significare il divieto di
indossare il velo islamico in pubblico.

Come
dappertutto in Cina, gli Imam sono dipendenti pubblici tenuti a formarsi presso
istituzioni religiose di stato. Per lo Xinjiang, si tratta dell’Istituto per lo
Studio dei testi islamici di Urumqi, dove è obbligatorio seguire anche corsi di
«marxismo e religione» e sul «pensiero di Deng Xiaoping», cosa che spinge
diversi religiosi a formarsi e a operare clandestinamente, svolgendo spesso
anche il ruolo di qadis, giudice islamico: cosa assolutamente
vietata dalle leggi cinesi.

Gabriele
Battaglia

Gabriele Battaglia




S3 – Fragili, spavaldi, irriverenti, creativi

A colloquio con presidi e insegnanti


Oggi la realtà
estea alla scuola è molto più distraente che in passato. Catturare
l’attenzione degli studenti è un’impresa difficile. A ciò vanno aggiunti
genitori troppo spesso presuntuosi e intolleranti nei confronti degli
insegnanti: «Il compito di mia figlia era da 8!».

Arriviamo al Liceo scientifico
Copeico sotto una pioggia incessante. Ad attenderci c’è il preside
dell’Istituto, Carmine Percuoco, al secondo anno di     mandato ma con 40 anni di esperienza come
docente di storia e filosofia e 25 anni di    
insegnamento allo stesso Liceo Copeico. Gli domandiamo una fotografia
del quadro sociale e didattico degli studenti e della scuola: «Se 20 anni fa
entrando in una classe si poteva pensare di ricevere attenzione da 2/3 degli
studenti, oggi gli interessati si riducono a 5 o 6. La realtà estea è molto
più distraente, ci sono tante cose interessanti da fare e da apprendere. La
scuola rimane, tuttavia, fondamentale. Stare in una classe, rapportarsi con un
gruppo di pari, vivere i processi legati all’istruzione sono condizioni uniche
che all’esterno non si possono imparare. Si osserva negli studenti di oggi un
impoverimento del linguaggio, un’incapacità di leggere ad alta voce e di
comprendere il testo. Mancano “abitudini” che, partendo dai primi anni
d’infanzia e dal substrato culturale e familiare di cui si è nutrito il
ragazzo, si trasformino in “attitudini”. Manca inoltre un’ alfabetizzazione
emotiva, cosa di cui gli studenti hanno un gran bisogno, ma che si scontra con
un limite storico di pregiudizio nei confronti di tutto ciò che riguarda la
psiche».

Spesso si parla di intercultura
nelle scuole primarie. Cosa accade invece negli anni delle superiori? «I primi
ragazzi che arrivavano dalla Romania avevano una resistenza e una caparbietà
incredibile che, nel giro di 2 anni, li aiutava a recuperare il gap linguistico
rispetto ai compagni. Dal punto di vista didattico alcuni studenti stranieri
sono più attrezzati ad affrontare la fatica, danno ancora un senso prioritario
all’educazione scolastica. Occorre smettere l’abito del pregiudizio, se non
addirittura del razzismo, e iniziare a vivere la diversità come risorsa non
solo a livello di istituzione scolastica ma di intero paese. In generale, si
avverte nella scuola la necessità di lavorare di più e meglio sull’aspetto
sintattico e ortografico, per far diventare «sangue e carne» le principali
conoscenze, affinché si trasformino in competenze».

Un triangolo scottante: genitori, figli, insegnanti

È diffusa su tutto il territorio
nazionale (ma in particolar modo al Nord) una certa presa di posizione dei
genitori nei confronti dei docenti. Più istruiti, più attenti e, a volte, più
presuntuosi, i nuovi genitori tollerano sempre meno il fallimento dei figli e
contestano l’autorevolezza dei docenti. Come interpretare tutto questo? «La
famiglia è cambiata in modo un po’ schizofrenico. I modelli culturali negli ultimi
30-40 anni hanno spostato le speranze di realizzazione dalla sfera della
persona a quella economica. In questo senso appare chiaro come la classe
docente, bistrattata economicamente, non possa più riscuotere grande
autorevolezza. Gli insegnanti     perdono
autostima oppure si rinchiudono in una torre d’avorio, si sentono emarginati e
ritengono misconosciuta la loro importanza. Per fortuna non è così per tutti.
Nonostante le politiche, gli enti locali e il susseguirsi dei ministri, c’è una
grossa pattuglia di docenti che porta avanti il suo lavoro con passione a
prescindere da tante disillusioni. I genitori vogliono una scuola severa e
autorevole… ma per i figli degli altri! Per ricostruire questi rapporti e
risanare la scuola ci vorrà tempo, onestà e voglia di fare».

Ma non solo gli insegnanti a
essere bistrattati: spesso i media ci riportano l’immagine di una schiera di
adolescenti indecifrabili, spaesati, demotivati, solo un riflesso delle vecchie
generazioni. Insomma, una incomprensibile touch generation. Eppure
proprio loro sono assetati di giustizia e di onestà intellettuale.

Non a caso, chi come Carmine
Percuoco ha tanti anni di esperienza e può confrontarli con altre generazioni,
così li ritrae: «Non si può dire che i ragazzi di oggi siano peggiori di quelli
di ieri: non lo sono né per capacità, né per moralità. Odiano l’ingiustizia e
quando trovano un adulto che sa lottare per una giusta causa, lo stimano e lo
apprezzano. Sono vulcanici e creativi, come nella nostra migliore tradizione
italica, e hanno molto da insegnare anche a livello comportamentale. I ragazzi
di oggi sono coerenti con gli adulti ma detestano l’ambiguità e la
schizofrenia. La scuola ha ancora tanto da ricostruire e il punto di partenza
deve essere la formazione dell’essere umano. Trasmettere agli allievi l’amore
per se stessi e il rispetto può essere la molla per iniziare un cammino ormai
necessario».

Alcune persone trasmettono
passione e umanità. Carmine Percuoco è una di quelle. Crede nella scuola, nei
ragazzi, nell’impagabilità di un mestiere che per tanti potrebbe sembrare in
via di estinzione ma che, per lui, mantiene ancora inalterata la sua funzione «etica»
e «morale».

Uno scenario mutato: da Edipo a Narciso

Spesso si sente affermare o si
legge sui giornali: «Una volta c’era la scuola e la famiglia». La frase va
indubbiamente riformulata: in un passato antropologicamente non troppo lontano
c’era una tipologia di scuola e di famiglia. Oggi, anno 2014, lo scenario è
diverso perché differenti sono gli attori che vivono e trasformano
quotidianamente la realtà sociale.

Pietropolli Charmet,
psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, individua le ragioni profonde
delle differenze rispetto al passato, facendo principalmente riferimento al
cambiamento «a monte», quello relativo alla famiglia d’origine, che ha
introdotto nuove figure genitoriali e ha modificato le relazioni tra i suoi
componenti, dando vita al tramonto di Edipo e alla nascita sociale di Narciso.
Nel suo libro Fragile e spavaldo si delinea la personalità dell’adolescente
di oggi. Malato di fragilità narcisistica, spavaldo e irriverente, il nuovo
adolescente dimostra una creatività e alcune doti inaspettate.  Quanto viene avvertito questo cambiamento
dagli insegnanti e come si strutturano i nuovi rapporti con le famiglie? «Negli
ultimi 40 anni la famiglia normativa si è trasformata in affettiva. Se al
centro della vecchia famiglia c’era Edipo, ora c’è Narciso. Il vecchio
adolescente andava educato con norme e valori, oggi sono cambiati i giochi: il
ragazzo è un cucciolo d’oro, un animale sociale e simbolico che negozia le
regole in famiglia. La saldatura tra casa e scuola è saltata e va ricostruita.
La scuola è rimasta ottocentesca ed edipica, ma ragazzi e i genitori si sono
trasformati in Narcisi. La frase classica dei genitori è: “Il professore ha
dato 4 a mia figlia ma io la conosco bene e so che vale 8…”. I nuovi genitori
sono disorientati tanto quanto lo sono gli insegnanti e vanno educati.
L’importante non è il brutto voto, ma è il fatto che la valutazione non diventi
un giudizio sulla persona e su questo andrebbero cambiate tante cose nella
scuola».

A raccontarci con lente sociale e
psicologica l’oggi della scuola e dei rapporti scuola-famiglia è Fabio Fiore,
insegnante di storia e filosofia al Liceo Statale Newton di Chivasso con una
ventennale esperienza di docenza e un dottorato su tematiche affini alla
perdita di autorevolezza degli insegnanti. Fabio Fiore, che da oltre 15 anni
lavora sulla crisi della scuola, ci introduce tra i banchi esaminando cause e meccanismi
di una trasformazione così profonda. «Un tempo c’era unione tra valori
domestici ed estei. Il maestro aveva sempre ragione, oggi ha sempre torto a
prescindere da qualsiasi cosa faccia. Si confronta con una schiera di genitori
invasivi che non ha timore di chiedere chiarimenti sul figlio fermandolo per
strada o telefonando. Il genitore sa tutto sulle tonalità emotive più recondite
del figlio; quello che teme di più è la fallibilità del ragazzo e quello che
desidera sopra ogni cosa è la sua felicità».

Sconfiggere l’insensibilità della politica

L’etnologo francese Marc Augè ci
ricorda che esistono luoghi e non luoghi. La scuola è indubbiamente un luogo e,
seppur con tutte le contraddizioni degli ultimi anni, mantiene inalterato il
suo valore aggregativo.

Antonella Sergi, insegnante
ultraventennale di matematica al Liceo Artistico Cottini, non ha dubbi in
merito: «Politiche governative insensibili all’importanza della scuola e
difficoltà su tutti i fronti non possono togliere alla scuola la sua valenza
educativa e di relazione. La scuola rimane il luogo per eccellenza in cui
sostenere la costruzione della personalità degli allievi e instaurare dinamiche
di gruppo. Gli insegnanti sono stati coinvolti in un processo sociale di
maturazione che li ha portati ad avere e a trasmettere una maggiore sensibilità
verso le diversità. Paradossalmente sono però principalmente i ragazzi di
adesso a insegnare l’integrazione perché sono loro stessi a viverla
quotidianamente».

Se i ragazzi di oggi hanno più
difficoltà ad accettare le regole, come si possono trovare strumenti innovativi
per interessarli didatticamente? «Gli studenti hanno bisogno di essere
costantemente stimolati, danno spesso l’impressione di non esser interessati ad
apprendere ma se si riesce a toccare le corde giuste, ti sorprendono per la
qualità delle risposte. Hanno una scarsa frequentazione delle capacità logiche
mentali e la figura del docente la vedono con più criticità rispetto al
passato. Lo vedono come un personaggio meno ideale, perfettamente calato nella
realtà con tutti i suoi pregi e difetti. Di conseguenza, per interessare i
ragazzi, oltre una maggiore creatività nella metodica, occorre guadagnarsi la
loro stima dimostrandosi coerenti e onesti. Per i ragazzi di oggi “la legge è
uguale per tutti”, sono pionieri di una generazione che fa del senso di
giustizia il suo credo. Le votazioni negative vengono accettate, ma solo se
alla base c’è una vera credibilità intellettuale».

E le famiglie quanto facilitano od
ostacolano questa missione del docente? «L’apprendimento passa attraverso il
rispetto e in questo senso i genitori dovrebbero lavorare a favore del corpo
docente. Non nego però che, se da un lato sono troppo invadenti nei confronti
della scuola, dall’altra sono anche più coinvolti e presenti. Il che, gestito
nel modo opportuno, può diventare una grande ricchezza».

Ci piace chiedere ai nostri
intervistati un piccolo vocabolario per ricostruire la scuola. Secondo
Antonella Sergi, la trasformazione del panorama dell’istruzione passa
attraverso il riconoscimento della scuola a livello politico. Un riconoscimento
economico e sociale che possa suscitare un effetto domino e riconsegnare
energia e linfa vitale agli insegnanti.

La scuola come laboratorio

Da questo breve viaggio nella
scuola, quello che si evince è la figura di un adolescente complesso (come gli
adolescenti di tutte le epoche in realtà), che arranca nel costruirsi la
propria identità. Spavaldo perché ha una necessità intrinseca di riconoscimento
sociale, fragile perché fa fatica a uscire da un’infanzia dorata. Al contempo,
i ragazzi di oggi hanno competenze narrative e creative straordinarie di cui
spesso però sono inconsapevoli.

Quali gli atteggiamenti e le parole
chiave per uscire da questa crisi che attraversa un’epoca e coinvolge più
figure nell’istituzione scolastica? «Il cambiamento – spiega Fabio Fiore –
passa attraverso l’esperienza, la collaborazione e la complicità. Nella nostra
scuola c’è troppa scissione tra sapere e esperienza pratica. Rendiamo la scuola
“laboratorio vivente”, apriamone le porte anche nel fine settimana, rendiamo
partecipi anche le famiglie. L’organico docente, seppur mantenendo inalterate
le diversità, deve lavorare su una linea comune altrimenti perde di credibilità
e lo studente si infila pericolosamente nelle contraddizioni. La parola chiave è
“futuro” e la scuola è uno dei luoghi da cui ripartire per risollevare il
paese. Bisogna insegnare ai ragazzi ad aumentare la massa critica della
consapevolezza e ad essere cittadini del mondo. La scuola non si fa parlando ma
“facendo”. Occorre essere sociologi, ossia andare “oltre le mura”».

Gabriella Mancini

A Chivasso


Sperimentare (per vincere la crisi)

Presso il Liceo classico-scientifico «Newton» di Chivasso, nel corso
dell’anno scolastico 2012-2013 è nato il progetto «Oltrelemura», di cui il
prof. Fabio Fiore è stato uno degli ideatori. Una sperimentazione vissuta da un
folto gruppo di studenti, docenti, genitori ed operatori culturali operanti
nell’ambito dell’Istituto. Attraverso diversi approcci disciplinari, ci si è
interrogati sulle strategie didattiche possibili per affrontare la crisi della
Scuola percepita dai partecipanti.

Il progetto «Oltrelemura» ha attivato delle  azioni su tre ambienti del dispositivo
scolastico: un ambiente di trasmissione formale dei saperi (la Classe), un
ambiente di trasmissione informale dei saperi (l’Interclasse), un ambiente di
elaborazione creativa dei saperi (i Laboratori). I Laboratori teatrali, narrativi
e mediatici hanno avuto  la funzione di
far emergere i problemi del rapporto tra adolescente e dispositivo
scolastico/mondo adulto, l’Interclasse ha trasformato tali problemi in domande
e riflessioni e la Classe pilota ha provato ad articolare delle risposte e a
mettere in pratica (didattica) le riflessioni emerse.

Un esempio concreto per affrontare la crisi insieme.

 
Considerazioni finali


Cercando un nuovo alfabeto

«Benvenuto cambiamento» è il titolo della Quarta Conferenza
regionale della scuola tenutasi a Torino nell’estate 2013. Come dimostrano le
voci e gli approfondimenti di questo Dossier, è più che mai necessario
rinforzare una cultura della scuola che sia in grado di progettare e sostenere
il cambiamento. Cambiare la scuola vuol dire «ridefinire con chiarezza le
posizioni degli insegnanti, dei genitori, dei ragazzi e delle altre figure
educative nell’ambito di un dispositivo pedagogico direttamente incentrato
sulla conduzione di attività pratiche. È rispetto a esse che la scuola può
ritrovare il fascino e la passione dell’insegnamento e dell’apprendimento,
tanto come funzione espressiva quanto come esercizio preparatorio» (Riccardo
Massa, Cambiare la scuola, cit. pag 175).

In quest’ottica il futuro si modella sull’esperienza,
non  discinta dall’apprendimento teorico.
Un’esperienza prima vissuta singolarmente e poi condivisa. «Intellettualizzare
l’esperienza» è la chiave, direbbe John Dewey (filosofo e pedagogista
statunitense scomparso nel 1952) in una proposta che riguarda  l’apprendimento cornoperativo, la didattica
laboratoriale e la responsabilità di ogni singolo attore sul campo. Con questo
cambio di paradigma rispetto alla scuola attuale, l’esperienza diventa fonte di
innovazione e si proietta con slancio nel futuro.

Non si discosta da questa proposta anche la teoria di
don Ermis Segatti: «Nella scuola di oggi c’è troppa scissione tra vita pratica
e istruzione. Si rileva un’espropriazione di responsabilità caricata solo sullo
studio. La concomitanza di studio ed esperienze pratiche favorisce una maggiore
responsabilità civile. L’habitus mentale dovrebbe consistere
nell’operare praticamente mentre si apprende. La soluzione? Uscire dalla scuola
e favorire una rete comune di collaborazione con gli enti locali per creare nuovi
luoghi di partecipazione giovanile».

«In questa prospettiva metamorfica, può dunque la
scuola, attraverso l’esperienza pratica, diventare “scuola dell’essere e non
dell’avere”? Forse, occorre ripartire dalla scuola dell’Infanzia perché proprio
lì si creano  quelle esperienze che poi
si disperdono negli anni successivi. Virginio Pevato aggiunge: «La scuola del
futuro è la scuola del fare: una scuola educativa e di relazioni con il mondo
esterno, capace di individualizzare i percorsi, di  fare attenzione a tutte le intelligenze
evitando  di trasformarsi in parcheggio
scolastico». 

Questa nuova scuola, che ci auspichiamo non rimanga solo
nell’immaginario e in alcune singole proposte, in cui il riconoscimento dei
talenti dovrebbe intrecciarsi con l’esperienza, diventare  priorità governativa e riconquistarsi  così 
quel rispetto e quell’autorevolezza che la rendano nuovamente «appetibile»
e ricca di significato. 

Nonostante siano passati quasi 50 anni dalla morte di
Don Milani, la sua lezione resta attuale: andare a scuola significa imparare a
leggere, scrivere, far di conto ma anche e, soprattutto, conoscere a fondo la
nostra Costituzione ed essere consapevoli della nostra cittadinanza nel
mondo. 

Da questi presupposti si dovrebbe  partire per formulare nuove strategie,
magari  rispolverando l’articolo 3
della  Carta fondamentale, come fa don
Milani in Lettera a una professoressa, pensando a Gianni perché «tutti i
ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più, è colpa nostra e
dobbiamo rimediare».

Riscrivere un alfabeto della scuola comporta includere
tante delle parole che abbiamo «incontrato» in questo breve viaggio e che fanno
rima con: formazione, talento, etica, coerenza, giustizia, rispetto,
esperienza, collaborazione, complicità e riconoscimento. In altri termini: «saper
educare, andando Oltre le Mura».

Gabriella Mancini

Consigli Bibliografici
• Riccardo Massa, Cambiare la scuola. Educare o istruire?, Editore Laterza, 2000.
• Fabio Fiore, Rincorrere o
resistere? Sulla crisi della scuola e gli usi della storia, Rivista Passato e Presente, 2001.
• Howard Gardner, Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e
apprendimento, Centro Studi
Erickson, 2005.
• Lorenzo Fischer, Lineamenti di sociologia della scuola, Il Mulino, 2007.
• Gustavo Pietropolli Charmet, Fragili e spavaldi. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, 2008.
• Lorenzo Luatti – Claudio Malacarne, Scrivere il futuro a più mani, Vannini, 2012.
E per la narrativa:
• Francois Begaudeau, La classe, Einaudi, 2008.
• Eraldo Affinati, Elogio del ripetente,
Mondadori, 2013.
• Alex Corlazzoli, Tutti in classe, Einaudi, 2013.
 
Filmografia

Zero in
condotta, Jean Vigo, 1933;
I 400 colpi, François Truffaut, 1959;  Gli anni in tasca,
François Truffaut, 1976; L’attimo
fuggente, Peter Weir, 1989; Ricomincia da oggi, Bertrand
Taveier, 1999; Essere o
avere, Nicholas Philibert, 2002; La classe, Laurent
Cantet, 2008; La scuola è
finita, Valerio Jalongo, 2010; Una scuola italiana, Giulio Cedea ed Angelo Loy, 2010; Il rosso
e il blu, Giuseppe Piccioni,
2012;
Vado a
scuola, Pascal Plisson, 2013. 

 
I partecipanti: un ringraziamento

Un doveroso ringraziamento a tutti coloro che
hanno contribuito a questo Dossier attraverso la loro testimonianza:

• il Circolo
didattico Salgari di Torino con la dirigente Giovanna Caputo per la
disponibilità al servizio fotografico; •
don Ermis Segatti; • Virginio
Pevato; • Concetta
Mascali; • Karim
Metref; • Sabrina
Ottaviano;
• Rosa Napolitano; • Carmine Percuoco; • Fabio Fiore e il progetto «Oltre le mura»
(www.oltrelemura.net);
• Antonella Sergi; • suor Lidia dell’Ufficio pastorale migranti
di Torino.

Si ringrazia inoltre • Nuccia Ferraris del Cidi («Centro di
iniziativa democratica degli insegnanti») per alcune informazioni foite:
www.ciditorino.org.

L’autrice

• Gabriella Mancini – Gioalista pubblicista, collabora da anni con Missioni Consolata su tematiche prevalentemente di ambito sociale e sulla
rubrica culturale
Mediamente. Attenta osservatrice della realtà e del
fenomeno dell’immigrazione ha ideato – insieme a un gruppo di giornalisti
stranieri – il media Glob011.com.

• Paolo Moiola – Redattore MC, per il cornordinamento giornalistico del
dossier.

Gabriella Mancini