La paralisi agitante

La condizione
dell’anziano (seconda parte) / il Parkinson
Tremore, rigidità,
disturbi dell’equilibrio, postura curva, disfunzioni sessuali, disturbi della
pressione arteriosa, dell’olfatto, del sonno, depressione, ansia, apatia,
disturbi cognitivi e talvolta psicotici. La «paralisi agitante» colpisce il 2%
della popolazione sopra i 65 anni, e per i prossimi 15 anni è previsto un
raddoppio del numero di malati. Ricerca scientifica e assistenza ai malati e
alle loro famiglie sono le priorità.

La malattia di Parkinson è senz’altro
la patologia neurodegenerativa più diffusa al mondo dopo l’Alzheimer (crf.
Mc dicembre 2014). Nei paesi industrializzati, la prevalenza di questa malattia
è di circa lo 0,3%. Secondo uno studio di R. Dorsey, neurologo dell’Università
di Rochester (Usa), apparso su «Neurology», il numero dei malati di Parkinson
raddoppierà con la prossima generazione nei 15 paesi oggetto della ricerca
(Francia, Germania, Spagna, Italia, Regno unito, Cina, India, Indonesia, Usa,
Brasile, Pakistan, Bangladesh, Nigeria, Giappone, Russia), passando dai 4,1
milioni attuali a 8,7 milioni nel 2030, di cui 5 nella sola Cina. Secondo lo
studio di «Neurology», la patologia aumenterà, più che negli Usa e in Europa,
negli altri paesi, soprattutto in quelli in via di sviluppo, dove il Parkinson
non è ancora considerato un problema rilevante e le infrastrutture per la
diagnosi e la cura sono spesso molto limitate. Questi paesi focalizzano le proprie
risorse maggiormente sulle malattie infettive, ma in un futuro non troppo
lontano dovranno fare fronte a quelle croniche non infettive, come il
Parkinson, che rappresentano un peso maggiore in termini di costi economici e
sociali.

In Italia

In Italia attualmente i pazienti in cura
sono circa 230.000. Si stima che la spesa annuale italiana per questa patologia
sia di circa 2,4 miliardi di Euro. Buona parte di questa cifra viene spesa in
ricoveri ospedalieri e case di cura, mentre la spesa relativa ai farmaci è
decisamente inferiore. A queste voci vanno poi aggiunti i costi indiretti della
malattia, come la riduzione della produttività dei pazienti e, spesso, dei
familiari che li assistono, e i costi dei vari ausili e della riabilitazione
per superare le difficoltà motorie e di linguaggio, che la malattia comporta.

Malati illustri

Nell’immaginario collettivo, la malattia di
Parkinson è legata soprattutto a due personaggi pubblici come papa Giovanni
Paolo II e Muhammad Ali, alias Cassius Clay. Per il pugile si è ipotizzato un
parkinsonismo secondario, dovuto cioè ai colpi ricevuti nell’attività sportiva.
Un altro malato illustre fu il cardinale Carlo Maria Martini, scomparso nel
2012. Anche nel mondo dello spettacolo si contano malati di Parkinson come
l’attore canadese Michael J. Fox, che ha aperto una fondazione negli Usa con lo
scopo di sviluppare una cura. Negli ultimi anni della sua vita, fu malato di
Parkinson anche Adolf Hitler.

Chi colpisce

La malattia di Parkinson prende il nome da
James Parkinson, il chirurgo londinese che ne descrisse i sintomi nel Trattato
sulla paralisi agitante
del 1817. Sono state trovate descrizioni di sintomi
simili già in antichi scritti di medicina indiana e cinese, in un papiro
egizio, nella Bibbia (si veda ad esempio Qoelet 12,3-7 e Lc 5,17-26) e negli
scritti di Galeno (medico greco del II secolo d.C.).

Questa malattia è tipica dell’età anziana,
poiché esordisce mediamente intorno ai 60 anni. Tuttavia nel 5-10% dei casi,
definiti a esordio giovanile, i sintomi compaiono già tra i 20 e i 50 anni. La
sua incidenza è di 8-18 nuovi casi all’anno su 100.000 persone, e colpisce
circa il 2% della popolazione sopra i 60 anni. La percentuale sale al 3-5%
oltre gli 85 anni. Un malato di Parkinson rischia di soffrire di demenza da 2 a
6 volte in più della popolazione generale, e la prevalenza della demenza
aumenta con il decorso della malattia. Ciò riduce notevolmente la qualità e
l’aspettativa di vita. Il tasso di mortalità dei parkinsoniani è circa il
doppio di quello delle persone non affette. Inoltre, se la cura non viene
intrapresa ai primi sintomi, il paziente rischia di venire immobilizzato dal
morbo nell’arco di una decina di anni.

I sintomi motori

I sintomi della malattia di Parkinson
possono essere distinti tra motori e non motori. Non sono presenti in tutti i
pazienti allo stesso modo, e nel singolo paziente possono presentarsi
progressivamente nel corso degli anni, ma in modo molto diverso a seconda che
la cura sia iniziata più o meno precocemente, per cui è importante cogliere i
primi segnali della malattia per effettuare quanto prima una corretta diagnosi.
Talvolta purtroppo i sintomi del Parkinson non vengono immediatamente
riconosciuti, perché si manifestano in maniera incostante, e la progressione
della malattia è tipicamente lenta. Spesso sono i familiari del malato ad
accorgersi per primi dei cambiamenti.

Tra i principali sintomi motori del
Parkinson ci sono il tremore a riposo, la rigidità, la bradicinesia
(lentezza dei movimenti), i disturbi dell’equilibrio e del cammino, la postura
curva
, l’alterazione della voce, le difficoltà di deglutizione
con conseguente scialorrea (eccessiva presenza di saliva in bocca).
Generalmente il tremore a riposo, che peraltro non è comune a tutti i pazienti,
interessa unilateralmente una mano o un piede, oppure la mandibola. Qualche
paziente talvolta riferisce di percepire un «tremore interno» non
visibile esteamente.

La rigidità è la conseguenza di un aumento
involontario del tono muscolare, che può essere un sintomo di esordio della
malattia. Colpisce inizialmente un lato del corpo e può interessare gli arti,
il collo e il tronco. È tipica la riduzione dell’oscillazione pendolare delle
braccia durante il cammino. Può essere presente anche acinesia
(difficoltà a iniziare movimenti spontanei). Acinesia e bradicinesia
interferiscono pesantemente con la vita quotidiana, rendendo difficili (se non
impossibili) attività come lavarsi, vestirsi, camminare, spostarsi, girarsi nel
letto. I movimenti fini diventano sempre più difficili, per cui ne risultano
alterate la grafia, che diventa più piccola, e l’espressione del volto
(ipomimia).

I disturbi dell’equilibrio compaiono più
tardivamente: per una riduzione dei riflessi di raddrizzamento, il paziente non
è capace di correggere eventuali squilibri, ad esempio mentre cammina o cerca
di cambiare direzione, rischiando cadute e fratture. Si stima che il 40% dei
ricoveri di pazienti con Parkinson sia conseguente alle cadute. Poiché questo
sintomo non risponde alla terapia dopaminergica, può essere di grande aiuto la
fisiochinesiterapia.

I disturbi del cammino si manifestano con un
ridotto movimento pendolare delle braccia, con un tronco flesso in avanti e con
un passo più breve. Talvolta è presente la «festinazione», cioè la tendenza a
trascinare i piedi a terra e ad accelerare il passo, con difficoltà ad
arrestarsi. Inoltre, durante il cammino, possono verificarsi episodi di blocco
motorio, anch’esso possibile causa di cadute. Oltre alla postura flessa del
tronco, talvolta sono flesse anche le ginocchia.

Le difficoltà di movimento che interessano i
muscoli della gola causano problemi di deglutizione (disfagia) e di fonazione,
rendendo la voce via via più flebile o mancante di tonalità e di modulazione.
Talvolta il paziente tende a ripetere le sillabe, ad accelerare l’emissione dei
suoni e a «mangiarsi» le parole.

I sintomi non motori

Oltre ai sintomi motori, nella malattia di
Parkinson, a causa di alterazioni del sistema nervoso autonomo, insorgono anche
sintomi non motori che possono esordire anni prima rispetto a quelli motori e
peggiorare nella fase avanzata. Tra essi ci sono la stipsi
(stitichezza), i disturbi urinari, le disfunzioni sessuali, i disturbi
della pressione arteriosa
, alcuni problemi cutanei, i disturbi
dell’olfatto
, quelli del sonno, quelli dell’umore, tra cui depressione,
ansia, apatia
, i disturbi comportamentali ossessivi-compulsivi, i disturbi
cognitivi
e talvolta i sintomi psicotici.

La stipsi è dovuta a un rallentamento della
funzionalità gastro-intestinale.

I disturbi urinari generalmente comportano
un aumento della frequenza minzionale, cioè la necessità di urinare spesso.
Possono esserci anche ritardo nella minzione o lentezza nello svuotamento della
vescica.

Il desiderio sessuale può essere ridotto o
aumentato sia per motivi psicologici, che per effetti farmacologici.

Possono esserci alterazioni della pressione
arteriosa con episodi di ipotensione durante la stazione eretta e di
ipertensione durante la posizione sdraiata. Il cambio di posizione
sdraiato/seduto può causare caduta pressoria.

Possono esserci molteplici problemi cutanei
come cute secca o seborroica (grassa), ridotta sudorazione o iperidrosi
(sudorazione profusa).

Tra i primi sintomi del Parkinson possono
esserci riduzione del senso dell’olfatto e del gusto, per cui improvvisamente
viene meno il piacere di mangiare determinati cibi o di sentire gli odori.

I disturbi del sonno possono interessare
fino al 70% dei pazienti, si manifestano sia all’inizio della malattia, che più
avanti nel tempo, e possono essere determinati tanto dalla patologia, che dai
farmaci utilizzati. Tra questi disturbi vi sono l’insonnia, l’eccessiva
sonnolenza diua indipendente dall’insonnia nottua, il disturbo
comportamentale nella fase Rem del sonno (mentre in essa normalmente si è
rilassati, i malati di Parkinson si muovono e sembrano interagire con i sogni),
la sindrome delle gambe senza riposo (che compare e s’intensifica nelle ore
serali e nottue con una continua necessità di muovere le gambe).

La depressione è molto frequente nei malati
di Parkinson, sia in fase iniziale, che avanzata, e può manifestarsi con
alterazioni dell’umore, affaticamento, disturbi del sonno, modificazioni
dell’appetito e disturbi della memoria. Altrettanto frequente è la presenza di
ansia, paura o preoccupazione. Spesso l’ansia è associata a sintomi vegetativi,
somatici e cognitivi, e in particolare alle fasi di blocco motorio.

Spesso il paziente si presenta apatico, cioè
presenta indifferenza emotiva e mancanza di volontà a intraprendere qualsiasi
attività.

Sotto l’effetto dei farmaci dopaminergici,
in alcuni pazienti possono essere presenti alterazioni comportamentali come la
ricerca ossessiva di piacere e gratificazione personale, l’assunzione smodata
di cibo, il gioco d’azzardo, l’ipersessualità, lo shopping compulsivo o la
dipendenza da internet.

In tutte le fasi della malattia, ma
soprattutto nello stadio avanzato e negli anziani, possono manifestarsi
disturbi cognitivi che coinvolgono l’attenzione, le capacità di visualizzazione
spaziale e le funzioni esecutive, cioè la capacità di pianificare e cambiare
strategia.

In rari casi possono essere presenti sintomi
psicotici come deliri, allucinazioni e affaticamento, riferito come mancanza di
forza e senso di stanchezza, anche nel caso in cui il paziente in cura non
abbia problemi dal punto di vista motorio.

Cause

I sintomi del Parkinson sono la conseguenza
del danneggiamento di aree profonde del cervello – i gangli della base (nuclei
caudato, putamen e pallido) – che partecipano alla corretta esecuzione dei
movimenti. In particolare si verifica la morte di una consistente quota (fino
al 70%) di neuroni dopaminergici, i quali producono dopamina, un
neurotrasmettitore che favorisce l’attività motoria. Caratteristica della
malattia di Parkinson è la presenza, nei neuroni rimanenti, di formazioni,
dette corpi di Levy, costituite dalla proteina alfa-sinucleina. Per molti
malati di Parkinson la causa della malattia non è nota, ma in una piccola
percentuale di casi, circa il 5%, la malattia si verifica a seguito di una
mutazione genetica: di uno tra i geni specifici che, ad esempio, codificano per
l’alfa-sinucleina (Snca), per la parkina (Prkn) e per la dardarina (Lrrk2).
Tali mutazioni sono la causa di circa il 5% dei casi di familiarità del
Parkinson, i quali sono a loro volta il 15% del totale.

Fattori di rischio

Tra i fattori di rischio della malattia pare
esserci l’esposizione a inquinanti ambientali come i fitofarmaci, gli
insetticidi come il rotenone, gli erbicidi come il disseccante paraquat e il
defoliante Agente Orange (usato durante la guerra del Vietnam per stanare i
vietcong nascosti nella foresta), i metalli pesanti (a cui sono esposti alcuni
lavoratori come, ad esempio, i saldatori) e gli idrocarburi solventi
(trielina). Altro fattore di rischio importante sono i traumi cranici ripetuti.

Fattori protettivi dalla malattia sembrano
essere il consumo di caffeina, gli estrogeni, i farmaci anti-infiammatori non
steroidei e il fumo di tabacco. Quest’ultimo però è da evitare, visto il suo
ruolo nel cancro del polmone e nell’insorgenza dell’aterosclerosi.

Le cure


Attualmente non esiste una cura per la
malattia di Parkinson, ma il trattamento farmacologico, la chirurgia e la
gestione multidisciplinare del malato possono contribuire ad alleviare i
sintomi. Poiché la malattia è scatenata dalla riduzione della dopamina in
circolo, la terapia farmacologica mira a ripristinae il livello. Il farmaco
più usato, la levodopa, viene convertito in dopamina nei neuroni dopaminergici,
tuttavia solo il 5-10% raggiunge il cervello. Il resto viene trasformato
altrove, causando una serie di effetti collaterali, come nausea, discinesia
(movimenti involontari) e rigidità articolare. Dopo circa 10 anni di terapia
con levodopa, i pazienti sono in gran parte affetti da queste complicanze da
farmaco. Inoltre dopo un numero di anni variabile, il trattamento non è più in
grado di fornire un controllo motorio stabile. In questi casi è possibile
ottenere un miglioramento ricorrendo alla chirurgia stereotassica che consente
di raggiungere formazioni situate nella profondità del cervello, grazie
all’ausilio di dispositivi radiologici. Attualmente sono in corso ricerche per
mettere a punto una terapia genica, che prevede l’uso di virus non infettivi
per portare nel nucleo subtalamico, che regola il circuito motorio, un gene
utile alla produzione del neurotrasmettitore Gaba, anch’esso deficitario nel
Parkinson.

Un altro fronte di ricerca è quello che
prevede la sostituzione dei neuroni dopaminergici andati perduti con cellule
staminali. Le cellule staminali possono essere embrionali, neurali adulte o
fetali, autologhe (derivanti dal midollo osseo o da altri tessuti dei pazienti
stessi), e derivanti dal cordone ombelicale. Le staminali embrionali sono
cellule capaci di differenziarsi in qualsiasi tessuto, tuttavia il loro uso
rappresenta un problema etico. Inoltre esse possono causare la formazione e lo
sviluppo di tumori, e rigetto. Solo proseguendo con la ricerca sarà possibile
risolvere questi problemi. È indispensabile, quindi, che vi sia una maggiore
sensibilità su questi temi, soprattutto a livello parlamentare, affinché siano
recepite tanto l’importanza della ricerca, quanto la necessità di supportare la
gestione dei malati.

Rosanna Topino
Novara

 

La prima puntata, dedicata all’Alzheimer, è
apparsa su MC 12/2014, pp. 66-69.

Tags: malattie, salute, anziani, malattia di Parkinson

Rosanna Topino Novara




Non siamo fermi al ’29

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 26

Si può scrivere in
una legge che i lavoratori hanno diritto ad assentarsi nelle feste della
propria confessione? Oppure vietare l’uso di una lingua diversa dall’italiano
nei luoghi di culto? Una nuova legge generale sulla libertà religiosa non è,
per la politica odiea, una priorità, anche per l’oggettiva difficoltà di
sciogliere molti nodi che paiono irrisolvibili. Ne parliamo col senatore di
Forza Italia Lucio Malan.

Deputato nella XII legislatura
(1994-1996), eletto nelle liste della Lega Nord, è senatore dal 2001, prima del
Pdl e ora di Forza Italia. È stato membro della commissione affari
costituzionali fino al 2013. Nell’attuale legislatura è questore del Senato e
fa parte della commissione giustizia. È membro della giunta delle elezioni e
delle immunità parlamentari e del comitato parlamentare per i procedimenti
d’accusa. Per conto del parlamento ha svolto numerosi incarichi a livello
internazionale. È attivo anche nella Chiesa Valdese, cui appartiene.

Intervistiamo Lucio Malan, da anni
impegnato sul tema della libertà religiosa.

L’Italia oggi è una
società multiculturale e multireligiosa, molto diversa da quella del ’29 quando,
durante il regime fascista, era stata approvata la «Legge Rocco» sui «culti
ammessi» per «consentire» il libero esercizio dei culti non cattolici, dopo
aver riservato con i Patti Lateranensi una «particolare condizione giuridica»
alla religione dello stato. Nonostante sia stata modificata dalla Corte
costituzionale, per togliere le parti incompatibili con la Costituzione
repubblicana, quella legge è tuttora in vigore. Un’altra, dunque, si impone.
Lei si è molto impegnato in questa direzione. Cosa ha fatto fino a oggi il
Parlamento per rispondere a questa necessità?

«Ci sono stati diversi tentativi di arrivare all’approvazione di una
legge sulla libertà religiosa, in particolare nelle legislature 1996-2001 e
2001-2006. I governi Prodi I e Berlusconi II presentarono disegni di legge
sostanzialmente uguali fra di loro. Nel 2003 la proposta fu approvata in
commissione e approdò nell’aula della Camera, ma non andò oltre la relazione.
Nel frattempo, però, Camera e Senato dal 1984 hanno approvato undici intese1 oltre a cinque modifiche di esse. Il record è
stato nella legislatura 2008-2013, con cinque nuove intese e tre modifiche,
andando oltre l’ambito giudaico-cristiano grazie agli accordi con buddisti e
induisti».

Perché,
nonostante questo notevole lavoro, non è stata ancora approvata la nuova legge
sulla libertà religiosa?

«Perché non è sentita come una priorità e perché si tratta di cosa
molto complicata. Nella legislatura 2001-2006 il testo approvato conteneva
alcune limitazioni ispirate a questioni di sicurezza, che furono ritenute
inaccettabili da molta parte del centro sinistra. Senza quelle limitazioni
sarebbe stato il centro destra a opporsi. Inoltre la legge dell’epoca fascista,
odiosa nel titolo (“culti ammessi”), in realtà concede molto più di quanto si
crede e molti oggi avrebbero difficoltà a riapprovare le stesse norme. Ad
esempio, include la possibilità dell’ora di religione in contemporanea
all’insegnamento della religione cattolica».

Le
intese tra lo stato e le varie confessioni religiose, nonché la futura nuova
legge sulla libertà religiosa, costituiscono una crescita dei diritti e delle
libertà, nel quadro dell’attuazione piena della società democratica definita
nella Costituzione repubblicana. Alla sua base sta il principio di laicità, in
cui tutti si riconoscono. Perché allora tale principio è diventato uno dei
motivi per cui non si è riusciti ad approvare la nuova legge sulla libertà
religiosa?

«Non so se la laicità finisce per essere un ostacolo. Di certo, molti
temono una legge che includa anche gli islamici, perché nelle loro varie realtà,
potrebbe dare l’opportunità agli estremisti di usare le prerogative di
confessione religiosa per fare altro, e si sa che in gran parte dei paesi
islamici, il concetto di laicità dello stato è del tutto sconosciuto. Inoltre,
come ho detto, nessuno vuole concedere spazi e si dice: piuttosto di una
cattiva legge, meglio andare avanti così, visto che comunque la libertà
religiosa c’è e le intese funzionano».

Quali
sono le questioni principali, in ordine alla libertà religiosa, che la nuova
legge deve regolamentare?

«Si tratterebbe di attribuire a tutte le confessioni alcune
prerogative attualmente riservate a quelle che hanno stipulato l’intesa. In
realtà, molte prerogative sono già oggi garantite, come la possibilità, per i
ministri di culto, di visitare i detenuti, entrare negli ospedali non solo per
uno specifico paziente, come ad esempio un parente, e altre questioni. Già oggi
tutte le confessioni possono farlo, purché abbiano il riconoscimento della
personalità giuridica e la nomina dei ministri di culto sia approvata dal
ministero dell’interno, cosa che ultimamente è diventata problematica. C’è poi
la questione della partecipazione all’8 per mille, oggi riservata ai titolari
di intese, che sembra improbabile poter allargare a tutti. Ci sarebbe anche la
questione delle festività religiose, del riconoscimento degli istituti di
formazione dei ministri di culto, e altro ancora. In realtà, non è facile
scrivere una normativa che preveda le esigenze delle varie confessioni e tenga
conto dei problemi che ciascuna può porre alla collettività. In questo le
intese sono molto efficaci perché partono dai casi concreti e li affrontano in
termini di norma. Per fare un esempio banale: non si può scrivere astrattamente
che i lavoratori hanno diritto ad assentarsi nelle feste della propria
confessione: teoricamente ogni giorno la Chiesa Cattolica festeggia una
ricorrenza, o uno o più santi. Parlando di prevenzione dei problemi che si
possono creare con talune confessioni, c’è chi propone di imporre nelle moschee
l’uso del solo italiano, perché l’eventuale incitamento all’odio possa essere
riscontrato più facilmente, e conosco dei musulmani che non sarebbero contrari.
Resta il problema che il Corano deve poter essere letto in arabo, che per loro è
lingua sacra. In ogni caso, non si può fae una norma generale: vuoi vietare
la messa in latino, che fino a 50 anni fa era l’esperienza comune di tutti i
cattolici, schiacciante maggioranza nel paese? Vuoi vietare agli ebrei di
leggere la Torah in ebraico, la lingua in cui per loro, e anche per noi
cristiani, è stata scritta da Mosè sotto la dettatura di Dio? Ci vuole molto
pragmatismo. Prendiamo l’aspetto delicato della circoncisione: è vero che è un
atto irreversibile praticato su bambini di otto giorni, dunque senza alcun
assenso, ma è anche vero che è tradizione antichissima, che non ha alcun
effetto negativo. Ben altra cosa sono le mutilazioni femminili, anche esse
tradizionali in certe etnie, ma del tutto inaccettabili nella nostra civiltà».

Si
può realisticamente pensare che essa sia approvata nel corso della presente
legislatura?

«No. Ma non mettiamo limiti alla Provvidenza».

C’è
chi sostiene che, a seguito della stipula delle intese con diversi culti
religiosi, sia aumentato il divario tra i diritti di questi e i diritti di
quelli che le intese non le hanno stipulate. In altri termini, mentre si opera
per realizzare una piena eguaglianza tra tutti i culti religiosi,
paradossalmente si fa crescere la disuguaglianza tra di loro. La «strada delle
intese» è davvero quella migliore da seguire? Tra l’altro, procedendo per
questa via, oggi si è finito col ritrovarci in una condizione piuttosto
complessa, tra le intese – che nascono da accordi bilaterali tra una
confessione religiosa e lo stato -, la legge del ’29 ancora in vigore e la
nuova legge che non viene avanti.

«Indubbiamente il problema c’è. Ma non dimentichiamo che la Repubblica
Italiana nasce con una diseguaglianza pregressa costituita dal Concordato, che
neppure il Partito Comunista, teoricamente ateo, tentò seriamente di abrogare.
Purtroppo c’è stato di recente un vero e proprio passo indietro con l’assurda e
incostituzionale decisione del ministero dell’Inteo di applicare un
inopportuno parere del Consiglio di Stato, il quale – per la prima volta dalla
legge del 1929 – ha indicato un limite numerico minimo di fedeli per il
riconoscimento dei ministri di culto, per di più nell’esorbitante cifra di 500,
nel presupposto, peraltro falso, che tale sarebbe il numero minimo dei fedeli
nelle parrocchie cattoliche con sacerdote residente. Orbene, in primo luogo ci
sono, proprio nella mia valle (la Val Pellice in Piemonte, ndr), comuni
sotto i 500 abitanti, la maggioranza dei quali è valdese, con tanto di
sacerdote cattolico residente. In secondo luogo, non si può imporre alle altre
le logiche della confessione maggioritaria, anche perché, per forza di cose,
mentre è facile in un territorio molto piccolo trovare 500 cattolici, non lo è
altrettanto trovare, ad esempio, 500 luterani. I luterani, che pure hanno
l’intesa, sono circa seimila volte meno numerosi dei cattolici, e dunque,
mediamente, 500 luterani saranno sparsi per un territorio seimila volte più
vasto: cosa che rende loro impossibile avere un unico ministro di culto. In
terzo luogo, spesso le confessioni minoritarie hanno dei ministri di culto che,
per mantenersi, hanno un altro lavoro, come del resto la maggioranza dei
rabbini: non si può pensare siano in grado di svolgere lo stesso lavoro di un
sacerdote cattolico a tempo pieno. In quarto luogo, la percentuale di
praticanti è spesso più alta nelle minoranze più recenti di quanto lo sia tra i
cattolici o altre confessioni storiche, nelle quali la secolarizzazione ha
prodotto effetti tra i fedeli. Ecco, eliminando questo obbrobrio, si
rimedierebbe a gran parte del problema. Basterebbe un’indicazione del ministro
dell’Inteo, o del dirigente preposto, visto che la decisione è stata di un
dirigente, e non certo una legge. Il parere del Consiglio di Stato non può
valere più della Costituzione o di una legge. Né è accettabile che una cosa
applicata senza significative limitazioni dal regime fascista (salvo il baratro
delle leggi razziste, naturalmente), venga ristretta oggi, dopo settant’anni di
democrazia».

Nella
società multiculturale italiana, di cui si parlava all’inizio, appare urgente
affrontare anche altri problemi, in particolare quello dell’immigrazione e
quello della «cittadinanza». È possibile arrivare a una piena attuazione della
libertà religiosa senza che la nuova legge venga accompagnata da altre leggi
che riguardino quelle due questioni? Libertà religiosa, immigrazione e
cittadinanza non costituiscono una trilogia che deve andare insieme?

«A mio parere le cose sono ben distinte. Le leggi sull’immigrazione si
applicano indifferentemente a cattolici, musulmani, atei e chiunque altro, com’è
giusto. E la libertà religiosa riguarda italiani, immigrati regolari e
irregolari, turisti e passanti, com’è giusto. Tutte questioni delicate, ma
distinte. Solo un paese, oltre alla Città del Vaticano, ch’io sappia, regola
l’immigrazione sulla base della religione: Israele, che definisce se stesso
come stato ebraico, ma è più facile diventare cittadino italiano per un extra
comunitario che diventare ebreo per un gentile».

Paolo Bertezzolo
Note:

1- L’articolo 8 della Costituzione stabilisce che
i rapporti delle confessioni religiose con lo stato «sono regolati per legge
sulla base di intese [accordi] stipulate con le relative rappresentanze».

Tag: libertà religiosa, Costituzione, Laicità dello stato, Intese

Paolo Bertezzolo




Cooperazione: coi soldi di chi?

Chi finanzia lo
sviluppo? E chi la cooperazione allo sviluppo? Un’istantanea sul flusso dei
finanziamenti ai paesi del Sud del mondo e una panoramica sull’Italia. Con uno
zoom sul ruolo – in crescita – dei fondi privati e un cameo sulle Ong italiane
e l’otto per mille.

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Aiuto pubblico allo sviluppo: quanto aiuta?

Centotrentaquattro miliardi di dollari, ecco la cifra che i paesi donatori hanno speso nel 2013 - ultimo dato disponibile - per aiuto pubblico allo sviluppo (Aps): la più alta mai raggiunta. L’incremento, precisa l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), è stato di sei punti percentuali rispetto all’anno precedente e la tendenza all’aumento potrebbe essere confermata anche dai dati 2014.

Ma quanto sono 134 miliardi di dollari? Non poco, constata l’Ocse, se si considera che la maggior parte delle economie dei paesi è alle prese con sempre più severi tagli alla spesa imposti dalla difficile congiuntura economica internazionale. Pochino, invece, se li si confronta con i 1.700 miliardi che il mondo destina annualmente alle spese di difesa, o con le altre voci che compongono i flussi di risorse economiche verso i paesi in via di sviluppo. Bisogna moltiplicare per almeno quattro i 134 miliardi di aiuto, ad esempio, per ottenere il totale degli investimenti stranieri diretti nei paesi del Sud del mondo, quelli cioè che sono puri investimenti senza agevolazioni e che vanno rimborsati fino in fondo con gli interessi. Quanto alle rimesse dei migranti, cioè il denaro che i lavoratori immigrati inviano nei loro paesi d’origine, ammontano a più di tre volte l’aiuto pubblico: nel 2014 hanno raggiunto i 435 miliardi di dollari.

Questi paesi, insomma, crescono più grazie ai soldi dei loro migranti e degli investitori stranieri che alla cooperazione bi/multilaterale. Ma è anche vero, notano vari osservatori, che i flussi in sé non inducono automaticamente miglioramenti a infrastrutture, sanità, sistema educativo. Sempre l’Ocse, nel rapporto 2014 sulla cooperazione allo sviluppo, sottolinea ad esempio come le rimesse siano «tradizionalmente percepite come risorse da utilizzare per i consumi diretti (medicine, cibo, automobili, ecc.) più che per investimenti produttivi, e questo può generare dipendenza da ulteriori rimesse». Accanto a casi positivi in cui una correlazione fra rimesse e salute o rimesse e investimenti si è effettivamente registrata, ce ne sono altri nei quali questi flussi di denaro hanno anche creato sperequazioni nella distribuzione del reddito. Evidentemente molto dipende dalle decisioni politiche locali nei paesi beneficiari e dal grado di consapevolezza e responsabilità con cui questa fonte di ricchezza viene gestita. L’aiuto pubblico allo sviluppo ha invece in questi miglioramenti sistemici il proprio principale obiettivo; il dibattito semmai è su quanto efficacemente lo raggiunga.

I primi dieci paesi beneficiari dell’aiuto pubblico allo sviluppo sono l’Afghanistan, con cinque miliardi di dollari, seguito da Myanmar, Viet Nam, India, Indonesia, Kenya, Tanzania, Costa d’Avorio, Etiopia e Pakistan. I dieci principali donatori sono gli Stati Uniti, con 31 miliardi di dollari, seguiti da Regno Unito, Germania, Giappone, Francia, Svezia, Norvegia, Paesi Bassi, Canada e Australia; ma a superare la soglia dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo destinato all’aiuto (fissata dalle Nazioni Unite nella Dichiarazione del millennio come impegno da realizzare entro il 2015) sono solo Norvegia, Svezia, Lussemburgo, Danimarca e Regno Unito.

Un discorso a parte meritano poi i paesi cosiddetti non Dac, cioè non membri del comitato per l’assistenza allo sviluppo dell’Ocse (il cui acronimo in inglese è, appunto, Dac) a cui invece si riferiscono i dati sin qui riportati. Si tratta dei cosiddetti paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e di una ventina di altri stati fra cui Emirati arabi uniti, Turchia, Israele, Kuwait. La loro quota d’interventi assimilabili all’aiuto pubblico allo sviluppo perché i criteri per definirlo in questi paesi sono diversi da quelli dell’Ocse - ammonterebbe a quasi 17 miliardi di dollari. L’aiuto fornito da questi stati sembra essere in aumento e il principale donatore è la Cina, con cinque miliardi e mezzo di dollari.

Aiuto privato: a quanto ammonta?

Una fonte di finanziamento per lo sviluppo in forte crescita è data dai fondi privati: organizzazioni non governative, fondazioni, aziende, associazioni non profit. Secondo le stime dell’Ocse, nel 2011 questi fondi erano pari a 45 miliardi di dollari, due terzi dei quali provenienti dagli Stati Uniti, il cui aiuto privato allo sviluppo eguaglia quello pubblico. Oltre la metà dei fondi provengono dalle organizzazioni non governative, mentre il resto è diviso abbastanza equamente fra fondazioni e donazioni da parte di aziende. Questo tipo di finanziamento sta ricevendo crescente attenzione da parte dell’Ocse e degli altri enti che si occupano di misurare il polso della cooperazione allo sviluppo. Questo perché, se è vero che la quantità di fondi è relativamente limitata a confronto con i flussi di cui abbiamo parlato prima, è anche vero che - come l’aiuto pubblico e a differenza di rimesse e investimenti - ha come scopo dichiarato proprio lo sviluppo e ha quindi un potenziale molto più elevato di incidere su quello rispetto ad altri tipi di risorse in entrata nei paesi beneficiari.

Si tratta però di una categoria della quale è difficile tracciare contorni chiari sia per quanto riguarda i soggetti, che vanno da colossi come la Bill & Melinda Gates Foundation alle piccole realtà associative, sia relativamente all’impatto e alla tracciabilità dei fondi erogati, cioè a quanto e come questi fondi arrivano ai beneficiari finali. In mancanza di dati certi, è molto difficile inserire questa risorsa nella programmazione degli interventi di cooperazione: se si tratta di un ente come la Gates Foundation, infatti, il suo contributo ai programmi di cooperazione è noto e spesso cornordinato con quello dei partner pubblici. Ma nel caso del volontariato, delle piccole associazioni, delle realtà meno strutturate, la presenza di forme di cornordinamento è molto più episodica. Anche per questo tipo di fondi occorre tener conto dei flussi privati dai paesi non Dac, che ammonterebbero a trentacinque miliardi di dollari.

Il caso dell’Italia

L’Italia ha destinato in aiuto pubblico allo sviluppo 3,4 miliardi di dollari nel 2013, pari allo 0,17 per cento del proprio Pil e al 2,5 per cento del totale dei paesi donatori. Al contrario della media degli altri paesi donatori, la maggior parte dell’aiuto italiano raggiunge i paesi beneficiari tramite il canale multilaterale: oltre il settanta per cento, infatti, consiste in fondi girati dal governo italiano alle istituzioni inteazionali, specialmente all’Unione europea. L’Italia è il quarto maggior contribuente al budget della cooperazione allo sviluppo comunitaria dopo Germania, Francia e Regno Unito.

Per la parte bilaterale, cioè di rapporti diretti fra il governo italiano e i paesi riceventi, una parte consistente degli 850 milioni di dollari totali è data dall’assistenza ai rifugiati in Italia, pari a 403 milioni. La cancellazione del debito ai paesi beneficiari, anche questa considerata parte dell’aiuto pubblico allo sviluppo, si è ridotta a poco più di tre milioni di dollari ma nel 2011 era un’altra delle voci più «pesanti»: 648 milioni, il 37% del totale. Tentiamo un’analisi di questo quadro. L’Italia ha certamente fatto passi avanti nel dare credibilità al proprio impegno per lo sviluppo. Come conferma l’esame effettuato dall’Ocse nel 2014, il nostro paese ha invertito la tendenza aumentando il volume dell’aiuto. Ma la limitatezza del canale bilaterale dà l’impressione di un paese al traino, che non ha una propria strategia chiara e si affida più alle agenzie multilaterali che a una propria pianificazione diretta con i paesi beneficiari. Non solo. Assistenza ai rifugiati e cancellazione del debito sono certamente voci fondamentali, tanto più che la seconda vincola in teoria i paesi altamente indebitati a impegnarsi in politiche di riduzione della povertà in cambio della cancellazione. Ma, come sottolineava lo scorso giugno nel sul blog ZeroVirgolaSette il consigliere del Ministero degli esteri Iacopo Viciani, «in passato varie Ong, da ActionAid alla piattaforma Concord, avevano contestato che le operazioni di cancellazione del debito o le spese per sensibilizzare il pubblico ai problemi dello sviluppo globale o quelle per accogliere i rifugiati nel paese donatore o le spese amministrative e di gestione dei progetti fossero registrate come Aps. Non costituirebbero infatti un trasferimento effettivo di risorse al paese». Sarebbe, cioè, una forma di aiuto «passiva» non in grado di incidere sulle cause della povertà e non basata su una effettiva concertazione fra paesi donatori e beneficiari per individuare e realizzare interventi che portino ad esempio a un miglioramento dei sistemi sanitari ed educativi, a un potenziamento delle infrastrutture, a un rafforzamento del tessuto economico dei paesi che ricevono i flussi di aiuti.

L’aiuto italiano e le Ong

In Italia, riporta l’esame (peer review) Ocse 2014, il settanta per cento dell’aiuto pubblico allo sviluppo è gestito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e riguarda la cooperazione multilaterale, mentre al Ministero per gli affari esteri e la cooperazione internazionale (Maeci), che si occupa di cooperazione bilaterale compresi i finanziamenti a dono, resta un dieci-quindici per cento, il resto essendo gestito dalla Presidenza del Consiglio e da altri enti, fra cui le amministrazioni locali.

È da questi fondi che vengono i finanziamenti per i cosiddetti progetti promossi dalle Ong. Secondo i dati Ocse, l’Italia gestisce attraverso le Ong circa un decimo dell’aiuto pubblico allo sviluppo e la più ampia fetta di questi fondi va a progetti decisi dal donatore istituzionale (ministero) e affidati alle Ong per la realizzazione; meno del dieci per cento resta per i progetti che nascono dall’iniziativa delle Ong.

Per avere un’idea della situazione, basta pensare che la previsione per il 2015 è che il Maeci destini ai progetti delle Ong circa dieci milioni di euro, la stessa cifra che la Chiesa valdese mette a disposizione per la cooperazione allo sviluppo grazie alle entrate che le derivano dall’otto per mille. La Chiesa cattolica, attraverso la Conferenza episcopale italiana, nel 2014 ha allocato 85 milioni di euro alla voce «interventi caritativi nei paesi del Terzo Mondo» (contabilizzati comunque come aiuto pubblico allo sviluppo nei dati che l’Italia fornisce all’Ocse), mentre la Caritas Italiana ha distribuito fondi per dieci milioni di euro di cui otto milioni in programmi di sviluppo e il resto in aiuti d’emergenza e micro-progetti. Quanto alla quota di otto per mille Irpef assegnata allo stato italiano e teoricamente destinata a «fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati e conservazione di beni culturali», il governo l’ha utilizzata nel 2013 per coprire altre voci di bilancio, mentre nel 2014 ha finanziato quattro progetti per un totale di quattrocento mila euro su 170 milioni di entrata totale dall’Irpef.

La Corte dei Conti ha di recente pubblicato uno studio nel quale si sottolinea che allo stato attuale il meccanismo dell’otto per mille non permette una vera scelta da parte del contribuente: la maggior parte dei fondi derivano di fatto dalla quota inespressa di preferenze, cioè dal denaro dei contribuenti che non hanno messo la croce né sullo stato né su una delle dieci confessioni religiose nella loro dichiarazione dei redditi, ma che vedono comunque la loro quota di otto per mille trattenuta e ripartita secondo le proporzioni determinate dai contribuenti che invece hanno espresso la preferenza. Il profilo che emerge dallo studio è di uno sbilanciamento dei fondi in favore delle confessioni (un miliardo e cento milioni di euro, di cui un miliardo e cinquanta alla Chiesa cattolica) e di uno stato che si disinteressa completamente della propria quota di otto per mille e tradisce così il «patto» con i contribuenti. Ma, al netto del dibattito sulla necessità di ripensare l’otto per mille e di quello sull’utilizzo effettivo dei circa 350 milioni di euro che le Ong gestiscono fra (pochi) fondi pubblici italiani, fondi pubblici europei e donazioni dei sostenitori - questa rivista ha affrontato l’argomento in Carità? Per carità!, MC giugno 2013 -, l’impressione di massima che emerge è quella di una cooperazione italiana che si è sin qui limitata, peraltro con altei successi, a «fare i compiti» abdicando completamente alla possibilità di avere autorevolezza e prestigio sulla scena internazionale attraverso una relazione diretta e costante con i paesi beneficiari e una valorizzazione più decisa della propria società civile.

Chiara Giovetti
Tags: Cooperazione, aiuto pubblico, aiuto privato, finanziamento sviluppo
Chiara Giovetti




Liberati dal crack

Lungo il Rio Branco.
Viaggio a Roraima / 4
La droga – il crack,
in particolare – ha raggiunto ogni angolo del Brasile. È un’epidemia che pare inarrestabile. A Iracema (Roraima)
abbiamo visitato una comunità terapeutica che fa parte della rete «Fazenda da
Esperança». Gli ospiti, in maggioranza giovani, stanno recuperando la loro
dignità con il lavoro e la vita comunitaria.

Br-174.
Lasciamo la desolata cittadina di Caracaraí per riprendere la strada federale,
sempre poco transitata.

Passiamo tenute agricole, aree verdi e praterie con
animali in libertà. Poi, in prossimità di Iracema, un cartello avverte che
siamo nei pressi della Fazenda da Esperança‚ una fattoria con caratteristiche particolari. «È una
comunità terapeutica per tossicodipendenti diffusa in tutto il Brasile», ci
spiega dom Roque Paloschi, nostra infaticabile guida.

La droga ha raggiunto ogni angolo del Brasile, compresa
l’Amazzonia. Anzi, dato che la regione confina con tutti e tre i grandi
produttori di coca (Colombia, Perù e Bolivia), essa è divenuta un importante
luogo di transito1, in particolare per la cocaina e i suoi sottoprodotti
(crack, óxi, merla)2.

Rafael e gli altri

La Fazenda è cresciuta proprio a lato della
strada, all’ombra di grandi alberi. Non facciamo in tempo a scendere dall’auto
che già si è formato un capannello di persone. Sono in maggioranza giovani, ma
tra loro c’è anche un signore con una maglietta di una squadra di calcio che
pare più avanti negli anni. Tutti hanno volti distesi e sorridenti, l’esatto
contrario di quelli segnati dalla droga o dall’alcol.

Nata nel 1983 su iniziativa di padre Hans
Stapel, missionario tedesco, e di Nelson Giovanelli Rosendo dos Santos, la
Fazenda da Esperança è oggi una realtà consolidata e soprattutto riconosciuta
nell’ambito del recupero dalla tossicodipendenza. Conta quasi 100 sedi
distribuite in tutto il Brasile e in altri 16 paesi.

La sede di Iracema porta il nome di Fazenda
Nossa Senhora de Guadalupe. Aperta nel dicembre del 2009, ospita una ventina di
«interni» (chiamati anche recuperandos, ma non
pazienti o ricoverati), tutti maschi. «Il più giovane ha 14 anni, il più
vecchio 41», ci dice Ednila, la segretaria.

Rafael, il responsabile, si offre di
mostrarci la struttura. Ci sono numerose casette dipinte con colori diversi
(azzurro, giallo, verde, rosso) e circondate da curatissime aiuole. Ognuna è
adibita a una specifica attività: l’ambulatorio, la palestra, le camere degli
interni, gli alloggi di coloro che già hanno fatto una parte del percorso, una
casa con la cucina comune (in cui lavorano alcuni interni), un’altra che ospita
una saletta per riunioni e video, la cappella Nostra Signora di Guadalupe. «E
quella là in fondo – indica Rafael – è la casa dei “padrini”. Cioè di coloro
che sono venuti per disintossicarsi e, una volta recuperati, si sono fermati
per aiutare gli altri».

Sono tanti coloro che, entrati come ospiti,
si sono in seguito fermati come volontari. È lo stesso percorso compiuto da
Rafael, ex tossicodipendente. «Sono entrato nella Fazenda nel 2005. Dopo il mio
recupero ho deciso di rimanere come volontario. Sono quindi uscito per qualche
anno, ma poi sono rientrato con mia moglie Erica. E oggi viviamo qui assieme ai
nostri due bambini»3.

Convivenza, lavoro, spiritualità

Nella Fazenda da Esperança non si entra per
caso. Al contrario, occorre seguire una precisa procedura.

Chi vuole provare questa esperienza deve in
primis
presentare una lettera scritta di proprio pugno in cui racconta se
stesso e spiega i motivi per cui chiede di entrare nella comunità. Quindi c’è
una sorta di precolloquio alla fine del quale alla persona vengono prescritti
una serie di esami fisici e psichici per capire il suo stato, «dato che –
precisa Rafael – la Fazenda non è una clinica, ma una comunità terapeutica». Se
gli esami medici mostrano la compatibilità del richiedente con la vita
comunitaria, viene fatto un colloquio finale durante il quale si valutano la
sua predisposizione personale e la sua volontà di recupero. Superato anche
questo colloquio, la persona può finalmente essere accolta per un percorso
della durata di almeno un anno.

I primi mesi sono i più duri. «Durante questo
periodo – spiega Rafael – i contatti con familiari e amici possono avvenire
soltanto per lettera».

La metodologia adottata dalla Fazenda da
Esperança si regge su tre pilastri: la convivenza, il lavoro e la spiritualità.
Quest’ultima nasce dalla lettura e dalla pratica quotidiana della parola
evangelica e rappresenta un elemento centrale ma non escludente. «La differenza
religiosa – precisa Ednila – non costituisce un ostacolo per entrare in comunità».
Nella Fazenda la convivenza è a un tempo indispensabile e inevitabile: assieme
si vive, si mangia, si lavora. Il lavoro, infine, è visto come processo
pedagogico e fonte di autostima.

La forma della
speranza

Alla Fazenda di Iracema il lavoro non manca. C’è molta
terra per coltivare e per allevare bestiame: i prodotti ottenuti contribuiscono
al sostentamento della comunità. All’agricoltura e all’allevamento si
affiancano poi due attività artigianali.

Ecco la casetta che ospita la fabbrica di sapone. Lungo
il muro ci sono alcune taniche e decine di bottiglie di plastica piene di un
liquido scuro. «È l’olio riciclato che usiamo per fare il sapone», ci spiega
Rafael. Poi, forse vedendo la nostra faccia interdetta, subito aggiunge: «È un
sapone molto buono, soprattutto per lavare i vestiti. Lo vendiamo a un real per barra».
Entriamo nei locali dove avviene la produzione. Orgoglioso, Rafael ci mostra
gli strumenti necessari alla fabbricazione e ci spiega le fasi del processo
produttivo. «Eccolo», grida Rafael mettendoci in mano una sorta di mattoncino
di color giallo pallido avvolto da una plastica trasparente su cui è posta
un’etichetta con la scritta Sabão
da Esperança. Un prodotto che è quasi
una metafora: il sapone elimina le scorie della vita precedente e offre la
speranza di un’esistenza diversa.

Storia di Bruno

Tuttavia, l’attività più redditizia per la Fazenda viene
dalla panetteria, ospitata in un’altra casa. Quando entriamo, due ragazzi
stanno lavorando su un tavolone in acciaio: tirano la pasta con un mattarello,
ne fanno dei rotolini che depongono in padelle oliate. I ragazzi ci mostrano il
foo e la macchina per impastare (amassadeira), comprata con i soldi
guadagnati dalla vendita del sapone.

Su una lavagna sono segnate le ricette dei vari tipi di
biscotti, tutti (giustamente) fatti con frutta locale: ci sono al coco, al cupuaçu, alla castanha, alla maracuja. Anche il pane
viene sfornato in alcune varietà: pane della casa, pane francese… Tutti i
prodotti sono infine accuratamente confezionati. «Vengono venduti nelle
parrocchie e poi dai volontari», ci spiegano.

Bruno, 22 anni, è di Boa Vista e non nasconde né la
propria storia di droga né l’attuale felicità. Confessa: «Quando sono arrivato
ero distrutto, fisicamente e spiritualmente». «Qui tutto è allegria e amore»,
aggiunge. Ma più delle parole a convincere è il suo sorriso.

Paolo Moiola

(fine
quarta puntata – continua)

Ragazzi di strada a
Manaus
Sotto il ponte di
Kako Caminha

 Una trentina di
giovani, tra cui molti minorenni, vivono sotto un ponte di Manaus. Intossicati
da colla e crack, temuti dalla popolazione, picchiati dalla polizia, ad aiutare
questi ragazzi sono rimasti soltanto alcuni volontari di «O Pequeno Nazareno».
Li abbiamo seguiti.

Manaus (Amazonas). Il ponte di Kako Caminha conduce
al bairro di São Jorge. Pare un normale ponte, attraversato ogni giorno
da centinaia di auto. Invece tanto normale non è. Per scoprirlo è sufficiente
spostarsi su un lato e andare sotto il viadotto. Lo facciamo con Tommaso
Lombardi, nostra vecchia conoscenza, che da tempo frequenta questo luogo
assieme alla moglie Elaine e altri volontari1.

L’igarapé,
un fiumiciattolo di acqua sporca e puzzolente, occupa soltanto una piccola
parte della larghezza del canale, il resto è una riva di terra e vegetazione.
Troviamo due vecchi divani, posti uno accanto all’altro. E poi stracci e cumuli
di rifiuti. «Qui sotto dormono e trovano riparo una trentina di giovani, alcuni
sono bambini di neppure 10 anni – ci spiega Tommaso -. Noi veniamo a cercarli
un paio di volte alla settimana. O per strada o al ponte».

Camminiamo
lungo la riva fino a uno spazio aperto. Eccoli: sotto alcuni alberi, raccolti
attorno a una pentola, ci sono i ragazzi. Tommaso saluta, e un paio di loro ci
vengono incontro. Sono Jean e Leandro, poco più che diciottenni. Il torso nudo
evidenzia la loro magrezza. Sorridono. Scambiamo qualche parola. Fa impressione
sapere che quella bottiglietta di plastica appesa al loro collo serve per
sniffare la colla o il crack.

Nel gruppo
notiamo una sola ragazza. «Sono molte meno, e di solito arrivano per la notte»,
spiega Tommaso, che aggiunge: «Nel gruppo c’è un alto tasso di omosessualità».

I ragazzi
sopravvivono e si procurano i soldi per la droga chiedendo l’elemosina ai
semafori, pulendo le scarpe, prostituendosi o facendo piccoli furti. «Alcuni –
aggiunge la nostra guida – commettono crimini maggiori, come furti nelle case o
assalti di autobus, abbastanza frequenti a Manaus».

Ogni volta che
la polizia interviene sotto il ponte di Kako Caminha per sgombrare l’accampamento
dei ragazzi, lo fa in maniera violenta. «Li picchia, li butta nell’igarapé,
li minaccia – racconta Tommaso -. Brucia le loro povere cose (materassi,
lenzuola, oggetti). Soltanto dopo le azioni più violente i ragazzi si sono
spostati. Ma mai per più di una settimana. Questa è la loro unica “casa”».

Tommaso è il
responsabile per Manaus di O Pequeno Nazareno, un’organizzazione
non governativa che si occupa di ragazzi di strada. «Quando li
incontriamo, facciamo loro la proposta di venire nella nostra casa
d’accoglienza, aperta per bambini e adolescenti dagli 8 ai 17 anni d’età».

«Con i
maggiori di 18 anni – spiega rammaricato – l’unica cosa che possiamo fare è
indirizzarli verso una casa di recupero dalla tossicodipendenza, tipo Fazenda
da esperança
».

«Criança não é de
rua»

In Brasile, le
dimensioni del fenomeno sono allarmanti. Un’indagine compiuta dalla campagna
nazionale Criança não é de rua («I bambini non sono di strada»),
lanciata e guidata da O Pequeno Nazareno, evidenzia dati drammatici2.

Tra le persone
che vivono in strada il 58,13% ha tra i 13 e i 17 anni, il 13,28% tra i 7 e i
12 anni e addirittura c’è un 4,69% che ha meno di 6 anni. Due terzi (64%) dei
bambini e adolescenti di strada usano il denaro raccolto per procurarsi droghe.
Meno di un terzo (23%) dicono di usare i soldi per comprarsi da mangiare e
appena un piccolo numero (5%) per aiutare la propria famiglia. Ben l’88% dei
ragazzi di strada dice di far uso di un qualche tipo di droga. Tra queste, la
più consumata risulta essere il crack (49%), seguito dalla colla (16%), dalla
marijuana (12%) e dalla cocaina (5%).

Lo slogan di O
Pequeno Nazareno
, tanto semplice quanto efficace, è racchiuso in una
domanda: «Che futuro potrà mai avere una società che nega ai propri bambini il
diritto al presente?»3. I ragazzi che vivono sotto il
ponte di Kako Caminha o nelle strade di centinaia di altre città meritano
un’esistenza diversa.

Paolo Moiola
 
Note

1 – Di
Tommaso Lombardi ed Elaine Elamid abbiamo parlato nel reportage João cresce con i libri, in MC dicembre 2012.

2 – I dati
sono riportati dall’indagine svolta dagli organizzatori della Campanha nacional «Criança Não é de Rua» (Campagna nazionale «I bambini non sono di strada»). L’indagine è
scaricabile dal sito: www.criancanaoederua.org.

3 –
Testuale: «Que futuro terá uma sociedade que nega à suas crianças o direito a
um presente?».

Tags: tossicodipendenze, droghe, recupero, ragazzi di strada

Paolo Moiola




Le donne in prima fila

Diritto al cibo:Le donne, in
qualsiasi parte del mondo, sono le nutrici dell’umanità. Hanno il senso del
bene comune e del futuro. Nelle aree povere sono il primo argine contro la
fame. Nei paesi ricchi sono abili contro gli sprechi. Anche all’Expò se ne
parlerà.

Una delle tante contraddizioni che segnano il
nostro mondo riguarda la relazione tra popolazione femminile e alimentazione.
Ovunque le donne coltivano, cucinano, somministrano il cibo, ma sono proprio
loro, assieme ai bambini, che più soffrono di fame e malnutrizione.

La condizione di povertà, subalteità economica,
emarginazione sociale e, talvolta, di sfruttamento in cui vivono milioni di
donne si riflette sul loro stato nutrizionale. Le bambine che vivono nelle aree
rurali povere, vengono nutrite di meno rispetto ai loro coetanei maschi, anche
se sono loro che aiutano le madri a preparare il cibo e a procurare l’acqua che
serve a dissetare la famiglia.

Gli studi dell’Ifad (il Fondo internazionale per lo
sviluppo agricolo delle Nazioni unite) dimostrano che negli ultimi venti anni
la partecipazione delle donne al lavoro agricolo – anche a causa dei conflitti
e delle migrazioni maschili – è aumentata di un terzo.

In
Africa il 30% delle piccole attività agricole è condotto da donne che producono
l’80% del cibo per auto consumo, ma non hanno titoli di proprietà, né hanno
accesso al credito e alla formazione.

Combattere la fame, assicurare il diritto universale a
un’alimentazione sana e sufficiente passa dal superamento della disuguaglianza
di genere.

Queste sono le ragioni per cui l’Expò di Milano,
che si intitola «Nutrire il pianeta, energia per la vita», intende riconoscere
un particolare rilievo al nesso tra donne e nutrizione.

Il
tema sarà trasversale ai vari eventi e momenti: se ne occuperanno le
organizzazioni della società civile, presenti nel padiglione Cascina Triulza.
Verrà affrontato dalle istituzioni inteazionali, in particolare dalle agenzie
dell’Onu dedicate. Verrà incluso nelle iniziative promosse dai governi, in
primis quello italiano. Allo scopo il ministero degli Affari esteri (Mae) ha
lanciato, già nel 2013 a Torino, We Expo (Women for Expo), un progetto
che mira a tenere accesi i riflettori sulla condizione femminile, arricchendo
il dibattito, ma anche avanzando proposte che possano essere tradotte in azioni
concrete. In un documento del Mae si legge: «chiediamo di rafforzare il potere
delle donne in agricoltura, attraverso l’impiego di tecnologie che rendano meno
usurante il lavoro, assicurando loro pari accesso alla proprietà della terra,
al credito, alla formazione e ai servizi nelle aree rurali, nel caso di lavoro
salariato garantendo loro le stesse paghe degli uomini, applicando norme e
tutele che le proteggano dalla violenza e dallo sfruttamento, garantendo la
loro educazione sia primaria che professionale».

We Expo si propone come uno strumento culturale che
interpella decine di donne chiedendo loro di raccontare un piatto o un alimento
che ha un particolare valore; così donne di paesi, culture, professione, età
diverse stanno mobilitandosi attorno alle grandi questioni al centro
dell’agenda di Milano, attraverso un loro personale racconto di vita. Tra di esse alcune famose come Shirin Ebadi,
l’avvocata iraniana Nobel per la Pace e Vandana Shiva, l’ambientalista indiana
che si oppone alle multinazionali dell’agro industria, la scrittrice Simonetta
Agnello Hoby e l’attrice Lella Costa.

Tutte
si esprimono sul nutrimento, non solo del corpo, ma anche della libertà e della
mente, dimostrando come la sostenibilità del pianeta passi attraverso lo
sguardo, l’intelligenza e le mani delle donne.

Le donne possono realizzare un modo diverso di produrre
e distribuire il cibo, perché fa parte della loro natura considerare il cibo
non tanto una merce o un prodotto, quanto la fonte della vita, per questo se ne
preoccupano in prima persona. Indipendentemente dalla loro estrazione sociale,
culturale, religiosa, le donne sono nutrici, foiscono il cibo alle persone
che vivono loro accanto. Hanno il senso del bene comune e del futuro, sanno
che, per poter continuare a vivere, bisogna aver cura degli altri: dei propri
famigliari, ma anche della comunità, del territorio, delle risorse naturali,
delle generazioni future.

Nelle
aree povere del mondo, dove il cibo scarseggia, l’azione delle donne è il primo
argine, il vero baluardo contro la fame dei più deboli, per questo dovrebbero
essere loro le prime destinatarie degli aiuti.

Nei
paesi ricchi, le donne possono essere le abili avversarie degli sprechi
alimentari, ingiustificati e inaccettabili: in un mondo dove 800 milioni di
persone soffrono di fame cronica un terzo di tutto il cibo, circa 1,3 miliardi
di tonnellate l’anno, viene sprecato o va perso.

Tags: Donne, lavoro, alimentazione, cibo

Sabina Siniscalchi




L’uomo, Dio e la natura

Incontro con il
popolo Nasa e la sua filosofia di vita
Nel villaggio di
Toribío la popolazione resiste da decenni alla guerra. Lo fa in modo pacifico e
recuperando la sapienza ancestrale del popolo Nasa. La spiritualità indigena
che dà un senso a ogni cosa e mette al centro la relazione uomo-natura-Dio. I
Nasa fanno la proposta del Buen vivir
al mondo. Valida per tutti, in ogni contesto.

Non
molto alti, un po’ tarchiati. Volti dai lineamenti indigeni. Uno di loro ha un
cappello di paglia sempre in testa e baffetti radi. Parla con un filo di voce e
si esprime soprattutto nella sua lingua, il
nasayuwe. L’altro, più giovane, spigliato, ha un’ottima parlantina in
spagnolo.

Elicerio Vitonas Talaga e Diego Feando Yatacue Ortega
provengono da Toribío, nel Sud Ovest della Colombia, dipartimento del Cauca.
Entrambi fanno parte del popolo indigeno Nasa, che rappresenta il 96% della
popolazione cittadina (circa 26.000 abitanti). Dagli anni ‘80 la zona è
divenuta uno dei principali scenari del conflitto armato tra i gruppi
guerriglieri, Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc) e milizie
paramilitari. Il popolo Nasa ha deciso di non abbandonare il territorio,
rafforzando la propria organizzazione e cercando di opporsi alle violenze e
alle intimidazioni attraverso una modalità di resistenza pacifica e negoziata
alla guerra.

Elicerio è un «Mayor», cioè un Maestro, un saggio,
custode delle tradizioni spirituali Nasa.In Colombia i popoli originari hanno sviluppato, nel
corso di migliaia di anni, una relazione profonda con la natura, imparando a
conoscee i segreti e a vivere in armonia con gli esseri viventi che ne fanno
parte.

Diego è direttore generale del Cecidic, il Centro di Educazione, Formazione e Ricerca per lo Sviluppo
Integrale della Comunità di ToribÍo. Ha ricoperto vari ruoli nei tre «cabildos
indigenas» (comunità indigene) di Toribío, Tacueyo, San Francisco, e a
beneficio del «Plan de vida» del popolo Nasa. Dopo aver diretto la Scuola
agroecologica indigena del Cecidic, da nove anni è il primo responsabile del
centro.

Li abbiamo incontrati durante una loro visita in Italia.
Il viaggio si è svolto nell’ambito del «Progetto Nasa» in appoggio alla scuola
agricola del Cecidic. Il progetto, che ha come obiettivo l’autonomia alimentare
ed economica della popolazione Nasa, vede coinvolta anche Missioni Consolata
Onlus, in partenariato con le Ong Cisv (Comunità impegno servizio volontariato)
e Msp (Movimento sviluppo e pace) di Torino. In effetti dal 1985 la parrocchia
di Toribío è gestita dai missionari della Consolata, i quali accompagnano il
popolo Nasa.

Abbiamo parlato con loro di Buen vivir.

Che relazione c’è tra
l’agroecologia e il Buen vivir?

«L’agroecologia, indipendentemente da dove abbia avuto
origine, ci sembra un approccio alla vita importante, interessante. Essa
coniuga non solo lo sviluppo umano con quello economico, ma anche con il
rispetto della natura. Sono i tre aspetti della politica agroecologica, che
raggruppa una serie di proposte e strategie e accomuna esperienze di svariati
popoli nel mondo.

L’agroecologia ha molte relazioni con le proposte del Buen vivir del
popolo Nasa. Innanzitutto perché l’agroecologia riprende il concetto di
conservazione (dell’ambiente in senso globale) molto forte nel popolo indigeno.
Ma, dato che la visione indigena è fortemente spirituale, il popolo Nasa rileva
nell’agroecologia proprio una prospettiva di spiritualità. Attenzione, con
spiritualità non intendiamo religione. Per noi la spiritualità consiste in una
profonda relazione con la natura.

Il Buen
vivir, nascendo dalla spiritualità indigena, si basa
su tre principi: il primo è che tutto ha uno spirito, che ci sono spiriti che
ci aiutano e che l’uomo deve relazionarsi anche con essi; un secondo principio è
l’importanza del rispetto per la natura, per la Madre Terra; un terzo punto è
la sovranità alimentare, la produzione di cibo per la gente.

Nella realtà di oggi, si viene ad aggiungere la necessità
di disporre di risorse economiche, ma nel rispetto di questi principi.

L’agroecologia è una parte della proposta politica del
popolo Nasa.

In ambito sociale è molto importante la relazione con
gli altri popoli, non solo indigeni, ma afro, contadini e società civile in
genere».

 
Il Buen vivir che proposta è?

«Più che una politica il Buen vivir è un
modo di vivere, che vuole dare una risposta non solo ai bisogni materiali
dell’uomo, ma anche a quelli spirituali. Se diamo risposte solo alle questioni
umane sviluppiamo unicamente il concetto di economia. Associare all’economia la
prospettiva spirituale, dà un senso più ampio al Buen vivir, che
non si basa sugli aspetti materiali, ma parte dal fatto che noi non siamo i
padroni del mondo, siamo parte del mondo. Inoltre non è una proposta politica
per un solo popolo, ma è piuttosto una proposta condivisa con altri popoli, per
questo tollera e rispetta la differenza. Condividiamo alcuni principi
fondamentali con molti popoli originari e organizzazioni della società civile,
che stanno cercando un’alternativa al modello di sviluppo dominante.

Direi che fa parte della proposta l’idea di “non andare
avanti”, almeno non come ci hanno abituati. Non come l’Occidente vede lo
scorrere del tempo, ovvero in modo lineare. Il Buen vivir ci impone di
fermarci nel cammino, o di andare avanti senza tanta fretta, per poter pensare oggi,
sognare il futuro, sempre ricordando e dando uno sguardo al passato. Quando
parliamo di spiritualità, in pratica stiamo richiamando il passato. Spiritualità
è anche chiamare gli spiriti della natura, i nostri antenati, i nostri
famigliari. Il Buen vivir ha una differenza con l’approccio occidentale: non
bisogna correre. Forse perché c’è una differenza di ideali di vita».

 

Una proposta
alternativa, ma come realizzarla?

«Anche tra la nostra gente c’è varietà di modi di
pensare. Si può dire un modo diverso per ogni persona. Ci sono due questioni
storiche di cui tenere conto. Da un lato l’esistenza del cattolicesimo, che ha
formato la maggioranza del nostro popolo, e dall’altro la modeità. I nostri
giovani sono molto coinvolti dalla tecnologia, dai mezzi di comunicazione.

Per questo per noi è fondamentale quello che chiamiamo
“fare coscienza”. Non è obbligare, perché altrimenti si ottiene il contrario,
ovvero una insensibilità a questa realtà. Si tratta di una costruzione
collettiva, nella quale insieme pensiamo, riflettiamo, e, sopra questo pensare
insieme, “facciamo coscienza” sull’importanza del Buen vivir. È
quindi un lavoro lento, dispendioso, e non convince in modo immediato tutti.
Per questo dico che c’è differenza di pensiero. Ma è importante la coscienza
collettiva, ovvero avere un gruppo di persone che rendono dinamico il Buen vivir.
Grazie a questo, molte altre persone si avvicineranno alla proposta. Comprese
alcune che sono di religione cattolica o evangelica.

Ci sono poi anche le appartenenze politiche. Noi siamo
apolitici come gruppo, ma possiamo affermare che ci sono compagni indigeni che
hanno posizioni politiche distinte. Quando parliamo del collettivo del Buen vivir,
sogniamo come ci vediamo nel futuro, come comunità, e penso che non ci sia
distinzione di colore politico o posizione religiosa. Diventa molto importante
la proposta filosofica che fa il popolo Nasa».

 

La vostra
organizzazione come fa per «fare coscienza»?

«Nei 30 anni in cui la comunità si è organizzata, si è
sempre parlato della coscienza della gente a partire dall’aspetto comunitario.
Voglio dire che abbiamo sempre fatto uno sforzo rivolto all’essere umano, alla
persona, che forma un collettivo. La missione del Cecidic si è concentrata
sull’educazione. Sviluppare proposte che generino questa coscienza collettiva,
da differenti punti di vista. Parlare dell’aspetto comunitario, vuol dire
parlare dello sviluppo dell’essere umano, del pensiero politico, delle
tradizioni. Per questo il Cecidic realizza corsi, spazi di formazione per i
giovani. Un corso importante è quello di agroecologia, nel quale abbiamo un
progetto con Cisv, Msp e Missioni Consolata onlus. Poi c’è il corso artistico e
culturale, quello di comunicazione, formazione politica, educazione e
pedagogia. Sono cinque componenti molto importanti per sviluppare il “Piano di
vita”. Anche se nello sviluppo del Piano di vita del Buen vivir ci
sono altre componenti necessarie oltre alle cinque elencate.

C’è molta partecipazione ai nostri corsi. Se avessimo
maggiori risorse economiche, riusciremmo a formare ancora più persone.
Annualmente accompagniamo più di 1.000 giovani in modo diretto. Invece
indirettamente il Cecidic ha un impatto ogni anno su 5.000 persone nel
territorio».

 

Quali contatti ci
sono tra il Buen vivir e la religione
cattolica? In particolare, un cattolico può perseguire questo cammino? In
America Latina esiste una teologia (cattolica) indigena, che promuove proprio
il Buen vivir?

«Nella nostra comunità ci sono indigeni che seguono la
spiritualità cristiana sia dei cattolici sia degli evangelici. Ma penso che la
riflessione da fare sia più profonda, ovvero tornare a principi che non pongano
l’uomo al di sopra di tutto. L’uomo in relazione con Dio e con la natura e non
unicamente in relazione con Dio. Come abbiamo detto è fondamentale nel Buen vivir
riconoscere l’esistenza della natura e di tutto quello che abbiamo intorno. E
vedere che tutto ha una spiritualità. Molti compagni indigeni lo fanno. È
quello che vive la maggioranza dei Nasa, come essere umano in relazione con la
natura. C’è poi il sincretismo con la religione cattolica, che si esprime con
la celebrazione di riti, come il battesimo o la comunione».

 

I Cristiani si
interessano della natura, parlano di salvaguardia del creato. Non solo l’uomo e
Dio, ma tutto l’ecosistema nel suo insieme.

«Per il popolo Nasa occorre andare in profondità:
studiare una proposta a partire da un’epistemologia indigena del pensiero
indigeno originario. Non si può negare che sia presente anche un pensiero
parzialmente non indigeno, formato da principi religiosi (occidentali, ndr), ma è importante
capire che esistono queste due concezioni. Ci sono fratelli indigeni che
praticano molti rituali, vivono la “comunitarietà” (vivere in comune, ndr) e il Buen vivir. I cui
principi non sono nella religione cattolica. Quello che stiamo proponendo nel
movimento indigeno è la ricerca dei principi del popolo Nasa.

Ad esempio: abbiamo subìto 500 anni di conquista
europea. Noi ci chiediamo come saremmo oggi se avessimo avuto 500 anni di
sviluppo non interrotto come popolo Nasa, senza religione cattolica. È una
riflessione molto profonda, e c’è spazio per ricercare e approfondire.

Alcune persone lavorano su questo tema, chiamandolo
“indigenismo”, ovvero prendere dalle origini la proposta indigena, in vari
settori. Ad esempio nell’ambito giuridico, quella che si chiama “giustizia
propria”, poi la “educazione propria”, la concezione della salute, ecc.

Si lavora molto con i “saggi ancestrali”, come don
Elicerio, che hanno esperienza con le questioni spirituali, e hanno una
profondità maggiore di quella degli indigeni cattolici. I guardiani della
“spiritualità propria” sono coloro che, nonostante i 500 anni di conquista,
sono riusciti a tenere tutte le conoscenze e la saggezza (saviduria)
ancestrale, trasmettendola di padre in figlio. È un’eredità che non abbiamo
perso.

Io ad esempio lavoro nell’educazione cercando di
realizzare pratiche pedagogiche e didattiche in direzione della cosiddetta
educazione propria. Io parto dalla conoscenza ancestrale».

Cosa intende per
educazione propria?

«È una proposta del popolo Nasa e di altri popoli
originari in America Latina. Sosteniamo che prima del sistema educativo dello
stato colombiano, prima della conquista europea, noi avevamo un’educazione
derivante dalla nostra maniera di vedere il mondo, la nostra “cosmovisione”.
Facciamo ricerca su come fosse questa educazione prima della conquista, grazie
a elementi che i saggi e le guide spirituali conservano, per partire da lì e
confezionare una proposta educativa nella realtà di oggi, per scuole, collegi,
università. Dal nostro punto di vista possiamo fare una proposta distinta e
focalizzata sui popoli indigeni.

Per fare un esempio: cambiare l’aula o i docenti, per
fare un corso non tra le mura ma nella natura. Chi insegna non è solo la
maestra, ma anche la natura stessa. Leggere in un’altra maniera.

L’educazione superiore che per gli occidentali è
l’università, per noi è un saggio della comunità. Per i parametri occidentali
don Elicerio non ha studiato, ha fatto la seconda elementare. Ma per noi ha una
conoscenza che va oltre a quella che ha un docente universitario. E la sua
sapienza giunge da molta esperienza e conoscenza. Non li possiamo confrontare,
ma vale la pena vedere la differenza».

Un europeo che vive
in Europa può cercare di vivere seguendo il Buen
vivir
? Per non indigeni che si ritrovano in quei principi, è possibile?

«Concretamente penso di sì. Perché se i popoli indigeni
sviluppano una proposta del Buen
vivir, altri popoli la sviluppano a partire dalla
loro visione. Non è una proposta per soli popoli originari americani nel loro
contesto. Il Buen vivir lo può ricercare ognuno di noi a partire da quello che è
e dai mezzi che ha.

Credo che popoli come gli europei che hanno camminato
molto nel mondo con il tempo lineare, dovrebbero iniziare a vedere il tempo in
modo diverso. Noi lo vediamo come una spirale, cioè stiamo andando avanti ma
sempre guardiamo ai nostri principi. Gli europei, inoltre, devono iniziare a
vedere il tempo con più lentezza, perché ricostruire una spiritualità richiede
di fermarsi a pensare. Così potrebbero imparare alcune cose da altri popoli,
come quelli indigeni. Ma è una costruzione che devono fare nel proprio popolo,
non copiando un modello, ma riflettendo. Come hanno fatto i Nasa e come io
faccio il mio Buen vivir, nel mio contesto, con il mio popolo, i miei costumi e
i miei principi. È fondamentale capire che ci sono differenze.

Il popolo indigeno non vuole influenzare tutti i popoli
e farli diventare uguali a sè, o fare sì che gli altri pensino come indigeni.
Ognuno parta dal suo contesto, ma che lo faccia considerando i principi
fondamentali. Come quello di non abbandonare la natura. Durante migliaia di
anni l’uomo ha cercato di uscire dalla natura, utilizzarla. Credo che debba
tornare un po’ verso di essa».

Marco Bello
______________

MC ha già pubblicato più volte sul Buen
vivir
, in particolare in MC 3/2012, p. 55 e nel dossier di MC 10/2014.

Tags: Buen Vivir, Popoli indigeni, agroecologia, spiritualità, Nasa

 

Marco Bello




Un grande paese, in cerca di sé

Dalla primavera araba
alla guerra al terrorismo
Grazie alla Primavera
araba, in Egitto aveva preso il potere un gruppo confessionale. La nuova
Costituzione si ispirava alla legge islamica. Ma gran parte della popolazione
si è ritrovata in disaccordo. E un nuovo golpe ha destituito il presidente. Altre
elezioni, un nuovo capo di stato. Con l’esercito sempre molto presente. Ma
l’economia stenta a risollevarsi.

Indice box:

Sinai: il buco nero
dell’Egitto

Egitto, Cronologia minima
Tutti i personaggi

È stato uno dei paesi protagonisti della stagione delle «Primavere arabe».
Oggi l’Egitto è quasi scomparso dai grandi media ed è poco presente sulla scena
politica internazionale. La caduta del presidente Mohamed Morsi e l’ascesa al
potere del generale Abdel Fattah al-Sisi sembra aver fatto calare una cappa di
silenzio sul paese. Ma qual è la situazione dell’Egitto? Quale direzione
politica ha imboccato? Qual è l’andamento dell’economia?

Momenti di svolta

Se guardiamo alla recente storia egiziana
sono stati tre i punti di svolta politica del paese: l’11 febbraio 2011, che
segna la caduta di Hosni Mubarak, al potere dal 1981; il 24 giugno 2012, con
l’elezione di Mohamed Morsi, primo presidente espressione della Fratellanza
musulmana; il 3 luglio 2013, con la caduta di Morsi. È intorno a queste tre
date che si delinea la parabola politica e istituzionale egiziana. «Per
comprendere le trasformazioni in atto – ci spiega un esponente della comunità
cristiana copta che chiede l’anonimato – bisogna fare un salto indietro. Negli
ultimi tempi della presidenza Mubarak esistevano solo due grandi formazioni
politiche: il Partito nazionale democratico (Pnd), legato al presidente, e la
Fratellanza musulmana, movimento nato nel 1928 in Egitto con l’intento di
promuovere i valori tradizionali islamici nella società. Con la caduta di
Mubarak, il suo partito è stato sciolto. Sulla scena è rimasta quindi un’unica
formazione: la Fratellanza. Non è un caso che nel 2012 sia stato eletto un
esponente di questo movimento alla presidenza. Ma l’Egitto, pur avendo
conosciuto una progressiva islamizzazione della società, non è mai stato
compatto dietro la Fratellanza. Molti musulmani non si riconoscono affatto
nelle posizioni del movimento e anzi guardano con sospetto alla svolta
confessionale. Se non si capisce questo, difficilmente si può comprendere
l’evoluzione successiva».

Ne è convinto anche Massimo Campanini,
storico del Medio oriente arabo e della filosofia islamica, secondo il quale la
Fratellanza ha commesso alcuni errori fondamentali. Il più grave è aver creduto
di poter accelerare l’islamizzazione della società impadronendosi del potere e
tenendo sotto controllo la magistratura. Nonostante questi tentativi
autocratici, va però detto che non ha avuto il tempo di impostare una politica
efficace. Morsi è stato proclamato presidente il 24 giugno 2012, quasi subito
sono scoppiate le rivolte anti presidenziali organizzate da un’opposizione
laica che non ha mai riconosciuto la regolare, legittima e democratica vittoria
elettorale dei Fratelli musulmani.

Un esercito molto
presente

Scomparso il Pnd, l’unica istituzione
organizzata che si è rivelata in grado di fronteggiare la Fratellanza musulmana
è stata l’esercito. A dire la verità gli uomini in grigioverde non avevano mai
abbandonato la scena politica. Militari erano Gamal Abdel Nasser, Anwar Sadat e
Hosni Mubarak. Militare era Mohammed Hoseyn Tantawi, il generale che, prese le
distanze da Hosni Mubarak, aveva rifiutato di reprimere le rivolte della
Primavera araba e aveva guidato la transizione fino alle elezioni che avevano
portato alle elezioni di Morsi.

I militari non sono solo un’istituzione
fondamentale dell’Egitto, ma hanno anche un peso determinante nell’economia del
paese. Secondo alcuni analisti, un quarto (ma qualcuno parla addirittura di un
terzo) dell’economia egiziana
è controllata dalle forze armate. Gennaro Gervasio, docente di
Politiche del Medio Oriente alla British University del Cairo, in un rapporto recente ha parlato del conflitto tra la
casta militare e un gruppo di imprenditori neoliberisti, guidati da Gamal,
figlio di Hosni Mubarak. Un conflitto che sarebbe stato tra le ragioni che
hanno scatenato la Primavera araba e che, per il momento, si sarebbe risolto a
favore degli ufficiali dell’esercito. Anche se gli imprenditori hanno ancora
una forte presa sull’economia egiziana.

Il nuovo presidente

È stato al-Sisi a farsi interprete del
malcontento della maggioranza della popolazione egiziana. Ma chi è al-Sisi? «al-Sisi
è tanti personaggi in uno solo – spiega Giuseppe Dentice, ricercatore Ispi,
Istituto per gli studi di politica internazionale, esperto di Egitto -. È
sicuramente un militare e, per questo motivo, ha un approccio pragmatico e
decisionista. Pensiamo al pugno di ferro imposto al paese per riportare
l’ordine. Al tempo stesso, però, si presenta come l’“uomo della Provvidenza”,
riprendendo cliché tipici della retorica nasseriana. al-Sisi quindi gioca su
due piani, anche emotivi, proponendosi come la figura di riferimento del paese.
È un uomo che si adegua alle situazioni, pur partendo da posizioni chiare e decise
che fanno parte del suo retroterra militare. Certo se noi guardiamo la
situazione politica egiziana dal punto di vista dei diritti umani non possiamo
dire che
l’Egitto sia un paese democratico. Ma adottare questa visione sarebbe limitante
perché non terrebbe presente le esigenze di sicurezza che l’Egitto deve
affrontare».

I piani di politica intea ed estera
dell’Egitto in questo periodo storico sono sovrapposti. Il minimo comune
denominatore tra le due situazioni è l’attenzione all’ordine pubblico e alla
sicurezza. al-Sisi sta perseguendo una politica puntata su un controllo
territoriale ferreo della Valle del Nilo e del distretto della capitale. In
queste regioni è più semplice anche perché in esse la situazione politica è
stabile. Sta invece incontrando difficoltà nel Sinai dove il controllo dello
stato è quasi completamente assente (vedi box).

Dal punto di vista della politica estera, la
Libia viene considerata «stretto vicinato» e, in quanto tale, questione di «sicurezza
intea dell’Egitto». I motivi sono facili da comprendere. Tra Egitto e Libia
corre un lunghissimo confine comune, attraverso cui c’è un continuo passaggio
di uomini, mezzi, armi. Spesso tra questi soggetti ci sono personalità legate a
vario titolo alla Fratellanza musulmana e anche terroristi. La scorsa estate
l’Egitto ha subito una serie di attentati su quella frontiera e quindi vede la
Libia come un pericolo sempre più concreto che potrebbe addirittura estendere
la propria crisi a territori egiziani. Per evitare questo, ha militarizzato il
confine occidentale. Sta poi cercando di attivarsi con interventi non ufficiali
nel paese vicino. I raid aerei della scorsa estate sulla Libia sono stati
condotti, secondo alcune ricostruzioni, da aviatori emiratini o libici che
hanno pilotato aerei egiziani partendo da basi egiziane. Il Cairo sostiene
apertamente il governo libico con sede a Tobruk e combatte gli islamisti che
dominano il governo di Tripoli. «Questo – continua Dentice – è giustificato
all’interno della logica di contenimento della minaccia islamista. In questo
senso per al-Sisi non c’è differenza tra Fratellanza e gruppi jihadisti. Per
lui chiunque faccia riferimento alla sfera islamista è un terrorista e, come
tale, deve essere eliminato o comunque contenuto. Per questo la politica estera
e quella intea si sovrappongono e si influenzano soprattutto in tema di
sicurezza e ordine pubblico».

In Siria e in Iraq, invece, l’Egitto, pur
facendo parte della coalizione dei volenterosi contro lo Stato islamico, non
fornisce uomini o mezzi per combattere
al Baghdadi, ma rimane in una posizione più defilata e attendista.

Diritti umani

La repressione intea è stata molto dura
nell’ultimo anno e mezzo. Le associazioni per la difesa dei diritti umani hanno
denunciato che, solo negli ultimi sei mesi del 2014, 40mila persone sono state
incarcerate per motivi politici (tra esse tre giornalisti di Al Jazeera, l’emittente del Qatar, accusati di sostenere la Fratellanza
musulmana) e 20mila civili sono stati giudicati da tribunali militari. Nel 2014
un centinaio di detenuti sono morti per le violenze subite in carcere. I
vertici della Fratellanza musulmana sono stati incarcerati. Chi è sfuggito alle
maglie della polizia, vive esule all’estero, principalmente in Turchia e in
Qatar, paesi da sempre alleati del movimento. «al-Sisi – commenta la nostra
fonte anonima – è riuscito a reprimere la Fratellanza perché godeva del
consenso di gran parte del paese. Sostenuto non solo dalla comunità cristiana,
che si era sentita emarginata dalla Fratellanza, ma anche dalla maggioranza dei
musulmani. Senza questo appoggio, al-Sisi non sarebbe stato in grado neanche di
dichiarare la Fratellanza “gruppo terroristico”». Per le future elezioni, al
partito della Fratellanza, Libertà e Giustizia, come ad altre formazioni
simili, sarà impedito candidarsi. «Dal punto di vista politico – osserva
Dentice – la Fratellanza è alle corde. Bisogna capire in che modo essa potrà
giocare un ruolo attivo in campo politico nel futuro. Attualmente non ci sono
spazi che facciano pensare a un ritorno alla legalità del movimento. Credo che
il dialogo dipenda non tanto dalla Fratellanza quanto dai militari dietro al
presidente. Sono loro che possono e devono ricreare le condizioni favorevoli a
un confronto».

Il ruolo dei
cristiani

In questo contesto, la comunità cristiana
(in maggioranza copto ortodossa) non ha alcun peso politico, nonostante conti
almeno un 10% della popolazione. Dopo aver subito il rischio di venire
progressivamente emarginata dalla Fratellanza musulmana, ha sostenuto al-Sisi.
Non è un caso che la sera in cui il generale ha annunciato la deposizione di
Morsi, al suo fianco c’erano Ahmed al Tayeb, l’imam di al Azhar (università,
massima istituzione del mondo islamico sunnita), e Tawadros II, il Papa copto. «Tawadros
– spiega Awad Baseet, giornalista cristiano e attento osservatore delle
dinamiche politiche egiziane – sostiene l’attuale regime ed è ricambiato. Tanto
è vero che la nuova Costituzione assicura alcuni posti ai cristiani. Temo però
che ciò non cambi la sostanza delle cose: ormai i copti non hanno più una forte
influenza sulla politica».

al-Sisi sta portando avanti la sua battaglia
anche in campo teologico. In un discorso tenuto all’università al Azhar nel
giorno della nascita del profeta Maometto, il presidente ha chiesto ai leader
religiosi musulmani «una rivoluzione per estirpare il jihad (la guerra santa, ndr)». E ha aggiunto: «La genesi del problema è in un pensiero che si
origina dal corpo di testi e idee che abbiamo consacrato negli anni, fino a
considerare impossibile distanziarsi da esse, con il risultato di provocare
l’ostilità del mondo […]. Non è possibile che 1,6 miliardi di musulmani
vogliano uccidere gli altri 6 miliardi di abitanti della Terra».

Ma al-Sisi non si sta muovendo solo su un
piano politico-militare. Conscio che le rivolte della Primavera araba erano
nate anche dalla crisi economica che aveva investito il paese, il generale ha
progettato ampi interventi per favorire la ripresa. In particolare ha
annunciato l’avvio di grandi opere pubbliche, tra le quali il raddoppio di una
parte del canale di Suez e la costruzione di centrali elettriche (molte delle
quali dovrebbero sfruttare le potenzialità del solare). Parallelamente ha
iniziato a ridurre i sussidi su carburanti, pane, zucchero, tè, ecc., che
drenavano circa l’8% del Pil nazionale. «Questo non basta – sostiene Baseet -,
servono riforme di più ampio respiro che permettano non solo a un mercato
bloccato di aprirsi, ma di garantire l’ingresso di attori stranieri. In questo
senso è allo studio un progetto di legge per cambiare l’attuale normativa sulla
proprietà. Le nuove norme dovrebbero permettere l’ingresso degli stranieri
nelle società egiziane come soci di maggioranza. Questo potrebbe essere utile,
ma è chiaro che rischia di essere un discorso fine a se stesso se il controllo
del territorio e dell’economia viene mantenuto dal blocco militare».

La stabilità assicurata da al-Sisi insieme
ai fondi che arrivano dai paesi del Golfo (30 miliardi di dollari l’anno per i
prossimi quattro anni) hanno però già portato alcuni risultati. Nel primo
trimestre 2014 il Pil è cresciuto del 2,5%, nel secondo trimestre di circa il
4%. «La produzione industriale – continua Baseet – sta riprendendo. Questo è un
dato positivo. Anche lo scambio con l’estero sta migliorando: nel 2014 si è
attestato intorno ai 17 miliardi di dollari contro i 15 del 2012. Ma ancora
lontano dai 36 del 2011. Il turismo sta lentamente risalendo la china. Nelle
località sul Mar Rosso e sul Mediterraneo le presenze stanno aumentando. Purtroppo
mancano all’appello i turisti nei luoghi storici. In questo senso paghiamo
ancora l’instabilità della Primavera araba».

Enrico Casale
______________

MC sull’Egitto:
Il gigante ha i piedi di sabbia (10/2010);
Sangue e orgoglio (3/2012);
La religione del potere (4/2012)
Prima e dopo la Primavera (6/2013);
Una primavera solo all’inizio
(7/2014).

Sinai: il buco nero
dell’Egitto

Intervista
all’esperto di terrorismo e fondamentalismo islamico

Per
l’Egitto il Sinai è una ferita aperta. Nella regione, terra di traffici
illegali e di basi di fondamentalisti islamici, il governo del Cairo fatica a
riportare l’ordine. Quando e perché la penisola è sfuggita al controllo? Ne
abbiamo parlato con Lorenzo Vidino, esperto di terrorismo e fondamentalismo
islamico. «Il Sinai è una zona ad alta concentrazione tribale. Rispetto al
resto dell’Egitto l’importanza dei clan è molto forte. A ciò va aggiunto che la
Penisola è da sempre stata maltrattata e marginalizzata dalle istituzioni egiziane.
Il risultato è che il Sinai è molto povero e vive di commerci e traffici
clandestini. Nel tempo si è creato quindi un humus di disagio e un sentimento
di avversione nei confronti delle forze armate egiziane e dello stato centrale.
Negli ultimi anni, è il fondamentalismo islamico a essersi fatto interprete di
questo astio. Ansar Beit al Maqdis («Partigiani di Gerusalemme»), il
gruppo più forte e più conosciuto del fondamentalismo islamico nel Sinai,
professa un jihadismo globale ma, allo stesso tempo, si caratterizza per un
forte legame con il territorio e porta quindi avanti istanze locali di
contrapposizione al Cairo».

Il governo come ha contrastato
questo fenomeno?

«Durante il periodo in cui l’Egitto
è stato in preda al caos post Mubarak, il Sinai è stato abbandonato a uno stato
di anarchia quasi totale. In seguito, Mohamed Morsi, un po’ per incompetenza,
un po’ per una certa simpatia ideologica, ha tollerato molto la crescita del
movimento islamista. Quando è caduto Morsi, la situazione, che era già critica,
è degenerata con attacchi sanguinosi a stazioni di polizia, caserme, posti di
blocco, colonne delle forze armate. L’attuale presidente Abd al-Fattah al-Sisi
ha dichiarato guerra al fondamentalismo, imponendo il coprifuoco per settimane
e lanciando operazioni militari. A questo il governo ha associato annunci di
politiche di sviluppo della regione per migliorare le condizioni di vita della
popolazione locale e per ridurre il bacino di malcontento dal quale pesca il
fondamentalismo. Anche se lo stato, avendo pochi fondi, difficilmente darà
seguito agli annunci».

Nel Sinai, oltre allo Stato
islamico, opera anche al Qaida?

«La componente egiziana di al Qaida è sempre
stata molto forte e si è rafforzata ulteriormente dopo che l’egiziano Ayman al
Zawahiri ne ha preso il controllo. Alcuni esponenti di Ansar Beit al Maqdis
sono storicamente vicini al movimento fondato da Osama bin Laden. Anche il
governo egiziano ha sempre cercato di associare il fondamentalismo del Sinai
all’estremismo di al Qaida (benché non sia sempre possibile verificare
quanto pesi la propaganda politica). In questi ultimi mesi, però, Ansar Beit
al Maqdis
ha scelto di aderire allo Stato islamico».

Chi sostiene questi gruppi
terroristici?

«Si sostengono da soli con proprie attività illegali. In
particolare con il racket (taglieggiando la popolazione locale), il
traffico di immigrati che provengono dall’Africa, il contrabbando verso la
striscia di Gaza, ecc.».

Oltre al Sinai, i gruppi jihadisti
potrebbero prendere il controllo anche delle regioni
occidentali?

«Attualmente le regioni libiche al confine con l’Egitto
sono controllate dal governo laico di Tobruk e quindi sono relativamente
sicure. L’esecutivo è però molto debole e, nel breve periodo, può correre il
rischio di essere abbattuto. In questa eventualità il Cairo potrebbe trovarsi a
fronteggiare milizie islamiche lungo un confine di migliaia di chilometri dai
quali possono facilmente infiltrarsi miliziani e armi. Già ora armi, munizioni
e uomini passano la frontiera, ma il pericolo è che la situazione degeneri».

E.C.
_________________

Per un ulteriore approfondimento
rimandiamo
al dossier Sventola bandiera nera, MC 1-2/2015.

 
Egitto
Cronologia minima
25 gennaio 2011 – Opposizioni e società civile proclamano la
«giornata della collera» contro la carenza di lavoro e le misure repressive del
governo. Le manifestazioni si protraggono per giorni.

11 febbraio 2011 – Sotto la pressione della piazza, Mubarak
si dimette. Il potere passa a una giunta militare presieduta dal
feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi.

23-24 maggio e 16-17 giugno 2012 – Elezioni presidenziali.
Mohamed Morsi viene eletto presidente.

12 agosto 2012 – Mohammed Hoseyn Tantawi viene rimosso dalla
carica di ministro della Difesa e della Produzione militare. Gli subentra il generale
Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente Morsi annuncia che la nuova Costituzione
favorirà l’adozione di norme ispirate alla Legge islamica. L’annuncio scatena
la reazione delle opposizioni, esasperate anche dalle crescenti difficoltà
economiche.

18 novembre 2012 – Si insedia

Tawadros II, il nuovo patriarca della Chiesa copta. Alla
cerimonia non prende parte Morsi.

30 giugno 2013 – A un anno dall’elezione di Morsi, Tamarrude
che è un movimento di opposizione, annuncia di aver raccolto oltre ventidue milioni
di firme per chiedere la destituzione del presidente e per ottenere elezioni
anticipate.

3 luglio 2013 – Morsi viene rimosso dalla carica da un golpe
messo in atto da Abdel Fattah al-Sisi. La sua destituzione da parte delle forze
armate è sancita con il parere favorevole del leader dell’opposizione laica
Mohamed el Baradei, dall’imam di al-Azhar, Ahmad al-Ayyib e dal papa copto
Tawadros II. Le proteste dei Fratelli musulmani vengono duramente represse.

28 maggio 2014 – Al-Sisi viene eletto presidente della
Repubblica ed entra in carica l’8 giugno.

E.C.
Tutti i personaggi

L’ingegnere, i
militari, il mufti e il patriarca

Mohamed Morsi – 63 anni, si laurea in Ingegneria chimica
all’università del Cairo e consegue un master e un dottorato di ricerca alla University
of Southe Califoia
. In Califoia lavora anche alla Califoia State
University
dal 1982 al 1985. Esponente di punta del partito Libertà e
Giustizia (formazione legata alla Fratellanza musulmana), è eletto presidente
nel 2012 ed è il primo ad assumere tale carica con elezioni democratiche. Il 3
luglio 2013 viene deposto da un colpo di stato militare ed è incarcerato.

Hosni Mubarak – 86 anni, dopo una brillante carriera militare
(durante la quale si distingue nella guerra del Kippur del 1973), si impegna in
politica. Alla morte di Anwar Sadat è eletto presidente dell’Egitto, carica che
ricopre per quasi trent’anni, a partire dal 14 ottobre 1981 fino all’11
febbraio 2011. Dopo la deposizione, viene arrestato e, nel 2012, è condannato
all’ergastolo. Il 29 novembre 2014 la Corte di Cassazione lo proscioglie dalle
accuse di omicidio e lo assolve da quelle di corruzione. Mubarak può essere
dunque scarcerato.

Abdel Fattah al-Sisi – 60 anni, frequenta l’Accademia militare egiziana e
poi corsi di specializzazione in patria, nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
Pur essendo affascinato dall’ideologia panarabista e laica di Gamal Nasser, non
fa mistero di essere un musulmano devoto. Forse è proprio per questo motivo che
la Fratellanza musulmana lo sceglie come Capo di Stato maggiore della Difesa.
Nel 2013 però si contrappone al presidente Morsi fino a rovesciarlo. Le
elezioni dell’8 giugno 2014 lo consacrano sesto presidente della Repubblica
egiziana.

Tawadros II – 62 anni, si laurea in Farmacia e lavora per alcuni
anni in un’azienda statale prima di entrare nel monastero di San Bishoy a Wadi
Natrun. Ordinato sacerdote nel 1989, è consacrato vescovo nel 1997. Come tale
guida la diocesi di Beheira, a Sud Ovest di Alessandria. Il 4 novembre 2012 è
eletto 118º papa della Chiesa copta ortodossa e patriarca di Alessandria. Il 10
maggio 2013 si reca in visita ufficiale in Vaticano, con una delegazione di
vescovi, accolti da papa Francesco.

Ahmad Muhammad al-Tayyeb – 68 anni, studia e insegna nelle università della
Sorbona (Francia) e di Friburgo. Successivamente diventa professore di
Filosofia e Teologia nelle università di al-Azhar (Il Cairo), Qena e Assuan, in
Egitto, e di Islamabad, in Pakistan. Dal marzo al settembre 2003, ricopre la
carica di Gran Mufti d’Egitto e nel 2010 diventa Imam di al Azhar, nominato da
Hosni Mubarak. Non sostiene le sommosse che portano alla destituzione del
presidente e si contrappone alla Fratellanza musulmana quando questa prende il
potere. Considerato un moderato, sostiene il colpo di stato che porta alla
caduta di Mohamed Morsi.

E.C.
 

Enrico Casale




Cari Missionari

Calendario di Suor Irene

Caro padre,
scrivo da Roraima, in Brasile. Complimenti a te e a tutti per Missioni
Consolata N. 11. Tutto molto, molto «buonissimo»! Ma per quel calendario di
suor Irene non basta il 10 e lode! Fantastico per le foto e per le
sottolineature dei temi. Anche il tuo editoriale, Una voce in meno, la
dice lunga sulla solidarietà che ha un sapore ben diverso dalla competizione!
Che ne dici: non c’è posto per tutti in questo mondo? Buone le domande, le
statistiche, gli interrogativi che fanno pensare… Non mollate. Un giornale è
sempre un’opera d’arte.

Leta
Botta, missionaria della Consolata
Roraima, 15/12/2014

San Domenico Savio

Spettabile Redazione,
sono un lettore – magari un po’ discontinuo – della vostra rivista. Noto con
piacere che davvero non vi mancano notizie, messaggi, riflessioni utili; ciò è
dimostrato anche dal carattere piuttosto piccolo che prevale nelle pagine della
vostra MC.

Nel Congresso Eucaristico Diocesano che si è svolto a
Castelnuovo Don Bosco circa mezzo secolo fa, ho cantato anch’io l’inno: «Ritorna,
o Signore, è questa la terra da te prediletta, la terra dei Santi (…). In
mezzo a noi, Signor, scegli i tuoi Santi; scegli i tuoi Santi ancor, in mezzo a
noi, Signor!» (Parole di José Cottino e musica di Camillo Milano).

Nell’articolo di pagina 32, a metà della seconda colonna,
leggo: «… anche se dovrebbe essere battezzato Castelnuovo dei Santi perché
ben quattro (va aggiunto infatti anche Domenico Savio) sono i santi che lì
hanno avuto i loro natali…». Condivido con voi tutto il contenuto
dell’articolo, ma vorrei precisare che Domenico Savio è nato a Riva presso
Chieri e non a Castelnuovo. È però verissimo che ha vissuto la massima parte
della sua vita nel comune di Castelnuovo.

Il Signore vi aiuti a fare sempre del bene, soprattutto
nei «luoghi di frontiera», nei quali vi siete già distinti in molte occasioni.
Grazie di tutto! Cordiali saluti ed auguri di ogni bene da

Antonio
Caron
email, 06/12/2014

Ridateci i libri

Ricevo
la bella rivista da un cinquantennio e prima ancora la stessa era presente
nella mia famiglia di origine. Il suo arrivo è sempre una gioia per ricchezza
di contenuti, profondità degli argomenti trattati e pregevolezza della veste
editoriale. Mi permetto di proporre alla redazione il ripristino di due
antiche, per me e penso per altri lettori, utili e interessanti rubriche: la
presentazione bibliografica di nuovi libri e la rubrica filatelica che fu
presente per moltissimi anni. Due arricchimenti certamente utili specie per i
lettori più anziani o per chi risiede in luoghi decentrati.

Ringrazio per l’attenzione e unisco, per tutti i
missionari, un cordialissimo saluto.

Luigi
Bisignano
15/12/2014

Grazie di averci scritto. La rubrica dedicata
ai libri, rinnovata, torna proprio in questo numero, a pag. 2, mentre per
quella filatelica… non potrà più essere come una volta. Dovesse ritornare,
son sicuro che rimarrà piacevolmente sorpreso. Ogni bene a lei.

Batik

Ho avuto l’occasione di visitare la mostra missionaria
dell’Immacolata a Torino in favore dell’ospedale di Neisu in Congo e vi ho
potuto ammirare e acquistare alcuni batik provenienti dal Kenya. Confesso la
mia
ignoranza in materia e pertanto mi permetto di suggerire per la vostra rivista
di dedicare un articolo a questa forma artistica. Non mi pare, salvo
distrazioni, di ricordae sull’argomento. Potrebbe anche essere una buona
pubblicità per suscitare interesse a decorare la propria casa in questa forma.
Se ci fosse sufficiente varietà potreste anche pensare ad esporli
fotograficamente sul vostro sito web. Magari lo avete già fatto!

Claudio
Solavagione
email, 19/12/2014

DI bambini e missionari

Caro Padre Gigi,
ancora una volta ringrazio per l’editoriale,
oltre che per tutti i contenuti del mensile. Mi riferisco a Un sogno da
bambini
. Ringrazia per me la scuola dell’infanzia che ha organizzato il
presepio vivente descritto perché le insegnanti, nonostante l’impegno
richiesto, hanno affrontato tale evento per far vivere a piccoli e grandi «qualche
cosa» del mistero del S. Natale. Mi permetto di sottolineare, come pedagogista,
che non si tratta né di una recita e né di un teatrino. Se non c’è l’assillo
della parola esatta o del gesto perfetto o del movimento sempre identico, i
bambini interpretano i ruoli in modo spontaneo e giornioso, così come sono stati
descritti, e fanno sul serio, non recitano, sono veri nelle loro espressioni!

Quanto all’affermazione conclusiva dell’articolo citato e
pubblicato su La Stampa del 23 ottobre dell’anno scorso, che cosa dire?
Purtroppo l’ignoranza è molto diffusa ed è trasversale. Non c’è conoscenza
relativa al tipo di lavoro, agli obiettivi e grado di impegno dei missionari,
per cui chi ha scritto non si è reso conto della contraddizione in cui è
incappato. Se in
Africa c’è bisogno della giustizia sociale, in Italia c’è bisogno sia della
stessa che della cultura, oltre che della formazione e dell’educazione.

Auguro che Missioni Consolata trovi, nel 2015, sempre più
lettori e lettori critici e propositivi!

Milva
Capoia
Collegno, 02/01/2015

Bambini Salvadoregni, E
adozioni illegali

Dopo aver letto il dossier di MC di luglio 2014 ci
permettiamo di scrivere su questo importante argomento.

Quanti bambini salvadoregni sono stati adottati in Italia
negli anni ’80?

È una domanda senza risposta. La
sparizione di persone fu una pratica sistematica durante il conflitto armato
nel Salvador fra il 1980 e il 1992. Di più: infame fu la sparizione di bambine
e bambini, una pratica impiegata come strategia militare controrivoluzionaria.

Nei suoi 20 anni di esistenza, Pro Búsqueda ha
registrato 934 casi di separazione forzata di bambini dai loro genitori durante
la guerra del Salvador. A tutt’oggi è riuscita a trovare 392 di loro. Il lavoro
di
Pro Búsqueda si riferisce a quei bambini che furono fatti sparire dalle
loro famiglie, rivendicando i loro diritti violati e servendo da tramite fra le
famiglie biologiche e quelle adottive.

I bambini furono considerati un bottino di guerra che
generò sostanziosi benefici economici a favore di coloro che ne fecero motivo
di commercio. Durante la guerra del Salvador si creò una rete di adozioni
illegali con la complicità di militari, funzionari pubblici, avvocati,
responsabili di orfanotrofi e addirittura di volontarie della Croce Rossa del
Salvador.

Il nostro paese fu tra quelli che realizzarono più
adozioni inteazionali negli anni ’80. In quel periodo gli Stati Uniti emisero
più di 2.300 visti di adozioni per bambini del Salvador. Furono adottati
numerosi bambini anche in Europa, specialmente in Italia.

Pro Búsqueda
non possiede dati esatti sul numero di adozioni di bambini salvadoregni in
Italia durante la decade degli anni ’80. Tuttavia in Italia sono stati risolti
già 39 casi. La collaborazione delle autorità italiane per conoscere il numero
esatto di adozioni nel paese sarebbe di vitale importanza per capire la
dimensione del fenomeno dell’infanzia scomparsa in El Salvador.

La sparizione di questi bambini e la loro successiva
adozione fraudolenta ha violato i loro diritti fondamentali e anche quelli dei
loro genitori biologici e adottivi. Si è strappato ai genitori biologici la
cosa più preziosa della loro vita e ai bambini si è negato il diritto alla loro
identità, a rimanere con la loro famiglia e, oggi, a sapere quali sono le loro
origini. Si è abusato anche della fiducia e della buona volontà di molti
genitori adottivi che non erano a conoscenza delle irregolarità che venivano
commesse in El Salvador.

L’aiuto delle autorità italiane permetterebbe di avanzare
nella risoluzione di molti casi che rimangono irrisolti. Non sarebbe solo un
gesto di umanità verso le vittime salvadoregne di questo orribile crimine, ma
anche di responsabilità verso i suoi obblighi inteazionali, come quelli
contenuti nella Convenzione Internazionale sui Diritti del Bambino, ratificata
dall’Italia e da El Salvador.

Inoltre sarebbe un sanare un debito verso tutti quei
cittadini italiani di origine salvadoregna che vogliono ricostruire il loro
passato e la loro identità. E diventerebbe meno pesante il fardello di tutti
quei genitori che continuano a cercare i loro figli scomparsi.

Asociación
Pro Búsqueda de niñas y niños
 desaparecidos
www.probusqueda.org.sv
email, 21/11/2014

CHE senso ha la Missione, oggi?

(N.B.:
i titoletti nel testo sono redazionali)

Rev. Padre,
lasci che un quasi settantenne utilizzi ancora anche lui una lettera cartacea
vista la mia poca dimestichezza con il computer (che, tuttavia, sia chiaro, non
demonizzo!). Scrivo in merito al suo editoriale apparso sul numero di novembre
del 2014, che un mio caro riceve e che poi mi passa. Concordo circa il dolore
nell’apprendere della cessazione di una pubblicazione missionaria, né è mia
intenzione fare analisi socio-economiche sul continuo decrescere dell’amore
alla lettura o – quanto meno – nei confronti della carta stampata.

Mi conceda alcune riflessioni in cui, le assicuro, non vi
è la più piccola parte di polemica.

La missione, un tempo

Quando ero giovane, e anche desideroso di farmi
missionario, lo scopo delle missioni e della vocazione missionaria, era
chiarissimo a tutti: portare il cristianesimo (il cattolicesimo) a popoli che
ancora non avevano avuto la gioia di conoscerlo. In parole povere, anche se
oggi il termine non è politically correct: convertire. Alle foto di
allora, con il padre missionario con la sua veste bianca, il casco coloniale,
una bella lunga barba, facevano seguito resoconti del tipo, quanti villaggi
visitati, quante cappelle aperte, quanti battesimi celebrati, quanti matrimoni.
In altri termini tutta una relazione circa l’apostolato del convertire. Forse,
anzi, toglierei anche il forse, in quelle relazioni emergeva una dose di
trionfalismo, ma il lettore almeno aveva le idee chiare, forse troppo semplicistiche,
ma chiare.

La missione oggi

Poi venne il Vaticano II (e qui, prima di andare avanti
vorrei precisare che considero quel concilio un vero dono di Dio) e le grandi
attese: seminari pieni e vocazioni a valanga. Ma per motivi che non so
spiegarmi, poco per volta avvenne l’esatto contrario.

Too all’aspetto delle missioni e dei missionari. Si
cominciò col dire che lo scopo delle missioni non era quello di convertire,
bensì «testimoniare», e qui la chiarezza dei concetti incominciò ad
annebbiarsi. Poi un sempre e crescente impegno del missionario nel creare
pozzi, forme nuove di agricoltura, sviluppare artigianato, occuparsi della
promozione della donna, prendersi cura della gioventù e tante altre belle cose
che sicuramente ogni missionario curava anche prima, ma che erano secondarie
all’evangelizzazione.

Poi tutta un’altra serie di messaggi belli, sì, ma forse
non ben spiegati al popolo cristiano. Anch’io mi sono commosso a vedere le foto
delle grandi preghiere ecumeniche ad Assisi, ma il messaggio che è giunto è
stato che tutte le religioni sono nobili e degne allo stesso modo, e che ognuna
è una strada per giungere a Dio.

A questo punto diventava ineludibile la domanda: e
allora, se Dio ha dato a quei popoli una loro forma di espressione religiosa,
dato che Dio non lascia orfano nessun popolo, in base a quale principio io devo
andare là per convincerlo a lasciare i suoi culti e divenire cattolico?

Mi ricordo che in un’intervista letta anni or sono, ad un
certo punto, il giovane missionario che partiva, alla domanda se andava per
convertire, rispose: «No, vado per essere convertito». Probabilmente intendeva
dire che quanto di buono avrebbe trovato in terra di missione lo avrebbe
spronato a diventare un miglior cattolico, ma letta così, tout court, la
frase spiazzava.

Siamo giunti a tal punto che oggi il missionario per
eccellenza è quello che è stato a Korogocho (pron. Corogocio, ndr)
e che guida cortei per la tutela dell’acqua
pubblica.

Qual è l’essenza della missione

Belle e sante cose, ma torniamo alla base: qual è l’essenza dell’essere missionario? E a questa domanda ne
segue un’altra. Tutte le riviste missionarie, compresa la sua, non fanno altro
che riportare inchieste interessantissime e quasi sempre molto equilibrate,
inchieste sociali, politiche, storiche, il
tutto – ripeto – molto bello. Ma quante volte compare il nome di Gesù Cristo? È tutto un resoconto di sopraffazioni di stati su
stati, di etnie su etnie, di caste su altre caste. Ma cosa serve studiare
teologia e tutte le materie a essa connesse se poi offrite un prodotto per il
quale sarebbe sufficiente un esperto di politica internazionale o uno storico
equilibrato?

Se prima, a mio parere, l’essenza della missione era
quella di predicare il cristianesimo a popolazioni che avevano altre forme
religiose a nostro avviso belle, nobili, ovviamente da rispettare, per certi
aspetti anche da prendere ad esempio, ma comunque non equiparabili al messaggio
di Cristo, oggi quale è questa essenza?

Avviene quello che succede ad ogni aggregazione umana, ad
esempio tra partiti politici che si fondono: la perdita della propria identità
e specificità annulla anche il movente interiore, lo stimolo che prima c’era a
voler partire missionari.

Se un giovane che dovesse avere la vocazione riflette un
po’, se va per costruire pozzi, case, ponti, impiantare aziende, creare
movimenti di sindacalizzazione, creare scuole (tutte cose bellissime, sia
chiaro) non gli basterebbe essere un buon geometra, un buon ingegnere, un buon
manager, un buon professore? Poi, se è anche un buon cristiano, meglio ancora!

Concludendo
Due questioni aperte.

1. Un tempo il missionario portava Cristo e il Vangelo,
di conseguenza tutta la sua azione si completava anche, visto che l’uomo è
corpo e anima, con opere umane di promozione sociale dei popoli ai quali era
inviato. Ma l’essenziale era ben distinto dal secondario. Oggi il secondario ha
preso il posto di ciò che prima era ritenuto essere l’essenziale della
missione. Capovolgendo i valori la missione non poteva che soffrie.

2. Il secondo punto è la necessità di spiegare con
chiarezza il significato di certi gesti in sé bellissimi, compiuti ad esempio
dai papi, ma che possono prestarsi a equivoci o a volute distorsioni da parte
della stampa laicista. Lo si è visto con la frase di papa Francesco «Chi sono
io per giudicare» che, sulla stampa nazionale è diventata una sorta di
sdoganamento dell’omosessualità. Anche recentemente, l’inchino verso il primate
degli ortodossi, la preghiera nella moschea rivolto alla Mecca. Se tutto ciò
non viene spiegato, altro non porta che alla solita conclusione. Ogni religione
è strada verso Dio, di conseguenza una forma missionaria della chiesa cattolica
altro non può essere vista che come una forma di sopraffazione nei confronti di
altri culti.

La saluto con stima e affetto, spero di essere stato
sufficientemente chiaro nell’esposizione dei miei pensieri, cordialmente suo,

Alfredo
Garianol
Genova, 16/12/2014

Caro
Sig. Alfredo,

è stato più che chiaro. Sull’ultimo punto, avesse scritto dopo il viaggio del
Papa in Sri Lanka, avrebbe potuto aggiungere altri argomenti al dibattito. La
ringrazio della sua lettera che tocca il tema scottante della missione della
Chiesa oggi. Non ho una risposta precisa da darle. Le assicuro che quanto lei
ha esposto costituisce il cuore del dibattito sulla missione e la nuova
evangelizzazione.

È vero, in
questi anni, per noi giornalisti missionari è stato più facile raccontare di
sviluppo, di giustizia e di pace che dell’esperienza di fede che vivono i
missionari. Questi ultimi spesso hanno pudore a raccontare della vera forza che
li anima dentro, l’amore per Gesù Cristo. In più anche noi abbiamo forse
un’eccessiva preoccupazione di voler essere accettati/letti da tutti senza
apparire integralisti o impegnati a fare proselitismo.

Ricordo
che io stesso ho criticato con forza la redazione di MC nel 2002, quando, in
occasione del centenario dell’arrivo dei missionari della Consolata in Kenya,
aveva preparato un bellissimo numero speciale dove però si era scritto di
tutto, eccetto che degli incredibili risultati di cento anni di
evangelizzazione: una comunità cristiana vibrante, una Chiesa locale quasi
autosufficiente e soprattutto una Chiesa diventata missionaria.

Noi
siamo profondamente convinti che l’unica ragione della missione è Gesù Cristo e
l’annuncio della Buona Notizia (Vangelo) che è Lui. È Lui che dà la forza ai
missionari di resistere anche nelle situazioni più dure, fino a dare la vita.
Papa Francesco, nonostante possa confondere qualcuno con i suoi gesti di
apertura, dialogo e rispetto per le altre religioni, è molto chiaro in questo.
La sua Evangelii gaudium non lascia dubbi.

Il
problema per noi di MC si presenta di mese in mese quando veniamo alla scelta
concreta degli articoli. Non sempre riusciamo ad avere materiale che ci
permetta un buon bilanciamento dei testi, ce ne rendiamo conto. Corriamo così
il rischio di dare prevalenza ad articoli che potrebbero apparire benissimo in
riviste di socio-politica ed economia internazionale.

Le
assicuriamo comunque che, come è stato detto al Convegno missionario di
Sacrofano (cfr pag. 10), è nostro grande desiderio «Rimettere Cristo al
centro», perché è solo in Lui che, come persone e come cristiani, troviamo le
motivazioni vere per dare la vita per un mondo nuovo, giusto, fraterno, a norma
«divina».

risponde il Direttore




«Annunzia quanto ti dirò» / 2 Convegno Nazionale Missionario – Sacrofano 2014

IV CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE /2
Sacrofano (Roma) 20-23/11/2014

Seconda parte delle
«Linee e orientamenti pastorali per un rinnovato impegno missionario».
Testo
non ufficiale.


D. QUELLO CHE NOI
ABBIAMO NARRATO, ORA LO DESIDERIAMO

Spinti e stimolati dall’ascolto della Parola e dalle sue
declinazioni e implicazioni storiche, sociologiche, filosofiche, antropologiche
e culturali che la rendono Parola incarnata nel quotidiano, cerchiamo di
raccogliere alcune provocazioni da quanto è emerso dal nostro convegno. […]

DESIDERARE

Ciò che desideriamo non può «cadere dal cielo»: deve essere il
frutto dello sforzo di una Chiesa che si sente in cammino, e soprattutto in
uscita verso quelle periferie geografiche ed esistenziali tanto citate quanto,
spesso, ancora sconosciute.

•          Rimettere Gesù al centro.

Il primo grande desiderio emerso dal convegno e quello di
rimettere al centro del nostro annuncio Gesù morto e risorto e la gioia
dell’incontro personale con lui attraverso un contatto assiduo con la Parola di
Dio. Come uno slogan, la frase «Più Parola e meno dottrine» è stata gridata in
più occasioni e in molti modi.

Nelle parrocchie, ci si sente spesso privati del contatto diretto
con la Parola di Dio, sebbene siano passati ormai oltre cinquant’anni
dall’inizio del Concilio Vaticano II: rimettiamoci in ascolto della Parola,
attraverso tutte quelle forme (lettura popolare della Bibbia, gruppi biblici,
gruppi di ascolto, scuole della Parola) che puntano a restituirla quale
veramente è, ossia parola di Dio rivolta a tutto il suo popolo, e non solo a
una parte privilegiata di esso.

•          Metterci la testa.

Il secondo desiderio è quello di riuscire a «metterci più testa»
in ogni azione pastorale, in particolare in quella volta a fare della comunità
dei credenti una comunità missionaria.

Ci siamo scoperti deboli sulla capacità di individuare nuovi
cammini e nuove strategie perché deboli di pensiero; soprattutto, fatichiamo ad
avere un pensiero forte e arricchente intorno alla missione. Per riuscire ad
acquisirlo, abbiamo la necessità di essere accompagnati e aiutati a vari
livelli: mettiamoci, quindi, in cammino e aiutiamoci reciprocamente.

AIUTARE: I PRETI

Innanzitutto, il nostro clero.

Si è avvertita una stanchezza intorno alla dimensione missionaria
soprattutto nel nostro clero, a ogni livello. Aiutiamoci a essere vescovi e
sacerdoti missionari, sin dai primi istanti della nostra formazione.

•          Nei seminari.

Aiutiamoci a studiare la missione. Ciò può avvenire attraverso
l’obbligatorietà dell’istituzione e della frequentazione di corsi di
missiologia, ma più in generale con l’attenzione ai temi della mondialità e
dell’annuncio del Vangelo nelle varie culture.

È auspicabile che nelle equipe formative dei seminari sia presente
una figura (sacerdotale o laicale) di missionario rientrato.

Sono da incrementare le esperienze (soprattutto estive) che aprono
alla dimensione missionaria dell’annuncio, tanto «lontane» (esperienze di
missione in altre chiese) quanto ai lontani (esperienze caritative e di
frontiera nella nostra realtà italiana).

•          «Odorare di pecora».

Nelle nostre case canoniche, o comunque nel nostro stare in mezzo
alla gente, aiutiamoci a essere meno burocrati e funzionari del culto o
dell’amministrazione e a «odorare sempre di più di pecora», come ci ricorda
Papa Francesco.

•          Liturgia viva.

Nelle nostre celebrazioni liturgiche, in particolare
nell’Eucaristia domenicale, aiutiamoci a celebrare il Cristo Risorto attraverso
liturgie vive e non ingessate, che riescano a dire qualcosa alla nostra gente,
che coinvolgano il più possibile anche coloro che provengono da Chiese
cristiane sorelle distinte per rito o per confessione, che creino ministerialità
condivisa (cominciando dall’animazione), che possano essere celebrate anche
fuori dai confini del tempio parrocchiale, in quegli spazi della società in cui
non si sente mai un messaggio di vita e di speranza. Soprattutto che siano
memoriali vivi della Passione e Morte del Signore, nella frazione del Pane e
nella lavanda dei piedi, ossia nella comunione tra preghiera e carità, tra esse
inscindibili e capaci di condurre l’Eucaristia domenicale oltre il canto
finale.

Vivere l’Eucaristia come memoriale vivo di
carità significa fare memoria di tutta la vita di Gesù, del suo parlare,
del suo stile di vita d’incontro e di annuncio.

Aiutare: le comunità

È sul territorio che una Chiesa in uscita e missionaria ha bisogno
di far sentire la propria forza, in considerazione del fatto che la forza della
testimonianza viene dal laicato, dall’associazionismo, dalla realtà dei
movimenti e delle nuove comunità, e da quel mondo religioso, femminile e
maschile, spesso lasciato ai margini anche delle scelte e dell’agire pastorale.

•          Nelle parrocchie.

Aiutiamoci a «narrarci» nelle parrocchie e nel mondo della scuola
(a ogni livello e grado di istruzione), della cultura e del lavoro. Aiutiamoci
a raccontare, a dire senza paura ciò che abbiamo sperimentato soprattutto in
relazione ai contatti con altre culture e altri modi di vivere la fede.

In questo ambito sono fondamentali le figure dei missionari
rientrati, definitivamente o per periodi brevi, e di quei giovani di ritorno da
esperienze più o meno prolungate di missione. Come ha ricordato ancora Papa
Francesco incontrandoci in udienza durante il convegno: questo non si fa per
proselitismo, ma per comunicare la gioia dell’incontro con il Signore.

•          Nelle diocesi.

Aiutiamoci a non perdere lo spirito dell’ad gentes e, di
conseguenza, a continuare a mandare laici, religiosi, sacerdoti che – inviati
da una Chiesa a un’altra Chiesa – vivano un’esperienza di cooperazione e di
annuncio.

Non può essere che, dopo neppure sessant’anni dalla promulgazione
dell’enciclica Fidei Donum, questa figura di cooperazione missionaria
debba essere destinata a morire. Non può essere che (dopo una storia così
gloriosa come quella italiana) non esistano più vocazioni alla missione «ad
vitam»: se ciò avviene all’interno della Chiesa – che per sua nascita e natura è
missionaria – significa che c’è qualcosa da sanare alla radice.

Occorre principalmente da parte dei vescovi meno resistenza a
incoraggiare le partenze, perché un cristiano che lascia la propria diocesi per
annunciare il Vangelo non è perso, è donato.

In questo dinamismo, aiutiamo pure gli Istituti Missionari
a rimanere se stessi, fedeli all’azione missionaria ad gentes e ad
vitam.
Ben lungi dall’aver esaurito il proprio compito, essi devono
piuttosto avere ancor più ampia incidenza nella Chiesa come memoria della
missione, come stimolo di animazione missionaria, e come richiamo alla
responsabilità che la Chiesa tutta ha nell’evangelizzazione universale.

•          Oltre i confini.

Aiutiamoci anche da un punto di vista missionario a sentirci
Chiese locali «in rete», per creare collaborazioni missionarie che travalichino
i confini delle diocesi.

Soprattutto – ma non solo – nelle diocesi più piccole o nelle regioni
che fanno più fatica a sostenere da sole esperienze di cooperazione missionaria
ad gentes, si sperimentino e si incrementino esperienze interdiocesane
e/o interregionali di invio comune di laici, sacerdoti e religiose, magari con
il sostegno formativo ed economico di diocesi che storicamente hanno una
tradizione più assodata di invio missionario.

«Travalicare i confini» significa anche
creare un lavoro di rete con tutte quelle realtà che – pur non professando il
nostro stesso Credo religioso, o comunque non nelle nostre modalità –
condividono con noi la stessa speranza e la stessa carità. A partire dal
dialogo ecumenico e interreligioso, fino allo scambio sui valori condivisi con
gli uomini e le donne di ogni cultura. Puntiamo sempre più (nello spirito del
Concilio Vaticano II) alla ricerca della verità «in modo rispondente alla
dignità della persona umana e alla sua natura sociale, e cioè a una ricerca
condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento o dell’educazione, per
mezzo dello scambio e del dialogo […] con cui gli uni rivelano agli altri la
verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta», lavorando per la
costruzione di un mondo più giusto e di una società più fratea.

•          Nella formazione.

Aiutiamoci a corroborare con la dimensione missionaria la
formazione delle nostre comunità, soprattutto di quelle nelle quali si vive un
maggior impegno ecclesiale (in parrocchia, ma anche nelle piccole comunità
cristiane, nelle associazioni, nei movimenti, nelle nuove esperienze di Chiesa «di
strada» e di evangelizzazione di frontiera).

Tra i formatori e i catechisti, è bene iniziare a dare maggior
spazio anche a quei cristiani (e non sono pochi) che vivono nei nostri paesi e
nelle nostre città e provengono da Chiese di altri paesi in cui già erano
impegnati come catechisti, come ministri e come formatori o animatori
liturgici. Aiutiamoci prima di tutto a evitare pietismo e assistenzialismo nei
loro confronti, e a vederli come soggetti di testimonianza cristiana invece che
come oggetti di attenzione e di carità.

E insistiamo anche su cammini di formazione e informazione alla
mondialità e all’intercultura che aiutino i nostri cristiani a conoscere e
capire chi proviene da altri paesi per favorire sempre più una seria e onesta
cultura della reciproca integrazione.

•          Nella comunicazione.

È stato rimesso al centro il tema della comunicazione, offrendo ai
partecipanti un convegno dallo stile comunicativo efficace, attuale e
propositivo.

Aiutiamoci a cambiare il modo di fare comunicazione. Aiutiamoci a
cambiare il linguaggio comunicativo che utilizziamo nell’annuncio del Vangelo,
a partire dalla presa di coscienza che, come Chiesa, siamo ancora molto
indietro sotto questo aspetto rispetto al bombardamento mediatico che forma
mentre informa.

Non possiamo più comunicare solo frontalmente e verbalmente. Non
possiamo più guardare alle nuove strategie comunicative (rete, social
network
, chat e app) con diffidenza, paura e ostracismo. Il
linguaggio dell’immagine era stato compreso e attuato già dai nostri Padri
nella fede, quando costruivano chiese decorate di affreschi, mosaici e pitture.

Aiutiamoci a investire tempo, energie e risorse anche economiche
per ritrovare una strategia comunicativa efficace: l’idea di un portale web
unico per la comunicazione nel mondo missionario non può più essere messa da
parte.

•          Spazio ai giovani.

In questa assemblea di Sacrofano i capelli bianchi non erano in
prevalenza, pur costatando l’innalzamento dell’età media dei missionari
italiani. I giovani sotto i 35 anni presenti in sala erano oltre 200.

Se c’è ancora qualcosa che sa attirare in maniera accattivante i
giovani al discorso di fede e alla vita di Chiesa, o comunque all’amore per i
valori che contano, è proprio la missione, con il suo bagaglio di attenzione ai
poveri, agli ultimi, agli emarginati, ai lontani e ai diversi di ogni
categoria.

Aiutiamoci a mantenerci giovani. Aiutiamo i giovani a essere ciò
che sono, in altre parole il presente, e non il futuro della Chiesa e della
società. Non dobbiamo avere timore ad affidare loro compiti di responsabilità
anche a livello decisionale nelle nostre comunità: non dobbiamo avere paura di
perdere qualcuno di loro, se ci dice che vuole fare un’esperienza prolungata di
missione; non lesiniamo nell’aiuto, anche materiale, che possiamo dare loro per
attivare strategie di animazione missionaria o per creare attività caritative e
di apertura ai bisognosi e ai lontani.

E – come ci ha detto ancora una volta Papa Francesco – iniziamo da
subito: dai bambini (il termine «bambini» nel suo discorso è stato ripetuto sei
volte, tanto quanto il termine «missione»). «I bambini devono ricevere una
catechesi missionaria»: non possiamo più tirarci indietro da questo compito.

GUARDARE AVANTI

Molto bella e stimolante è stata l’assenza del classico «piagnisterno»
nostalgico dei tempi passati, quelli in cui «si era di più e si faceva meglio».

Si è invece percepito in maniera palpabile che c’è ancora tanta
voglia di mettersi in gioco, e che il fuoco della missione non si è
affatto affievolito. Possiamo quindi dire che il primo obiettivo del convegno («riaccendere
la passione dei singoli e delle comunità per la missio ad gentes e inter
gentes
») è stato già raggiunto.

L’entusiasmo avvertito è stato davvero grande. Da questo momento
in poi, dobbiamo decisamente puntare al raggiungimento del secondo obiettivo: «Studiare
nuovi stili di presenza missionaria nella nostra realtà
».

SULLE ALI  DELL’ENTUSIASMO

Lanciamo, allora, tre slogan finali che possano stimolare
concretamente a qualcosa di forte.Teniamo «in caldo» il convegno.

L’entusiasmo di questi giorni ci spinge a «battere il ferro mentre
è caldo», a «mantenere in caldo» il cibo di cui ci saziamo. Molti hanno
espresso il desiderio di non far passare un altro decennio prima di convocare
nuovamente la Chiesa Italiana alla missione: cercheremo di far tesoro di questa
indicazione. Ma al di là della frequenza del ritrovarci, ci sono molti altri
modi per mantenere alto l’entusiasmo.

•          Nel territorio.

Iniziamo, allora, a pensare a come far ricadere a livello locale
(regionale e diocesano) quanto vissuto a Sacrofano. Può essere attraverso
piccoli convegni locali, può essere nell’ordinaria programmazione degli
incontri regionali o diocesani, può essere attraverso momenti di riflessione e
approfondimento (magari anche con percorsi formativi su uno o più ambiti
affrontati al convegno, specie nei laboratori di interesse), dando priorità
alle urgenze della situazione locale. Le modalità sono molteplici, e crediamo
che vadano lasciate soprattutto alla stimolante inventiva di ognuno dei
partecipanti e di chi – rimasto a casa – ha potuto comunque seguire i nostri
lavori.

•          Nel «world wide web».

Non dimentichiamo che uno degli strumenti più validi per quest’opera
di «riscaldamento» e «attizzamento» del fuoco della missione rimane il mondo
del web, dei social network e di tutto ciò che la rete ci mette a
disposizione. Facciamo della rete un ambito
sempre più missionario!

•          Fare rete.

Da parte degli organismi che la Conferenza
Episcopale Italiana mette a disposizione della Chiesa in Italia per
l’animazione, la formazione e la cooperazione missionaria (l’Ufficio
Nazionale di Cooperazione Missionaria
, la Fondazione Missio e il Cum
di Verona), come da parte di tutti gli Istituti Missionari presenti in Italia,
viene ribadita la più ampia disponibilità a svolgere la propria funzione di
servizio in appoggio a qualsiasi iniziativa possa servire a mantenere vivo
questo entusiasmo e a individuare percorsi formativi e iniziative a carattere
missionario, sul territorio nazionale e non solo.

OSARE LA MISSIONE

Da qualche tempo molti sperimentano, in mille forme, esperienze di
animazione, formazione e cooperazione missionaria, che sono il segno di una
grande vivacità.

Il desiderio è di veder nascere cammini significativi dal
carattere spiccatamente missionario, tanto in favore della missio ad
gentes
quanto per la realtà dei lontani che vivono vicini alle nostre case.
Chi «osa» tali cammini, ne comunichi e condivida la bellezza. Sarebbe un modo
veramente molto concreto di realizzare quella «evangelizzazione attraverso la
vita» di cui Papa Francesco ci ha parlato in varie occasioni.

Uscire,
ascoltare,
annunciare

E riprendiamo il nostro cammino con due delle affermazioni più
belle che abbiamo ascoltato in questi giorni, entrambe pronunciate sabato 22
novembre. Una, il mattino, da Papa Francesco, e l’altra il pomeriggio, da padre
Gustavo Gutiérrez. Sono quelle frasi che aprono il cuore, fanno sognare,
mantengono acceso il desiderio di continuare a essere discepoli missionari,
testimoni del Dio della Vita e del Vangelo della Gioia.

«Gioo dopo giorno
[…]
scriviamo una teologia
incarnata, come una lettera d’amore a Dio da parte della sua Chiesa»
(Gustavo Gutiérrez).

«Le diverse realtà
che voi rappresentate nella Chiesa italiana indicano che lo spirito della missio ad gentes deve diventare lo
spirito della missione della Chiesa nel mondo: uscire, ascoltare il grido dei
poveri e dei lontani, incontrare tutti e annunciare la gioia del Vangelo»

(Papa Francesco).

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Il testo qui pubblicato non è ufficiale, ma provvisorio, con
adattamenti,
tagli e correzioni stilistiche, ortografiche e grammaticali a cura di Gigi
Anataloni e redazione MC.

a cura di Gigi Anataloni




Per un pezzo di terra

L’antisionismo degli Ebrei
Ortodossi
Non tutti gli ebrei
sono favorevoli allo stato di Israele. L’antisionismo si può incontrare, ad
esempio, tra molti ebrei ortodossi. Quelli aderenti ai movimenti «Satmar»,
«Agudat Yisrael», «Bund», «Edah Haredit» e «Neturei Karta» sono forse i più
intransigenti. Si tratta di un fenomeno poco conosciuto, ma presente, la cui importanza
è destinata a crescere.

Nel 1896 Theodor Herzl (1860 – 1904)
ripropose all’attenzione del mondo ebraico un’idea non certamente nuova, ma che
alla fine del XIX secolo cominciava a prendere piede tra le comunità
israelitiche: la creazione o, come disse lo stesso Herzl, la «restaurazione» di
uno stato che potesse ospitare giudei da tutto il mondo.

Prendendo spunto dal caso Dreyfuss (Francia, 1894, ndr) e dai moti antisemiti che
sconvolgevano l’Europa in quegli anni, Herzl sosteneva che «invano siamo leali
patrioti […] invano facciamo gli stessi sacrifici […] che fanno i nostri
connazionali; invano contribuiamo a incrementare la fama della nostra terra
natia nelle scienze e nelle arti o ad arricchirla con il commercio. Nei paesi
dove viviamo da secoli continuiamo ad essere considerati stranieri».

Secondo Herzl era dunque necessaria la creazione di uno
stato ebraico: «Garantiteci un pezzo di terra grande a sufficienza per
costruirci una nazione; penseremo noi a mantenerci».

In verità Herzl non propose il ritorno in Palestina.
Anzi, al primo Congresso sionista, svoltosi a Basilea nel 1897, indicò l’Uganda
come possibile luogo in cui insediare il popolo ebraico.

Il piano di insediamento avrebbe dovuto essere sviluppato
dalla Società degli ebrei e dalla Jewish Company che avrebbero
cornordinato la liquidazione degli interessi ebrei negli stati d’origine, il
trasferimento nella nuova terra, gli aspetti logistici dei nuovi insediamenti. «I
poveri dovranno andare per primi per disboscare terreni e coltivare i campi […]
costruiranno strade, ponti, ferrovie, telegrafi; regoleranno i letti dei fiumi
e costruiranno le loro case».

Nascita
dell’antisionismo: l’Agudat Yisrael

La
proposta fu quasi subito contrastata da alcuni gruppi di ebrei ortodossi
tedeschi, ungheresi e polacchi che, nel 1912 fondarono l’Agudat Yisrael (o
Agude), opponendosi alla secolarizzazione proposta dal sionismo. L’Agude era il
movimento più in vista della galassia antisionista ebraica: altre
organizzazioni, nate dopo quella teorizzata da Herzl, come il Bund (un
movimento socialista ebraico), avversavano la fondazione di uno stato ebraico
e, con esso, l’aliyah, la migrazione degli ebrei verso la Terra
Promessa (Eretz
Yisrael).

Attoo
ai gruppi antisionisti gravitavano pensatori autonomi che, con il loro
contributo, davano spessore filosofico e culturale all’antisionismo.

Uno di
questi, e anche uno dei primi a criticare il sionismo, fu Hermann Cohen
(1842-1918), filosofo tedesco neokantiano e contemporaneo di Friedrich Nietzsche,
secondo cui l’unica possibilità che le comunità ebraiche avrebbero avuto per
sopravvivere sarebbe stata quella di perseguire una politica di «integrazione
nella modea nazione-stato». Insomma, rimanere nei paesi in cui si trovavano
cercando di partecipare, a diversi livelli, alle attività politiche, sociali ed
economiche degli stessi. Cohen negava, dunque, la necessità di possedere una
terra che ospitasse gli ebrei, contrapponendosi alla tesi di Herzl.

Ma se
Hermann Cohen basava la sua tesi su una visione prettamente pragmatica e non
discostando il suo pensiero dal secolarismo, un suo seguace, Steven
Schwarzschild (1924-1989), sviluppando le sue tesi pacifiste attraverso un
intenso dialogo con Thomas Merton, spostò il dibattito sull’ambito religioso.

Schwarzschild
presagì, come la filosofa e scrittrice Hannah Arendt (1906 – 1975), che la
nascita di Israele avrebbe rischiato di portare un insanabile conflitto con i
palestinesi e avrebbe contribuito a far prevalere la concezione secolare di
stato su quella religiosa. In questo modo, secondo il filosofo e rabbino
tedesco, il sionismo avrebbe allontanato pericolosamente gli ebrei da Dio.

Il movimento Satmar

Il
pensiero di Schwarzschild fu influenzato anche da un altro rabbino
antisionista: Joel Teitelbaum (1887-1979), fondatore del movimento Satmar,
il primo grande gruppo di ebrei ortodossi che si oppose (e che tuttora si
oppone) allo stato di Israele. Il Satmar, che deve il nome al villaggio della
Transilvania di Satu Mare, nacque l’8 settembre 1905. Teitelbaum fu, tra gli
ebrei ortodossi, il più radicale nel condannare il sionismo. Il punto di
partenza da cui il rabbino – e, in seguito, tutti i movimenti religiosi venuti
dopo il Satmar – prese le mosse per argomentare la sua contrarietà allo stato
israeliano fu la trattazione di un passo del Talmud (testo sacro dell’ebraismo, ndr) di Babilonia
(ketubot 111a) secondo cui il popolo ebraico, in passato, ebbe sigillato un
patto con il Signore in base al quale:

1. Israele
(Eretz Yisrael) non avrebbe «eretto un muro» (cioè non
avrebbe conquistato la terra promessa con la forza);

2.
Israele che non si sarebbe ribellato contro le nazioni del mondo (cioè gli
ebrei avrebbero obbedito ai governi del loro esilio);

3. i popoli
non ebrei non avrebbero oppresso troppo Israele.

Tradire
quel patto con la fondazione di uno stato di Israele avrebbe trasformato il
sionismo nella «più grande forma di impurità spirituale del mondo intero».
Sarebbe stato proprio questo peccato a scatenare le punizioni divine a cui gli
ebrei sarebbero stati sottoposti nel corso della storia, compresa, secondo
Teitelbaum, la shoah (l’olocausto, ndr). Questa tesi, cinica se vogliamo, è ancora oggi condivisa dalla
maggior parte dei Edah Haredit, le comunità ultra ortodosse che vivono
sia dentro che fuori Israele.

Il
rifiuto del sionismo da parte dei Satmar fu (ed è) pressoché totale e coerente:
nel 1959, per la visita di Joel Teitelbaum alla Terra Promessa, il movimento
organizzò un treno apposito privo di qualsiasi riferimento allo stato di
Israele, mentre dopo la Guerra dei Sei Gioi (1967) ai membri della comunità
che vivevano in Israele il movimento proibì di pregare davanti al Muro del
Pianto e in altri Luoghi Santi ebraici di Gerusalemme per evitare ogni
legittimazione dello stato israeliano. Persino la lingua parlata dai Satmar e
insegnata nelle loro scuole è l’yiddish (lingua
germanica parlata dagli Ebrei originari dell’Europa orientale e scritta con
l’alfabeto ebraico, ndr) e non ebraico moderno, il che isola
ulteriormente la comunità dal resto di Israele. Per aiutare socialmente i
119.000 aderenti a questa scuola ebraica, divisi principalmente tra il
quartiere di Williamsburg, a New York, e quello di Mea Shearim, a Gerusalemme,
sono state create fondazioni come la Bikur Cholim che si occupa del
campo sanitario e la Keren Hatzolah, che sovvenziona gli ebrei indigenti
residenti in Israele e le yeshiva (istituzioni
educative ebraiche, ndr).

Neturei Karta

La
seconda scuola ebraica ortodossa antisionista più nota è quella dei Neturei
Karta
, nome aramaico che significa «Guardiani della città», secondo un
passo talmudico in cui si afferma che i veri guardiani della città non sono i
soldati, bensì gli studiosi della Torah (la
fonte primaria dell’ebraismo, ndr). Meno numerosi dei Satmar, i
Neturei Karta furono fondati dal rabbi Aharon Katzenelbogen nel 1938
distaccandosi dall’Agudat Yisrael. Molti dei membri originari erano vecchi yishuv, «coloni», che vivevano in Palestina ancora prima della fondazione di
Israele sopravvivendo grazie alle donazioni della Diaspora ebraica. Dediti allo
studio della Torah, i Neturei Karta, così come la maggior parte
degli ebrei ortodossi, ebbero subito contrasti con i nuovi coloni ebraici
arrivati in Palestina dopo la fondazione di Israele. Questi ultimi, infatti,
che dovevano provvedere da soli al loro sostentamento lavorando duramente nei
campi, guardavano con disprezzo chi contrastava la loro patria rifiutando di
sostenerli e al tempo stesso evitava il lavoro manuale.

L’antisionismo
dei Neturei Karta oggi si spinge ben oltre agli altri gruppi ortodossi
arrivando anche a intrattenere rapporti con l’Iran e Hamas. Delegazioni di
questo gruppo ebraico, infatti, sono state più volte invitate in Iran (nel 2006
direttamente da Ahmadinejad per partecipare alla Conferenza sulla Revisione
dell’Olocausto a Teheran, in cui presenziavano anche negazionisti e
revisionisti della shoah), mentre nel 2005 alcuni membri
parteciparono alla Marcia per la Liberazione di Gaza.

Il
genero di rabbi Aharon Katzenelbogen, Moshe Hirsch (1923-2010), fu anche consigliere del ministro per
gli Affari ebraici del governo di Yasser Arafat.

L’antisionismo
dei Neturei Karta viene spesso espresso in piazza con manifestazioni. Quasi
tutte le fotografie proposte dai media che mostrano ebrei ortodossi con
striscioni antisionisti e bandiere palestinesi, ritraggono loro raduni. Il
sionismo, infatti, per loro è sinonimo di colonialismo, e quest’ultimo,
portando alla «perdita di vita e all’oppressione, è una profanazione della
volontà di Dio».

Sbaglia,
comunque, chi vede negli ebrei ortodossi un possibile alleato politico alla
causa palestinese: battersi per il diritto dei palestinesi di vivere nella loro
terra, infatti, non è, per loro, una questione di diritti umani o di politica
(entrambe espressione del secolarismo), ma una semplice risposta alla volontà
del Signore.

Da Gerusalemme a New
York

Altri
gruppi di Ebrei ortodossi completano la complessa e variegata galassia
antisionista ebraica. Quasi tutti si concentrano a
Gerusalemme nel quartiere di Mea Shearim, considerato da molti uno spaccato di
vita medioevale. È, naturalmente, un’esagerazione, ma è anche vero che chi si
addentra tra le vie di quest’area, così come in quella di
Williamsburg a New York, ha l’impressione di essere ricondotto a una società
tradizionale che si ritrova nelle fotografie precedenti la guerra. Il bianco e
il nero sono i colori che contraddistinguono queste comunità.

All’ingresso
del quartiere cartelli avvertono i turisti di «non passare con vestiti
immodesti e vanitosi», mentre altri manifesti denunciano Israele e il sionismo
specificando, di volta in volta, che «gli ebrei non sono sionisti», «i sionisti
non sono ebrei, ma razzisti», e che le varie comunità «pregano D-o (Dio)
affinché ponga immediatamente fine al sionismo e all’occupazione».

Lungo le
strade gli uomini coprono il capo con i shtreimel o kolpik a seconda del gruppo a cui appartengono, da cui penzolano i payot, i boccoli, lasciati crescere per rispettare il comandamento della
Torah tratto dal Levitico 19,27. Anche nei giorni più caldi molti indossano il bekishe, il soprabito nero o una giacca, sempre nera.

Le donne
devono vestire tzniyut, modestamente. Al sesso femminile è fatto
obbligo di indossare gonne che coprano il ginocchio sin dal compimento del
terzo anno d’età, e di coprire le altre parti del corpo con camicie a maniche
lunghe e colli allacciati. Dopo il matrimonio, un tichel avvolge il capo in modo da non mostrare i capelli. Tra i Satmar molte
donne si rasano addirittura il capo cosicché le ciocche non sporgano dal
foulard.

Le
comunità di Mea Shearim vivono in un mondo separato in cui l’unica legge
vigente è quella della Torah, rispettata, nel limite del possibile, alla
lettera. Durante lo shabbat (il riposo del sabato, ndr) nessun apparecchio elettrico può essere utilizzato, nessun mezzo a
motore può circolare, nessun negozio è autorizzato ad alzare le serrande.

Una vita tra studio e
famiglia

In
generale, sono chiamati Haredi (Haredim) gli ortodossi più conservatori.
Tra i media sono conosciuti come «ultra ortodossi». Gli uomini sono dediti allo
studio dei testi sacri, mentre le donne si occupano della famiglia,
generalmente molto numerosa. Questo porta a due conseguenze: la povertà diffusa
e l’altissimo incremento demografico, due temi che preoccupano moltissimo la
dirigenza israeliana.

Oggi gli
Haredi nello stato israeliano rappresentano l’11,7% della popolazione con un
tasso di incremento del 6-7% annuo. Spezzando la piramide demografica e
prendendo la fascia d’età al di sotto dei 5 anni, il 30% è composto da bambini
provenienti da famiglie ultraortodosse.

Lo
sconvolgimento nella società israeliana sarà enorme: già oggi la metà degli
studenti israeliani che frequenta le scuole primarie è inserito in strutture
ultraortodosse o arabe, entrambe antisioniste. Chi continua gli studi nelle yeshiva non avrà un’educazione economica adeguata ad affrontare le insidiose
regole del mercato rischiando di indebolire la classe manageriale israeliana e
lo stesso stato, che attualmente deve mantenere gran parte delle comunità
ultraortodosse mediante assegni di mantenimento. In un rapporto del 2010, la
Banca di Israele ha stimato che il 60% degli Haredi sono poveri e dipendono
unicamente dalle sovvenzioni statali o dagli aiuti provenienti dalle comunità
ebree residenti fuori Israele.

La questione del
servizio militare

Gli
ebrei ortodossi, inoltre, rifiutano di prestare servizio militare nelle Idf (Israelian
Defence Forces
), cosa che preoccupa i vertici militari e indigna il resto
della popolazione, obbligata a prestare servizio all’interno delle forze armate
per due anni, nel caso delle donne, e tre anni per gli uomini.

Nel
marzo 2014 la Knesset, il parlamento israeliano, ha dato il via libera al
processo di revisione della normativa sulla leva militare (la cosiddetta «legge
Tal») rendendola obbligatoria anche per gli studenti ortodossi e causando le
prevedibili proteste degli Haredi. La classe dirigente di Israele dovrà,
comunque, affrontare il problema dell’antisionismo all’interno della nazione la
cui esistenza futura è messa a repentaglio non da interventi estei, ma da una
parte importante del suo stesso popolo.

Piergiorgio Pescali

Piccolo dizionario

Il peso (e il senso)
delle parole


Ebreo, giudeo, israeliano, semita, antisemita, sionismo, sionista: molti
termini riferiti agli ebrei vengono confusi. Per ignoranza, per scelta
politica, per luogo comune. Proviamo a fare un
po’ di chiarezza partendo da una fonte affidabile.

Giudèo – In senso letterale, appartenente
alla tribù di Giuda (personaggio biblico, quarto figlio del patriarca
Giacobbe). In senso stretto, denominazione con cui sono stati indicati gli
Ebrei rimasti dopo la distruzione del regno d’Israele (722 a.C.), quando
l’intero popolo ebraico fu ridotto alla sola tribù di Giuda. Nell’uso comune,
giudeo è sinonimo generico di ebreo, soprattutto al plurale (ma con valore
spesso spregiativo): la religione, la comunità dei Giudei. 

Ebreo – Appartenente o relativo all’antico
popolo semitico degli Ebrei, che occupò la Palestina sin dalla seconda metà del
2° millennio a.C., costituendosi in unità nazionale e religiosa, e
distinguendosi dai popoli confinanti soprattutto per il carattere monoteistico
della sua religione.

Israeliano – Cittadino dell’odierno stato di
Israele.

Palestinese – In senso etimologico, indica una
persona abitante, originaria o nativa della Palestina, regione asiatica sud
occidentale estesa tra il mar Mediterraneo e l’altopiano giordano. In senso
stretto, oggi il termine palestinese indica la popolazione araba ivi residente.

Olocausto – Forma di sacrificio praticata
nell’antichità, specialmente nella religione greca e in quella ebraica, in cui
la vittima veniva interamente bruciata: offrire un agnello in olocausto;
celebrare un olocausto. Per estensione s’intende sacrificio totale, distruzione
di gruppi etnici o religiosi, di popolazioni, città (spesso come sinonimo di
massacro, martirio, genocidio): l’olocausto degli Armeni; l’olocausto nucleare
di Hiroshima. Nel linguaggio corrente, per antonomasia, l’olocausto (Shoah)
è quello degli Ebrei nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra
mondiale.

Ortodosso – In senso generico, è colui che
accetta integralmente le dottrine religiose affermate come vere da una
determinata fede o Chiesa e ne osserva il culto.

Semita – Deriva dal nome Sem del figlio di
Noè, il quale, secondo la tradizione biblica, sarebbe stato il progenitore dei
popoli semitici. Il termine indica un appartenente alle popolazioni semitiche.

Semìtico – Relativo a un gruppo di lingue
(ebraico, arabo, etiopico, aramaico, accadico, fenicio, ecc.), parlate da
popolazioni antiche e modee dell’Asia sud-occidentale e dell’Africa
settentrionale, che un passo biblico (Genesi 10, 21-31) fa discendere, per la
maggior parte, da Sem figlio di Noè. Per estensione, si riferisce ai popoli
parlanti tali lingue, alla loro storia e civiltà.

Sionismo – Deriva da Siòn, nome di una
collina di
Gerusalemme e, per estensione, di Gerusalemme stessa. La parola è stata
coniata, nella forma Zionismus, dallo scrittore tedesco Nathan Bibaum
nel 1882. Sta ad indicare il movimento politico-religioso ebraico, espressione
di vari orientamenti ideologici, costituitosi a Basilea nel 1897 allo scopo di
creare in Palestina uno stato nazionale indipendente per il popolo ebraico, e
conclusosi nel 1948 con la proclamazione dello stato d’Israele. Nell’attuale
pubblicistica politica, il termine è passato a indicare, con connotazione
polemica, la politica di intransigente chiusura del governo di Israele nei
confronti del movimento per l’autodeterminazione del popolo palestinese.

Antisemitismo – Deriva dal termine tedesco Antisemitismus
coniato da Ch. F. Rühs nel 1816. Sta a indicare avversione e lotta contro gli
Ebrei, manifestatasi anticamente come ostilità di carattere religioso, divenuta
in seguito, specialmente nel XX secolo, vera e propria persecuzione razziale
basata su teorie pseudoscientifiche. 

Antisionismo – Atteggiamento culturale e politico
di opposizione e contrasto alle espressioni più radicali del sionismo.

Fonte: voci tratte ed elaborate dal «Dizionario
Treccani» (www.treccani.it) a cura di Paolo Moiola.

Tags: Israele, Ultraortodossi, Sionismo

 

Piergiorgio Pescali