Pillole «Allamano» 7: Canali e conche


Siate conche, non canali, con i beni spirituali
Siate canali, non conche, con i beni materiali

Un medico cinese (ma sarebbe stato d’accordo con lui anche il mio vecchio pediatra) direbbe che la medicina ha bisogno di un approccio «olistico» se vuole essere efficace e portare a un benessere effettivo dell’individuo. Detto in parole povere, essa deve coinvolgere ogni aspetto riguardante l’essere umano, tanto materiale quanto spirituale.

La pillola di questo mese è un medicamento antico che punta a offrire una cura completa, un ritrovato che il nostro «farmacista» Giuseppe Allamano ha ereditato da una tradizione lontana. Antico non significa necessariamente antiquato, superato o, per usare un termine farmaceutico – visto che si parla pur sempre di pillole – scaduto. I rimedi della nonna rivelano, talvolta anche oggi, la loro efficacia, nonostante noi, gente super sofisticata del 21° secolo, facciamo fatica a crederlo.

Lo spunto per riflettere su questo consiglio che l’Allamano ci offre lo troviamo in un passo del Sermone 18 al Cantico dei Cantici di san Beardo da Chiaravalle. In esso il santo, dottore della Chiesa e maestro di spiritualità medievale, mette in guardia coloro che vogliono effondere lo Spirito prima che esso venga in loro infuso. In breve, secondo Beardo, lo Spirito Santo compie in noi una duplice operazione: infusione ed effusione. La prima ci fortifica interiormente, a nostro vantaggio e per la nostra crescita spirituale. Attraverso l’infusione dello Spirito in noi, riceviamo doni come fede, speranza e carità, doni che sono nostri, che servono alla nostra salvezza. Altri doni (per esempio, scienza, sapienza, profezia, guarigione, lingua, ecc.) li riceviamo per il bene spirituale del prossimo, per donarli a chi ne ha bisogno. Di fatto, ricorda Beardo, essi non sono indispensabili per la nostra salvezza, ma ci sono concessi a beneficio altrui, per compiere verso il nostro prossimo un atto di misericordia che serva da aiuto in un cammino di crescita spirituale.

I primi doni, quelli infusi, sono condizione affinché i secondi possano convertirsi in strumenti di salvezza. È necessario essere ripieni dello Spirito prima di poterlo effondere, sostiene Bernardo. A poco servirebbero il dono della parola o quello della scienza se per mancanza di carità non li condividessimo con il nostro prossimo; ugualmente sterile sarebbe però la persona che volesse condividere i suoi talenti senza fondarli su una solida base spirituale. Solo in questo modo i doni condivisi saranno in grado di dissetare, sanare, esortare, far crescere nella fede, dare speranza, riempire di amore. Bernardo teme la superficialità e per questa ragione definisce la persona saggia come colei che è capace di essere conca, vasca, piuttosto che canale. Il canale, infatti, nel momento in cui riceve riversa, mentre la conca raccoglie, aspetta di essere piena e comunica della sua abbondanza. Purtroppo, è l’amara constatazione di san Bernardo, si hanno nella Chiesa molti più canali che conche; molte più persone che vogliono trasmettere ciò che non hanno, insegnare quanto non hanno imparato, parlare prima di ascoltare, indicare ad altri cammini che non si sono mai percorsi, né si saprebbe come iniziare a esplorare. Dai tempi di Beardo, passando per quelli di Giuseppe Allamano fino ad arrivare ai giorni nostri, le cose non sono cambiate più di tanto. Risuonano profetiche ed attuali le parole dell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, scritta ormai quasi 40 anni fa e giustamente riproposta con insistenza in questi ultimi tempi, in cui papa Paolo VI ricordava a tutti come, in materia di evangelizzazione, il mondo fosse molto più interessato all’ascolto dei testimoni piuttosto che dei maestri (EN 41).

Le persone che incontriamo sono completamente disincantate nei confronti di parole pur belle ma vuote. Le parole piene, al contrario, sono quelle che non girano semplicemente nella bocca, ma ricevono la loro forza dal cuore. La conca in cui sono custodite le rende cristalline e pure, permette ai detriti di depositarsi sul fondo lasciando che le mani che si racchiudono per bere attingano all’acqua più pura. A volte anche le buone azioni possono essere piene di detriti e persino l’esercizio della misericordia corre il rischio di essere frainteso, equivocato e abusato se non scaturisce da una fonte profonda e ricca.

Giuseppe Allamano raccoglie le parole di Bernardo e le fa sue. Professore di morale per molti anni, sa per esperienza che il bene è un oggetto fragile e va trattato con dolcezza e delicatezza. Se lo si porge con poco garbo si può rompere facilmente e solo con difficoltà può essere riparato. Lo vediamo anche noi oggi. Ne facciamo esperienza quotidiana entrando in contatto con persone ferite dalla banalità di un cristianesimo di facciata, raccogliendo storie che narrano promesse di grazia tradite, incontri col nulla camuffati da esperienze di fede, bisogni reali affrontati a colpi di bla bla bla e mai soddisfatti. A volte sono le nostre stesse debolezze a fare strage delle speranze altrui, a tradie le aspettative; non lo si può evitare, è lo scotto che si deve pagare al fatto di essere umani e fallibili. Questa fragilità può essere però limitata. L’apertura allo Spirito è la prima attitudine da coltivare se si vuole essere fonti vive. Tuttavia, sappiamo bene che tale apertura non potrà aver luogo se non si ricercano momenti di preghiera, silenzio e incontro con Cristo in grado di permetterci di accogliere il dono del suo Spirito. Occorre trovare spazi che permettano l’echeggiare della Parola nel profondo di noi stessi, anche se ciò potrà essere causa di sofferenza. La Parola, infatti, è spada a doppio taglio, che penetra e purifica, divide, pota, converte (cf. Eb 4,12).

La nuova evangelizzazione, di cui tanto si parla in questi ultimi tempi, altro non è che un modo credibile di presentare la Buona Notizia di sempre. Oggi, in effetti, la gente non ha bisogno di tante parole. Bastano 64 battute per lanciare un tweet nel ciberspazio ed essere letto da centinaia, migliaia, milioni di followers (Papa Francesco ha 14 milioni di persone che lo seguono su Twitter). La differenza la fanno il contenuto e ciò che sta sotto a esso. Le banalità possono risultare interessanti e anche divertenti, ma alla fine stancano. C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la propria missione in modo autentico ed efficace.

 

Trattenere i beni spirituali, arricchirsi di essi è un atto di misericordia e non di egoismo. Chi si fa conca dei doni dello Spirito automaticamente dona con generosità, perché è lo Spirito stesso che, infuso, effonde grazia su grazia, annunciando ciò che deve e non ciò che vuole, senza risparmiare le verità scomode, senza ammiccare al mondo per paura di non piacere.

Giuseppe Allamano prende il consiglio di San Bernardo, lo completa e lo propone ai suoi missionari in una versione riveduta e corretta che ci fa vedere la sua originalità di pensiero: «S. Bernardo dice che noi a riguardo del prossimo dobbiamo essere conche e non solo canali […], ma in questo [beni materiali] dobbiamo essere solamente canali e non conche, e questo lo dico io» (Conferenze IMC, III, pagg. 46-47).

«E questo lo dico io!». Giuseppe Allamano è un sacerdote che desidera fortemente che i suoi siano persone spiritualmente ricche; vuole però anche che la loro spiritualità non si converta in uno spiritualismo eccessivo, avulso dalla realtà. I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare alla corrente del canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». La missione è annuncio di un dono, del regalo che Dio fa al mondo tanto amato: l’unico suo Figlio offerto per la salvezza di tutti (Gv 3, 16). Un mondo scettico, qual è quello di oggi, deve essere aiutato a credere, e per questa ragione deve poter vedere il dono. Non possiamo trattenerlo, nascondendolo alla vista di chi lo cerca, a volte con ansia o con disperazione. Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero sacramentini, che avessero uno spirito eucaristico, che fossero pane spezzato per calmare la fame delle genti. Per decenni i Missionari e le Missionarie della Consolata ne hanno seguito l’invito e si sono fatti essi stessi dono, aiutati dalla generosità di tanti amici e benefattori che, pur senza partire fisicamente per la missione, ne hanno sostenuto lo svolgersi e lo sviluppo, talvolta a prezzo di grandi sacrifici.

Giuseppe Allamano ha parlato al cuore di molti, con il suo spirito semplice e diretto, e oggi continua a parlare anche a noi, invitandoci a essere segni di uno stile di vita alternativo a quello che il mondo propaganda, esortandoci a non stancarci di dare. La crisi che stiamo vivendo suggerirebbe forse di trasformarci in conca anche per quanto riguarda i beni materiali, perché «non si può mai sapere …». In effetti oggi il cristiano è chiamato a fidarsi maggiormente della Provvidenza anche nel nostro Occidente che, fino a poco tempo fa, dispensava i più dal doverlo fare con radicalità. Del resto, la vita stessa di Giuseppe Allamano è stata un canto alla Provvidenza, la storia di un uomo che si è fidato di Dio, investendo tutto quanto aveva nel progetto missionario al quale si sentiva chiamato. «Bisogna fidarsi della Provvidenza e meritare i suoi aiuti», sosteneva. «Mai ho perso il sonno per questioni di denaro», ha detto più volte ai suoi missionari, testimoniando con la sua esperienza che il dare senza risparmio, senza se e senza ma, paga i suoi dividendi nel modo misterioso che solo Dio conosce.

Inutile dire che essere una conca ripiena di spirito aiuta a comprendere la sapienza nascosta dietro alla necessità di essere anche canale in cui scorrono copiosamente e generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Dalla Sardegna all’Africa

Storia di un giovane missionario


Fabio Malesa, nato e cresciuto a Olbia, scopre in Messico la
sua vocazione. Preso il suo destino in mano, dopo un lungo percorso, eccolo
missionario della Consolata in Mozambico. A raccogliere le sfide del nostro
tempo e di una Chiesa che cambia rapidamente. Anche in Africa.

C’è sempre una prima volta, dicono. La prima volta
di padre Fabio Malesa in Mozambico risale all’anno 2000. Era ancora un giovane
studente di teologia quando giunse, tra l’emozionato e il preoccupato, a
Cuamba, regione del Niassa. E lì, nel primo impatto con l’Africa non più
libresca, padre Fabio (classe 1972, figlio unico e perciò anche un tantino
viziatello) imparò, gioco forza, a fare un po’ di tutto. Fu carpentiere,
infermiere, animatore, professore, cuoco. Diceva di sé, scherzando, nei
periodici rientri in Italia, che sarebbe stato preferibile che lui non avesse
frequentato il liceo classico ma semmai un istituto d’arti e mestieri.

Fabio
studiava medicina a Sassari. Fece un viaggio in Irlanda per migliorare il suo
inglese. Lì conobbe una congregazione religiosa di origine messicana e al suo
rientro in Italia comunicò ai genitori di aver deciso di diventare missionario.
Il momento non fu facile, ma Fabio lo superò arrivando al noviziato in Messico.
Qualche anno dopo, guardando con maggiore realismo il tutto, considerò che
sarebbe stata preferibile una congregazione italiana e presente anche a Olbia,
così decise per i missionari della Consolata. La figura di padre Silvio
Lorenzini, trentino, con la sua testimonianza di fede certamente influì molto
nella formazione e nella decisione di Fabio.

Il grande passo

Di
Fabio Malesa abbiamo scritto per la prima volta nel 2007 di quando, in un tardo
pomeriggio d’ottobre, nella basilica romanico-pisana di San Simplicio, a Olbia
(Nord Est della Sardegna), la sua città natale, ricevette dal vescovo, alla
presenza di genitori, parenti e amici, l’ordinazione sacerdotale.

La
sua destinazione come missionario, allora, era nota: Vilankulo accogliente
località, poco distante dal mare, nel Sud del Mozambico, per altro anche meta
turistica, e dal nome piuttosto buffo per noi italiani.

Vilankulo
era per padre Fabio anche un ritorno in quanto, prima dei quattro anni di pausa
in Italia per il completamento della formazione, vi era già stato diacono e vi
aveva fatto come altrove i mestieri più disparati.

In
missione, inoltre, quasi sempre non esistono i comfort del proprio contesto di
provenienza. E l’essere umano si adatta.

Maputo

Oggi,
a Maputo, la capitale del Mozambico, città cosmopolita, Fabio ricopre
l’incarico di vice superiore regionale dei missionari della Consolata nel
paese. Dei sei anni di Vilankulo conserva il bellissimo ricordo delle
esperienze fatte, specie quelle con i giovani. La sua relazione con la gioventù
non meraviglia nessuno, conoscendone le doti umane, spirituali e professionali.
Sì, perché un missionario, oggi come oggi, deve essere di fatto anche un
professionista della missione. In giro, infatti, sotto qualunque cielo, la
gente è più esigente. In Africa, come altrove. Per accoglierti e seguirti essa
attende risposte serie e testimonianze coerenti.

A
Maputo padre Fabio regge, coadiuvato da animatori laici, due parrocchie
frequentate complessivamente da almeno tremila persone. L’area è quella di
Matola, una periferia urbana in espansione, dove convivono autoctoni,
mozambicani giunti da altre città del paese e persino portoghesi che, per la
crisi economica di cui è vittima il Portogallo, hanno scelto di andare a vivere
e a lavorare nell’ex colonia.

Matola
è un contesto variegato, un quartiere abitato da ricchi e poveri. Non
ricchissimi certamente e neanche poverissimi.

Tuttavia
il consumismo vi è giunto con prepotenza, facilitato proprio dall’ambiente
metropolitano. Il contesto spinge la gente a una continua competizione per
procurarsi ciò che desidera e che non ha e che sa di non poter avere a breve. E
possono così accadere anche fatti spiacevoli. Padre Fabio, ad esempio, ne ha
vissuto uno di persona, proprio nella casa dei missionari di Matola. Un fatto
davvero terribile se si considera che c’è stato persino un morto: un
confratello (l’autrice si riferisce a padre Valentim Camale, ucciso il 3/5/2012,
ndr),  che si
era rifiutato di consegnare il denaro richiesto da un teppistello e dai suoi
complici, penetrati nell’abitazione con l’intento di consumare una rapina, a
loro parere, facile.

A
Vilankulo – sottolinea Fabio – il contesto era molto più aperto e accogliente.
Era fatto di gente semplice, allegra quanto basta (i mozambicani non sono
musoni) e soprattutto generosa anche nel poco. Certamente – chiosa – anche in
quel contesto non mancano problemi seri come strade dissestate, agricoltura
appena di sussistenza (il terreno è sabbioso, rende poco e costa fatica
coltivarlo), malattie endemiche, Aids, limitata scolarizzazione.

Una grande partecipazione

Maputo,
la grande città, per quanto più confortevole per chi la vive, tende a
spersonalizzare i rapporti umani. Per fortuna non mancano cordialità e
collaborazione da parte degli animatori o dei catechisti, di quelli che sono
responsabili dei differenti settori della pastorale nelle parrocchie, e dei
loro familiari. E di tutti coloro che, magari anche per caso, imparano a
conoscere da vicino e a stimare il lavoro dei missionari della Consolata.

Questo
spirito di fratellanza costruttiva mitiga la solitudine e aiuta parecchio, in
quanto il missionario è persona come noi e l’affettività, vissuta correttamente,
è importante per affrontare con serenità i pesi della quotidianità.

La
politica nella capitale, e nel Mozambico in genere, è molto presente nella
quotidianità della gente comune. In particolare con l’onnipotente e
onnipresente Frelimo, il partito politico, a suo tempo di marcata connotazione
marxista, che è al potere da parecchi anni ed è uscito vincitore da una lunga e
devastante guerra civile (la guerra civile in Mozambico, iniziata nel 1975 si è
conclusa con gli accordi di pace del 1992, ndr). Un partito – precisa
padre Fabio – che, senza timore di smentita, fa il buono e il cattivo tempo in
tutto.

In
poche parole, senza la tessera del Frelimo in Mozambico non si lavora nello
stato. Il partito antagonista, la Renamo, il partito nazionalista che, nient’affatto
arresosi per la sconfitta subìta, in vista delle prossime elezioni cerca di
dare filo da torcere, come può, all’avversario politico.

La
corruzione, in certi ambienti e per certi sostanziosi contratti, è di casa tra
i politici.

Pastorale di responsabilità

La
Chiesa missionaria (i missionari della Consolata sono in tutto il Mozambico
circa una quarantina con due vescovi di recente ordinazione) si adopera per una
crescita umana e spirituale della gente puntando a una pastorale il più
possibile decentrata (distribuzione dei compiti e formazione dei responsabili).
Ed è anche quello che sta tentando di fare padre Fabio nelle due parrocchie di
cui è responsabile a Matola. E cioè in quella più centrale di Santa Teresina
del Bambino Gesù, a Liqueleva, e in quella di Santissima Maria Assunta, a
Liberdade.

Compito
per niente facile in quanto non mancano le resistenze. Anche da parte di alcuni
missionari che, per età anagrafica o per consuetudine, stentano ad accettare
gli indispensabili cambiamenti.

Chi
reagisce positivamente è invece la gioventù del luogo, che si sente fortemente
motivata proprio in quest’assunzione di responsabilità. Ragazzi e ragazze di
formazione cattolica, molti dei quali provengono da ambienti modestissimi, con
grande desiderio di imparare e di fare. E questo li distingue dai nostri
giovani in Europa e in Italia.

Il
sacrificio personale resta un’ottima scuola.

Chiesa internazionale

La
Chiesa africana, quindi anche quella mozambicana, è in crescita, e
l’inteazionalità non fa problema. Fabio Malesa l’ha vissuta in seminario
prima, da studente, e poi da prete oggi. È infatti una consuetudine, anche tra
i missionari della Consolata, essere di tante nazioni diverse.

Padre
Fabio lavora a Matola con un viceparroco congolese, con il quale c’è un’ottima
intesa.

Nel
concludere chiediamo a padre Fabio se, oggi come oggi, alla luce della sua
esperienza, rifarebbe la stessa scelta, di essere un missionario, e cosa
direbbe a un giovane che mostrasse interesse per la missione ad
gentes. Lui, senza esitazione, ci fa capire che l’essere accanto alla gente
bisognosa, saperla ascoltare, confortare, prospettarle una speranza fondata
sugli insegnamenti della Parola, è una ricchezza impagabile per chi sceglie di
farlo.

A
sera, pure se stanco come un asino gravato da enormi e spesso insopportabili
pesi – aggiunge – ti addormenti sereno perché sai di avere fatto gratuitamente
la tua parte di «bene» proprio come voleva per i suoi figli l’Allamano e anche,
e soprattutto, come esige la tua coscienza di uomo.

Marianna Micheluzzi

 

Tags: Malesa, missionario, evangelizzazione, vocazione, missionari, IMC

Marianna Micheluzzi




Mobile money: Meglio del cash?

Inchiesta «mobile money», denaro virtuale / 2


Compagnie telefoniche e banche non hanno perso tempo.
All’indomani del terremoto è iniziata la sperimentazione. Poco a poco il denaro
mobile cerca di entrare nelle abitudini degli haitiani. Offre facilità d’uso e
non chiede garanzie. Ma la gente ama toccare con mano biglietti e monete. Chi
vincerà la sfida?

Carrefour. Siamo nel grosso comune popolare all’uscita
Sud di Port-au-Prince, la capitale haitiana. Qui il terremoto del 12 gennaio
2010 ha colpito duro. Theguerre Derizaire sale al primo piano di un basso
edificio non intonacato e si infila in un corridoio stretto. Fuori diversi
cartelloni colorati indicano i vari «business» che si svolgono all’interno.

Theguerre
ha in mano il suo inseparabile telefonino da 10 dollari e si accosta a uno
sportello protetto con una robusta grata. Dall’altra parte qualcuno manovra un
telefono simile.

Theguerre
passa 300 gourd (i soldi haitiani, equivalente a circa sei euro) alla mano
dell’operatore e gli detta il suo numero
di telefono. Pochi istanti dopo riceve un sms: transazione eseguita.

Abbiamo
appena assistito al deposito di denaro su un portafoglio mobile.

Chi spinge sul mobile money

Haiti ha 10 milioni di
abitanti, di cui il 60 % non arriva a 35 anni e il 70% vive in povertà estrema,
ovvero con meno di un dollaro al giorno. Siamo nel paese più povero delle
Americhe. È anche uno dei più disastrati del mondo, messo in ginocchio dal
devastante terremoto, da un’epidemia di colera mai vista e da diversi cicloni.

Ma anche qui, come in molti
paesi del lato «povero» del pianeta, le compagnie telefoniche e le banche hanno
stretto inedite alleanze per sperimentare il mobile money.

Il loro obiettivo –
dichiarano – è la famosa «inclusione finanziaria», ovvero rendere bancabili i
non bancabili, dare un conto «mobile» a coloro che non hanno – e non avranno
mai – alcuna possibilità di aprire un conto in banca.

Secondo Georges Andy René,
direttore della compagnia Haiti pay che ha lanciato il prodotto Lajancash lo scorso anno, «ad Haiti ci sono circa 5 milioni di utilizzatori
di cellulari, mentre meno del 20% della popolazione ha accesso a una banca».
Allo stesso tempo: «Sul mercato bancario del paese ci sono meno di 40.000
detentori di carte di credito e carte di debito». Allan Richardson, navigato
manager internazionale, oggi capo operativo della compagnia telefonica Digicel, che si contende il mercato
nazionale del mobile money con Haiti pay, ci racconta i primi passi di
questo servizio sull’isola.

Nel dicembre 2010 la Bill & Melinda Gates Foundation mise a
disposizione, sotto forma di premio, un primo finanziamento di due milioni di
dollari per lanciare la Haitian Mobile Money
Initiative. A esso seguirono altri due finanziamenti (2011 e 2012)
ciascuno di un milione i dollari. Fu la Digicel, compagnia di telefonia
cellulare già ben installata nel paese, a vincere, e fu con quei fondi che
lanciò un primo sistema di mobile money: Tcho
tcho mobile (dove «tcho tcho» è uno dei tanti modi per chiamare il
denaro in creolo haitiano). Per far questo si mise in partenariato con la banca
canadese Nova Scotia operante ad Haiti.

All’inizio non fu facile: «La
piattaforma (programma informatico di gestione del sistema, ndr) non era performante. Si facevano
piccole cifre di vendita. Decidemmo di cambiarla, a inizio 2013. Solo
nell’estate di quell’anno abbiamo avuto un buon incremento di transazioni». Una
transazione è un’operazione realizzata sul conto mobile: deposito, ritiro,
trasferimento, ecc. Digicel ha 4,5 milioni di abbonati ad Haiti e per
Richardson «sono tutti potenziali clienti del Tcho tcho mobile».

Per attivare un conto Tcho
tcho mobile (Ttm) è sufficiente la carta d’identità e la compilazione di un
modulo. Occorre avere un cellulare con sim Digicel. Il vero limite è che sono
ancora molti gli haitiani senza documenti.

Insieme a Ineke Botter, la
direttrice generale di Digicel Haiti, Richardson ci spiega quali sono gli
ingredienti per fare partire il sistema. Sul territorio sono presenti gli
agenti, sportelli, spesso minuscoli botteghini, abilitati a caricare denaro sui
portafogli elettronici dei clienti quando questi vogliono depositare, e a
fornire contante per i clienti che vogliono ritirare. Sono poi in grado di fare
trasferimenti di soldi da un cliente a un altro. La seconda tipologia di attori
sono i commercianti abilitati ad accettare il pagamento tramite il Tcho tcho
mobile (in gergo: mobile payment).


Un «ecosistema» artificiale

«Occorre creare una buona
rete, e un cosiddetto “ecosistema” favorevole al denaro mobile. Abbiamo pensato
a un super agente a cui fanno capo gli agenti di primo livello che ricevono le
richieste dai clienti. Quando l’agente semplice non ha contante li può chiedere
al super agente. Perché se l’agente non ha cash quando serve, il sistema si blocca.

È inoltre necessario che
nella zona ci sia un buon numero di commercianti che accettano il pagamento in
Ttm. In questo modo chi riceve denaro “elettronico” può anche spenderlo senza
doverlo cambiare in cash. E il sistema gira».

L’obiettivo è che il cliente
mantenga il più possibile il denaro nella versione «mobile» e lo utilizzi
spendendolo o trasferendolo. In questo modo si crea una massa di denaro
virtuale che fa concorrenza a quello reale. Occorre una sorta di condizione di «fiducia»
che la compagnia deve guadagnarsi presso la gente.

«La questione importante è il
cambiamento di mentalità – ci confida un cliente – perché gli haitiani sono
abituati a toccare il denaro di carta o di moneta con mano».

Anche Theguerre pur
utilizzando Ttm fin da quando è stato lanciato ha ancora delle perplessità: «Non
ho paura che i soldi scompaiano, ma per precauzione evito di fare dei depositi
troppo importanti. Ad esempio 1.000 gourd (circa 20 euro, ndr), 2.000 ma non oltre». E ci spiega i
vantaggi che trova nel denaro mobile: «La ragione principale è evitare la
banca, dove c’è sempre la coda e il servizio è difficile. È un’alternativa, e
non si perde tempo. Si va da un agente Ttm. Poi c’è il vantaggio dell’orario,
alcuni agenti sono aperti fino alle 8 della sera. Se qualcuno mi manda soldi, è
comodo e si riceve rapidamente». Quindi Theguerre non si fida a lasciare troppi
soldi sul conto mobile e tanto meno a utilizzarlo per fare acquisti. Quando gli
chiediamo se conosce molta gente che lo utilizza risponde: «No, ma non è per
paura di perdere i soldi, piuttosto bisogna avere il denaro per fare un
deposito. La gente qui non ne ha abbastanza. Se faccio un deposito oggi per
ritirarlo domani non è conveniente. Inoltre penso che molti non sappiano come
funziona». In effetti ogni operazione ha un piccolo costo di commissione (2%),
mentre attualmente esiste un tetto massimo per un conto Tth mobile di 10.000
gourd (200 euro).

Gli
agenti Ttm sono oggi circa 300 su tutto il territorio nazionale. Intanto è
fondamentale la campagna di sensibilizzazione, con testi e immagini, per
spiegare i servizi del denaro elettronico. «Non è un mercato facile. Se non ci
sono abbastanza transazioni gli agenti non sono interessati» confida
Richardson.Attualmente Digicel permette trasferimenti di denaro a livello
nazionale, ma in futuro vuole estenderli anche al circuito internazionale,
entrando così nel mercato delle rimesse della diaspora, molto importante
soprattutto dagli Usa verso Haiti.

Un altro
servizio che offre Digicel è il pagamento di salari sul conto mobile dei
dipendenti. È stato sperimentato da alcune Ong inteazionali, ad esempio per
pagare il cash for
work, tecnica usata dalle Ong per far
realizzare lavori utili come la rimozione delle macerie dopo il terremoto con
pagamento alla giornata.

Bien Aimé
Ribaut è agente Ttm e Digicel a Lilavois, nel comune di Croix-de-Bouquet. Il
suo è un centro servizi molto attivo in questo quartiere popolare: «Quando abbiamo
cominciato con Ttm non ci ha soddisfatti molto, perché la commissione è bassa e
i clienti erano pochi in quanto il servizio non era conosciuto. Poi alcune
compagnie e Ong lo hanno utilizzato per pagare salari e aiutare sfollati del
terremoto. Era utile per facilitarli perché non potevano andare in banca. Così
il servizio si è diffuso. Ora questi programmi sono finiti, ma la gente
continua a usare Ttm perché è meno caro di altri sevizi di transfert nazionali. Inoltre sovente Digicel rimborsa le commissioni con  minuti gratis sulla ricarica telefonica».

Tecnologia alternativa

Più recente, ma non meno
agguerrita, è la concorrente Haiti pay. La questione è sempre cercare di fare
in modo che ogni haitiano in possesso di un telefonino abbia anche un portafoglio
mobile, ma la tecnologia utilizzata è diversa. Haiti pay ha un approccio «orientato
alla banca» e non «orientato alle telecomunicazioni». Non si tratta di un
gestore telefonico (come invece è la Digicel), ma di una compagnia di servizi
che si è messa in partenariato con una banca (la Banca nazionale di credito,
Bnc) e utilizza un software che può funzionare con qualsiasi operatore
cellulare. Ad Haiti il secondo operatore si chiama Natcom e, se resta escluso dal circuito
Ttm, è invece utilizzabile con Lajancash (in creolo: soldi contanti) lanciato nel giugno 2013.

Ci spiega Georges Andy René,
giovane manager haitiano: «Lajancash è un prodotto di “pagamento mobile” o mobile banking, che offre la possibilità di
fare transazioni ovunque ci sia copertura telefonica sul territorio haitiano.
Soprattutto non si fa distinzione tra gli operatori telefonici: possono essere
Digicel, Natcom o un operatore straniero. E l’utilizzatore di un operatore può
mandare soldi a quello di un altro. Abbiamo fatto in modo di rispettare le
norme stabilite dalla Banca Centrale che vuole l’interoperabilità degli
operatori, ovvero non si deve forzare un cliente a scegliere una compagnia
telefonica piuttosto che un’altra».

E continua: «Questa
tecnologia è pensata per facilitare l’inclusione finanziaria della popolazione
a più debole reddito». Inventato da due francesi della società Tagattitude, il prodotto, chiamato TagPay, utilizza una tecnica basata su una
codifica e decodifica audio fonica (Near
sound data tranfer). Ovvero le informazioni finanziarie
sono trasferite attraverso suoni opportunamente codificati. Tagattitude,
fondata nel 2005 proprio per fornire servizi nel mobile money ha oggi diffuso TagPay in diversi
paesi del mondo.

Anche Haiti pay sta mettendo in piedi la sua «rete»
di agenti e di commercianti abilitati a ricevere il pagamento. «Con la Bnc
abbiamo già una rete di agenti, le 32 succursali della banca che offrono il
servizio, e stiamo aumentando la rete a 115 punti o agenti in servizio su tutto
il territorio».

L’agente o il commerciante,
hanno a disposizione un terminale (simile a un lettore di carte bancomat). Il
cliente che vuole ritirare (cash out), depositare, oppure pagare un acquisto dal commerciante, dopo
aver inserito il suo codice, avvicinerà il telefono al terminale e i due «comunicheranno»
con una serie di bip durante pochi secondi, convalidando la transazione.

Il telefono necessario può
essere dei più semplici. La piattaforma Lajancash è tuttavia accessibile con ogni tipo di interfaccia (smarthphone,
sito Inteet, call center, carte bancarie).

Sebbene Andy René dichiari: «Abbiamo
un portafoglio clienti che cresce», verifichiamo che Lajan-cash, forse per la sua giovane età, è
ancora poco diffuso.

Anche Theaguerre ha sentito
parlare di questo servizio in Tv, ma resta fedele a Tcho tcho mobile sebbene il
suo agente di riferimento tratti pure il concorrente.

Micro finanza mobile?

Digicel ha stretto un accordo
con la nota istituzione di micro finanza (Imf) Fonkoze (Fondasyon
kole zepòl, Fondazione uniamo le forze) presente ad Haiti nel campo
del micro credito da 20 anni, con 46 sportelli disseminati in tutto il paese.

A Fonkoze si definiscono: «Una
banca alternativa» come racconta Saint-Jean Ronald direttore della succursale a
Pont Sondé, grande mercato in zona rurale nei pressi del fiume Artibonite,
nell’omonimo dipartimento.

«Fonkoze fornisce micro
crediti commerciali, e possibilità di aprire conti di risparmio a piccola
somma, 25 gourd o 5 dollari. Offriamo inoltre molte formazioni ai nostri
clienti. Dall’alfabetizzazione alla salute» racconta il giovane direttore nel
suo caldissimo ufficio di Pont Sondé.

Nell’accordo con Digicel,
Fonkoze gioca il ruolo di super agente per Ttm a livello nazionale. «L’obiettivo
di Fonkoze è migliorare le condizioni di vita delle persone più deboli e
vulnerabili – ricorda Ronald -. Ogni volta che possiamo introdurre programmi
per aiutare la classe più povera cerchiamo di farlo». «Il programma con Ttm è
iniziato nel 2011 e progredisce bene, anche se a volte ci sono difficoltà
tecniche.

Attualmente
abbiamo tra i 100 e i 150 clienti Ttm in questa succursale. Il numero è stabile».

Poi ci
sono i piccoli agenti: «Abbiamo molti rapporti con i piccoli agenti. Dal mese
di gennaio 2014 abbiamo lanciato la possibile adesione, ci sono numerose
richieste di iscrizione e di informazione, ma visto che abbiamo un problema
tecnico non riusciamo al momento a far partire il sistema».

Saint-Jean Ronald ha la sua
personale idea sul denaro mobile: «Penso che il mobile money possa migliorare l’accesso al
credito dei più poveri, se non altro perché facilita alcune operazioni, come il
trasferimento di soldi. Lo sviluppo delle telecomunicazioni in Haiti è buona.
Ci sono i telefoni anche nei posti più remoti. Tutti possono usare Ttm».

Vere applicazioni di micro
finanza con mobile money in realtà sono solo all’inizio ad Haiti. Anche se sono nei
programmi futuri dei due operatori. «Ricevere un credito sul portafoglio Tcho
tcho e poi restituirli con lo stesso. È Quello che vogliamo fare» assicura
Allan Richardson.

Secondo Georges Andy René,
Haiti Pay fa già micro credito: «Nei nostri punti di servizio si possono
ricevere i pagamenti con fondi dati a credito. Le banche di micro finanza
distribuiscono prestiti sui portafogli mobili e i titolari di questi possono
acquistare dei beni (come concimi, utensili, ecc.) presso commercianti
convenzionati, senza usare cash. Si ha così tracciabilità su come vengono spesi i soldi del
prestito e si può verificare se sono usati per l’obiettivo previsto. Questo
riduce il rischio finanziario per chi presta e permette di ridurre il tasso di
interesse».

La persona che ha ricevuto il
micro credito, potrà poi fare il rimborso da qualsiasi agente, senza dover
andare dalla Imf. Questo può servire a rendere più capillare l’attività della
banca rurale.

Il top manager Allan
Richardson, dall’alto dell’undicesimo piano del palazzo Digicel a
Port-au-Prince sostiene di guardare agli strati sociali più bassi: «Siamo
convinti che questo tipo di tecnologia può creare sviluppo in un paese. Le
transazioni con commissioni molto basse aiutano i poveri. Si possono fare
operazioni con la stessa qualità della banca ma molto più facilmente. Inoltre
questa tecnologia può far scendere i crimini.

Non pensiamo sia un contesto
difficile, ma dobbiamo educare la gente». E aggiunge con una sonora risata: «Occorre
far capire la regola del Btc: better then
cash!
(meglio dei contanti)».

Marco Bello e
Gianluca Iazzolino
 

Questo servizio è la seconda puntata dell’inchiesta sul
mobile money intitolata: «Riuscirà
il denaro del futuro a rendere la povertà un problema del passato?
». L’inchiesta è finanziata nell’ambito del programma Innovation
Development Reporting
dell’European Joualism Centre
(www.joualismgrants.org). Sul sito di MC saranno disponibili i video.

Il primo articolo è apparso nel Luglio 2014: Somaliland, il paese che non c’è

Una business woman e le nuove tecnologie

Mobile money: «Facile
e veloce»

Port-au-Prince. Al secondo piano di uno stabile a Delmas
33, dove trovano spazio diverse boutique delle merci più svariate, si è
installata Vanessa Morpo, con il suo Capri Service. Bella donna e,
soprattutto, business woman intelligente, Vanessa è al tempo stesso
agente di Digicel Tcho tcho mobile e commerciante abilitato, tramite il suo
negozio di vestiti pret-à-porter.

«Ho iniziato questo servizio nel
2012 – dichiara Vanessa. – All’inizio i clienti non lo comprendevano e anche io
ero scettica. Poi, dopo averlo utilizzato regolarmente, ho visto che è
affidabile e anche i clienti si sono abituati e lo apprezzano molto». Ci sono
sempre quelli che si lamentano, ammette Vanessa: «Alcuni non hanno fiducia,
altri vedono che talvolta non c’è il segnale telefonico. Noi li aiutiamo a
iscriversi e spieghiamo loro come funziona. Si rendono subito conto che è molto
semplice».

Cosa si guadagna? «Per fare un deposito da 25 a 1000
gourd noi prendiamo una commissione del 2%, e la stessa cosa se si ritira».
Vanessa assicura che ha una cinquantina di transazioni al giorno, di tutti i
tipi. Inoltre ci sono le nuove registrazioni: «Il nuovo cliente viene con un
documento d’identità valido, facciamo una fotocopia, compiliamo un modulo e
subito può depositare o ricevere». La zona è molto «frequentabile», sostiene
Vanessa, così i suoi clienti sono i più disparati: avvocati, medici,
commercianti, molti studenti, soprattutto universitari.

Anche i più poveri vengono a Carpi
Service
per utilizzare Ttm. «Ci sono persone che inviano soldi in provincia
e non portano neanche il telefono, oppure caricano il loro telefono e poi
eseguono il trasferimento».

L’altra faccia di Capri Service è la boutique. «Siamo
anche agenti commerciali Ttm. Vendiamo vestiti e si può pagare con il conto
telefonico. I clienti si lamentano ma noi facciamo in modo che paghino con Ttm.
Madame Kethly aiuta i clienti a registrarsi e a fare i depositi. Il loro numero
sta aumentando ogni giorno». Mentre parliamo c’è un andirivieni costante di
gente allo sportello del Ttm in fondo al corridoio.

Altri servizi? «Facciamo anche il
pagamento degli impiegati e del cash for work». Chiediamo a Vanessa, che
dà lavoro a due ragazze, se è soddisfatta di questo business: «Noi
commercianti non siamo mai soddisfatte. La commissione che c’è adesso non è
gran che, ma quando si sarà diffuso di più mi aspetto guadagni maggiori».

Ma.Bel. e
Gian.Iaz.

Tags: mobile money, soldi, banche, commercio, povertà, microfinanza

Marco Bello e Gianluca Iazzolino




Kanchin: Fango, mine ed eroina

Reportage da un fronte sconosciuto.


In una striscia di terra sul confine con lo Yunnan cinese si
fronteggiano gli indipendentisti kachin e l’esercito birmano. Una sporca guerra
di logoramento che produce morti e profughi. Oltre a corpi mutilati dalle mine
o distrutti dall’eroina. Quello tra Kachin e governo birmano è uno dei tanti
conflitti dimenticati che si combattono nelle retrovie del mondo.

Tutte le foto di questo reportage sono di Nicola Longobardi

Maijayang. La globalizzazione è
un ripetitore di China Mobile appena oltre il fiume, a poche decine di
metri di distanza. Di là strade asfaltate e dighe, una macchina che sfila
tranquillamente lungo le rive del Ta Paing; di qua la pista irregolare e fangosa
attraverso le montagne, avamposti del Kachin Independent Army (Kia) e
campi profughi che appaiono in successione tra Maijayang (Mai Ja Yang) e Laiza,
le due città di frontiera ancora nelle mani dei Kachin (Jinghpo, Singpho),
gruppo etnico a maggioranza cristiana. La prima linea sta circa dieci
chilometri a Ovest.

La posta in gioco

Questa
guerra dimenticata tra ribelli kachin ed esercito birmano entra nel suo terzo
anno. Da inizio 2014 ha avuto una recrudescenza, con un susseguirsi di attacchi
alle postazioni del Kia, che risponde con tecniche di guerriglia. Intanto
proseguono a fatica i colloqui di pace che, nelle intenzioni di Naypydaw (nome
della nuova capitale birmana), dovrebbero portare a un cessate il fuoco
generalizzato ma che tutti i gruppi indipendentisti, anche quelli che hanno già
deposto le armi, guardano con sospetto. Ad aprile, il censimento nazionale è
stato attivamente boicottato dalla Kachin Independence Organization
(Kio) e intanto la guerra prosegue.

Iniziato
nel 1961, terminato nel 1994, il conflitto è ricominciato il 9 giugno 2011,
dopo 17 anni di pace. Si è detto che la molla scatenante sia stato il rifiuto
dei Kachin di trasformare l’esercito indipendentista in un corpo di guardie di
frontiera sotto il controllo centralizzato del Tatmadaw, l’esercito birmano. Ma
il primo attacco dei militari a una diga controllata dai Kachin, ha rivelato
che la posta in gioco è anche il controllo delle fonti energetiche e delle
materie prime. Non a caso, gli avamposti kachin sono spesso attaccati con la
scusa che essi coprano i contrabbandieri di legname che prendono la via della
Cina.

Il
che è pure vero. Carichi di tronchi d’albero, camion con targhe dello Yunnan –
la provincia cinese che confina a est con lo Stato Kachin – vanno su e giù per
le colline boscose a soli quindici chilometri da Maijayang. Qui, siamo in prima
linea.

Guerra di trincea e di mine

Il
tenente Hpau Jung Bawk Naw, 42 anni, è il comandante dell’avamposto kachin più
vicino alle linee birmane che si stagliano a soli settanta metri di distanza.
Il fronte ricorda le immagini della nostra Prima guerra mondiale, con trincee
che si fronteggiano anche per anni. Una mitragliatrice M18 è puntata verso il
nemico, mentre quindici soldati si aggirano stancamente tra le buche. In attesa
di qualcosa.

«Noi
teniamo la posizione, attendiamo ordini e buttiamo un occhio ai birmani. A
volte ci parliamo pure, con loro che stanno dall’altra parte, ma questo non si
può dire», racconta il tenente.

«Quando
sostituiscono tutti gli effettivi in prima linea, sappiamo che sta per
succedere qualcosa di grosso. Negli ultimi giorni, se ne vanno in giro
disarmati per l’accampamento, lasciano i fucili d’assalto a metri di distanza.
Vogliono farci credere che tutto è calmo, ma altrove hanno fatto lo stesso e
poi hanno attaccato improvvisamente. Nel gennaio 2013 hanno cercato di
conquistare il nostro avamposto, ma sono finiti sul campo minato. Noi piazziamo
mine in quantità industriale, così abbiamo avuto solo un ferito mentre loro
hanno contato centinaia di perdite. Non ci prepariamo in qualche modo speciale
perché molto semplicemente non abbiamo abbastanza armi. Ora stanno ammassando
truppe, lo si può capire dai bagliori metallici che si vedono su quel sentirnero
laggiù. Se attaccheranno, noi aspetteremo gli ordini e poi, in base a quelli,
ci ritireremo, ci difenderemo o ce ne staremo al riparo in trincea».

A
dispetto di quanto raccontato dal tenente Hpau, sugli ordigni sepolti ci
finiscono anche gli stessi soldati Kachin. «Ho 27 anni, sono un capo
guastatore, insegno ai ragazzi come mettere le mine. Il 20 giugno 2012, mentre
ne interravo una lungo la linea del fronte, ha cominciato a piovere. L’acqua ha
fatto qualche contatto e la mina è esplosa. Io mi sono ridotto così».

Il
soldato, attualmente in convalescenza presso l’ospedale militare di Maijayang, è
cieco, sordo da un orecchio, e ha perso alcune dita di entrambe le mani. «Sono
sposato e ho una figlia», dice. «Prima di arruolarmi nel Kia avevo una
fattoria. La vita all’ospedale militare è molto semplice: non faccio nulla, né
ho grandi speranze per il futuro. Passeggio qui in giro e aspetto».

Esercito versus guerriglia

È una
strana guerra: un mix di trincea e di guerriglia, in cui i soldati si feriscono
da soli mentre stanno semplicemente in attesa. Intanto, a poche decine di metri
dalla trincea, camion cinesi carichi di legno pregiato caracollano verso il
confine a Est.

La
sensazione di essere in una decadente «Apocalypse Now» dei nostri giorni si
accentua incontrando il capitano Maran Htorni Wa, 51 anni, stratega della prima
linea. Nel Kia è entrato nel 1979, 35 anni di vita militare e non se ne vede la
fine. Il suo compito è quello di mantenere il contatto con il comando e di dare
ordini in caso di attacco birmano. Lo troviamo in un avamposto appena dietro la
prima linea, mentre esce dalla sua capanna con gli occhi gonfi e visibilmente
ubriaco. Ha sei figli. In tempo di pace, con la moglie, disegna le uniformi del
Kia. Tutto il suo mondo ruota attorno all’esercito.

Le
forze Kachin appaiono inferiori alle truppe birmane. Eppure, secondo un recente
articolo del settimanale Jane’s Defense, «Hostage to History», il
Tatmadaw non ha la forza per vincere la guerra. Si legge: «Tra giugno 2011 e
l’inizio della campagna di Laiza, a metà dicembre 2012, almeno 5mila soldati
birmani sono morti nello Stato Kachin», nel tentativo di circondare il quartier
generale del Kia. Durante l’offensiva via terra e aria, sono stati anche messi
fuori combattimento «almeno due elicotteri e forse un velivolo ad ala fissa».

«E
per cosa?», chiede retoricamente il noto osservatore di cose birmane Bertil
Lintner: «La conquista di un paio di colline». Nel frattempo i ribelli del Kia
si ritirano velocemente, scompaiono nella foresta, e poi sono in grado di
riconquistare gli avamposti poco protetti attraverso tattiche di guerriglia
molto ben pianificata.

Civili o combattenti: la guerra non fa distinzioni

Per
le truppe birmane, diventa quindi più efficace una sorta di pulizia etnica che
consiste nell’aggressione di villaggi indifesi: uccidono, stuprano, torturano.

L’organizzazione
statunitense Inteational Human Rights Commission (Ihrc) ha appena
pubblicato un memorandum, nel quale si legge che «l’esercito birmano continua a
privilegiare i propri obiettivi militari rispetto alla protezione dei civili, e
lo fa anche attraverso politiche che implicano
attacchi diretti ai civili stessi». Secondo il documento, gli abusi
contro la popolazione sono parte di una strategia di «contro-insurrezione
centralmente pianificata», e allo stesso tempo esito apparentemente indesiderato
delle tecniche di guerriglia dei ribelli, che tendono «a confondere la linea di
demarcazione tra il civile e il combattente» (settimanale The Irrawaddy).

Questa
analisi sembra calzare a pennello per il Kia, un vero e proprio esercito
popolare in cui fin dall’adolescenza ogni uomo (e spesso anche donna) indossa
la mimetica e porta con sé un’arma, come il cosiddetto Ka-Ro-La, o «Kachin
Rocket Launcher», la modifica locale del fucile d’assalto M81 cinese, in grado
anche di lanciare granate.

Nkhum
Ja San, una giovane di 20 anni, proviene dal villaggio di Pa Namlim. «Il 16
novembre – racconta – l’allarme è suonato, l’esercito birmano stava arrivando.
Allora tutta la famiglia è andata a nascondersi, ma mio fratello 32enne ha
deciso di rimanere a casa perché sosteneva di non avere violato alcuna legge.
Nonostante mia madre gli dicesse di scappare. Quando siamo tornati al villaggio
un paio di giorni dopo, ho incontrato alcuni soldati del Kia che mi hanno detto
di avere trovato il corpo di un uomo con la gamba sinistra molto sottile. Ho
subito pensato che potesse essere lui, dato che aveva quell’handicap
[probabilmente poliomelite, ndr]. Avevo ragione. Indossava un’uniforme
del Kia e non aveva più il braccio sinistro e l’avambraccio destro».

La
soluzione politica non sembra all’orizzonte, anche se i colloqui di pace vanno
avanti. La proposta di un cessate il fuoco nazionale «è un diversivo», sostiene
Lintner. La questione principale è decidere se la Birmania debba trasformarsi
in uno stato unitario o in un’unione federale. «Di solito, prima si discute –
dice – e quando si trova un consenso è possibile sancire la tregua. Ma la
proposta del governo di “firmare ora e poi si vedrà” è una trappola. La
questione etnica birmana non può essere risolta in questo modo».

Tra fiumi di droga

Così
100mila sfollati si accalcano in una sorta di semisconosciuta «Striscia di Gaza»
che si estende lungo la frontiera cinese. Afflitti da una psicosi
dell’assediato, da un’esistenza quotidiana vissuta tra guerriglia e trincea e
da circostanze economiche gravemente destabilizzanti, mentre aspettano qualcosa
in un contesto di logoramento progressivo, i Kachin sono spinti talvolta
all’autodistruzione.

Se da
un lato si aggrappano alla loro fede cristiana, soprattutto battista ma anche
cattolica, dall’altro si abbandonano a false soluzioni che non fanno che
peggiorare le loro condizioni: ed ecco il diffuso consumo di eroina, che va di
pari passo con lo spaccio.

Secondo
padre Joseph Nbwi Naw, il prete cattolico di Laiza, la metà dei giovani kachin è
eroinomane. Non c’è modo di verificare questo dato, ma secondo l’ultimo
rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc),
in Birmania la coltivazione del papavero da oppio è in costante aumento dal
2006, in particolare nella tradizionale area di produzione dello Stato Shan –
quello a sud del territorio controllato dal Kio – ma anche in quello Kachin.
Almeno 300mila famiglie birmane vivono di questo business. La droga accede al
mercato mondiale dopo aver attraversato il Triangolo d’Oro (la zona di
produzione tra Myanmar, Laos e Thailandia, ndr) ed essere poi passata in
Thailandia e negli altri paesi del Sudest asiatico. Una parte dell’export va
invece in Cina e poi rimbalza in Birmania per l’uso locale, così il consumatore
deve solo attraversare un torrente o alcuni campi di canna da zucchero per
raggiungere il lato cinese e acquistare una dose da cinque yuan (meno di
un euro).

Secondo
il rapporto dell’Unodc, il conflitto favorisce la produzione di droga per tre
motivi. Primo: le difficili condizioni dell’economia di guerra costringono i
contadini a perseguire un reddito veloce e sicuro, cioè la coltivazione
dell’oppio. Secondo: i gruppi armati ribelli necessitano di fondi
immediatamente disponibili per l’acquisto di armi. Terzo: lo stesso governo
birmano incoraggia i gruppi paramilitari suoi alleati ad autofinanziarsi
attraverso il narcotraffico. È così che la droga va di pari passo con la
guerra.

Nei centri di riabilitazione

«Sono
entrato nell’esercito nel 1989. Nel 1998 ho disertato, poi ho fatto il
contadino. Ma quando la guerra è ricominciata, nel 2011, sono tornato
nell’esercito». A parlare è Lazing Htorni Shang, 43 anni, tossicomane,
spacciatore ed ex disertore dell’esercito kachin, attualmente detenuto nel
centro di riabilitazione di Maijayang. Qui, 53 persone tra drogati e pusher
stanno incollate una all’altra in celle di 16 metri quadrati: sono 12 o 13 per
ciascuna. «All’inizio bevevo solo alcolici – dice – poi ho cominciato a farmi
per via delle cattive compagnie. Compravo l’eroina a Loi Je, nel territorio
kachin occupato dai birmani. Quando uscirò di qui, toerò nel Kia. È un mio
dovere».

L’analogo
campo di riabilitazione di Laiza è gestito dal maggiore Hpandan Gam Ba, 47
anni, che

spiega
come funziona la politica di recupero/proibizione, comprensiva della promessa
salvifica della religione: «Diamo a tutti una Bibbia e, dopo cinque giorni di
trattamento con compresse di difenossilato [un oppiaceo sintetico, ndr]
che compriamo in Cina, li introduciamo alle attività di gruppo. Insegniamo loro
come coltivare le piante, allevare polli e fare giardinaggio, in modo che
abbiano qualche conoscenza utile per quando escono. Dal 2010, quando abbiamo
aperto il centro, più di mille persone sono passate di qui. Non solo Kachin. Ci
sono birmani di Yangon e cinesi. In definitiva, tutti quelli che acchiappiamo
nel nostro territorio. Siccome la nostra riabilitazione dura solo sei mesi,
alcuni cinesi vengono a farsi da questa parte del confine: se li prendono a
casa loro, si fanno almeno due anni. I nostri ospiti comprano droga soprattutto
in Cina, a volte li spiamo perfino con il binocolo. Ma la collaborazione con le
autorità cinesi è solo sulla carta. Capita che diamo loro tutte le prove per
arrestare qualche spacciatore che traffica sul loro lato, ma raramente fanno
qualcosa. La droga arriva soprattutto dallo Stato Shan e dal territorio Kachin»,
conferma.

Il fattore Cina

Il
gigante affamato al di là del fiume può apparire a volte il problema e a volte
la soluzione. Paga i Kachin per il legname e al tempo stesso dà il pretesto al
Tatmadaw per attaccare. Produce sia gli spacciatori sia le pillole per la
riabilitazione dei tossicomani. E molto di più.

Laiza,
la capitale della Kio, è una piccola città dove alla televisione si guardano i
programmi della Cctv, la televisione di stato cinese; si comunica con le reti
mobili di Pechino; si comprano sigarette Zhongnanhai, cioccolata, giocattoli
per bambini, e perfino riso e frutta made in China. Nel frattempo, quei
camion di legname continuano a fare rotta verso Est, placando la fame del
Drago, in un’osmosi inevitabile.

Ecco
cosa ne pensa Sumlut Gam, capo della delegazione del Kio ai colloqui di pace
con il governo birmano nonché ministro dell’Istruzione nel microstato kachin: «Siamo
in un tempo di guerra e la situazione economica è molto difficile. Avevamo una
centrale elettrica che rifoiva di energia perfino Mytkyna [l’ex capitale
Kachin ora controllata dai birmani, ndr] e in teoria potremmo ottenere
un profitto da questa attività e dalle tasse che raccogliamo per le miniere di
giada. Ma ora il governo prende di mira proprio queste fonti di reddito, quindi
tutto è bloccato. Ci resta solo l’agricoltura, che però non è sufficiente. Ed
ecco la Cina, questo vicino così importante. Loro non vogliono una guerra sul
confine, quindi è di vitale importanza non combattere qui e anche i birmani lo
sanno, astenendosi dall’attaccarci in questa striscia di terra. Grazie alla
Cina, il confine è sicuro».

Tradotto:
il Dragone ci tiene d’occhio e si aspetta di non sentire cadere uno spillo («Nessun
problema sui miei confini, signori»).

«Se
non procuriamo fastidi – continua Sumlut Gam – i cinesi rappresentano un
contributo di vitale importanza: acquistano le nostre materie prime e, non più
tardi di un mese fa, la loro Croce Rossa ci ha spedito il primo carico di aiuti
umanitari per i rifugiati».

In
passato, guardando in particolare all’Africa, molti osservatori hanno descritto
la sedicente strategia «win-win» cinese – cioè l’espansione commerciale del
Dragone che farebbe vincere (win) tutti – come una forma di imperialismo
economico in cui il vincitore finale è sempre Pechino, che arraffa diritti di
sfruttamento delle materie prime mentre si assicura uno sbocco di mercato per i
suoi prodotti di fascia bassa. L’altro vincitore sarebbero le élite locali, che
si riempiono le tasche di soldi cinesi debitamente stornati da investimenti
produttivi o dalla redistribuzione sociale.

Da
queste parti, oltre al legname, ci sono anche banane – la principale
piantagione di Laiza è di proprietà cinese e dà lavoro ad alcuni profughi del
campo – energia e un ridotto ma del tutto aperto mercato per i piccoli
rivenditori cinesi lungo il confine. E non vanno dimenticati i due grandi tubi
(gasdotto e oleodotto) che arrivano dal Golfo del Bengala, attraversano
l’intera Birmania, costeggiano il territorio kachin e raggiungono la provincia
cinese dello Yunnan.

La
terra dei Kachin è troppo vicina e Pechino deve tenere conto di tutte le parti
in causa, creando così una nuova strategia «win-win» alle porte di casa.

Pechino
sta quindi mettendo in atto un difficile esercizio di equilibrismo per non
scontentare due partner fondamentali: da una parte i Kachin (un milione dei quali
già vive sul lato cinese del confine), dall’altra il governo birmano, che
altrimenti correrebbe il rischio di cedere sempre più al fascino
dell’Occidente. Tuttavia, dato che i due attori sono in guerra tra loro,
trovare un’alchimia adeguata non è affatto facile.

Amore e odio

Ospedale
militare di Laiza. Si fa chiamare «Harry», ha 30 anni e tutti i giorni va a
passeggiare con la sua gamba artificiale in montagna. Prima, da civile,
lavorava in una miniera d’oro. È stato ferito da un proiettile di mortaio, ma
tiene duro, lui, vivo e vegeto su per la montagne. La sua protesi è prodotta
dalla Jiazhi, una società sino-tedesca dello Yunnan. L’intero arto costa 10mila
Rmb (circa 1.200 euro), solo la parte sotto il ginocchio, 8.000 (940): tutti
soldi del Kio che prendono la strada della Cina. «John», il medico, ha 25 anni.
Studi a Baoshan, Yunnan occidentale, non molto al di là del confine. Quando fa
le amputazioni, opera da solo, con le infermiere. Per ferite più gravi,
all’addome o agli organi interni, i soldati vengono spediti in Cina grazie a un
accordo tra il Kio e le autorità del Dragone.

Lat
Du Labang Naw Ja, 34 anni, è il responsabile nominato dal Kio del campo
profughi di Je Yang, vicino a Laiza. È il più grande dello Stato Kachin con più
di 8.600 Idp (Inteal Displaced Person).

«I
nostri rifugiati non fanno nulla tutto il giorno – dice – e attendono gli
aiuti. Ma alcuni di loro lavorano nella grande piantagione di banane cinese, il
che è buona cosa. Noi non vogliamo dipendere dai cinesi come schiavi, ma va
riconosciuto che pure loro hanno problemi: devono pagare le tasse al Kio e,
avendo bisogno di forza lavoro, ricorrono comunque ai nostri sfollati».

La
Cina è oggetto di amore e odio in questa terra. Hkun Htorni Layang, segretario
del Kachin National Council, un’organizzazione con sede in Inghilterra,
ha recentemente suggerito una soluzione abbastanza paradossale al problema
kachin: annettersi alla Cina con un referendum «alla crimeana». «Da quando la
Linea McMahon ha segnato il confine tra il territorio cinese e quello indiano –
ha scritto – noi Kachin ci siamo trovati divisi in tre paesi diversi: India,
Birmania e Cina. Il 2 febbraio 1947 abbiamo fatto l’errore di firmare gli
accordi di Panglong e di aderire all’Unione Birmana. Stiamo soffrendo da più di
50 anni, l’esercito birmano ha commesso crimini di guerra, ucciso civili
kachin, stuprato, bruciato i nostri villaggi e discriminato la nostra fede
cristiana. Non abbiamo mai sentito che i nostri fratelli kachin/jinghpo in Cina
soffrissero le stesse pene. I loro problemi non sono neanche paragonabili ai
nostri, qui in Birmania, e nessuno può affermare che l’Esercito Popolare di
Liberazione dia fuoco ai villaggi o uccida i Jinghpo in Cina».

Ma
Hkun Htorni Layang deve anche ammettere: «L’idea di annetterci alla Cina non
avrebbe però il consenso della nostra gente, perché Pechino sostiene il governo
birmano e fa investimenti non etici nello Stato Kachin».

Piccole storie per il domani

Il
lussuoso campo da golf è stato costruito per i dirigenti e i burocrati del Kio
sulla stessa strada che porta al campo profughi, appena fuori Laiza. Erba
verdissima, tagliata perfettamente, non sfigurerebbe alle Hawaii o nella Scozia
che al golf ha dato i natali. È una presenza aliena che non ha nulla a che fare
con il contesto. Ma i «germogli» di un ceto medio kachin stanno forse
lentamente emergendo dall’economia informale. Saranno loro il futuro di questa
gente, le leve di un diverso sviluppo materiale, senza che si stia ad aspettare
qualcosa che non arriva?

Al
campo profughi di Maijayang, una donna di 28 anni lavora su un telaio nella sua
baracca: fa gonne colorate nel tipico stile kachin. È completamente
autodidatta, dato che non ha soldi per pagare i corsi organizzati dal Kio. Il
suo sogno è quello di aprire un piccolo negozio con il marito vicino
all’ingresso del campo profughi. Forse questi campi diventeranno villaggi e la
gente non aspetterà più il camion degli aiuti.

«Eddy»
è un ventenne Kachin cresciuto a Yangon. Ha fatto il lungo viaggio per arrivare
qui passando attraverso la Cina. Ha scelto di lavorare come volontario nei
campi profughi. Il suo inglese è eccellente. L’ha imparato guardando film
stranieri, dopo avere appreso i primi rudimenti a scuola. Ha un cuore diviso a
metà: restare per dare una mano alla sua gente o cercare fortuna e una vita
migliore all’estero? Forse, un giorno, le due cose non si escluderanno.

Awng
Ban è un ufficiale dell’intelligence Kia di circa 30 anni. Attraverso una rete
di contatti dietro le linee nemiche raccoglie informazioni e poi posiziona le
poche armi pesanti disponibili nel modo più strategico per proteggere la linea
del fronte. Al termine della guerra, vorrebbe aprire un’attività di
compravendita di giada a gestione familiare. Dopo tutto, anche il commercio è
una questione di network.

La
parola kachin per «alcol» è «za». In un avamposto militare Kia sulle colline,
Gan Htorni, autista 30enne, offre un distillato di riso fatto in casa. Supera i
70 gradi. Non c’è il bicchiere, così va bevuto dalla bottiglia di plastica,
mentre si attende la jeep dell’esercito che ci deve portare verso Sud. Sua
moglie vende questa roba alla gente di Laiza; lui no, lui è un autista. Due
fonti di reddito sono meglio di una.

Sono,
questi, alcuni «germogli» nati dal lavoro vivo e dall’intraprendenza. In attesa
che i fiori fioriscano dal suolo fangoso della terra kachin. Per questo, però,
c’è ancora bisogno di tempo. E soprattutto della pace.

Gabriele Battaglia


Gabriele Battaglia,
giornalista, vive a Pechino. Membro di China
Files
, ha già collaborato con MC.

Nicola Longobardi,
fotogiornalista, vive a Pechino coprendo storie in Cina e altri paesi asiatici.
Collabora con China Files. Pubblica su
riviste italiane e inteazionali.

Archivio MC: la
rivista segue da sempre il Myanmar; da ultimo, il dossier di Piergiorgio
Pescali pubblicato ad aprile 2014.

Tags  guerre etniche, eserciti di liberazione, Cina, Myanmar, narcotraffico, tossicodipendenti, armi, mine, deforestazione, profughi, Kanchin, guerriglia, profughi

Piergiorgio Pescali




stupri, omicidi, violenze senza fine: donna è colpa tua

Negli ultimi mesi sui media inteazionali c’è stato uno
stillicidio di notizie su stupri, omicidi e orrori ai danni di bambine e donne.
Sistemi patriarcali, maschilismo, sottomissione: il fenomeno ha radici
profonde. In India come in molti altri paesi. Una realtà di violenza che va
condannata senza però farsi fuorviare dal sensazionalismo giornalistico e dagli
stereotipi. E?magari andando a leggere le statistiche.?Secondo le quali…

Si racconta che Gandhi abbia detto che si può
giudicare una società dal modo in cui essa tratta gli animali. Pandit
Jawaharlal Nehru, il primo presidente dell’India, nonché amico dello stesso
Gandhi, aggiunse, anni dopo, che il livello di civiltà di una nazione si pesa
misurando i diritti che questa riconosce alle donne.

Se
dovessimo parametrare l’evoluzione della società indiana secondo i criteri
proposti dai suoi due più illustri fondatori il risultato sarebbe decisamente
negativo. Nonostante da più parti si continui a descrivere la nazione asiatica
come la più grande democrazia al mondo, il rapporto «The Rise of the South:
Human Progress in a Diverse World», redatto nel 2013 dell’Undp (United
Nations Development Programme
), ha posto l’India al 136° posto su 186
nazioni nella classifica dell’indice dello sviluppo umano.

Particolarmente
allarmante è la condizione della donna; in questi ultimi anni nelle tre nazioni
nate dal retaggio del colonialismo britannico – India, Pakistan e Bangladesh –
i casi di violenza nei confronti del sesso femminile si sono moltiplicati.

Le complicità della polizia

Attacchi
con acido, violenze, stupri e omicidi hanno attirato l’attenzione dei media
inteazionali, mentre le dichiarazioni misogine di molti politici indiani,
pakistani e bengalesi, sommate alla complicità della polizia con i criminali,
hanno dato alle notizie quel tocco di licenziosità sufficiente a trasformarle
in sensazionalismi di largo seguito conditi di pettegolezzi e stereotipi.

In
Italia, alcune testate giornalistiche si sono lanciate in iperboli incredibili
per agganciarsi alla vicenda dei marò dipingendo l’intera classe politica
indiana, e a volte la stessa cultura, in termini dispregiativi.

Se ne
è parlato con clamore soltanto nei mesi scorsi, eppure la violenza contro le
donne non è un fenomeno nuovo nella società indiana. Anzi, si potrebbe dire
che, da qualche anno a questa parte, l’India ha cominciato a strappare qualche
velo che nascondeva agli occhi della nazione un problema di cui tutti erano al
corrente ma di cui nessuno parlava. E, forse proprio per questa apertura
sociale e l’accresciuto interesse dei media, è scoppiato il «fenomeno» stupri:
non ce ne sono di più, ma se ne parla di più.

In
realtà, la prima grande svolta nella visione della violenza sulle donne la si
ebbe già nel 1972 quando un’adolescente di 14-16 anni di nome Mathura venne
violentata da due poliziotti nel villaggio di Desaiganj, nello stato del
Maharashtra. Mathura, oltre a essere orfana di entrambi i genitori, era una adivasi1, il che la poneva in una posizione di
assoluta inferiorità nella complicata gerarchia castale indiana. Per mantenere
il fratello maggiore si prodigava come domestica presso una casa privata dove
incontrò Ashoka, nipote della padrona, il quale la chiese in sposa. Avrebbe
potuto essere una normale storia d’amore se il fratello di Mathura non si fosse
opposto al matrimonio e, per impedirlo, non avesse denunciato Ashoka per aver
rapito la sorella. La questione venne chiarita senza problemi presso il locale
commissariato, ma quando tutti i protagonisti della vicenda se ne stavano
tornando a casa, i gendarmi trovarono una scusa per trattenere Mathura. E fu lì,
proprio tra le mura che avrebbero dovuto difendere la legge, che la ragazza subì
gli stupri dei due poliziotti in servizio.

Nonostante
la giovane età e la sua condizione sociale, Mathura fece una cosa che nessuno,
prima d’allora in India, aveva osato fare: denunciò i suoi stupratori.

Il
processo fu, come ci si poteva aspettare, una farsa: i due agenti vennero
assolti perché la corte non credette a Mathura. Troppo giovane, povera e
illetterata perché le sue parole potessero avere sufficiente autorevolezza.
Inoltre la sentenza di assoluzione stabiliva che la ragazza «era già abituata a
rapporti sessuali» e, di conseguenza, non vi sarebbe stata alcuna violenza
perché la vittima non era illibata.

Il
verdetto passò inosservato per diversi anni fino a quando alcuni professori
dell’Università di Delhi lo contestarono gettando le basi per una prima riforma
di legge sullo stupro varata nel 1983, secondo cui l’atto sessuale senza il
consenso della donna è un crimine.

La
norma rivoluzionò il modo di porsi delle donne indiane all’interno della società:
l’attivista per i diritti femminili Lotika Sarkar fondò il Forum Against
Rape
(Foro contro lo stupro) e il Centre for Women’s Development Studies
(Centro studi per lo sviluppo delle donne), due istituzioni che negli anni
seguenti sarebbero stati dei fari cui i movimenti di emancipazione femminile
avrebbero guardato.

Le cuginette dalit

Mathura
venne subito dimenticata ed oggi vive con il marito e i suoi figli in un
villaggio poco distante da Desaiganj, pressoché ignara di quello che il suo
gesto ha significato per l’India. È vero, come afferma la giornalista e
scrittrice Nilanjana S. Roy in un articolo apparso sul quotidiano The Hindu,
che «nessuna legge al mondo ha mai fermato gli stupri, così come nessuna legge
al mondo ha mai fermato gli assassini. Ma leggi migliori, assieme a cambiamenti
politici e sociali hanno contribuito a far diminuire sia le violenze sessuali e
gli omicidi in diversi paesi».

Nella
vita pratica delle donne indiane nulla o quasi cambiò sino a quando,
quarant’anni più tardi, a Delhi, un altro fatto sconvolse l’opinione pubblica
femminile. Il 16 dicembre 2012 Jyoti Singh Pandey, una studentessa di medicina
di 23 anni, dopo aver visto il film Storia di Pi al centro commerciale
Select Citywalk di Delhi salì su un autobus con il suo ragazzo per tornare a
casa. Con loro viaggiavano cinque persone, tutte amiche dell’autista e
ubriache. A un certo punto l’automezzo si fermò e, immobilizzato il ragazzo, a
tuo i sei amici seviziarono Jyoti. Una volta appagati i loro piaceri,
lasciarono le loro vittime agonizzanti in mezzo alla strada. Jyoti morì dopo
due settimane a Singapore, dove nel frattempo era stata trasferita, a causa
delle ferite infertele durante lo stupro.

Fu la
classica goccia che fece traboccare il vaso: in poche ore migliaia di persone
scesero in piazza per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione della
donna in India. Anche in questa occasione le forze di polizia dimostrarono la
loro insensibilità: anziché limitarsi a controllare che tutto si svolgesse in
modo pacifico (come in effetti fu), improvvisamente cominciarono a contrastare
i manifestanti con brutalità e spavalderia, giungendo anche a manganellare con
violenza le stesse donne.

La
stessa brutalità e arroganza è stata usata, in modo più drammatico, a Katra
Sadatganj, un villaggio dell’India Nord orientale dove, nel maggio 2014, due
cugine dalit di 14 e 15 anni sono state trovate impiccate a un albero
dopo essere state ripetutamente violentate. Anche in questo caso, tra le sette
persone accusate, vi sono due poliziotti.

In
una intervista alla Bbc la scrittrice Arundhaty Roy afferma che «esercito e
polizia utilizzano regolarmente lo stupro come arma contro la popolazione nel
Chhattisgarh, Kashmir, Manipur».

E
quando le forze dell’ordine non sono direttamente coinvolte negli atti di maltrattamento,
spesso le persone che cercano di sporgere denuncia sono «invitate» a desistere,
tanto che nell’aprile 2013 la Commonwealth Human Right Initiative
(Chri), una Ong che da tempo chiede una riforma della polizia indiana, ha
denunciato la sua «mancanza di una risposta verso le vittime degli stupri».

La
morte di Jyoti, soprannominata dai media indiani e inteazionali Nirbhaya
(impavida) o Damini (fulmine) ha scatenato quello che il caso di Mathura
era riuscita a fare solo in parte: la condanna nazionale di una pratica che va
ben oltre il mero crimine «accidentale», come lo ha chiamato Ramsevak Paikra,
ministro per la Legge e l’Ordine dello stato indiano di Chhattisgarh.

Un sistema patriarcale e misogino

Cosa è
cambiato in questi quarant’anni nella società indiana e, soprattutto, come mai
proprio il caso di Nirbhaya, certamente non isolato, ha creato tale scompiglio
nell’opinione pubblica nazionale e mondiale?

Partendo
dallo stupro di Mathura e arrivando fino a oggi, la donna, seppur con difficoltà,
si è emancipata tra i gangli della società indiana, ma la sua indipendenza non è
ancora stata accettata dall’uomo. Sempre Arundhaty Roy spiega che «Viviamo in
una nazione in cui la maggior parte della popolazione vive in un sistema
feudale e patriarcale retaggio del passato, dove le donne dalit sono
stuprate da uomini delle caste più alte semplicemente perché viene ritenuto un
diritto di questi ultimi. Per contro viviamo in un sistema in cui le donne
stanno cambiando più velocemente degli uomini: entrano in massa nei posti di
lavoro, hanno più potere, stanno modificando il modo di vestire, di porsi di
fronte all’uomo, di guardarlo, le loro aspettative. Questi cambiamenti sociali
creano un nuovo stimolo di violenza contro le donne da parte di chi vorrebbe
che tutto restasse immobile».

«Il
sistema capitalista ha avuto il merito di contribuire a elevare la posizione
della donna in India» afferma Rajesh Tembarai Krishnamachari, scrittore e
analista dello sviluppo sociale ed economico dell’India e Pakistan. Stando a
quanto sostiene Krishnamachari «l’avvento del capitalismo ha permesso alle
donne di lavorare accanto all’uomo nelle fabbriche al fine di aumentare la
produzione. Questo ha incoraggiato l’intero sistema a ricercare una sorta di
equità tra i due sessi che si riflette sia nel sistema legislativo, con
l’approvazione di leggi che pongono uomo e donna sullo stesso piano, sia nel
sistema sociale, che oggi permette alla donna di entrare nelle fabbriche e
nell’apparato produttivo contribuendo alle finanze familiari. È anche vero, però,
che con l’avanzare dell’economia di mercato e della necessità di aumentare le
vendite dei prodotti, il capitalismo deve cercare nuove forme di
sollecitazioni. La pubblicità è, quindi, diventata sessualmente più allusiva,
più provocante, portando a una radicalizzazione del maschilismo nella società».
E alla sottomissione della donna, aggiungeremmo noi.

Secondo
l’attrice Leeza Mangaldas, conosciuta a Delhi nel 2012 quando, assieme a Samyak
Chakrabarty, fondò il forum di discussione Evoke India, le responsabilità
di questa sottomissione sono da imputare anche alle donne stesse: «Siamo noi
che uccidiamo le nostre figlie perché femmine, siamo noi che accusiamo le nuore
se partoriscono femmine anziché maschi e siamo ancora noi che disapproviamo,
ancora prima degli uomini, le donne che tentano di rendersi attraenti. Gli
uomini indiani sono misogini; le donne indiane provano disgusto per se stesse».

E
allora bisognerebbe rivalutare le parole di Marx quando, assieme a Engel,
scriveva che «Non si deve dimenticare che [le] idilliache comunità di
villaggio, sebbene possano sembrare innocue, sono sempre state la solida base
del dispotismo orientale […] contaminate dalla divisione in caste e dalla
schiavitù».

Una
cosa è certa: se Jyoti Singh Pandey fosse stata stuprata ed uccisa in uno
sperduto villaggio di campagna, nessuno si sarebbe indignato. La storia di
Jyoti – precedente la sua violenza – e della sua famiglia di origine contadina,
trasferitasi a Delhi in cerca di fortuna, illustra la speranza di riscatto per
milioni di indiani. Il padre che lavorava come facchino all’aeroporto di Delhi;
Jyoti che, per permettere anche ai suoi fratelli di continuare gli studi
offriva ripetizioni ai ragazzi del quartiere in cui abitava, erano il perfetto
esempio delle più alte aspirazioni della gran parte degli indiani.

Ci si
dovrebbe chiedere come mai in una società dove la violenza tra le mura di casa è
così frequente (una statistica risalente al 2007 afferma che il 54% degli
adolescenti ha assistito a violenze in famiglia), ci si scandalizzi solo quando
le donne sono stuprate o umiliate per strada.

Tra induismo e Bollywood

Basterebbe
guardare a un aspetto della mitologia e della religione indiana, quello che
valorizza la femminilità, per designare il ruolo fondamentale della donna.

Nella
cultura religiosa indiana il potere femminile shakti è l’unico in grado
di alimentare l’energia – al tempo stesso distruttiva e rigeneratrice – di
Shiva. Senza la shakti anche Shiva diviene un cadavere. Il Gange, il
sacro fiume indiano, in lingua hindi è la Ganga, al femminile. Infine, molti
nomi degli eroi mitologici includono il nome della propria madre, retaggio
delle primordiali società matrilineari: così Radhakrishna significa che Krishna
è figlio di Radha, così come Sitaram indica che Ram è figlio di Sita.

Detto
questo, la cultura indiana odiea propone come unico esempio virtuoso per la
donna l’immagine mitologica di Sita, la sposa di Rama, succube e pronta a
perdonare ogni intemperanza del marito sino a immolarsi per il suo amore.

Questo
filone è quello più seguito dall’industria cinematografica di Bollywood che,
con più di mille film sfoati ogni anno, è la maggiore al mondo. La
responsabilità dei produttori e degli attori di Bollywood è, chiaramente,
enorme nel raccontare il ruolo che la donna deve rivestire nella società
indiana.

Qualcosa
sta, finalmente, cambiando: l’All India Backhod, un collettivo di attori
e registi indiani, ha voluto dare una sterzata significativa producendo un
divertente filmato, diretto da Ashwin Setty, dal titolo eloquente Rape: It’s
Your Fault
(Stupro: è colpa tua), che ha superato le 3.700.000
visualizzazioni su You Tube2. In
esso l’attrice Kalki Koechlin spiega ironicamente come lo stupro sia sempre
colpa delle donne «perché gli uomini hanno gli occhi» e un «abbigliamento
provocante potrebbe spingere a uno stupro». Seguono alcuni esempi di
abbigliamento inverecondo che, partendo da maglietta senza maniche e
pantaloncini, giungono fino a una tuta spaziale, inevitabilmente anch’essa
tentatrice. Il tutto, sempre nell’intelligente ironia del filmato,
dimostrerebbe che la colpa degli stupri è da attribuirsi esclusivamente alle
donne perché «senza donne non ci sarebbero stupri» e, se è vero che gli stupri
sono commessi dagli uomini, è altrettanto vero che gli uomini sono nati da
donne. Infine c’è un attacco alla polizia: «Se sei stanca di essere umiliata
dagli stupratori, rivolgiti ai poliziotti e potrai essere umiliata da loro».

In
una intervista Kalki Koechlin, che da bambina ha essa stessa subito uno stupro,
afferma che le donne devono sentirsi libere di essere loro stesse all’interno
di una società che sta cambiando: «Dobbiamo essere pronti culturalmente ad
accettare le donne indiane di oggi le quali non sono le donne che la maggior
parte degli uomini indiani ha visto crescere in casa loro. Le donne di questa
generazione potrebbero non saper cucinare, potrebbero volersi rendere
indipendenti economicamente, potrebbero voler scegliere il loro marito, oppure
rimanere addirittura nubili».

Più
facile a dirsi che a farsi. Anzi, a pensarci, non è facile neppure a dirsi.

Parole indecenti

Dopo
gli ultimi casi di stupro la classe politica indiana si è esibita in una serie
impressionante e vergognosa di affermazioni. A cominciare da Manohar Lal
Sharma, uno degli avvocati degli uomini accusati dello stupro e dell’omicidio
di Nirbhaya, che il 10 gennaio 2013 ebbe a dire di non aver «mai visto un solo
incidente o esempio di stupro in cui sia stata coinvolta una donna rispettabile».
Altrettanto indecenti sono state le parole di Abu Asim Azmi, presidente del Maharashtra
Samajwadi Party
, che dopo essersi pronunciato a favore della pena di morte
per gli stupratori, ha detto che «dovrebbe esistere una legge che proibisca
alle donne di vestire abiti succinti e girare con ragazzi che non siano loro
parenti». E che dire dell’agghiacciante sentenza dell’avvocato A.P.Singh: «Se
mia figlia dovesse avere rapporti prematrimoniali e girare con il suo ragazzo
di notte, io stesso la brucerei viva. Non posso permettere che accada questo e
invito tutti i genitori ad adottare la stessa mia attitudine nei confronti
delle loro figlie».

Terminiamo
con le parole di un alto rappresentante del parlamento indiano: Abhijit
Mukherjee, figlio del presidente dell’India, carica che è stata ricoperta da
quel Jawaharlal Nehru che citavamo all’inizio dell’articolo. Nel difendere la
brutale repressione della polizia nei confronti dei manifestanti dopo la morte
di Jyoti, Mukherjee ebbe a dire che le donne che protestavano erano donne «dipinte»
che vanno in discoteca, con scarsa conoscenza della realtà sociale e che
seguono la moda di fare veglie al lume di candela… Nonostante le critiche
piovute su di lui, nelle recenti
elezioni indiane Abhijit Mukherjee è stato rieletto.

I numeri e le sorprese

Alla
fine di tutto, è proprio vero che l’India descritta dai media occidentali è
diventata così pericolosa tanto da consigliare alle donne di non aggirarsi da
sole per le strade?

Le
cifre, per quello che possono rappresentare, pare dicano il contrario. Da uno
studio condotto dalla Thomson Reuters Foundation, in India 2 donne su
100.000 vengono violentate, contro i 26,9 stupri su 100.000 commessi negli
Stati Uniti. Anche tenendo conto del fatto che solo il 10% delle violenze
perpetrate ai danni delle donne indiane viene denunciato (contro il 26-46%
negli Usa), i tassi di abusi sessuali tra i due paesi si equivalgono. Bisogna,
però, tener conto che secondo la legge indiana non vi è violenza sessuale se
non si è consumato l’atto. Nel 2011 (ultimo dato disponibile) il National
Crime Records Bureau
ha indicato che nella nazione – in cui, non bisogna
dimenticarlo, vivono un miliardo e 200 milioni di persone – vi sarebbero stati
25.000 stupri, 45.000 tentati stupri e 106.000 violenze contro le donne in
famiglia3. Il
problema non sono tanto i numeri, ma il fatto che, ai 25.000 stupri
regolarmente denunciati alle autorità, solo per il 26% è seguita una condanna
degli imputati (contro il 50% negli Usa). Vi è, quindi, una forte disillusione
nei confronti delle istituzioni.

Forse
è proprio questo il punto su cui lavorare per poter cambiare un atteggiamento
sociale.

Piergiorgio?Pescali
Note

1 – Termine con cui in India
si indicano gli appartenenti ai popoli originari (tribù indigene) del paese.
2 – L’indirizzo del
filmato: http://www.youtube.com/watch?v=8hC0Ng_ajpY.
3 – Il sito: www.ncrb.nic.in.

__________________________

DAL PAKISTAN – Una coppia di giovani sposi, Sajjad Ahmed (27
anni) e Mafia Bibi (23), sono stati decapitati da quattro familiari della
ragazza per aver infangato l’onore della famiglia. Si erano sposati per amore (Dawn, quotidiano pakistano, 30 giugno
2014).

 

Errata corrige:
Questa foto rappresenta Snia Gandhi con l’ex Primo Ministro indiano Manmohan Singh, e non con Narendra Modi (nella foto qui sotto), come scritto nella didascalia di pag. 12 della rivista.
Ce ne scusiamo coi lettori.

Tags: violenza di genere, stupro, omicidio, induismo, India,
Pakistan, Bangladesh, caste indiane, Arundhati Roy, Dalit

Piergiorgio Pescali




Cari Missionari

Troppi
obiettori, anzi, troppo pochi!

L’8 marzo 2014, per dare il suo contributo alla
celebrazione della Festa della Donna, il Consiglio d’Europa non ha trovato
niente di meglio da fare che redarguire l’Italia per l’eccesso di
tolleranza verso i medici antiabortisti: «A causa dell’elevato e crescente
numero di medici obbiettori di coscienza, l’Italia viola i diritti delle donne
che alle condizioni prescritte dalla legge 194 del 1978 intendono interrompere
la gravidanza…».

Esattamente un mese dopo, nella vostra Torino, città che
anche io amo molto – come si può non amare la città della Consolata, la città
della Sindone, la città di San Giovanni Bosco, la prima capitale dell’Italia
unita? – è accaduta una cosa molto grave: all’Ospedale Martini si sono
registrate le prime due vittime italiane dell’aborto chimico, Anna Maria e la
creatura che portava in grembo sono morte dopo il trattamento con la odiosa
mistura prostaglandina + RU 486 (dove RU sta per Russel Uclaf, industria del
gruppo Hoecht, la grande multinazionale che negli anni della II Guerra Mondiale
produceva i gas nervini per la Germania nazista, gas che  vennero
usati nei campi di concentramento per uccidere milioni di innocenti).

Ebbene, se per il Consiglio d’Europa i medici e i
farmacisti italiani obbiettori sono troppi, per me sono troppo pochi: se ce ne
fosse stato qualcuno in più, quasi certamente una giovane mamma sarebbe
ancora viva e all’ombra della Mole ci sarebbero un bambino in più e un orfano in meno.

Voglio esprimere un auspicio: i membri del nuovo
Parlamento Europeo e della nuova Commissione Europea rivedano da cima a fondo la scala dei valori alla quale si sono
ispirati i loro predecessori e facciano sentire la loro voce nel Consiglio
d’Europa. La vita umana deve tornare a occupare un posto molto alto in questa
scala; quanto alle libertà individuali, quella da mettere sotto accusa non è la
libertà di obiezione di coscienza, ma quella che eleva l’interruzione di
gravidanza al rango di diritti, e un pesticida antiumano – così lo definiva
anche il grande medico e genetista Jerome Lejeune – al rango di farmaco.
Cordiali saluti

Luciano Montenigri
Fano, 20/05/2014

L’eterno riposo

Trovo molto interessanti, in questa rubrica, gli scambi
tra i lettori assolutamente digiuni di teologia e la redazione, come, sul
numero di Aprile, circa la simbologia del crocefisso. Provo anche io a die
una: come mai la nostra preghiera per i defunti parla di eterno riposo,
che dà l’idea di una noia pazzesca, e non di eterna gioia del paradiso? O forse
per i normali defunti è previsto il riposo fino alla resurrezione dei morti,
mentre intanto la gioia del paradiso è riservata solo ai santi?

Non è che non parli dell’eterna gioia perché nel periodo
dell’affermazione del cristianesimo, tra crisi dell’impero romano e alto
medioevo, la popolazione era scarsissima, i contadini facevano una vita
impossibile, e bisognava scoraggiare la tendenza al suicidio con le più feroci
maledizioni perché senza contadini non mangiavano i cavalieri e neanche preti e
frati?

Claudio Bellavita
21/05/2014

Purtroppo
la parola riposo è inflazionata e ha perso la potenza del suo
significato originale. Il termine riposo della famosa preghiera non è
scelto a caso. Ha le sue radici nella Bibbia e non è certo un’invenzione
medioevale, come lei suggerisce, anche se nel Medioevo l’obbligo del riposo
domenicale e delle feste liturgiche è stato, di fatto, uno strumento di difesa
dei poveri contro le vessazioni dei signori. Quanto ai monaci, essendo in
molti, erano bene in grado di provvedere a se stessi, anche fin troppo bene,
visto che alcuni monasteri e conventi divennero così ricchi da causare la
propria rovina.

Nella Bibbia il primo significato della parola che indica riposo è sedersi per
riposare
, come il cammello che si accovaccia. Ben presto però la parola
assume anche un significato religioso per indicare il posarsi dello spirito
di Dio sull’uomo e sulle cose
. Poi si arriva a un significato più profondo:
concedere il riposo, che è il dono di Dio al suo popolo attraverso il
possesso della Terra Promessa e la vittoria sui nemici. Il vero riposo, allora,
è il risultato della realizzazione della promessa di Dio a Israele e si
attua nel paese nel quale abiterà in pace, senza paure e affanni, «ognuno sotto
la propria vite e sotto il proprio fico» (1 Re 5,4s).

Il riposo è
collegato in modo particolare al settimo giorno, il sabato
(etimologicamente «cessazione dal lavoro»), e nell’Antico Testamento assume tre significati:

Gen 2, 2 e Es 20, 8-11:
è il ricordo del completamento
della creazione
; il riposo di Dio, a conclusione della creazione del mondo,
è il paradigma del riposo dell’uomo. È il giornioso compiacimento nel contemplare
un lavoro ben fatto che dà soddisfazione e pace. È un atto col quale si
riconosce che il mondo, la creazione appartiene a Dio.

Dt 5,12-15:
è risultato della liberazione dalla schiavitù che Dio ha donato al suo
popolo. È frutto della salvezza operata da Dio. Riposare è un’azione da uomini
liberi, è una prerogativa di libertà. Israele, non più schiavo in Egitto, è un
popolo libero nella terra della promessa dove gode il riposo che è felicità,
libertà, pace e sicurezza. Riposare è allora un atto di riconoscenza per
l’azione liberatrice di Dio.

Es 31,12-17:
è il frutto e la celebrazione dell’Alleanza, quel rapporto privilegiato che
c’è tra Dio e il suo popolo
. Riposare diventa atto di comunione con Dio e
partecipazione alla sua vita, di consacrazione e di appartenenza a Lui solo.

Nel Nuovo Testamento
il tema del riposo è presentato con forza nei capitoli 3 e 4 della lettera agli
Ebrei, dove si dice che solo per fede si entra nel riposo di Dio. Lì il
riposo vero è la partecipazione alla vita stessa di Dio
di cui la Terra
Promessa era solo un’anticipazione provvisoria e incompleta. Ma il riposo si
capisce appieno solo con Mt 11, 28ss in cui Gesù dice che solo andando da lui
troveremo il «riposo della nostra vita». Il vero riposo è Gesù stesso, è
lo stare con lui, dove lui è. Questo è un riposo ben diverso da quello del
ricco della parabola di Lc 12, 16-21 che invece di trovare la felicità
nell’amore per Dio e per gli altri è diventato prigioniero delle sue cose.

Questi sono pochi spunti che ci dicono come
quando usiamo la parola «riposo» non intendiamo certo la noia, vuota e triste,
di chi non ha niente da fare e neppure la terapia per chi è malato o stressato.
È invece lo stato di totale felicità e gioia di chi ha raggiunto la piena
libertà e realizzato la propria dignità di figlio e figlia di Dio nella «casa
del Padre» che Gesù ha spalancato per noi.

Coscienza e
salvezza

Caro Padre,
questo è quanto mi ha scritto mia nipote
Debora dopo aver letto la tua riposta sulla rivista di
aprile (MC 4/2014, pag. 6).

«Grazie di aver inoltrato le mie domande alla rivista, è
stato molto interessante leggere la risposta degli esperti in materia. Mi sono
proprio piaciute perché è la stessa identica cosa che ho sempre pensato io, cioè,
riassumendo in due parole, che chi nasce non cristiano non può essere
condannato solo per questo, ma sarà valutato da come si è comportato secondo la
sua cultura, e che nessuno ci assicura che la Bibbia sia un testo al 100% vero,
ci si può soltanto «fidare».

[…] Ho però qualche riserva sul fatto che “ognuno è
chiamato a vivere una vita retta in base alla sua cultura e alla sua coscienza,
su questo sarà valutato e non su quello che non conosce”. Frase vera, ma
pericolosa! Per due motivi: il primo è che la coscienza è influenzata sin dalla
nascita dall’ambiente che ci circonda. […] La coscienza è creata,
passami il termine, dall’ambiente socio-culturale in cui viviamo. Il secondo
motivo è che ci sono tante culture a questo mondo e molto diverse tra loro,
alcune indubbiamente ancora piuttosto barbare, perlomeno ai nostri occhi
occidentali. Non parlo di indigeni isolati nella foresta, ma, cosa assai
peggiore, di culture che pongono a livello inferiore un essere umano rispetto a
un altro in base a non si sa bene quali principi. [Uno che si comporta così]
al momento della morte quindi  risulterà
retto e onesto visto che si è sempre comportato seguendo alla perfezione quello
che gli hanno insegnato e che è ciò che conosce.

Cito ancora: “La condanna è per chi non vive secondo gli
standard migliori della sua cultura”. Da ciò ne deriva che noi siamo tutti
spacciati perché lo standard del nostro Dio è talmente alto che possiamo
soltanto pregare di avvicinarcisi. [Invece il Nostro che tratta le donne
come oggetti, batte la moglie, uccide gli infedeli, impicca chi sceglie
un’altra religione
] è salvo: non è colpa sua perché lui non lo sa. Lui
pensa di far bene, di combattere per il suo Dio. Non può quindi essere
condannato per ciò che lui è convinto sia giusto. E per noi vale la stessa
cosa. Noi cristiani siamo convinti che lassù ci sia Dio e cerchiamo in tutti i
modi di convincere gli altri. Magari quando moriremo e andremo lassù troviamo
[Dio] che ci dirà: “Siete stati dei fessacchiotti, ma non posso condannarvi
perché non lo sapevate”. Alla fine della fiera ne deriva che non saremo
giudicati con dei valori standard per tutti, ma con dei valori tipici
della cultura di ogni luogo. E la cultura la fanno gli uomini, quindi ancora
una volta saremo praticamente giudicati da valori creati dagli uomini.

E poi, un’ultima questione: c’è ancora qualcuno sulla
terra che non sappia che ci sono cristiani, musulmani, ebrei, induisti,
buddhisti e compagnia? Chi può dire “non lo sapevo”? I musulmani sanno bene che
ci sono i cristiani, ma li rifiutano perché sono nati musulmani e pensano che
sia giusto così. Noi sappiamo che ci sono le altre religioni, ma mai ci
sogneremmo di lasciare la nostra per la loro perché siamo nati con questa e
pensiamo che sia giusta. Qua non si tratta di “sapere”, ma di forte influenza
culturale. Sei quel che sei in base a dove nasci.

Concludo con una massima: Grazie Signore per non avermi
fatto nascere in [un paese] dove sarei battuta dalla mattina alla sera». Grazie a voi.

Manuela
22/04/2014

Grazie
dell’esperti in materia. Come missionari e preti dovremmo esserlo, ma
non per dire «così è e non si discute». Dovremmo essere degli esperti nel
testimoniare nei fatti e nella parola l’infinito amore di Dio. Chiedo scusa a
Debora se per ragioni di spazio ho più che dimezzato il suo lungo scritto e
tolto ogni riferimento a una specifica religione.

Bibbia: «testo al 100% vero». Non è libro di storia o scienza: condivide gli errori e
le ignoranze del suo tempo. Racconta invece con verità l’esperienza religiosa
della conoscenza sempre più approfondita di un Dio che si rivela
progressivamente, fino alla pienezza di Gesù Cristo. Certo, senza fede (=
relazione di amore) in Dio, la Bibbia rimane un libro tra tanti.

Ci sono culture intrinsecamente cattive? San Paolo dice che tutti gli uomini sono «discendenza di
Dio» (At 17,29) e hanno in sé una capacità naturale di cercare Dio, «se mai
giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di
noi» (At17,27). Per questo possiamo dire che in tutte le culture ci sono dei
valori fondamentalmente positivi su cui tutti gli uomini possono ritrovarsi. Il
problema nasce quando degli uomini prendono il posto di  Dio.

«Saremo giudicati da valori creati dagli
uomini»?
Gesù insegna che «saremo
giudicati sull’amore». Amore è compassione, misericordia, solidarietà, aiuto ai
poveri e più deboli della società, giustizia, azione di pace… Questo mi pare
possa valere per tutti gli uomini. Se qualcuno poi usa della (sua) religione
per giustificare violenza, discriminazione, guerra, ingiustizia e avidità, se
la vedrà lui con il Padreterno.

«Chi può dire non sapevo»? C’è differenza tra essere informati e sapere/conoscere.
Si possono avere tutte le nozioni e informazioni del mondo, ma – in fatto di
fede – conoscere è entrare in relazione, è amare. La religione, nelle sue forme
esteriori, nei suoi rituali e nell’organizzazione, è frutto ed espressione di
una cultura, ma la fede no. Per noi cristiani la fede nasce dall’incontro
personale con il Dio rivelato da Gesù Cristo, che con la sua incarnazione,
passione, morte e risurrezione ci ha resi partecipi della famiglia di Dio, qui
sulla terra anticipata nella comunità dei credenti, la Chiesa.

Tags: salvezza, morte, riposo, bioetica, obiezione di coscienza, aborto, coscienza

Risponde il Direttore




Non è un paese per mamme

Italia 2014: sei madri si raccontano

Testo di Gabriella Mancini, foto di Gabriella Mancini e Murat Cinar
Le foto del dossier sono simboliche e non ritraggono le persone che si raccontano
in queste pagine. Alcuni dei nomi sono stati modificati, ma le storie sono autentiche.


Mateità a rischio
Tre madri Italiane

1. Gemma
2. Claudia
3. Miriam

Tre voci transnazionali

4. Emna
5. Melissa
6. Silvia

Conclusione: Più domande che risposte
Schede

Bibliografia
Geografia e anagrafica della nascite in Italia
Lavoro: Per le straniere è peggio
Disoccupazione al femminile

Mateità a rischio


Economia e politica contro le mamme

Quello che ci figuriamo come il classico paese dei
«mammoni», accoglie ben poco, e male, le mamme: l’Italia non ha infatti una
politica in favore della famiglia e della mateità e rende difficile la vita
alle coppie ancora convinte che avere figli abbia senso e sia segno di civiltà
e sorgente di progresso.

Essere
«madre», nel 2014, è una sfida che si scontra con un’economia allo sbando. Per
tutelare il più nobile diritto della civiltà, la mateità per l’appunto, la
strada è ancora tutta in salita. In un paese dove il tasso di disoccupazione è
pari al 12,6% (dati Istat), le più penalizzate rimangono le donne e, in
particolare, le madri. La carenza di servizi per la prima infanzia (va
ricordato che solo l’11% dei bambini italiani va al nido, ventuno punti in meno
rispetto ai numeri raccomandati dalla strategia di Lisbona del 2002) e una
mentalità ancora prevalentemente maschilista, delega tuttora alle donne la cura
dei figli e l’organizzazione della casa. Chiara Saraceno (ritratta nella
foto di destra
), una delle sociologhe italiane di maggior fama,
specializzata in tematiche familiari, questione femminile e politiche sociali,
ci delinea nitidamente questa pagina di storia italiana: «Il nostro è un paese
in cui conciliare responsabilità famigliari e lavoro remunerato è molto
difficile: perché i servizi per la prima infanzia e le scuole a tempo pieno
sono mediamente insufficienti; perché la divisione del lavoro in famiglia
continua a essere disomogenea tra uomini e donne; perché nell’organizzazione
del lavoro si è diffusa più la flessibilità dettata dalle priorità aziendali
che non quella che tiene conto delle esigenze dei lavoratori. Ci sono
differenze tra donne, a seconda del livello di istruzione, dell’area geografica
di residenza, del tipo di professione. È più facile per le laureate che vivono
nel Centro-Nord combinare lavoro remunerato e mateità. Anche per le laureate,
tuttavia, lavoro e mateità possono apparire inconciliabili. Secondo gli
ultimi dati Almalaurea, a cinque anni dalla laurea è occupato il 63,3% di
coloro che hanno già un figlio a fronte del 75,8% di coloro che non ne hanno.
La mateità allarga la differenza con i coetanei maschi, le cui percentuali
sono rispettivamente 88,9% e 83,5%. Mentre la pateità è associata a una più
alta partecipazione al lavoro, per la mateità è vero il contrario. Il fatto è
che le giovani laureate, oltre a sperimentare maggiori difficoltà di conciliare
famiglia e lavoro quando hanno un figlio, fanno anche più fatica a passare da
un contratto temporaneo a uno definitivo, con meno garanzie in caso di
interruzione per mateità» (La Repubblica, 24/04/2014).

Alla luce di tutto ciò, e considerando che anche
l’attuale premier Matteo Renzi sta promuovendo una maggiore flessibilizzazione
dei contratti di lavoro, come se la passeranno le donne e, in particolare, le
mamme, nel prossimo futuro? «Poter spezzettare un rapporto di lavoro in
contratti di 4-5 mesi, salvo ricominciare da capo, con un nuovo
lavoratore/lavoratrice allo scadere dei tre anni, sarà deleterio per le donne.
La possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte, consentirà ai
datori di lavoro di ignorare del tutto legalmente la norma sul divieto di
licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto. Non occorrerà neppure più
far firmare, illegalmente, dimissioni in bianco, o indagare, sempre
illegalmente, sulle intenzioni procreative al momento dell’assunzione. Basterà
fare loro sistematicamente contratti brevi, non rinnovandoli alla scadenza in
caso di gravidanza. Con l’ulteriore conseguenza negativa che molte donne non
riusciranno a maturare il diritto alla indennità di mateità piena e faranno
fatica a iscrivere il bambino all’asilo nido, dato che non potranno dimostrare
di avere un contratto di lavoro almeno annuale» (Lavoce.info,
17/03/2014).

In virtù di queste considerazioni nasce il nostro
dossier che restituisce totalmente la voce a una galleria di donne italiane e
straniere. Attraverso le loro scelte e il loro quotidiano, cercheremo di
mostrare uno spaccato di genere in una situazione italica, in cui la penuria
lavorativa sembrerebbe voler appiattire, uniformare e rendere invisibili i talenti,
penalizzando le multi capacità femminili. Ma, come sempre, le donne si
riorganizzano, si reinventano e combattono.

Gabriella
Mancini   

 
 

Tre madri italiane nell’impresa di
Conciliare lavoro e
famiglia

A volte occorre semplicemente mettersi in ascolto. È quello
che abbiamo fatto per ridare voce alle donne, troppo spesso messe a tacere.


1. Gemma

Un contratto a progetto per anni in un’agenzia di
comunicazione milanese, una professionalità mai messa in discussione dai
responsabili dell’azienda, una porta chiusa alla nascita del secondo figlio a
favore di una neolaureata sottopagata e… libera da vincoli familiari.

«Quando
sono rimasta incinta del mio secondo figlio ero alle soglie dei 40 anni.
Lavoravo da dieci anni come copy writer in un’agenzia di comunicazione e
svolgevo parallelamente attività giornalistiche di interesse sociale, sempre
poco remunerative ma molto gratificanti. Il lavoro in agenzia era a tutti gli
effetti da dipendente (orari e impegno sul luogo di lavoro) ma travestito da
contratto a progetto, reiterato anno dopo anno. Fino all’ultimo mese di
gravidanza lavorai con un buon ritmo. Nelle ultime settimane, i miei capi mi
affiancarono una giovane stagista – non retribuita – per sostituirmi nei mesi
della mateità. Tre settimane prima della data prevista del parto, in
occasione della mia festa di “arrivederci”, le titolari dell’azienda (entrambe
con tre figli a testa) mi riempirono di sorrisi, baci e abbracci. Andai in
mateità fiduciosa che avrei ritrovato il mio ruolo e la mia postazione dopo i
cinque mesi obbligatori. Le voci erano rassicuranti: la giovane sostituta, per
quanto volenterosa, non aveva la mia stessa esperienza e la mia penna».

La mercificazione della propria professionalità

«Dopo cinque mesi, mi scrissero che non c’era una mole
di lavoro sufficiente per due persone e che potevo prendermi ancora tre mesi di
mateità facoltativa. Iniziarono a rispondere meno alle mail e a rimandare un
incontro per riformulare la nostra situazione. Quando, finalmente, si decisero
a farmi andare in ufficio, chiedendomi di portare il pargolo per poterlo
finalmente conoscere… mi dissero che molti clienti avevano ritirato i loro
contratti, che erano nel periodo più buio della loro storia aziendale e che la
mia figura non poteva esser economicamente contemplata. Rimasi senza parole,
con il bimbo in braccio. Improvvisamente invasa da una fragilità senza
confronti. La mia professionalità veniva trattata come merce e barattata in
cambio della possibilità di sfruttare una giovane disponibilissima a non esser
retribuita benché lavorasse 10 ore al giorno. Mi dissero che, anche se la
qualità dei contenuti sarebbe stata più scadente, loro necessitavano di
manovalanza a costo zero, e, dal momento che nel frattempo il mio contratto
sarebbe scaduto, la mia presenza non sarebbe più stata necessaria».

Scelte che bruciano

«Mi tormentai due settimane sul da farsi: ripresentarmi
comunque e pretendere il posto (in virtù della mateità il contratto prevedeva
un prolungamento dello stesso per un certo periodo); iniziare una lunga causa
legale per pretendere il risarcimento di tutti i contributi non pagati, delle
ferie e di quant’altro; cercare un compromesso. Per avere chiarimenti mi
presentai al Nidil (il sindacato dei lavoratori atipici) da cui non ebbi alcuna
risposta esauriente, a dimostrazione del fatto che in materia di contratti a
progetto, la formulazione di una vera tutela sindacale era ancora ben lontana.
L’unica soluzione era agire, privatamente, per via legale. Ebbi timore di
affrontare una sfida simile perché avrei potuto farmi terra bruciata per altre
eventuali collaborazioni. La sensibilità e l’emotività accentuata dalla mia
nuova situazione esistenziale (e ormonale), l’allattamento e le cure continue
al piccolo, il desiderio di riprendermi la mia vita e la mia serenità senza
dover tirar fuori le unghie in un’aula di tribunale, mi fecero demordere.
Scelsi la via del compromesso e patteggiai un risarcimento per i mesi di
prolungamento del contratto. Ancora adesso la scelta mi brucia. La tutela della
mateità è simbolo di civiltà e il non esser stata tenace nel rivendicare
quello che era giusto è una ferita ancora aperta. Con il tempo, però, ho
iniziato a riprendere coraggio e fiducia in me stessa, a ricostruirmi
un’identità che mi sembrava persa e a riorganizzarmi, come madre, come donna,
come professionista».

2. Claudia

Essere dirigenti significa saper fare l’equilibrista: tra
lavoro, figli, casa e marito. La libertà della donna passa attraverso il mutare
della mentalità predominante che vede ancora la «madre» come l’unica addetta
alla cura dei figli.

 «Dopo
la laurea in architettura, vinsi un dottorato in pianificazione territoriale e
urbanistica. Fu un’esperienza di approfondimento e di rilievo ma non riponevo
molte speranze nella carriera universitaria. Così, quando ebbi un responso
positivo da un concorso presso l’ufficio tecnico per l’urbanistica e l’edilizia
privata di un ente territoriale, non esitai.

Dal 1996 al 2002 cercai sempre di conciliare casa e
lavoro in maniera sistematica, con non pochi sacrifici. La mia primogenita
nacque nel 1998, e il secondo nel 1999. Nel 2002 diventai la responsabile
dell’ufficio e, se da un lato acquisii maggior flessibilità nell’orario
lavorativo, dall’altro una maggiore dipendenza mentale e un forte ingombro
psicologico iniziarono a penetrare nelle ore dedicate alla famiglia. Non è
semplice staccare la spina, allontanare i pensieri del lavoro e ritornare a
vestire il ruolo di madre. Basta lo squillo di un telefono o il ricordo di una
mail da inviare d’urgenza e i figli si ritrovano privati della tua presenza. La
mia sensazione è sempre stata quella di dovermi dividere: tra l’esser madre,
donna, moglie, professionista, organizzatrice della casa. Le identità sono
tante, le sfumature personali altrettante, e in questo volerci essere per tutti
e in maniera perfetta, ho rischiato spesso il bu out».

La conciliazione e i sensi di colpa

«Ho sempre cercato di essere un’acrobata e di vestire i
miei tanti panni in misura tale da non deludere gli altri e me stessa. Senza
reti familiari in soccorso e con la penuria di nidi e di servizi per
l’infanzia, l’incastro tra lavoro e vita privata è stato un gioco da
equilibristi. E allora, ecco le corse per non perdere le assemblee scolastiche
dei ragazzi, il controllo quotidiano del diario prima di sprofondare nel letto,
la partecipazione a qualche laboratorio nelle loro classi, la volontà di
cercare sempre e comunque un dialogo e delle attività ricreative da fare
insieme. Accanto a tutto questo va ricordato che oggi, 2014, in Italia e in
modo trasversale a tutti gli strati sociali, la cura dei figli rimane ancora
prevalentemente a carico della madre. Con un cambio di paradigma e una maggiore
collaborazione da parte dei padri, forse, si potrebbero conciliare meglio le
due sfere. Rimane, ed è indubbiamente figlio di una cultura femminile ancora
arretrata e in parte maschilista, il senso di colpa per non essere solo “una” e
per non rivestire in toto quella figura. Per quanto io faccia, anche
sacrificando tutto il tempo di cui avrei bisogno per me stessa, rimane immutata
la sensazione che, con un orario più agevole sul lavoro e meno responsabilità,
potrei seguire meglio la crescita, sia didattica che umana, dei miei figli».

La libertà passa attraverso il mutare della mentalità

«Il fatto di trovarmi, sovente, unica donna ai tavoli di
lavoro manageriali, presieduti dagli alti vertici, mi ha portato ad affinare
delle arti di “difesa”. Più di una volta ho dovuto rispondere a battute
prettamente maschiliste. Con l’esperienza, la costruzione di una forte identità
e una buona quantità di letture “di genere”, ho imparato a rispondere a tono e
a non cedere di fronte a chi vuole farmi sentire inadeguata o un’arrivista che
cerca il riconoscimento a tutti i costi, e minando così la mia autostima.

Oggi, con un terzo figlio di soli tre anni (avuto over
40), ho maturato la consapevolezza che l’unica via in Italia per potersi godere
i figli, sia quello di scegliere autonomamente di declassarsi, sia come
posizione che come retribuzione. Seppur senza rimpianti per le mie “acrobazie”
quotidiane e le mie scelte di vita, sto iniziando a progettare in questi
termini. Per me potrà voler dire riappropriarmi di una fetta di mateità. Per
il genere femminile in Italia è una sconfitta. Ancora una volta siamo noi donne
a dover rinunciare alle nostre potenzialità!».

3. Miriam


Una laurea in scienze politiche con una tesi su tematiche
interculturali. Un lavoro come addetta alla vendita di una nota catena di
articoli sportivi, in cui il 70% dei collaboratori sono donne ma solo il 30%
ricopre cariche dirigenziali. Un difficile incastro tra orari lavorativi e
famiglia.

«Dopo
due anni di lavoro come ricercatrice sociale sui temi dell’immigrazione, per
riuscire ad avere una maggiore stabilità economica, accettai un posto da
commessa in una grande catena di articoli sportivi. Con l’arrivo delle mie
prime due bimbe divenne difficile riuscire a ritrovare qualche collaborazione
nel settore dei miei studi e, per necessità familiari, il lavoro che doveva
essere momentaneo divenne definitivo. Oggi come oggi, con l’arrivo del mio
terzo piccolo di non ancora due anni, le difficoltà nel conciliare gli orari
scolastici e di vita delle figlie con un lavoro che prevede tui fino alle 21,
dal lunedì al sabato, ed un unico giorno libero settimanale, riunire la
famiglia è sempre più impegnativo. L’abusato termine “flessibilità” nasconde
una realtà che non aiuta a far combaciare i diversi tasselli della vita
famigliare, soprattutto quando si riduce al comunicare sempre all’ultimo minuto
i tui di lavoro ai dipendenti».

Un part time con orari sempre improvvisati

«Per poter gestire casa e famiglia ho scelto l’opzione
del part time, ma dal momento che gli orari dei tui vengono comunicati
settimanalmente, le difficoltà organizzative permangono e ricadono sul
compagno, sui propri genitori/nonni (se si ha la fortuna di averli) o sulle
baby sitter.

Questo essere sempre sospesa e in attesa delle decisioni
altrui mi crea un forte senso di precarietà e di dipendenza, sia da chi ha il
potere di decidere circa il mio lavoro, sia da chi mi aiuta nella gestione
familiare. Inoltre, il calendario scolastico, con festività e vacanze, coincide
con i periodi di maggior impegno lavorativo. Ne consegue che non è sempre
possibile stare con le bambine durante le vacanze natalizie, pasquali o estive
che siano. Al contrario, si hanno maggiori possibilità di andare in ferie quando
le scuole sono aperte e di conseguenza sono spesso costretta a scegliere tra
rinunciare ad attività con la famiglia – riducendo le ferie a un periodo da
trascorrere a casa – e far perdere giorni di scuola ai figli».

Domeniche al lavoro e nessun incentivo

«Un’ulteriore penalizzazione per chi deve conciliare il
tempo del lavoro con quello della famiglia è rappresentata senz’altro dal
decreto Monti che consente ai negozi di restare aperti 24 ore su 24, sette
giorni su sette. Un emendamento che avrebbe dovuto far nascere nuovi posti di
lavoro, ha invece obbligato gli stessi lavoratori ad avere sempre meno giorni
festivi, senza incentivi di alcun tipo, e a ridurre ancor più il tempo da
dedicare alla famiglia. Questa è la mia storia ma è rappresentativa di una condizione
generale delle donne sposate e con prole che subiscono una discriminazione
rispetto alle colleghe nubili le quali, secondo i responsabili di settore,
risultano più meritevoli di aumenti su base oraria. In questo mondo che volge
il capo al passato, quello che posso fare come donna e come madre è continuare
a sensibilizzare le persone su questo tema e a lottare affinché siano garantiti
i minimi diritti e, un domani, possa esistere uno spaccato sociale più a misura
di “mamma” alle mie bambine».

Gabriella
Mancini
  

 
 
Tre voci di esperienze transnazionali


Mateità, emigrazione e intercultura

Il contributo alla natalità dato dalle madri di cittadinanza
non italiana è importantissimo. L’Istat stima che nel 2010 oltre 104 mila
nascite (il 18,8% del totale) siano attribuibili a madri straniere. Le famiglie
con un componente non italiano sono pari al 6,9%, un dato triplicato negli
ultimi dieci anni, e le convivenze sono circa 600 mila (200 mila i matrimoni). Dati
che parlano da soli dell’eterogeneità della nostra rete sociale, delle
trasformazioni apportate dal fenomeno migratorio e della costruzione di una
nuova geografia umana. Una tunisina e due italiane con mariti o compagni di
nazionalità straniera, ci raccontano il loro essere madri nell’Italia di oggi,
i sogni sul futuro e le sfide quotidiane.


4. Emna

Emna è una donna tunisina, un’amica complice e solidale, una
donna piena di risorse. È venuta in Italia per raggiungere il marito nel 2005,
da neo sposa, e nel 2006 è diventata una mamma. Ecco la sua storia.

«Mi
sono laureata in scienze delle relazioni inteazionali in Tunisia e ho
lavorato per anni come assistente al responsabile marketing di una grossa
azienda. Il mio lavoro mi piaceva, rappresentava una sfida e una nuova
avventura ogni giorno, in un ambiente sereno dove il comune denominatore era
far crescere il personale e lavorare sulla stima di sé stessi e del gruppo.

Poi ho conosciuto il mio futuro marito e, sull’onda
delle scelte esistenziali, l’ho seguito in Italia dove viveva e lavorava già da
alcuni anni. Ho lasciato volutamente alle spalle carriera e lavoro e ho aperto
una nuova pagina della mia vita. Dopo solo un anno da “italiana” sono rimasta
incinta e mio marito è stato il mio grande alleato durante tutta la gravidanza.
Mi ha sostenuto nell’iter della mateità: dal consultorio, agli ospedali, alle
visite e, soprattutto, mi ha facilitato nella traduzione della lingua. Poi,
pian piano, mi sono iscritta a un corso di italiano e, grazie allo studio, ho
iniziato a muovermi con più facilità nel territorio. Quando si aspetta un
bambino si ha bisogno di certezze: saper leggere le ecografie e capire cosa
dicono i medici diventa fondamentale. Le sfumature della lingua e gli sguardi
sono importanti».

Primi tempi tra amore e solitudine

«Quando è nato il mio primogenito si sono contrapposti
in me due sentimenti: la gioia e la solitudine. Ogni volta che qualcuno apriva
la porta della mia camera in ospedale, sussultavo. Immaginavo di veder entrare
tutta la mia famiglia. Mi è mancato tantissimo quel calore famigliare,
quell’amore e quella cura che (in particolar modo da noi in Tunisia) viene
donata alla puerpera.

Nei primi tre mesi della mia nuova vita da mamma, mi
mancavano le mie radici, la mia terra, la mia famiglia. Per avere un figlio
all’estero devi essere forte, rigida, non hai nessuno che ti aiuti, il tempo
per te stessa è cancellato in virtù di tutte le mansioni pratiche che devi
svolgere. Le più piccole cose quotidiane, se ti senti fragile, iniziano a
diventare difficili: alzarti e rialzarti, infilarti le scarpe, presentarti in
modo dignitoso. Alle insicurezze del mio essere neo mamma si aggiungevano i
problemi burocratici: non è stato semplice avere un permesso di soggiorno per
poter tornare in Tunisia dalla mia famiglia. Quando riuscii a esplicare tutte
le pratiche e potei tornare qualche tempo nel mio paese, riuscii a vivere il
puerperio che non avevo potuto vivere in Italia. Le donne coccolavano il
piccolo e me. Un bagno turco al pomeriggio, qualche massaggio, un taglio ai
capelli e tante confidenze amichevoli. La cura della mia persona si univa alla
piacevolezza dello stare insieme a persone care».

La mia vita è in Italia

«Passati due mesi ho capito che dovevo tornare. La mia
vita era in Italia. La prima cosa da fare era un corso e ho pensato di fae
uno per mediatrice culturale. Per fare ciò il piccolo doveva stare all’asilo.
Come per tutte le mamme italiane ho fatto la mia trafila per un posto al
comunale, ho atteso che si snellisse la lista d’attesa e, quando è arrivato il
mio tuo, mi sono rimessa in carreggiata come donna.

Per fortuna il nido scelto, un comunale della zona, mi
ha offerto una sorta di nuova famiglia. Quella che mi mancava: dall’economa,
alle maestre, alle mamme. Queste relazioni, consolidate nel tempo, mi hanno
favorita quando è nata la secondogenita e il puerperio è stato diverso. A otto
mesi ho avuto comunque un po’ di depressione. Quindici giorni di rifiuto del
cibo e una sola volontà: stare a letto. Fosse successo con il primogenito avrei
fatto molta più fatica a riprendermi, ma questa volta avevo seminato e
coltivato complici amicizie. Questo volle dire tantissimo. Poco per volta, mi
rialzai in piedi, ricominciai a uscire, ad accompagnare i bimbi, a fare un
ulteriore corso come Oss e, pian piano, tornai a vivere».

Prima la famiglia, poi il lavoro…

«In Italia ho perso una carriera, l’affetto dei parenti,
la stabilità lavorativa. Qui, in balia dell’attuale crisi economica, ho dovuto
metter da parte le aspirazioni per una professione idonea ai miei studi e
accettare anche mansioni più umili. La socializzazione mi ha aiutato in parte a
ricucire lo strappo con la mia nazione e a elaborare i cambiamenti. Cosa ho
guadagnato dall’esperienza italiana? La risposta è nel mio cuore: probabilmente
nel mio paese d’origine oggi mi sarei affermata lavorativamente ma non avrei
incontrato la persona giusta e non sarei riuscita ad avere la serenità
familiare di adesso. Le incertezze permangono ma la lotta continua,
supportata da quella forza e quella rete che tifa per me».

Le parole chiave di Emna, come donna e come madre migrante

«Nella mia storia di donna e madre migrante un punto
fermo è stato, ed è tuttora, dare una buona immagine di me stessa e del mio
paese. Educazione, dignità personale, cultura e un forte senso
dell’aggregazione sono indispensabili. Adattarsi alle regole del paese di
accoglienza mantenendo le proprie radici mi ha aiutata a guadagnarmi il
rispetto della gente e a essere sempre credibile. La credibilità e l’educazione
vanno a braccetto e sono trasversali a tutte le nazionalità. Non esistono
stranieri e italiani, ma persone! Su questo nesso si fonda il mio pensiero e il
mio modo di essere donna, madre e di vivere in un paese che non è quello della
mia nascita ma che è ormai la mia casa. Sono certa che un domani, non lontano,
anche la Emna professionista si riguadagnerà il suo spazio in questa fetta di
mondo».

5. Melissa

Italiana e sposata con uno straniero. Poi la separazione e
la gestione affettiva e quotidiana dei figli. Tra pedagogia e sfide sul lavoro.

«Quando
ho capito che avrei cresciuto da sola i miei figli ho, in un certo senso,
provato un sentimento di sollievo. Ho metabolizzato velocemente che due
genitori separati o divorziati con un rapporto sereno, o almeno civile, possono
dare molto di più ai loro figli. In principio lo sconforto era dovuto
principalmente al timore di non saper affrontare da sola la crescita dei
bambini. Mi domandavo spesso se stavo facendo il meglio per loro e mi interrogavo
sulla loro sofferenza, vivendo tutto con grandi sensi di colpa. Nonostante il
rancore verso il padre dei piccoli (un maschio e una femmina che oggi hanno 10
e 9 anni) mi sono imposta, sin dall’inizio, di non lamentarmi mai di lui
davanti a loro, per dare loro una bella immagine del papà e confortandoli
sull’amore paterno. Il dialogo sulle motivazioni delle scelte fatte,
indipendenti dall’affetto figliale, mi hanno aiutata a vincere la rabbia».

Rientro al lavoro, tra nidi privati e qualche ostilità

«Terminata la mateità dovetti
ricorrere a un nido privato che allora, nel 2004, comportava già una retta di
400 € al mese. Dopo
qualche tempo venni chiamata dal nido comunale e iniziai finalmente a pagare in
base al reddito, trovando anche un ambiente più professionale, umano e
competente. Due anni dopo, per la piccola, venni a conoscenza dei micro nidi
famigliari che, senza cifre assurde, garantivano un ambiente armonioso per i
bambini. Dalle ore 13 fino al mio rientro dal lavoro la piccolina era affidata
a una tata, e tutto ciò comportava un’ulteriore spesa. Rispetto ai paesi nord
europei, le strutture per la prima infanzia e per la gestione dell’estate dei
bambini piccoli sono ancora totalmente inadeguate.

Il ritorno al lavoro dalla mateità
è stato anche il tempo delle ostilità, sottili e dolorose. Mi sono trovata a
dover subire battute non molto spiritose, atteggiamenti infastiditi e qualche
critica, anche da parte di donne e madri, come se al posto di una mateità di
5-6 mesi, mi fossi concessa un soggiorno ai Caraibi. Tutto ciò mi ha fatto
pensare che in Italia siamo noi cittadini, con la nostra mentalità antiquata e
incivile, a essere i primi responsabili della scarsità di alcuni servizi e
diritti che non dovrebbero invece esser messi in discussione».

Pregiudizi e credibilità dei genitori

«Non ho avvertito pregiudizi nei confronti del mio
essere una madre single ma, spesso, ho percepito compassione da parte di altri
genitori e un irrigidimento verso i nomi arabi dei bambini. Sguardi circospetti
di circostanza mi accompagnano ma, con il tempo, sono diventata forte e la
compassione, come il disprezzo altrui, mi fa sorridere. Riuscire a crescere da
sola i miei bambini e a guadagnarmi, giorno dopo giorno, il loro rispetto e
affetto, mi ha insegnato molto. Con l’età si rischia di dimenticare le emozioni
e i sentimenti che si avvertivano nell’infanzia e nella fanciullezza.
Innalzarmi al loro livello e mantenere viva la bambina che c’è in me, mi aiuta
a capire e a dialogare con i miei figli, mi aiuta a essere coerente e
credibile. Quello che cercano i bimbi di oggi è solo questo: credibilità. Una
dote che può regalare loro quell’equilibrio interiore utile per vivere con un
po’ di serenità questa vita».

6. Silvia

Italiana. Un’esperienza di lavoro in Burkina Faso diventa
l’inizio di una nuova esistenza. Una scelta controcorrente, una gravidanza in
solitaria e una nuova famiglia italo-africana, con un futuro tutto da
inventare.

«Lavoravo
da qualche anno presso alcune cornoperative sociali come educatrice della
comunicazione. Nel marasma della crisi italica mi potevo ritenere fortunata
poiché, seppur con magri stipendi, ero riuscita ad avere un contratto a tempo
indeterminato. Sentivo, però, che mi mancava qualcosa. Il mondo del sociale mi
aveva offerto una grande occasione ma, dopo la prima ondata di emozioni data
dalla relazione con l’altro, mi aveva lasciato un sapore amaro in bocca e una
certa demotivazione. La ragione va ricercata nell’organizzazione del settore
stesso che tende a sovraccaricare di lavoro e a soffocare le persone senza far
esprimere al massimo l’umanità e la creatività degli educatori. A 33 anni, con
la voglia di reinventarmi e la giusta motivazione, decisi allora di partire per
il Burkina Faso e di progettare un percorso di arteterapia locale. L’Africa,
d’altro canto, era sempre stata una terra dal forte magnetismo per me. Una
volta atterrata e visitatone un piccolo angolo, l’esperienza ha confermato il
sentimento, e il desiderio di conoscerla più a fondo, percorrerla ed entrarvi a
fae parte».

Una nuova vita fuori… e dentro di me!

«Iniziai a condurre un atelier di arte terapia dove,
attraverso l’attività manuale e artistica, si elaboravano percorsi
psico-dinamici. All’interno di questo cammino, iniziammo un progetto di teatro
di marionette e fu in quell’occasione che incontrai Didier, esperto di teatro
sociale. Non è mai solo una la ragione che porta a innamorarsi di un’altra
persona. Di Didier mi colpì senza dubbio il suo essere aperto al mondo esterno,
la sua autenticità e la sua naturale predisposizione all’attenzione verso la
persona umana. Avevo programmato un viaggio di tre mesi nei dintorni africani e
un breve ritorno a casa in Italia (“nassaratenga” la terra dei bianchi in
lingua moorè) quando la scoperta, tanto improvvisa quanto dolce, di aspettare
un bambino, rivoluzionò i miei piani. I primi controlli medici evidenziarono
una gravidanza “a rischio” e la necessità di un cerchiaggio. Non mi rimaneva
che scegliere l’Italia per tutelare nel miglior modo il prosieguo della
gravidanza e la salute del piccolo. La vita aveva cambiato le carte in tavola.
Non ero più io a dover tornare in Burkina ma Didier a venire in Italia».

Un’onda di limiti burocratici tra l’Africa e l’Italia

«Le peripezie iniziarono quando Didier richiese il
passaporto per espatriare. Nonostante tutte le garanzie richieste
dall’ambasciata (lettere d’invito in originale, estratti conto, buste del
salario e la fotocopia dell’atto di proprietà della casa) le autorità
rilevavano sempre qualche piccola mancanza nella documentazione. Passarono
alcuni mesi, la mia pancia cresceva ma il passaporto di Didier continuava a
esser negato, nonostante un continuo lavoro congiunto tra Italia e Africa. Il
fatto di voler poi rientrare nella terra africana, non era contemplato e
compreso dai funzionari locali. A quel punto, rassegnata a partorire sola e a
partire per l’Africa con un neonato, ricontattai l’ambasciata italiana per
chiedere il riconoscimento della bimba da parte del padre».

Finalmente insieme con Wendkuni

«Dopo mille peripezie e ostacoli, una voce amica
dall’ambasciata mi annunciò che, vista la situazione, avrebbero concesso
finalmente il passaporto a Didier. Ma la trepidazione non era ancora terminata.
Didier non raggiunse l’Italia ma rimase bloccato in Belgio dove venne
sottoposto a ulteriori accertamenti. Appena riuscì a chiamarmi, dopo un
atterraggio nel cuore della notte a Milano, iniziarono le prime contrazioni e,
sette ore dopo, a Torino, nacque Ilesdor.

È stata l’avventura più incredibile della mia vita.
Ilesdor è un nome inventato. Opera del padre, il giorno in cui gli comunicai di
essere incinta: significa “lui è d’oro” (Il est d’or) anche se in realtà
avrebbe dovuto essere elle, ma suonava meglio il. E proprio per
la sua voglia di venire al mondo e le circostanze così particolari in cui ha
fatto capolino nel mio utero si chiama anche: Wendkuni, dono di Dio in
moorè».

Condividere la vita, tra pregiudizi e differenze culturali…

«Nel cosiddetto occidente, non si sono abbattuti su di
noi i pregiudizi sociali. Abbiamo trovato ovunque accoglienza e simpatia,
curiosità e affetto. Li abbiamo però vissuti negli ostacoli burocratici, nella
lontananza forzata, nella nostra forsennata ricerca per “ritrovarci” e vivere
insieme. In tutto questo cammino di avvicinamento ho sentito forte, da parte
delle autorità, il preconcetto di un occidente “formato eden” e “dell’uomo
nero” che tenta di fuggire dalla sua povera e arretrata terra. La nostra è una
storia nata nell’avventura e che oggi si ritrova a condividere il quotidiano.
Come per tutte le coppie, le differenze possono creare delle difficoltà. Nel
nostro caso vale la dicotomia: a lui l’aspetto relazionale, a me quello
organizzativo. In fondo al cuore sento che sono piccolezze superabili e che
l’autenticità è la caratteristica portante della nostra unione».

Un futuro di madre e professionista in Africa

«Essere madre in Africa mi allarga il cuore, perché
l’Africa è “mamma Africa”. Le immagini si sovrappongono ed è come se la natura
avesse realmente connotati di femminile, accogliente ed accudente, questa
terra. Ovviamente i servizi per l’infanzia di cui lamentiamo la penuria in
Italia, lì non esistono proprio ma ci sono le persone che rendono (quasi)
superflui questi servizi. Una serie di zie e di nonne locali (vere e acquisite)
potrà aiutarmi con la piccola mentre cercherò di realizzare un progetto
multidisciplinare di arteterapia con altri professionisti e sarò il braccio
destro di Didier nella costruzione della sua futura fattoria. Fortificata dalla
nostra relazione e dall’amore per Ilesdor so che combatterò con una grande
forza interiore per poter tradurre in realizzazioni tutti quei desideri celati
nei nostri cuori».

Gabriella Mancini


Più domande che risposte

Sei
donne, sei storie, sei voci. Un piccolo coro che si unisce alla grande realtà
statistica italiana. Siamo il peggior paese in Europa in tema di occupazione:
solo il 65% delle donne senza figli lavora, segue un 60,6% di quelle con un
figlio, il 54,8% con due figli e il 42,6% con tre figli. I servizi per la prima
infanzia, carenti e costosi, contribuiscono a mantenere alto il livello di
disoccupazione per le donne con bambini sotto i tre anni. Dai racconti delle
nostre donne emerge, oltre alle varie difficoltà di conciliazione tra lavoro e
famiglia e le inadeguate politiche sociali in merito, una mentalità ancora
retrograda atta a delegare quasi esclusivamente alla donna la cura della
famiglia. E questo, aldilà di ogni estrazione culturale o sociale. Allo stesso
tempo, questo lavoro domestico, dato per scontato, non è né riconosciuto né
sostenuto da un apparato giuridico, sociale e retributivo che lo tolga dalla
precarietà, ne riconosca la dignità come «lavoro» e ne valorizzi il grande e
indispensabile contributo che dà a tutta la società.

La Cnn ha recentemente pubblicato una classifica dei
migliori paesi per le mamme lavoratrici. Su otto, sette sono in Europa: si
tratta di Islanda, Svezia, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Finlandia e
Norvegia. All’ottavo posto c’è il Canada. Sono paesi dove il diritto al lavoro
e alla mateità non può e non deve essere violato, in nome di un codice etico
e civile che fa rima con la progressione dell’umanità.

Alcune domande sorgono: che bisogna fare per
rivoluzionare un modus pensandi così cristallizzato e trasformare questo
stato di cose? Cosa fare perché la mateità e l’educazione dei figli  non diventi un privilegio per ricchi? Cosa
fare perché la famiglia (uomo, donna e figli) – non la carriera, la produzione,
l’utile aziendale – continui a essere al centro della nostra vita sociale?

Le risposte sono difficili a darsi, visto che più
elementi – politici, sociali e antropologici – dovrebbero intervenire
all’unisono. La riflessione merita però un approfondimento e una lente focale
su un terreno più ampio.  Se l’esser
genitore al femminile comporta spesso la rinuncia al lavoro o la
decontestualizzazione della persona in più spaccati sociali, con un alto
rischio di alienazione, molte risposte vanno sicuramente ricercate nel nostro
modello societario attuale. Un modello che prevede (in misura trasversale per
uomini e donne) la produzione senza sosta e la corsa alla competizione in ogni
ambito. Varrebbe allora la pena di agire tutti insieme per trasformare in realtà
le parole, oggi considerate «utopiche», di Silvano Agosti che, nel suo libro Lettere
dalla Kirghisia
disegna un paese «ideale» dove: «[…] in ogni settore
pubblico e privato, non si lavora più di tre ore al giorno, a pieno stipendio,
con la riserva di un’eventuale ora di straordinario. Le rimanenti 20 o 21 ore
della giornata vengono dedicate al sonno, al cibo, alla creatività, all’amore,
alla vita, a se stessi, ai propri figli e ai propri simili. La produttività si è
così triplicata, dato che una persona felice sembra essere in grado di
produrre, in un giorno, più di quanto un essere sottomesso e frustrato riesce a
produrre in una settimana […]». Un ribaltamento di paradigma, questo, che
rivoluzionerebbe un sistema al collasso e – forse – annegherebbe le
diseguaglianze in virtù della formazione di un essere umano più completo e ricco
interiormente.

Gabriella Mancini   
Bibliografia consigliata

Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine,
Feltrinelli 1982, II ed.
Loredana Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli 2007
Loredana Lipperini, Non è un paese per vecchie,
Feltrinelli 2010
Chiara Saraceno, Sociologia della famiglia, Il Mulino 2013
Chiara Saraceno, Pluralità e mutamento.
Riflessioni sull’identità al femminile
,
Il Mulino 1987, IV ed.
Chiara Saraceno, Conciliare famiglia e lavoro. Vecchi
e nuovi patti tra sessi e generazioni
, Il Mulino 2011Chiara Saraceno, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Il Mulino 2003

Ringraziamenti

Ringraziamo le donne intervistate per la disponibilità
nel raccontarci e raccontarsi.

Geografia e anagrafica delle nascite in Italia

Si nasce poco in Italia, e da mamme sempre più in là con
l’età. Rispetto al 2011, nel 2012 sono nati 12 mila bambini in meno.

Secondo i dati del Bilancio demografico della
popolazione residente
dell’Istat, sono stati 534.186 gli iscritti in
anagrafe per nascita nel 2012, oltre 12 mila in meno rispetto al 2011. Nel 2012
il numero medio di figli per donna si attesta a 1,42 (1,29 figli per le
cittadine italiane e 2,37 per le straniere).

Il dato conferma la tendenza alla diminuzione delle
nascite avviatasi dal 2009: oltre 42 mila nati in meno in quattro anni. Il calo
delle nascite ha riguardato per lo più le coppie in cui entrambi i genitori
sono italiani, quasi 54 mila in meno rispetto al 2008.

I nati da genitori entrambi stranieri, invece, sono
ancora aumentati, anche se in misura più contenuta rispetto agli anni
precedenti (2.800 nati in più negli ultimi tre anni), e ammontano a poco meno
di 80 mila nel 2012 (il 15% del totale dei nati). Se a questi si sommano anche
i nati da coppie in cui uno dei genitori non è italiano si ottengono poco più
di 107 mila nati (il 20,1% del totale delle nascite). Considerando la
composizione per cittadinanza delle madri straniere, ai primi posti per numero
di figli si confermano le rumene (19.415 nati nel 2012), al secondo le
marocchine (12.829), al terzo le albanesi (9.843) e al quarto le cinesi
(5.593). Da notare che queste quattro comunità raccolgono da sole quasi il 50%
delle madri straniere in Italia.

(fonte: Istat)
Per le straniere è peggio

Partecipazione
al mercato del lavoro

1. Tasso di occupazione più
elevato delle italiane (nel 2010 pari a 50,9% vs. 45,7%) ma:

• maggiore diminuzione con la crisi (in due anni
–1,9% punti) inferiore nelle regioni del Nord (49,5% vs. 57%);

• più basso in presenza di figli (42,7% vs.
50,6%) anche per mancanza di rete familiare oltre che per motivi culturali.

2. Forti differenze del tasso
di occupazione per comunità (superiore al 90% per le filippine e inferiore al
35% per albanesi e marocchine).

3. Tasso di disoccupazione più
elevato (nel 2010 13,3% vs. 9,3%).

4. Media primi 3 trimestri del
2011 il tasso di
occupazione scende di 0,5 punti, il tasso di disoccupazione sale di 0,2 punti.

Scarsa
la qualità del lavoro

1. Più della metà svolge un
lavoro non qualificato (58% vs. 9% delle italiane).

2. Il 40,1% svolge un lavoro
domestico presso
le famiglie (1,7% le italiane).

3. Oltre una straniera su due
svolge un lavoro per il quale è richiesto un titolo di studio inferiore a
quello posseduto (51,1% vs. 19,8%).

4. La concentrazione in lavori
poco qualificati comporta una bassa paga mensile: 788 euro vs. 1.131 euro delle
italiane.


Disoccupazione al femminile

In Italia il calo dell’occupazione è quasi esclusivamente
maschile.
[…] mentre per
l’occupazione femminile, dopo il calo del 2009, si osserva una crescita nel
2011 e nel 2012. Nel 2013, con l’aggravarsi del quadro recessivo anche per le
donne, si evidenzia una diminuzione dell’occupazione (-128 mila unità, pari a
-1,4% rispetto al 2012). Nel complesso dei cinque anni della crisi (2009-2013),
l’occupazione degli uomini si è ridotta del 6,9%, a fronte di un calo dello
0,1% per le donne.

Soltanto una parte dell’occupazione femminile ha
però tenuto con la crisi.
La quota di donne
occupate continua a essere molto bassa (il 46,5%), di 12,2 punti inferiore al
valore medio della Ue28. La sostanziale tenuta registrata in Italia è il
risultato di un insieme di fattori: il contributo delle occupate straniere,
aumentate di 359 mila unità tra il 2008 e il 2013 a fronte di un calo delle
italiane di 370 mila unità (-4,3%), la crescita delle occupate con 50 anni e più
per l’innalzamento dell’età pensionabile e quella di coloro che si immettono nel
mercato del lavoro per sopperire alla disoccupazione del partner.

Nella fascia di età tra 15 e 49 anni, il tasso di occupazione cala per tutte le donne, non
solo per le giovani che ancora vivono all’interno della famiglia e che sono
state maggiormente colpite dalla crisi, ma anche per le madri sole, quelle in
coppia con o senza figli e le single. Il tasso di occupazione delle madri è
pari al 54,3 per cento, mentre sale al 68,8 per cento per le donne in coppia
senza figli. […]

Aumentano le donne breadwinner, ovvero crescono le famiglie con almeno una persona di
15-64 anni in cui è la donna ad essere l’unica occupata, specialmente tra le
madri in coppia. La crescita riguarda 591 mila famiglie (34,5% in più). Nel
Mezzogiorno al loro aumento si associa la riduzione delle famiglie sostenute
unicamente dal lavoro dell’uomo.

Peggiora la situazione di conciliazione dei tempi
di vita delle donne.
Cresce la quota di donne
occupate in gravidanza che non lavora più a due anni di distanza dal parto
(22,3% nel 2012 dal 18,4 nel 2005), soprattutto nel Mezzogiorno dove arriva al
29,8%. Aumenta anche la quota di donne con figli piccoli che lamentano le
difficoltà di conciliazione tra chi il lavoro lo mantiene (dal 38,6% al 42,7%).

Da: Istat, Rapporto annuale 2014,
pag. 85,

pubblicato il 28 maggio 2014

Tags: mateità, mamme, lavoro, carriera, discriminazione, impiego, servizi sociali, famiglia, società, disoccupazione, donne

Gabriella Mancini




A rischio di schiavitù

Schiavo: «Agg. Individuo di
condizione non libera, giuridicamente considerato come proprietà privata e
quindi privo di ogni diritto umano e completamente soggetto alla volontà e all’arbitrio
del legittimo proprietario» (Treccani.it). Cosa del passato, ci viene da
pensare! Oppure, qualcosa che sopravvive solo in alcuni luoghi arretrati e
lontani del mondo. Qui da noi? Niente schiavitù. Siamo liberi. Per questo
abbiamo la costituzione, i diritti umani, la «civiltà cristiana»…

Eppure, ascoltando quanto ha detto papa Francesco nel Molise su lavoro
e riposo domenicale e riflettendo sul significato del riposo nella Bibbia, mi
sono venuti un sacco di dubbi riguardo alla nostra presunta libertà. I conti
non tornano. Non tornano per i giovani che vivono di precariato o sono
costretti a lavori semivolontari malpagati e insicuri. Non tornano per gli
immigrati, rifiutati da tutti ma poi sfruttati in nero. Non tornano per chi è
costretto a lavorare anche la domenica o a fare tui massacranti sacrificando
la famiglia e la pratica della propria fede. Non tornano per chi si fa le
maratone di fine settimana sulle piste da sci o sulle spiagge, allo stadio o in
discoteca per incontrare altra gente e divertirsi, e si trova invece solo e
vuoto. Non tornano per chi vive in un alloggio extra blindato di 60-80 mq con
affitti esorbitanti o stra-tassato se di proprietà, dove non c’è spazio per un
figlio in più, gli amici, una festa. Non tornano quando le persone sono
giudicate in base alla moda del momento, moda che è manipolata da monopolii
mediatici, produttivi e commerciali mirati non all’utilità sociale ma al
proprio profitto.

Non tornano neppure per milioni di persone che sopravvivono in tuguri
in cui noi non metteremmo neppure le nostre galline, che, pur lavorando
quotidianamente dodici o più ore, non riescono a pagarsi due pasti decenti al
giorno, si vestono con abiti comperati al mercato dell’usato, scarpinano per
chilometri per arrivare la posto di lavoro, non hanno protezione sanitaria e
neppure i soldi per comperare libri, quadei e vestiti ai loro figli.
Sfruttati, sottopagati e ricattati: una protesta, una malattia, e sono fuori.
Ci sono altre migliaia di disperati disposti a farsi sfruttare al posto loro.

Questi conti non tornano neppure quando si guarda al moltiplicarsi di
leggi, regolamenti e cavilli, spesso imposti non dal buon senso o dal bene
comune, ma da lobbies economiche piene di soldi che sfuggono a ogni
controllo, intente a rafforzare i propri poteri e la propria influenza, o da
sistemi ideologici che per difendere le loro libertà calpestano quelle degli
altri.

Faccio fatica a vedere libertà in
tutto questo. Sembra che ci sia una logica perversa per la quale ciascuno debba
lavorare di più per guadagnare di meno e spendere di più. E guai se uno non
spende, perché è colpa sua se c’è la recessione e le fabbriche chiudono. Così
vorrebbero che tu cambiassi i vestiti a ogni stagione, lo smartphone ogni sei
mesi, la macchina ogni tre anni, la lavatrice ogni… e via discorrendo. Sei
libero, sì: di spendere, consumare, indebitarti, incollarti alla Tv, lasciarti
riempire di bla bla, crearti relazioni digitali, ammassarti in spiaggia, far la
coda in autostrada. Ma non puoi fermarti: per stare in famiglia, godere dei
figli (se ci sono), leggere, curare la tua casa, creare e far crescere
relazioni e scoprire così che fai parte di una comunità e non di un vicinato
anonimo e minaccioso. Soprattutto non hai più tempo per Dio. Sparita la
domenica (giorno del Signore), prevale il fine settimana (giorno di altri
signori: shopping, sport, sci, mare, movida…). Perché se dai tempo a Dio
rischi di cominciare a pensare e finisci per scoprirti triste, vuoto,
manipolato, ingannato e sfruttato. Se metti Dio al centro riscopri te stesso e
la tua dignità, che non può essere riempita solo dall’avere, consumare,
correre, «divertirsi», cercare sport o esperienze estreme.

Ci sono voluti millenni perché l’umanità (o parte di essa) ripudiasse
la schiavitù come sistema. Ma il dubbio che oggi esista un altro tipo di
schiavitù m ‘inquieta. Si scrive e parla tanto di diritti umani, abbiamo
centinaia di associazioni piccole e grosse che li difendono e promuovono,
eppure l’impressione è che in un mondo dove si dà sempre meno spazio a Dio
diminuiscano anche la libertà e la dignità dell’uomo. Una pagina web chiedeva «quanti
schiavi hai?». Forse oggi è tempo di domandarci anche: «Ci rendiamo conto che
rischiamo di vivere da schiavi e che la libertà va difesa sempre, per se stessi
e per ogni altra persona?».

Buona estate e ogni bene a tutti voi, lettori di MC.

Tags: schiavitù, costume

Gigi Anataloni




Pillole «Allamano» 1: Cercate Dio solo e la sua santa volontà

I dieci consigli («pillole») contro il logorio della vita moderna che, a partire da questo mese e per tutto l’anno, MC vi offre, sono anche conosciuti come «I dieci comandamenti» dell’Allamano». Nati dalla creatività di mons. Luis Augusto Castro (missionario della Consolata e arcivescovo di Tunja, Colombia) essi riassumono in poche parole il pensiero del nostro Fondatore. La sintesi che ci propongono non è sicuramente esaustiva. Del resto, come potrebbero dieci frasi esaurire il pensiero di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita all’apostolato diocesano e alla missione? Sono però dieci passwords che colpiscono per la loro brevità e immediatezza, e offrono una chiave di accesso all’umanità e alla spiritualità di un santo prete, come fu senza ombra di dubbio Giuseppe Allamano. Va detto inoltre che lo spirito di questi brevi articoli non è tanto quello di spiegare il pensiero del nostro Fondatore, quanto quello di partire da alcuni suoi spunti per offrire una scintilla di spiritualità missionaria che possa illuminare la nostra quotidianità.

«Contro il logorio della vita moderna» era il motto che reclamizzava anni fa un noto liquore digestivo. La vita contemporanea non ha certamente diminuito il suo impatto devastante sui nostri sistemi gastrici, né ha contribuito a migliorare la qualità delle nostre relazioni. Va da sé che, forse, il nostro logorio esistenziale vada affrontato con qualcosa di diverso di un digestivo, qualcosa che tocchi alla radice il malessere del quotidiano che ci sfida impedendoci di raggiungere la serenità nella quale vorremmo essere immersi. Fermo restando che la perfetta felicità è un obiettivo che raggiungeremo a tempo debito, viene da chiedersi se, in materia spirituale, sconfiggere le amarezze con qualcosa di amaro sia il rimedio più adatto.

 

La cura offerta dai consigli di Giuseppe Allamano vuole essere un rimedio dolce, se non altro perché proprio la dolcezza era una delle qualità principali del nostro Fondatore, come venne del resto raccontato da chi ebbe modo di incontrarlo di persona. Certamente, come tutti i rimedi, anche questa cura potrà lasciarci in bocca il sapore non gradito di una medicina, ma pensiamo che, se davvero potrà farci bene, il gioco varrà la candela. Il beato Allamano, ce l’avrebbe somministrata con uno zuccherino, giusto per darci un incoraggiamento, una spinta a fare bene, meglio o diversamente.

Devo dire che non mi piace definire questi pensieri come dei «comandamenti». Innanzitutto perché estrapolati come sono da un contesto più ampio perdono obbligatoriamente la loro forza coercitiva; non appartengono a nessun codice. In secondo luogo, perché l’insegnamento spirituale di Giuseppe Allamano è caratterizzato da un approccio molto dialogico ed esperienziale in cui il «si deve fare così» o il «non si deve fare così» non nascono tanto dall’esigenza di imporre una dottrina, quanto e soprattutto dalla comunicazione di un’esperienza di vita, la sua o quella dei suoi punti di riferimento: Cristo, la Madonna e i Santi, iniziando da suo zio, San Giuseppe Cafasso.

Questo approccio mi sembra molto moderno e attuale. Forse è per questo che, in un’epoca in cui ogni tipo di autorità viene messa in dubbio, e quella ecclesiale in particolar modo soffre la sindrome dell’abbandono, la figura dell’Allamano continua ad attirare le persone, anche al di fuori della vita religiosa o del sacerdozio. Il suo understatement, tipico del piemontese doc quale lui era, lo rendeva una persona affabile e disponibile ai suoi contemporanei e continua a renderlo tale a noi. A tutti, ieri e oggi, Giuseppe Allamano propone il suo primo Consiglio, la prima e fondamentale medicina per l’uomo contemporaneo: «Cercate Dio solo e la sua santa volontà».

 

Ad maiorem Dei gloriam … per la maggior gloria di Dio. In un periodo in cui la spiritualità è intrisa degli insegnamenti di Sant’Ignazio di Loyola, Giuseppe Allamano fa suo questo motto del fondatore dei gesuiti per tracciare quello che per lui è un vero e proprio programma di vita. Durante le sue conferenze, importanti momenti di insegnamento e condivisione rivolti a missionari e missionarie in formazione, ne ripete varie volte le parole e il senso. In un mondo che ha celebrato nel recente passato «la morte di Dio» e che continua oggi a vivere e operare scelte come se Dio non esistesse, questo prete piemontese ci invita ad andare «in direzione ostinata e contraria» (prendo a prestito questa frase da una canzone di Fabrizio De André), scegliendo Dio come unica ragione del nostro esistere. Solo Dios basta, diceva Teresa d’Avila, altra santa amata e citata da Giuseppe Allamano. Dio è sufficiente: lui soltanto è il termine ultimo del nostro tanto arrabattarci.

Chiaramente il «cercare Dio soltanto» significa relativizzare i nostri bisogni, le nostre necessità e, perché no, almeno ogni tanto, anche i nostri capricci. Un esercizio chiaramente in controtendenza in un’epoca in cui, al contrario, si relativizza Dio in nome di un individualismo sempre più sfrenato.

Mi sembra importante l’accento che Giuseppe Allamano pone sull’azione di «cercare» Dio, condizione necessaria per poterne fare poi la volontà. Dobbiamo imparare a lasciare parlare il Signore, mettendoci, come lui stesso diceva, in un atteggiamento di «santa indifferenza», che non vuol dire farsi gli affari propri, quanto invece «mettere da parte il nostro ingombrante io» per cogliere la presenza di Dio lì dove egli vuole manifestarsi ed essere disponibili a fare ciò che da noi vuole, con determinazione e perseveranza.

Il cammino di fede si genera nell’incontro con Cristo, incontro che deve però essere continuamente alimentato per poter crescere, rafforzarsi, diventare energia vitale capace di muovere montagne (cf. Mt 17,14-20). Ognuno di noi conosce bene i mille terreni accidentati di cui è formata la propria esistenza, in cui il seme della Parola che cade non trova le condizioni per dare frutto. La vita di fede è fatta di un continuo procedere alla ricerca del terreno fertile e, una volta trovata la terra buona questa va curata, coltivata, concimata e difesa da chi potrebbe rovinarla. Il missionario e, più in generale, il cristiano non può permettersi di smettere di cercare Dio e la sua volontà lì dove vive, ogni giorno della sua vita.

Sicuramente Giuseppe Allamano è un uomo di preghiera. Dio lo cerca nel silenzio del Santuario della Consolata, nel «coretto» da cui può contemplare in un’unica occhiata i due amori della sua vita: la Madonna e l’Eucaristia. Tuttavia, la straordinaria capacità che gli viene riconosciuta nel rispondere ai bisogni delle persone o delle situazioni che si trova davanti, dimostra come Dio gli si presenti anche in tanti altri modi: nei drammi personali ascoltati nel confessionale, nelle solitudini e nelle sofferenze delle persone che assiste nel suo apostolato, nelle lettere e nei diari dei suoi missionari e missionarie che, da lontano, gli raccontano le gioie e le difficoltà della vita in missione.

 

Oggi abbiamo bisogno di riscoprire questo approccio che ci impone di cercare Dio «solo», ma ci chiede anche di non cercarlo «da soli». Papa Francesco ci spinge, con la forza di cui è capace il Vangelo quando deve imporre la verità, a percorrere strade affollate, a farci compagni di viaggio di chi cammina, a volte con fatica, i percorsi accidentati della vita. Non possiamo permetterci, come missionari del Vangelo, di annunciare un Dio che non è in sintonia con la vita che viviamo, che non parla il linguaggio dei giovani, che non si interessa di chi sta per perdere il lavoro, che non viaggia sui gommoni di chi fugge dalla fame o dalla guerra, che non dice due paroline giuste nell’orecchio di chi, in nome dei diritti del proprio Ego, è disposto ad abbandonare ai margini della storia chi non riesce a trovar posto nel suo progetto di vita.

Come alcuni anni fa sosteneva giustamente Stephen Bevans, uno dei più importanti teologi contemporanei della missione, la figura del missionario può essere paragonata a quella di un «cacciatore di tesori», che si reca in un posto carico della ricchezza della buona novella e l’annuncia, rendendosi però conto molto presto che le sue parole non evocano assolutamente nulla alle orecchie di chi lo ascolta, proprio perché non sono espresse con la lingua e con le forme culturali appropriate. Scavare nelle culture per estrarre il tesoro nascosto vuol dire essenzialmente incontrare l’essere umano nel suo contesto, agire con una mistica dagli occhi aperti, capace di una spiritualità concreta, atterrata nella vita di tutti i giorni. Vuol dire scavare non da soli, ma con la gente che ci è vicina, con la quale ci si incontra o ci si scontra tutti i giorni in famiglia, per la strada, al lavoro, o nelle nostre comunità ecclesiali. Dio vive nella storia, e la sua ricerca, fenomeno che nasce e matura inizialmente nel cuore dell’essere umano, assume la sua forma più piena e compiuta quando viene condivisa, con chi è di casa e con chi è lontano, con chi la pensa come noi e con chi può insegnarci qualcosa da un’esperienza diversa dalla nostra, con chi ci precede nel cammino della fede o con chi si aspetta da noi una parola di consolazione.

Ancora oggi colpiscono l’immediatezza e la concretezza di Giuseppe Allamano, qualità che sintetizzano molto bene la cultura contadina delle sue origini e la mentalità dell’uomo vissuto quasi sempre in città, capace però di spalancare le finestre della sua casa sugli orizzonti infiniti della missione. Pur con un raggio di azione davvero limitato (l’Allamano ha vissuto 46 anni della sua vita come rettore sempre dello stesso santuario), questo sacerdote della diocesi di Torino ha insegnato alle prime generazioni di missionari della Consolata ad allargare i paletti delle loro tende e spinge noi, figli e figlie del nostro tempo, a essere uomini e donne globali, planetari (per usare la definizione di un altro grande prete a noi più contemporaneo, Ernesto Balducci) desiderosi di cercare Dio, ma anche di non limitare la ricerca solto ai posti dove pensiamo di trovarlo con certezza.

Ugo Pozzoli

Incontro al beato Giuseppe Allamano
tramite le sue foto.


 

L’Allamano è vissuto nel tempo che ha visto nascere la fotografia, uno strumento in cui ha creduto, anche se non ha mai amato farsi fotografare. è lui che ha chiamato Secondo Pia, il fotografo della Sindone, a fare le prime foto del quadro della Vergine Consolata. è lui che ha voluto che i suoi missionari in partenza per l’Africa fossero dotati delle più moderne macchine fotografiche e imparassero «il mestiere» dai professionisti. È lui che per il periodico «La Consolata», madre di questa rivista, ha voluto stampe fotografiche di altissima qualità ottenute con lastre allora prodotte solo a Vienna, in Austria.

La foto che vi presentiamo questo mese è stata fatta nel 1923 in occasione del suo 50° di sacerdozio. È il particolare di una lastra da 13×18 cm, in cui il beato Allamano è ritratto seduto con lo sguardo rivolto a una statuetta della Consolata e con il libro del regolamento di vita dei Missionari della Consolata da lui fondati in mano. Per l’occasione i fotografi crearono un set improvvisato nel cortile di del Convitto Ecclesiastico attaccato al Santuario della Consolata a Torino, utilizzando due tappeti, uno di rovescio (con la fodera rossa x creare lo sfondo nero) e uno in terra, e un tavolino per dare l’illusione di una sala arredata. La foto, pesantemente ritoccata sulla lastra originale per correggere i limiti di stampa del tempo, è ora visibile nella sua bellezza originale che ci restituisce il volto sereno del nostro Beato Padre Fondatore.

Ugo Pozzoli




Amico: Semplicità

Era notte oramai. Dopo un’intera giornata di subbuglio,
erano tutti riuniti a parlare del Signore risorto. Veramente era apparso a
Simone. Veramente aveva camminato con i due di Emmaus. E ora stava lì, di
fronte a loro, con il suo timbro di voce risorta vibrante di pace. «Pace a
voi!». Quella pace che è l’unione nuziale definitiva tra l’eterno e il
temporaneo, tra il Creatore e la creatura.

Era notte oramai. Avevano vissuto già tutto un giro di sole,
dall’alba al tramonto, con la notizia della vita risorta nel cuore. E ora erano
stanchi e turbati. E increduli ancora… increduli di gioia, di troppa
meraviglia.

E il Signore ripete l’esercizio d’incarnazione. Non di
fantasmi, né di prodigi magici e taumaturgici si tratta. Ma di vita. Come
quella di un piccolo di tre chili attaccato al seno della sua mamma, al riparo
di una stalla, come quella di un uomo che prende una porzione di pesce
arrostito per portarla ai denti, alla gola, allo stomaco.

La salvezza è nella storia. Non un’idea, né un ideale, tanto
meno un’ideologia. Non un procedimento esoterico, per iniziati, con bilance e
bilancini per soppesare meriti e castighi, dottrine e livelli di conformità.

La salvezza è semplice. E la missione altrettanto. È il Suo
sguardo d’amore su tutti e su tutto.

La pace è già realizzata e possibile ogni giorno. È l’unità
compiuta tra la vita concreta e la nostra identità più profonda.

Iniziamo il cammino del nuovo anno con questa semplicità.
Con questa pace semplice. Dopo aver camminato e lottato lo scorso anno, sperato
e disperato, dopo aver corso verso un sepolcro in cerca di un corpo e aver
trovato una bocca che pronunciava il nostro nome. Dopo aver «capito tutto» (o
almeno intuito qualcosa) alla Sua presenza, e nella frateità del confronto
con i compagni di strada, apriamo il cammino inedito che ci sta davanti nel
segno della pace, in questo mese dedicato a essa, e nel segno della «cultura
dell’incontro» e della globalizzazione della frateità, come suggerisce papa
Francesco.

Buon 2014.
E buona pace da amico.
Luca Lorusso

Luca Lorusso