Mondo. Biodiversa è meglio

Manaus 2015: Forum sulla Biodiversità

Sommario
1. Difendiamo i colori
del mondo

2.
La biodiversità  indigena
3. 
Aree protette e
popoli indigeni

4.
La voce delle imprese
idroelettriche (Uhe)

5.
Lince pardina chiama
tonno rosso


 

Biodiversità e Popoli indigeni

1. Difendiamo i colori
del mondo

Per parlare di
biodiversità l’Amazzonia è il luogo ideale. Non esiste altro posto al mondo che
ne ospiti di più. L’Amazzonia e la sua biodiversità sono però in grave
pericolo, a causa dell’azione umana. Preservare la diversità della vita è
sempre più complicato, ma forse non impossibile. Il primo passo è il rispetto
dei popoli indigeni, per i quali la natura è una «casa» e non una «miniera» da
sfruttare.

Manaus. Sono parecchie le donne indigene
venute al Fórum social mundial da biodiversidade pensando di vendere i
loro prodotti artigianali (bigiotteria, oggetti in legno, tessuti), ma l’evento
non ha richiamato molta gente. Il Centro de convenções Vasco Vasques di Manaus,
costruito a lato della Arena Amazonas (lo stadio degli ultimi campionati
mondiali di calcio), è accogliente, luminoso e funzionale, ma partecipanti e
visitatori quasi si perdono negli spazi della struttura.

Un vero peccato, perché le
tematiche messe in agenda dagli organizzatori sono del massimo interesse:
difesa dell’Amazzonia e della biodiversità, diritti umani, cambiamenti
climatici, agroecologia, sicurezza e sovranità alimentare, economia solidale e
lavoro degno, bioetica, ambiente e progetti idroelettrici. Organizzato da una
serie di realtà sindacali, movimenti sociali e cornoperative, il Forum sulla
biodiversità si inserisce nella tradizione dei Forum sociali mondiali nati nel
2001 a Porto Alegre, nello stato brasiliano di Rio Grande do Sul.

Da qui proviene Lélio Luzardi Falcão, già proiettato
sugli eventi futuri: a gennaio 2016 il Forum toerà infatti a Porto Alegre. Più
concentrata sul presente è Rosane Pinheiro da Silva, che nega la scarsa
partecipazione all’evento di Manaus: «Abbiamo fatto tutto senza soldi e senza
l’aiuto che sponsor e autorità ci avevano promesso. Nonostante ciò siamo
riusciti a coinvolgere 5 mila persone». Probabilmente i numeri non sono quelli
della vulcanica Rosane. Certamente al Forum sulla biodiversità la
partecipazione degli indigeni è significativa. Sono venuti per parlare, per
ascoltare o anche soltanto per vendere, ma tutti con l’orgoglio
dell’appartenenza.

La lotta dei
Munduruku contro la prepotenza del potere

Da anni in Brasile si litiga sulla
proliferazione delle grandi centrali idroelettriche (usinas hidrelétricas)
previste dal Pac, il Piano di accelerazione della crescita (Programa de
aceleração do crescimento
) ideato dal governo Lula e proseguito da Dilma.
Molte centrali sono già in funzione, altre sono in costruzione o in fase di
progetto, sempre in un mare di polemiche, principalmente per due motivi: perché
le opere producono grandi impatti ambientali e perché troppo spesso sono localizzate
in terre abitate da popolazioni indigene. La questione non poteva dunque
mancare al Forum di Manaus.

Roseninho Saw è un giovane indigeno
munduruku. Il popolo dei Munduruku conta circa 12 mila persone. Vive negli
stati di Amazonas e Mato Grosso, ma soprattutto nella regione Sud del Pará
lungo il fiume Tapajós e i suoi affluenti. Sul Tapajós il governo di Brasilia
ha in programma la costruzione della centrale di São Luiz, che dovrebbe
diventare la terza più grande del paese. L’opera comporterà l’allagamento della
terra Sawré Muybu, appartenente ai Munduruku (anche se essa non è ancora
ufficialmente demarcata). Oltre a ciò, sconvolgerà le modalità di vita della
popolazione, considerando che si inserisce in un progetto complessivo che, nel
bacino idrografico del Tapajós e del Tele Pires, prevede la costruzione di ben
nove centrali.

Roseninho Saw parla senza alzare la
voce, ma le sue parole sono dure come pietre. «Io chiedo: se il governo
considera l’energia tanto importante, perché non fa un progetto migliore, che
non preveda la distruzione della nostra foresta? Il governo sta cercando di
dividere il nostro popolo: comunità contro comunità, associazioni contro
associazioni. Ma noi indigeni parliamo una sola lingua e abbiamo il consenso
anche della popolazione ribeirinha e di quella che vive nei municipi
coinvolti». Roseninho parla di diritti non rispettati, ad iniziare dall’obbligo
di consultazione, previsto dalla Convenzione 169 sui popoli indigeni.

«Ci dicono – conclude il giovane
leader munduruku – che l’energia andrà anche a nostro beneficio. Ma non è così:
l’energia sarà per gli imprenditori, i proprietari terrieri e i produttori di
soia. Per noi la foresta è vita, casa, piante medicinali. Per tutto questo la
lotta non può fermarsi». Il pubblico presente, composto in buona parte da
indigeni, apprezza salutando l’oratore con applausi e rulli di tamburi.

Se la biodiversità  sta (anche) nel nome

Meno arrabbiate di Roseninho Saw
Munduruku sono tre simpatiche signore indigene che hanno allestito banchetti
artigianali negli ampi spazi del Centro di convenzioni Vasco Vasques. Indossano
copricapi, orecchini e collane, tutti coloratissimi. Sono meno arrabbiate, ma
non meno orgogliose del loro essere indigene.

Maria Valda Feitosa (Martequi, in
lingua indigena) è tikuna. «Nella nostra comunità – dice – siamo più di mille
persone. Non c’è acqua potabile, la luce è una calamità e il medico viene
soltanto una volta alla settimana quando non è impegnato altrove. Se abbiamo
necessità di una cosa urgente, è necessario venire a Manaus. Per raggiungerla
dobbiamo prendere la lancia che, andata e ritorno, costa 12 reais a persona.
Come può sostenere questo costo una famiglia?».

Maria do Carmo Rarê (Hari Wor) è sateré mawé. «Non è
vero che le istituzioni pubbliche aiutano gli indigeni. La sanità è gratuita,
ma pessima. I medici non hanno mai le medicine. Come le nostre scuole non danno
mai la merenda ai nostri ragazzi». E aggiunge: «Siamo discriminati in quanto
indigeni. Ad esempio, se io salgo su un autobus di Manaus con questi vestiti e
queste pitture sulla pelle, la gente si dà delle gomitate. Pensa che sia una
cosa da drogati, mentre per noi dipingersi è un atto di felicità. Anni fa,
quando io avevo circa 30 anni, feci un colloquio di lavoro e lo superai. Quando
mi presentai per iniziare, il datore di lavoro vide i miei tattuaggi e con una
scusa mi disse di tornare a casa e che mi avrebbe richiamato più avanti. Ci
rimasi malissimo dato che avevo bisogno di quel lavoro. Tuttavia, non mi sono
mai arresa davanti alle avversità perché sono una guerriera come la gran parte
delle donne indigene». Una guerriera divenuta sportiva: Hari Wor è stata più
volte campionessa indigena della specialità «arco e freccia». Come dice lei,
scherzando sulla sua età, è la «vovó de arco e flecha», la nonna dell’arco e
della freccia.

Wall França (Wytá) viene da una
famiglia con papà xavante e mamma sateré mawé. «Sì, è vero, spesso c’è
discriminazione nei confronti di noi indigeni. Anche per questo sono grata agli
organizzatori del Forum sociale che ci hanno dato la possibilità di venire qui
a far conoscere il nostro lavoro artigianale».

Le tre donne appartengono a gruppi
etnici diversi, ma i loro nomi indigeni fanno tutti riferimento alla natura:
Martequi significa «macchia di leopardo», Hari Wor indica la «termite bianca»,
Wytá sta per «uccellino». Non si tratta di una banale tradizione, ma di un dato
culturale che evidenzia l’intima connessione dei popoli indigeni con la madre
terra. Stesso discorso vale per i prodotti artigianali che le signore indigene
vendono. Tutti rimandano alla natura dell’Amazzonia. O perché sono fatti con
materie vegetali o perché raffigurano animali.

La foresta: come «casa»
o come «miniera»

Ezequiel Feandes André – in
lingua indigena Yauatucü, «foglia verde» – è un giovane tikuna di Tabatinga. È
venuto a Manaus per studiare psicologia all’Università.

«Nei nostri confronti ci sono
preconcetti e discriminazioni. E razzismo. Inoltre, la mia gente patisce lo
shock culturale di trovarsi schiacciata tra due filosofie, quella indigena e
quella dei non indigeni. Io ho scelto di studiare psicologia anche per riuscire
a capire gli uni e gli altri».

In quest’ottica delle due filosofie
Ezequiel spiega la diversa attitudine nei confronti della biodiversità. «Per
esempio, a differenza del capitalismo, noi dobbiamo preservare la natura e
avere cura della nostra casa che è la foresta da cui noi ricaviamo alimenti e
benessere».

Anche Henoc Pinto Neves, 33 anni, è
tikuna. «Sono tikuna nell’anima e nel sangue – dice -. Non mi vergogno a
esserlo, né a dirlo a chiunque». Magari anche a quel sindaco che, qualche anno
fa, gli disse che un indio non ha la capacità di diventare dottore. Nel 2012
Henoc si è laureato in biomedicina e oggi è un analista clinico.

Con le idee chiare anche sull’Amazzonia,
«un patrimonio da difendere strenuamente. Noi indigeni abbiamo cura della
natura ed essa ci ricompensa ampiamente quando peschiamo, cacciamo e
coltiviamo. Al contrario di noi, il bianco pensa soltanto a sfruttae le
risorse senza preoccuparsi del futuro».

Eledilson Corrêa Dias, genitori
kaixana e tikuna, si nota più degli altri. Alto, magro, torso nudo, una grossa
e rumorosa collana di conchiglie al collo, un copricapo di piume in testa, ma
soprattutto il volto dipinto di color nero pece. Proviene dall’Alto Solimões,
municipio di Santo Antônio do Içá, ma adesso risiede con la famiglia alla
periferia di Manaus.

«Sono venuto a Manaus perché voglio
che i miei tre figli studino. Perché, dopo gli studi, possano far valere i
nostri diritti come promotori di giustizia, avvocati o giudici. Il governo
brasiliano deve ricordare che noi siamo popoli originari e che stiamo qui da più
di 600 anni. In passato ci hanno ucciso e massacrato. Oggi ci disprezzano.
Vogliamo che i nostri diritti passino dalla carta alla pratica».

Anche dalle sue parole esce una
foresta intesa come «casa», lontanissima dalla concezione dei bianchi, che la
vedono invece come una «miniera» da sfruttare.

In lingua indigena il nome di
Eledilson è Kauixe, che – tanto per confermare la simbiosi con la natura –
significa «albero grande e forte». «Noi siamo nati nella natura. Noi facciamo
parte di essa. Se la distruggiamo, distruggiamo noi stessi». •


 

 

LA?TESTIMONIANZA
2. La biodiversità  indigena
di Paolo Moiola

Sono tempi duri per i
popoli indigeni del Brasile. Le loro terre sono invase o sotto assedio. Le loro
modalità di vita si stanno perdendo o vengono messe in discussione. Difendere i
popoli indigeni significa difendere anche la biodiversità. Al loro fianco, in
una battaglia che pare improba, si sono schierati Laurindo e Gilmara, una
coppia di volontari rispettosa delle diversità, competente e appassionata. Ecco
cosa ci hanno raccontato.

Tabatinga. Gilmara Feandes e Laurindo Lazzaretti sono una di quelle coppie che ti
fanno dire: «Si sono trovati». Tanta è la complicità, il desiderio di camminare
assieme verso una meta comune: la difesa dei popoli indigeni e delle loro
modalità di vita. Hanno chiamato il loro figlio – oggi ha un anno – Giovani
Kamuu, dove la seconda parola significa «sole» in lingua wapixana. Dopo varie
esperienze a Roraima, Gilmara e Laurindo ora lavorano con il Conselho
indigenista missionário
(Cimi) nella Vale do Javari, una terra indigena
abitata da vari popoli: Matsés, Matis, Kulina-Pano, Korubo, Marubo, Kanamari e
anche alcune etnie isolate.

Secondo voi, in Amazzonia quali sono i
maggiori pericoli per la biodiversità?

«La domanda
mondiale di beni naturali, le cosiddette materie prime, fa sì che l’Amazzonia
sia vista come una grande fonte di guadagni. L’intervento umano per l’apertura
di strade, la fondazione di centri urbani, la costruzione di enormi dighe per
la produzione di energia elettrica, la sfrenata ricerca di minerali di tutti i
tipi, l’occupazione di spazi per la produzione di alimenti destinati al mercato
mondiale rappresentano una grande minaccia per i differenti biomi dell’Amazzonia.
È necessario trovare modalità diverse d’azione altrimenti tutto è a rischio, a
iniziare dalla stessa sopravvivenza della specie umana».

È giusto affermare che i popoli indigeni
sono i primi difensori della biodiversità? E che, proteggendo le loro caratteristiche
esistenziali, si difende al tempo stesso la biodiversità?

«Per i popoli
indigeni i fiumi, i laghi, le montagne, le pietre hanno vita. La foresta è
piena di spiriti della vita. Difendere questo spazio sacro significa dunque
difendere la continuità dell’esistenza.

Le vite degli
animali della foresta, di pesci e tartarughe nei fiumi e nei laghi sono
sinonimo di più vita umana. La morte o la scomparsa di altre specie significa
mettere a rischio anche la vita umana e l’esistenza di un popolo. Per i popoli
indigeni la vita umana è inconcepibile senza la diversità di altre vite attorno
a essa. Per loro è vitale e unico difendere la biodiversità, perché è la
garanzia per continuare a esistere sulla terra.

Ci sono popoli
che sono stati sradicati dal loro ambiente e adesso vagano da un luogo a un
altro, senza meta, senza gioia, senza speranza. Altri hanno dovuto adattarsi
per sopravvivere. Tutti hanno in comune il sogno di tornare un giorno nella
loro terra promessa dove c’è vita in abbondanza. Possiamo qui ricordare la
tristissima vicenda dei Guarani Kaiowá, che sono stati espulsi dalle loro
terre, in cui abitavano lungo la costa del Brasile e nella parte centrale. Oggi
vivono in campi ai margini delle autostrade (è l’etnia indigena con il più
alto tasso di suicidio, ndr
)».

Sembra che i governi Lula e Dilma abbiano
lavorato per favorire l’agrobusiness (soia, allevamenti, piantagioni, ecc.) e
lo sfruttamento delle risorse naturali (foreste, sottosuolo, ecc.) a discapito
degli ecosistemi e dei diritti dei popoli indigeni. Qual è la vostra opinione
al riguardo?

«Noi avevamo
una grande speranza nella piattaforma di governo del Partito dei lavoratori (Partido
dos trabalhadores
, Pt). I valori fondamentali erano l’eguaglianza delle
opportunità e la lotta alle disparità che rendono i ricchi sempre più ricchi e
i poveri sempre più poveri.

Il Brasile
usciva da governi per i quali le privatizzazioni rappresentavano l’unica
opzione di politica economica. In quel contesto aveva assunto il comando del
paese prima il governo Lula (dal 2003 al 2010) e poi Dilma (dal 2011).
Molte cose buone sono state fatte, ma davanti alle ingiustizie dei grandi
capitalisti ci sono state troppe battute d’arresto. In nome della governabilità
sono stati concessi spazi ancora più vantaggiosi alle grandi imprese. In nome
di una certa idea di sviluppo finiscono per aprire spazi nella legislazione a
imprenditori che non si fermano davanti agli ecosistemi, spinti come sono
dall’unico desiderio di massimizzare i loro profitti. Pressioni inteazionali
e dell’oligarchia nazionale rendono il governo debole, non rappresentativo e
sempre coinvolto in scandali. Questa posizione fa sì che le classi più
svantaggiate si sentano di nuovo completamente impotenti. La grande delusione,
quindi, nasce dal fatto che il partito e i suoi eletti non hanno risposto alle
aspettative. Per esempio, realizzare finalmente la tanto attesa riforma agraria
e garantire i diritti alle popolazioni indigene di questo paese. Purtroppo,
niente di tutto questo accadrà e quindi dovremo continuare a lottare e a
sognare.

Oggi il
governo Dilma è fortemente legato ai gruppi agricoli, ai grandi proprietari
terrieri e ai produttori di monocoltura, come dimostra il curriculum della
nuova ministra dell’agricoltura (la latifondista Kátia Abreu, ndr).
Contando i parlamentari evangelici, la camera e il senato federale sono in mano
ai rappresentanti dei gruppi politici ed economici che vedono i popoli indigeni
e le loro terre come un ostacolo allo sviluppo del Brasile. Nel corso degli
ultimi quattro anni, grandi lotte sono state combattute in campo legislativo e
giudiziario per abbattere o quantomeno ridurre i principali diritti dei popoli
indigeni, come ad esempio la garanzia sulle proprie terre.

La
Costituzione federale ha festeggiato il suo 27mo anno di promulgazione: con
essa, nel 1988, i popoli indigeni cominciarono a essere riconosciuti (articolo
231). È proprio per difendere quanto conquistato che oggi il movimento indigeno
si è organizzato e unito nella lotta».

Dire che l’invasione fisica e culturale dei
bianchi è passata anche attraverso un uso distorto della religione è
un’affermazione veritiera?

«Qualsiasi
presenza religiosa che non riconosca e non rispetti le modalità di vita dei
popoli indigeni è nociva. In molti hanno eliminato simboli religiosi, credenze
profonde, luoghi sacri, lasciando i popoli indigeni in un vuoto esistenziale
che li ha spesso condotti ai bordi delle strade o delle discariche, o nelle
periferie delle città. Gli evangelici sono i primi responsabili, ma in passato lo
hanno fatto anche molti cattolici».

Voi lavorate con il Cimi, un’istituzione
della chiesa cattolica brasiliana molto nota per la sua combattività. Per
evitare gli errori del passato, in che modo vi relazionate con i popoli
indigeni?

«Oggi la
chiesa cattolica e il Cimi lavorano per la formazione delle coscienze, per il
rispetto della diversità della vita sulla terra e per la costruzione dei
diritti in uno stato rappresentativo e rispettoso. Noi lavoriamo anche per
organizzare la speranza e per non lasciare che le forze che distruggono la vita
prevalgano sul bene.

In
particolare, nel nostro servizio ai popoli indigeni, noi cerchiamo di
sviluppare un dialogo interreligioso, di rispetto e valorizazione dei costumi,
di promozione della dignità, dell’autonomia e del protagonismo dei popoli
indigeni affinché essi siano soggetti della loro storia.

Continueremo a
essere una voce che grida nel deserto o nel mezzo della foresta. Per dire che
l’ultima parola non è quella del mercato che tutto trasforma in merce o quella
dei prepotenti che vogliono dominare su tutto e tutti. La nostra meta è la vita
nel senso più ampio, completo e profondo. In una parola, il Bem viver».

Se ragioniamo però facendo prevalere il
pessimismo, il «Bem viver» pare soltanto uno slogan, magari bello e romantico
ma sempre slogan. Un po’ come «Um outro mundo é possível» dei Forum sociali
mondiali. Che potete dire al riguardo?

«Il Bem
viver
è una proposta di vita presente in ciascun popolo indigeno. In essa
si ritrovano lingua, credenze, costumi, organizzazione sociale, consonanza con
la biodiversità.

Con la sua
prepotenza e il suo desiderio di universalità, il progetto economico
capitalista introduce nelle altre culture concetti e modi di vita estranei a
quelle popolazioni, rompendo l’armonia. Cercare il Bem viver significa
riprendere le vere tradizioni spirituali, economiche e organizzative.

Secondo noi,
il Bem viver sarà la salvezza dell’umanità, del pianeta terra, della
biodiversità». •


 

Aree protette e
popoli indigeni

3. I parchi hanno
bisogno
dei Popoli

di Francesca Casella
(Survival Inteational)*

In nome della
«conservazione», molti popoli indigeni sono stati sfrattati da aree naturali di
cui da sempre sono i migliori custodi. Si tratta di una scelta profondamente
sbagliata: per i popoli e per l’ambiente.

Quasi tutte le aree protette del
mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le
terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel
nome della «conservazione». Questi sfratti possono distruggere sia la vita dei
popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per
generazioni.

Spesso, le terre indigene sono
erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le
hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree
di cosiddetta wildeess, governi, società, associazioni e altre
componenti dell’industria della conservazione si adoperano per fae «zone
inviolate», libere dalla presenza umana.

Per i popoli indigeni, lo sfratto
può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono
l’autosufficienza. E mentre prima prosperavano, spesso si ritrovano poi a
vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di
reinsediamento. Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani
indigeni, inoltre, anche l’ambiente può finire per soffrire perché il
bracconaggio, lo sfruttamento eccessivo delle risorse e i grandi incendi
aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.

Con la campagna Parks Need
Peoples
, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni

Survival Inteational denuncia il lato oscuro della
conservazione e spiega perché parchi e riserve hanno bisogno dei popoli
indigeni oggi più che mai.

 

Contro
i «selvaggi»

L’idea di preservare le aree di wildeess
attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX
secolo. Si fondava su una lettura arrogante della terra che mancava
completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmarla
e alimentarla. La convinzione era quella che a sapere cosa fare per il bene
dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il
diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano. A promuovere
questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Usa Theodore
Roosevelt (1858-1919), secondo il quale «la più giusta fra tutte le guerre è
quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e
disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende
l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti… È d’importanza
incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro
proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle
razze dominanti a livello mondiale».

Il primo parco nazionale della
storia è stato quello di Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel
1872, ai nativi che vi vivevano da secoli fu inizialmente permesso di restare,
ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra
le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In
una sola e singola battaglia si dice siano morte 300 persone. Dettagli storici
come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del
parco. Tuttavia, tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è
diventato consuetudine in tutto il mondo e la visione di Roosevelt continua a
influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti
devastanti non soltanto per i popoli indigeni, ma anche per la natura. In
un’intervista rilasciata nel 2003, Mike Fay, un influente ecologista della Wildlife
Conservation Society
(www.wcs.org), dichiarava: «Nel 1907, quando gli Stati
Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino
del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di
aree protette facendone un pilastro della sua [politica intea]… In pratica,
il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il
modello statunitense in Africa». E se qualcuno fosse tentato di pensare che in
questo processo non si siano ripetuti gli eccessi che hanno flagellato i popoli
del Nord America, gli basterà una rapida scorsa alla storia recente di
persecuzione delle tribù pigmee dell’Africa Centrale per cambiare idea. A mero
titolo d’esempio, tra gli anni ’60 e ’80 le autorità congolesi hanno espulso almeno 6mila Batwa
dal «Kahuzi-Biega National Park». Un rapporto suggerisce che la metà di queste
persone sia morta in seguito agli sfratti, mentre i sopravvissuti versano in
cattive condizioni di salute (A. K. Barume, Heading Towards Extinction?, 2000).

 

DallAsia
all
Africa, laltra
faccia delle aree protette

Nel mondo esistono oggi oltre
120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa. Anche se è impossibile
fare stime precise, le persone che sono state sfrattate dalle loro case nel
nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto,
sono molti milioni. La maggior parte sono popoli tribali.

Le aree protette si differenziano
per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle
risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli
tribali devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i
territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta
che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.

Un caso esemplare è quello dei
Wanniyala-Aetto dello Sri Lanka, conosciuti anche con il nome di Vedda. Nel 1983,
i Wanniyala-Aetto, o «popolo della foresta», furono sfrattati dalla loro patria
che oggi prende il nome di Maduru Oya National Park. La tribù aveva già subito
ingenti perdite di terra a causa di dighe, coloni e deforestazione: il Maduru
Oya era il loro ultimo rifugio. Una volta estromessi dalla foresta dovettero
cambiare tutto, dal modo di vestirsi a quello di vivere, e furono costretti a
conformarsi alla società dominante, mentre i loro vicini e le autorità li
trattavano come «demoni» e «primitivi». La loro autosufficienza, legata alle
foreste, è andata perduta e oggi stentano a sopravvivere alla povertà e a tutti
i problemi ad essa connessi.

Poche comunità sono disposte a
rinunciare volontariamente a tutto il loro mondo per far spazio ai parchi. Ma
quando resistono, le conseguenze sono gravi. Ovunque, i popoli indigeni
denunciano pestaggi, arresti arbitrari, persecuzioni e persino torture.

Nelle terre dei Baka del Camerun
sudorientale sono state istituite alcune aree protette – comprendenti sia
parchi nazionali sia riserve di caccia sportiva – senza il loro consenso. Le
eco-guardie, in parte finanziate dal «Fondo mondiale per la natura» (Wwf) e dal
governo tedesco, non permettono ai Baka di praticare la caccia e la raccolta
nelle foreste che un tempo erano la loro casa, o addirittura di entrarvi.

Le eco-guardie, talvolta
accompagnate da personale militare, minacciano, arrestano e picchiano uomini,
donne e addirittura i bambini baka accusandoli di bracconaggio. Interi villaggi
sono stati rasi al suolo e molte persone baka sono state torturate. Secondo
varie testimonianze, anche fino a morie.

Nel maggio 2013, la Commissione
nazionale del Camerun per i diritti umani e la Fusion-Nature hanno
denunciato un raid anti-bracconaggio durante il quale sono stati torturati
dieci Baka, uomini e donne. Mancando strumenti concreti a difesa dei Baka,
nella maggior parte dei casi le eco-guardie possono agire impunemente.

Oltre ad avere l’effetto di
alienarsi le popolazioni locali, questa gestione militarizzata dei programmi di
conservazione non riesce a contrastare le cause politiche del mercato della
selvaggina e la corruzione che spesso lo sorreggono. Il bracconaggio
finalizzato al commercio della carne è organizzato da un network che include
personaggi influenti, che spesso usano il loro potere per mantenere i loro
circuiti di traffico liberi dai controlli. Benché esistano organizzazioni che
lottano contro il bracconaggio dei «colletti bianchi», l’obiettivo principale
delle eco-guardie rimangono le popolazioni locali. Essendo i meno potenti, i
Baka sono quelli colpiti più duramente.

Drammatica anche la situazione dei
Boscimani del Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano
cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette
ad abbandonare questo stile di vita, ma la «Central Kalahari Game Reserve» del
Botswana è ancora la casa degli ultimi Boscimani a vivere in gran parte di
caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta
Corte ha confermato il loro diritto di vivere e cacciare nella riserva.

Nonostante la sentenza dell’Alta
Corte, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della
tribù nemmeno una singola licenza. Di conseguenza, la caccia di sussistenza
praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A
decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro
famiglie.

Survival riceve segnalazioni di
Boscimani torturati sin dagli anni ‘90 e recentemente ha pubblicato un rapporto
che documenta più di 200 casi di abusi violenti registrati tra il 1992 e il
2014, tra cui un Boscimane morto a seguito delle torture e un bambino ferito
allo stomaco da un colpo di pistola dopo che il padre si era rifiutato di far
entrare la polizia nella sua capanna senza un mandato. Nel 2012, due Boscimani
sopravvissero alle torture inflitte loro delle guardie del parco perché avevano
ucciso un’antilope. Pare che uno dei due uomini, Nkemetse Motsoko, rischiò di morire
quando la polizia lo prese alla gola per soffocarlo, e lo seppellì vivo. Nel
2014 si è verificato un altro terribile attacco. «Mentre mi aggredivano – ha
raccontato Mogolodi Moeti a Survival – mi dissero che persino il presidente
sapeva quel che stava succedendo, che potevano uccidermi senza essere accusati
di nulla, perché quello che mi stavano facendo era per ordine del governo. Mi
dissero che volevano usarmi come esempio, per dissuadere gli altri dal
ritornare nella Central Kalahari Game Reserve e mancare di rispetto al governo».

Il diritto dei Boscimani del
Kalahari a cacciare per nutrirsi è un diritto umano fondamentale e il
comportamento del governo è stato duramente criticato da varie istituzioni
inteazionali tra cui l’Onu e la Commissione africana per i diritti umani e
dei popoli. Ciò nonostante, recentemente il presidente Khama ha anche vietato,
illegalmente, la caccia in tutto il paese a eccezione, però, che per i ricchi
cacciatori di trofei. Continua a giustificare la persecuzione di questo popolo
unico nel nome della «conservazione», ma allo stesso tempo permette
l’estrazione di diamanti e il fracking (modalità di estrazione di
idrocarburi dalle rocce, ndr) nella riserva, creata nel 1961 come «santuario»
proprio per permettere ai Boscimani di mantenere il loro stile di vita. Non
avendo alcuna possibilità di procurarsi cibo nella terra ancestrale, molti sono
costretti a vivere nei campi di «reinsendiamento» governativi, da loro definiti
come «luoghi di morte».

Una situazione inaccettabile e paradossale
se si pensa che, per stessa ammissione dei funzionari governativi, i Boscimani
non cacciano con armi, e non esistono prove che il loro modo di cacciare non
sia sostenibile. Anzi, come la maggior parte dei popoli indigeni del mondo, i
Boscimani sono più motivati di chiunque altro a proteggere l’ambiente che
abitano da tempo immemorabile.

E devono farlo: per vivere e
prosperare dipendono da esso.

 

Dove
sta la biodiversità

Se l’80% della biodiversità
terreste si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande
maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terra indigena, non è
un caso. Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che
abitano e amano, i popoli tribali hanno contribuito direttamente all’altissima diversità
di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni. Ma i popoli indigeni
sono anche i migliori custodi del mondo naturale. In Amazzonia, per esempio,
studi scientifici dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto
dell’Amazzonia brasiliana, costituiscono una barriera estremamente efficace
alla deforestazione e agli incendi. Le immagini satellitari sono
impressionanti: in molti casi la deforestazione si ferma esattamente là dove
iniziano le aree indigene. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia
boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie,
e in Guatemala (venti volte minore). I popoli indigeni conoscono la loro terra
intimamente.

«Non stiamo rispolverando il mito
del buon selvaggio. Non stiamo dicendo che i popoli indigeni siano tutti
eccellenti custodi delle loro terre – puntualizza Stephen Corry, direttore
generale di Survival -. Quello che sosteniamo, dopo un’attenta valutazione
delle prove, è che in generale loro sappiano conservare i loro ambienti meglio
di quanto abbiamo mai fatto noi». È un dato di fatto. Nel corso di generazioni
hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna
autoctone, nonché delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i
più efficienti ed efficaci manager delle loro terre. Questa tesi è sostenuta
oggi anche da alcune organizzazioni responsabili dello sfratto dei popoli
indigeni. La Banca Mondiale è stata una delle istituzioni più distruttive degli
ultimi decenni, eppure uno dei suoi studi dimostra che nei luoghi in cui vivono
i popoli indigeni, la deforestazione è minore. Il Wwf afferma che l’80% delle «ecoregioni»
più ricche del pianeta sono la casa dei popoli indigeni e che questo «testimonia
l’efficacia dei sistemi di gestione delle risorse adottati dagli indigeni».

È dunque tempo di mettere fine alle
gravi violazioni dei diritti umani compiute nel nome dell’ambiente, e fare in
modo che i diritti dei popoli indigeni, incluso quello di consultazione, siano
pienamente rispettati così come sancito anche dall’Onu e da molti codici di
condotta adottati, in linea teorica, dalle stesse associazioni
conservazioniste, ma spesso del tutto ignorati o raggirati nella pratica. Se si
vuole realmente proteggere l’ambiente, si devono esplorare soluzioni innovative
fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo quello alla
proprietà collettiva della terra e quello a proteggere e alimentare le terre
natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione
delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti e
aiutati a confermarsi come i migliori guardiani delle loro terre e, di
conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo. •


 

 

4. La voce delle imprese
idroelettriche (Uhe)

«Stiamo lavorando per
voi»

Itaipu è la seconda centrale idroelettrica al mondo. Belo
Monte sarà la terza. Il Brasile (come altri paesi) vuole sfruttare le risorse
idriche dell’Amazzonia per produrre energia. Il futuro della produzione
dell’energia dai fiumi non risiede però nei grandi progetti, ma in impianti di
piccole dimensioni, meno dannosi dal punto di vista umano e ambientale.

Manaus. «Nella regione della centrale di Belo Monte abbiamo
già investito 2 miliardi (di reais, circa 570 milioni di euro, ndr) in progetti
socioambientali». Alcuni numeri: «90% di riduzione dei casi di malaria nella
regione del Xingu, 205 milioni investiti nelle comunità indigene, 26 mila
ettari di area di preservazione o recupero ambientale, 27 punti di salute, 3
ospedali, 458 milioni investiti in strutture fognarie, 95 milioni in azioni per
rafforzare la sicurezza nella regione del Xingu». E ancora: «Andremo a generare
energia pulita e rinnovabile con rispetto dell’ambiente e delle persone. Belo
Monte è un esempio di sviluppo sostenibile per il mondo». Essere d’accordo con
queste affermazioni risulta impossibile, ma sono alcuni stralci di una pagina
pubblicitaria inserita in una rivista brasiliana e firmata da Norte Energia, il
consorzio di imprese pubbliche e private che sta costruendo una centrale
destinata a diventare la terza al mondo, dopo quella cinese delle Tre gole e
quella brasiliana di Itaipu.

La centrale di Itaipu, situata sul fiume Paraná, al confine
tra Paraguay e Brasile, è in funzione dal 1984. Sul proprio sito, l’impresa si
vanta di essere la più grande produttrice di energia pulita e rinnovabile del
pianeta.

Al Forum di Manaus incontriamo Jair Kotz, responsabile della
gestione ambientale di Itaipu e gerente esecutivo del programma Cultivando Agua
Boa.

Ci racconti in due
parole le dimensioni di Itaipu.

«Itaipu genera il 20 per cento della energia consumata dal
Brasile e il 95 per cento di quella consumata in Paraguay. Fino al 2013 era il
più grande produttore di energia elettrica del mondo».

Perché un’impresa
idroelettrica come la vostra ha deciso di presenziare a un evento come il Forum
sulla biodiversità?

«Siamo qui perché dal 2003 stiamo portando avanti un
progetto di sviluppo territoriale sostenibile che ha l’acqua come elemento
centrale. Il progetto include 65 azioni su tutto il territorio e coinvolge
tutta la gente che su quel territorio vive. Esso tocca ogni tipo di aspetto:
economico, sociale, culturale, ambientale e ovviamente quello della
biodiversità».

In Brasile, ovunque
ci siano progetti di centrali idroelettriche, ci sono proteste, in particolare
da parte dei popoli indigeni.

«Secondo una nostra inchiesta dell’anno scorso, il 95% delle
persone del territorio in cui operiamo considera Itaipu essenziale per lo
sviluppo della regione. Si tratta della prova che un’impresa può e deve essere
strategica per il luogo dove va ad operare. Può e deve portare benefici per le
persone che vi abitano, siano esse brasiliane, giapponesi, italiane o indigene.
Noi lo abbiamo fatto attraverso Cultivando Agua Boa».

Produzione e ambiente
possono coesistere?

«Noi pensiamo che sia possibile conciliare la produzione di
energia con le esigenze di preservazione ambientale. Una volta si riteneva che
l’ambiente fosse un nemico dello sviluppo. Oggi la visione è cambiata:
l’ambiente è essenziale per la sostenibilità di oggi e di domani».

Perché prevale sempre
e comunque lo stesso modello di sviluppo?

«Noi abbiamo invitato a parlare personaggi come Leonardo
Boff (teologo ed ecologista, ndr).
Per noi discutere il modello è fondamentale. Lo dimostra il fatto che abbiamo
introdotto nel dibattito temi quali il cambio climatico e la “felicità intea
lorda”».

Se i progetti socioambientali attuati nell’ambito del
programma Cultivando Agua Boa sembrano interessanti (non abbiamo però avuto
modo di verificarli sul campo), non possiamo dimenticare alcuni fatti storici.

Per esempio che, per costruire Itaipu, furono sacrificate le
cascate di Guaira, considerate le maggiori del mondo per portata d’acqua, e
obbligate al trasferimento decine di comunità guarani, mai indennizzate.
D’altra parte, oggigiorno anche la comunità scientifica internazionale è concorde
nell’affermare che il futuro per l’energia idroelettrica risiede in impianti di
piccole dimensioni. Troppe infatti sono le conseguenze negative prodotte dalle
grandi dighe sulle persone e sull’ambiente. Forse il governo di Brasilia
dovrebbe capire che è giunto il tempo di tornare al dialogo, mettendo da parte
prepotenza e arroganza.

Paolo Moiola


 

22 maggio: «Giornata
mondiale della biodiversità»

5. Lince pardina chiama
tonno rosso

Mai come oggi la diversità biologica del pianeta è stata in
pericolo. La globalizzazione mercantilista ha aumentato a dismisura i fattori
di pressione. Gli stessi che minacciano la diversità culturale. In un caso e
nell’altro, si dimentica che la diversità è ricchezza.

Pare che della lince pardina rimangano circa 150 esemplari,
della foca monaca 350-450 (Commissione europea, Natura 2000), dei gorilla di
montagna 880 (Wwf, Living Planet). Per salvare queste specie animali una
persona comune può al massimo aderire a qualche campagna internazionale. In
generale, se si ha a cuore la biodiversità, esistono però anche ambiti d’azione
più diretti. Il tonno rosso, pescato anche nel mar Adriatico, è un pesce in
pericolo d’estinzione. Non richiederlo nei ristoranti di sushi che lo offrono
(soltanto i più esclusivi, considerato il costo del piatto) è un gesto di
protesta piccolo ma significativo. Stessi problemi vigono per le piante. In
Europa si sta assistendo alla progressiva riduzione della diversità vegetale.

Questi sono soltanto alcuni esempi di biodiversità in
pericolo. Per rendersi conto dell’entità del problema è sufficiente visitare il
sito dell’«Unione internazionale per la conservazione della natura»
(www.iucn.org). L’organizzazione pubblica regolarmente una «lista rossa» delle
specie minacciate, divisa in 9 categorie a seconda della portata del rischio
d’estinzione.

Una definizione e
qualche numero

Una prima definizione di biodiversità viene dall’etimologia
del termine: biodiversità è «diversità della vita». Secondo l’articolo 2 della
«Convenzione sulla diversità biologica», firmata (da quasi tutti i paesi) a Rio
de Janeiro nel 1992, la biodiversità include gli organismi viventi di ogni
origine (animali, piante, microrganismi, geni in essi contenuti), ma anche le
differenze tra individui della medesima specie e tra gli ecosistemi. Gli
scienziati hanno fino a oggi catalogato circa 1.900.000 specie viventi diverse.
Si ritiene però che il loro numero effettivo sia molto superiore: ci sono stime
che indicano in 100 milioni gli organismi viventi.

La biodiversità consente la vita umana. Da essa dipendono
infatti il cibo, l’energia, i medicinali, le materie prime: tutto ciò che ci
permette di vivere. Eppure il tasso d’estinzione delle specie è in continuo
aumento. Detta in altri termini, oggi la biodiversità si riduce a un ritmo ben
più elevato del normale tasso d’estinzione.

 

I fattori di
distruzione

Esistono diversi fattori che determinano – da soli o più
spesso in combinazione – la perdita di biodiversità. I ricercatori del Living
Planet Index hanno individuato 7 minacce principali: il degrado e la perdita
degli habitat, lo sfruttamento attraverso caccia e pesca indiscriminate, il
cambiamento climatico, l’introduzione e la diffusione di specie aliene,
l’inquinamento, le malattie.

L’esempio più eclatante di degrado o perdita di habitat
riguarda le foreste tropicali, localizzate soprattutto in Indonesia, Congo e
Amazzonia (Brasile, in primis). La
distruzione di queste foreste per fare posto a monocolture (soprattutto di
soia), per prelevare legname o minerali, per allevare bestiame o per costruire
dighe, produce enormi perdite di biodiversità di cui queste aree sono molto
ricche. «Il danno non si limita alla sola perdita di biodiversità. A?causa
della distruzione delle foreste si liberano in atmosfera enormi quantità di
gas-serra, responsabili del riscaldamento globale» (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale).

Altro fattore di distruzione è l’introduzione di specie
aliene (alloctone), che entrano in competizione con quelle autoctone e che
possono diffondere patologie sconosciute. È importante ad esempio ricordare che
le foreste native (con i loro serbatorni di biodiversità) non potranno mai essere
recuperate con piantagioni di Eucalyptus grandis o di Acacia mangium: «green
deserts», le chiama Rainforest News, l’organizzazione internazionale di
salvaguardia delle foreste.

Negli ultimi anni hanno assunto sempre più importanza i
cambiamenti climatici in tutte le loro manifestazioni: aumento delle
temperature medie, alterazione del regime delle piogge, innalzamento del
livello dei mari, scioglimento dei ghiacciai, maggiore frequenza di eventi
estremi (alluvioni, siccità, cicloni, ecc.). Le mutate condizioni climatiche
stanno producendo importanti effetti su animali, vegetali ed ecosistemi. «La
rondine anticipa la data media di arrivo alle nostre latitudini», ma
soprattutto in Europa, negli ultimi 10 anni, è diminuita del 40% (Lipu-BirdLife).
Quanto alle piante: «Alcune specie di salice presenti sulle Alpi stanno
conquistando fasce altitudinali mai colonizzate in precedenza» (Lipu,
Cambiamenti climatici e biodiversità).

L’altra diversità

«La diversità culturale è, per il genere umano, necessaria
quanto la biodiversità per qualsiasi forma di vita». Così afferma l’articolo 1
della «Dichiarazione universale sulla diversità culturale», adottata
dall’Unesco nel 2001. E seguita, nel 2005, dalla «Convenzione per la protezione
e la promozione delle espressioni culturali» che tra l’altro riconosce
«l’importanza del sapere tradizionale, in particolare per quanto riguarda i
sistemi di conoscenze dei popoli indigeni».

La relazione tra diversità biologica e diversità culturale è
analizzata da Vandana Shiva. «La diversità biologica  – scrive la nota scienziata indiana (spesso
oggetto di attacchi a causa della sua battaglia contro gli Ogm) – ha plasmato
le diverse culture del mondo. L’erosione della diversità biologica e l’erosione
della diversità culturale costituiscono le due facce di un unico problema.
Entrambe sono minacciate dalla globalizzazione di una cultura industriale
basata su conoscenze riduzionistiche, su tecnologie meccanicistiche e sulla
mercificazione delle risorse».

Paolo Moiola
 

Tags: biodiversità, popoli indigeni, ambiente, Amazzonia, foreste, parchi, conservazione

Paolo Moiola e Francesca Casella




Martiri: Il Sale non ha perso sapore

 

In questi primi giorni di aprile tutto
e tutti parlano del massacro dei cristiani nel mondo. Pur con mille distinguo.
L’eccidio di Garissa, in Kenya, sembra aver fatto traboccare il vaso. Perfino
papa Francesco ha ripetutamente richiamato le nazioni con toni più duri del
solito. Due pesi e due misure: è l’accusa più comune soprattutto ai governi
occidentali. Grande partecipazione e mobilitazione per i tristi fatti di
Parigi, indifferenza e silenzio invece per le vittime di Garissa, Damasco,
Lahore, Mogadiscio, Bangui, Iraq, Nigeria. … Non voglio perdermi nei meandri
di una casistica infinita.

Due fatti mi hanno colpito in modo particolare: la coincidenza
(voluta?) con la Pasqua e con il centenario del «Grande Male», cioè la mattanza
di oltre un milione di Armeni cristiani in Turchia che ha visto il suo picco a
partire dal 24 aprile 1915.

È verissimo ciò da più parti
viene ribadito con insistenza, non è in atto una guerra di religione, non è
Islam contro Cristianesimo. Le cause di tutto questo vanno ricercate
nell’arbitraria divisione del mondo dopo la prima guerra mondiale, nella
tutt’altro che santa alleanza tra il capitale petrolifero e la casa di Saud,
nella grande bugia interventista a difesa della democrazia, nell’asservimento
della politica al neo liberismo sovranazionale, nell’impoverimento e
schiavizzazione progressiva della maggior parte della popolazione mondiale,
nella corsa agli armamenti e dominio delle lobbies economiche,
nell’ignoranza in cui gran parte dell’umanità è ancora mantenuta, privata anche
di servizi necessari come l’istruzione e la salute, e nell’impotenza delle
istituzioni sovranazionali. Ma è pur vero che il Cristianesimo è diventato il
capro espiatorio di colpe che non sono sue. Poi sul terreno, per i giovani di
Garissa o la gente della Nigeria o della Siria o dell’Iraq, questo poco
importa. Vittime due volte: dell’ingiusto sistema sociale ed economico mondiale
e del fanatismo dei puri che, nuovi veri idolatri, si sono costruiti un dio a
propria immagine e somiglianza.

«Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi», ha detto Gesù (Gv
15,20). L’abbiamo ben visto proprio durante il tempo di preparazione alla Pasqua.
Gesù è stato fatto fuori perché ha presentato un Dio diverso da quello
incasellato negli schemi ufficiali di chi gestiva il potere, un Dio impossibile
da piegare alla loro visione del mondo che professa il Dio della vendetta,
dell’elezione, della potenza, della distruzione dei nemici, del premio ai puri
ed eletti. Forse per alcuni sarà eccessivo scrivere che non c’è differenza tra
l’atteggiamento autogiustificatorio dei farisei e loro accoliti e quello dei
fanatici dello stato islamico. Come non è troppo dire che erano della stessa
pasta i rivoluzionari del Terrore francese, i bolscevichi anticapitalisti della
rivoluzione russa, i Kemalisti turchi intenti al riscatto di una nazione
umiliata, le brigate inteazionali e i franchisti della guerra civile
spagnola, i nazisti di Hitler, i fascisti, i maoisti, i talebani e troppi altri
che sono sicuri di essere gli unici nel giusto.

Gesù è stato ucciso perché
rappresentava la libertà di Dio, un Dio signore dell’uomo e non strumento nelle
mani degli uomini. Un Dio che preferisce i deboli, i peccatori, gli esclusi,
gli scarti, gli orfani e le vedove. Un Dio che apprezza di più un bicchiere
d’acqua dato per amore che i grandi templi luccicanti d’oro. Un Dio che si fa
servo, anzi schiavo. Un Dio che allarga i recinti, che esce incontro, che va a
cercare chi è fuori, diverso, escluso, impuro. Un Dio mite e paziente, che è
perdono, che è inclusivo non esclusivo. Il Dio amore che chiede di amare come
lui ci ha amato, di perdonare i nemici, di fare il bene a coloro che ci odiano,
di essere misericordiosi a misura della sua misericordia. Gesù ha mostrato un
mondo diverso, a misura di Dio.

Di questo Dio sono testimoni i giovani cristiani di Garissa, i caldei
della Siria e dell’Iraq, i copti dell’Egitto, le ragazze rapite della Nigeria,
le Asha Bibi del Pakistan, le Leonella e Annalena della Somalia, gli Oscar
Romero dell’America Latina, i Bakanja del Congo. …

«Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno» (Mt 5,11). Non
c’è da aver paura se oggi le persecuzioni si intensificano. È segno che i Cristiani nel mondo sono
ancora testimoni del vero Dio di Gesù Cristo. Sarebbe molto più preoccupante se
tutti li applaudissero. Forse sarebbe un sintomo che il sale ha perso sapore.

Gigi Anataloni




Cari Missionari

Bufala

Sono un estimatore della vostra rivista perché tratta
sovente articoli di politica ed economia internazionale con grande profondità
ed originalità (es. gli articoli sul mobile money).

Per questo mi ha un po’ colpito che Angela Lano, che
stimo, si sia lasciata ingannare da una bufala che corre su internet da
quest’estate, secondo la quale il proclamato califfo dello stato islamico di
Iraq e Siria, al-Baghdadi, è un agente del Mossad figlio di genitori ebrei
(cfr. articolo sul numero di gennaio-febbraio).

La notizia, non firmata ma probabilmente vergata dal
direttore Gordon Duff, è stata lanciata dal sito neonazista Veterans Today
e ripresa in Italia solo dal sito altrettanto ultraconservatore Apostatisidiventa.
Giova ricordare quanto sia attendibile il sito statunitense, che nel settembre
del 2012 ci informava che la Marina Usa ci stava difendendo segretamente da un
attacco alieno. La fantascienza è un argomento molto usato da Gordon Duff,
secondo cui la cometa Ison era formata da un gruppo di navicelle spaziali
(settembre 2013); d’altronde per sua stessa ammissione, il 40% di quanto
pubblica sulla sua rivista è falso.

Un saluto

Paolo
Macina
Torino, 24/01/2015

Il
riferimento all’ipotesi di al-Baghdadi come agente del Mossad è stato fatto
nell’ambito delle tante e diverse teorie – in una lettura attenta lo si evince
bene -, e dunque non mi sono fatta ingannare da nessuno. Come studiosa e
giornalista ho il dovere di citare tutte le teorie e fonti. Infatti, tra le fonti
non c’è solo Veterans Today, ma anche altri due siti come citato nella
nota n. 10.

Angela Lano
05/02/2015

Nonchalance
Gent.mo Direttore,

sono un abbonato da anni della rivista Missioni
Consolata; ho ritrovato solo oggi la copia del dicembre 2013 che avevo tenuto «troppo»
da parte per scriverle, cosa che faccio solo ora, in merito alla sua risposta
alla lettera «Scriveteci» pubblicata a pag. 5. Il punto interessato, a circa metà pagina di colonna 4,
recitava così: «Che poi ci siano dei missionari che abbiano amato una donna,
generando anche dei figli, non dovrebbe stupire nessuno, eccetto coloro che li
ritengono degli automi programmati e non degli uomini in carne e ossa». Ebbene, io mi ritengo proprio tra coloro che invece si
sono stupiti leggendo questa sua parte di risposta, non ovviamente (riguardo)
all’amare una donna, ma al generare dei figli. Ma ciò che più ancora mi ha
stupito, è la nonchalance con cui è stato scritto, quasi questa
eventualità fosse una normalità e una giustificazione più che doverosamente da
accettare. Per carità, non mi permetterei assolutamente di giudicare nessuno,
sono io il più peccatore di tutti, ma mi ha lasciato molto perplesso quanto ho
letto.
Grato comunque per il lavoro che fanno i missionari nel
mondo e per il suo/vostro lavoro redazionale, porgo distinti saluti.

Elio
Gatti
Trinità CN, 03/02/2015

No,
da parte mia non c’era giustificazione, ma solo comprensione di una realtà
umana molto complessa. In quasi quaranta anni di vita missionaria, ho visto più
di uno dei miei amici – persone anche migliori di me – lasciare il sacerdozio e
la missione per amore di una donna o per senso di responsabilità verso il
figlio da loro concepito. Sono sempre state storie di sofferenza e lacrime,
vissute spesso in solitudine. Solitudine oggettiva, quella fisica data da
ambienti geograficamente e culturalmente isolati dal mondo, e quella
spirituale, causata dalla lontananza dagli amici e dal dito accusatore di
confratelli poco fratelli. In certi casi c’è stata della leggerezza, in altri
solo un momento di debolezza, spesso riscattato dalla scelta responsabile di
dare un padre al nascituro rifiutando soluzioni che sarebbero state più
semplici in accordo con le tradizioni locali.

Il dossier  sull’Isis
Signor Direttore,

abito a Bruxelles, in Belgio, e collaboro gratuitamente
con una rivista francese di dibattito ecclesiale, «Golias», con sede a Lione (http://golias-editions.fr).
Il direttore, Christian Terras, trova che il vostro articolo «Nessuna
compassione per gli “infedeli”» è particolarmente illuminante per evitare
discorsi all’ingrosso, soprattutto dopo gli attentati del 7 e 9 gennaio a
Parigi. Non mancano evidentemente studi francesi sull’Islam, ma Golias
ritiene che il punto di vista del vostro articolo è abbastanza originale (e in
un certo senso profetico, visto che è stato redatto ben prima dei noti
fatti di sangue) rispetto alla valanga di tante altre opinioni espresse in
questo mese di gennaio nella stampa francese.
Per queste ragioni vi chiediamo l’autorizzazione per
pubblicarlo. Contando sulla vostra simpatia, vi ringraziamo anticipatamente.
Cordiali saluti,

Carmine
Casarin
Bruxelles, 29/01/2015

Cibo e violenza

Abbiamo iniziato lunedì 9 febbraio 2015, a leggere nella
celebrazione della messa il libro della Genesi. Il passo di oggi descrive il
quinto, sesto e settimo giorno della creazione (Gn 1,20-2,4a). Secondo il primo
libro della Bibbia il cibo dell’uomo è esclusivamente vegetale (cfr. Gn 1,29);
così pure per gli animali (cfr. Gn 1,30). Dopo il diluvio ci fu la concessione
del cibo carneo a esclusione del sangue animale, poiché il sangue è simbolo di
vita. Gli animali si dividono in: caivori – onnivori – erbivori – scimmie
antropoidi. L’uomo non rientra fisiologicamente e anatomicamente nei  primi
tre grandi insiemi. Egli è assai simile alle scimmie antropoidi il cui cibo
elettivo è: frutta – grani – semi. Un comandamento del decalogo comanda di «non
uccidere»: nel testo è riferito all’uomo. Ma se «Dio è amore» (1Gv 4,8.16) come
mai la violenza dell’uccisione di un animale da parte di un altro animale è
permessa? La scrittrice Annamaria Manzoni, rispondendo al mio interrogativo,
affermò categorica-
mente che nell’uomo c’è libertà (ovvero possibilità di scegliere), mentre
l’animale non umano agisce per istinto. Ma rimango nell’interrogativo del perché
l’esistenza della violenza. La mia risposta: «La vita è un mistero». Come
sostiene il teologo Luigi Lorenzetti, non è indifferente la scelta del cibo da
parte dell’essere umano: mangiare cibi vegetali è certamente meno violento che
consumare cibi frutto di prevaricazione. E gli alimenti vegetali sono
sicuramente portatori di maggiore serenità: tanti uomini illustri come il
Mahatma Gandhi sono stati vegetariani e pacifici. La Bibbia non è certo un
libro di cucina o nutrizione: consumare un alimento o l’altro è frutto di una
scelta, che dovrà essere razionale e responsabile. Per non parlare
dell’abbigliamento: fa freddo; è poi indispensabile coprirsi con pellicce e
montoni? E se il cane è il miglior amico dell’uomo, gli altri animali possono essere
uccisi senza scrupoli?

Stefano
Severoni
Roma, 10/02/2015

Grazie
della sua condivisione con noi. Mi permetto di sottolineare solo due punti.
La
Bibbia è una raccolta di libri molto diversi tra loro che raccontano anzitutto
un’esperienza religiosa. Se è vero che si trovano frasi come quelle da lei
citate a sostegno del vegetarianismo, è anche vero che ce ne sono molte altre
che danno per scontato il consumo di carne. Tutta la struttura dei sacrifici,
dall’agnello pasquale agli olocausti, presuppone che i partecipanti al rito
consumino carne. Come lei giustamente sottolinea, «la Bibbia non è certo un
libro di cucina o nutrizione». E nemmeno un libro di sartoria. A proposito
delle pelli, posso dire di aver visto delle popolazioni che le indossavano
quotidianamente. Era una scelta di necessità causata dall’ambiente difficile,
dallo stile di vita e dall’isolamento. Oggi quella stessa gente usa gli abiti
di pelle solo in occasioni cerimoniali o folkloristiche, mentre normalmente
veste abiti di stoffa (magari usati), ormai venduti anche negli angoli più
remoti. Con gran beneficio dei denti delle loro donne, che un tempo dovevano
masticare le pelli per conciarle.

Quanto
alla violenza, la Bibbia ci dice che è entrata nel mondo con il peccato. È il
mistero della libertà. L’uomo sceglie di fare a meno di Dio. Quando l’uomo (l’adam,
uomo e donna uniti) rifiuta Dio come baricentro delle sue relazioni e pone se
stesso al centro, l’equilibrio delle relazioni salta ed esplode la violenza.
Nel mondo riconciliato nella croce e resurrezione di Gesù, la violenza non
dovrebbe aver più spazio. La comunità cristiana (popolo di Dio, Chiesa)
dovrebbe essere profezia di un mondo riconciliato e in pace. Ecco perché negli
ordini monastici antichi frateità e pace, povertà e vegetarianismo,
contemplazione e obbedienza a Dio viaggiavano insieme.

Parrocchie accorpate

Con la presente Vi preghiamo voler annullare invio della
rivista alle seguenti parrocchie… (ben quattro, ndr). Certi che
comprenderete nella giusta luce quanto richiesto, porgiamo cordiali saluti

La
segreteria (delle 4) Parrocchie
email, 09/01/2015

Questa
email non era per la pubblicazione. Per questo ogni riferimento specifico è
stato omesso. Ho pensato di farla conoscere ai nostri lettori per condividere
alcune considerazioni, poiché ci è chiesto di comprendere «nella giusta luce
quanto richiesto».
Ovviamente
comprendo benissimo la dura realtà dell’accorpamento di parrocchie, risultato
della crisi in atto nella Chiesa italiana (ed europea) che si trova con un
clero in costante diminuzione e sempre più anziano. È la stessa crisi che sta
decimando i missionari italiani nel mondo.
Ma
mi è difficile capire perché cancellare tutte le quattro copie in questione. La
mia illusione è che una rivista mandata a una parrocchia non debba essere solo
per il sacerdote, ma per i fedeli, per il gruppo missionario, per chi ha a
cuore la missione della Chiesa. Senza sacerdote, i laici di quella comunità
dovrebbero sentirsi ancora più missionari e responsabili dell’annuncio del
Vangelo. Una apertura alla missione universale non dovrebbe essere vista come
un rubare forze all’impegno locale di evangelizzazione, ma come un
incoraggiamento.
L’interesse
per la missione universale (quella detta ad gentes) non è un furto di risorse,
una fuga dai problemi o una scusa per non impegnarsi «qui e ora». Da sempre la
Chiesa sa di essere missionaria per sua natura e non invia missionari solo
perché è nell’abbondanza, ma perché sa bene che se non esce da se stessa muore.
La sua fede si mantiene solo donandola, condividendola nell’amore. Papa
Francesco ci ricorda tutto questo con grande forza. Niente di nuovo. Lo ha già
detto il Concilio Vaticano II, cinquant’anni fa. E neanche allora era una novità,
solo una realtà un po’ dimenticata.

Faccia a faccia

Gent.mo Padre,
solo recentemente mi sono accorto della sua risposta alla mia lettera apparsa
sulla rivista di novembre. Mi sono veramente commosso, perché non l’aspettavo
più. Attendevo una risposta per corrispondenza. Nella sua risposta ho notato
una ripetizione nei riguardi di Dio. La prima è quando dice: «Ha preparato i
suoi figli all’incontro: faccia a faccia con Dio». La seconda quando dice: «Dal
momento che la morte è l’ingresso nella visione di Dio, faccia a faccia».

Questi due passaggi io non li condivido, perché:

Giovanni 5,37 recita: «Voi non avete mai sentito la Sua
voce, né visto mai il Suo volto».
Giovanni 1,18: «Nessuno ha mai veduto Dio, l’unigenito
figlio, che è nel seno del Padre, egli stesso (Cristo) ce lo ha fatto conoscere».
Colossesi 1,15: «Egli (Cristo) è l’immagine
dell’invisibile Dio».

Genesi 1,26 (nota in fondo pagina), «Dio non ha corpo».

Complimenti per l’articolo «Una voce in meno» rivista n.
11. Condivido tutto quello che ha scritto. Complimenti. In chiesa vedo un vuoto
dei giovani. Alla messa festiva, ove presenziano circa 200 persone, mancano i
fedeli di età inferiore ai 30-40 anni e di conseguenza ci sono i bambini. «È
triste», le persone assistono alla Messa in modo superficiale. Giunga a lei, a
don Farinella e ai suoi collaboratori, un cordiale e sincero saluto.

Guido
Dal Toso,
lettera da Somma Lombardo (VA), 23/01/2015

Caro
Sig. Guido,
pubblico con piacere la sua seconda lettera, scritta a mano in un bel corsivo
che ormai si vede sempre più raramente. Mi scusi se ho tagliato molte delle
cose che mi ha raccontato e non le ho risposto personalmente. Le lettere che
riceviamo sono normalmente considerate per queste pagine.
Riguardo
al «faccia a faccia» è certamente un’espressione inadeguata per esprimere un
mistero, ma il bello della Sacra Scrittura è che Dio ha scelto di parlare agli
uomini di sé usando il nostro limitato linguaggio, pur senza lasciarsi esaurire
dallo stesso. «Quando vedrò il tuo volto?», supplica l’orante nel salmo 41.
Certamente con la morte, non più limitati da questa corporeità, potremo «vedere
Dio faccia a faccia», godere cioè della sua conoscenza (amore) pieno, totale e
senza veli. È un linguaggio umano, è vero, ma noi non sappiamo esprimerci in
altro modo. Per questo Dio si è «abbassato» al nostro livello, mandando il suo
Figlio prediletto per rivelarci il suo vero volto di Amore.

Caselli

Gentili Direttore e Collaboratori vari della bella
rivista MC,
da tanti anni la leggo – ora un po’ meno – con i miei 80
anni. (Quello che) desidero ancora è vedere il carcere, incontrare i detenuti e
tutto quanto compete. È diventato la mia casa, la mia grande famiglia, è un
momento di relazioni e incontri con tanti detenuti e i loro cari, quando è
possibile.

Vado due volte alla settimana per i colloqui personali
con i detenuti ed alle ore 16,00 per la messa. Prego ed offro la mia vita con
tutti i miei limiti. Prego, ma soprattutto ci sono tante persone che pregano
per me, per il carcere di Cuneo. Sono, siamo in comunicazione di amicizia con
cinque monasteri di clausura e con le mie consorelle e tante persone buone.
L’anno scorso ho incontrato circa 350 diverse persone, ho fatto oltre 1.300
colloqui. Le manderò una relazione annuale e qualcosa di relativo a questo
campo. Preghi anche per me e quanti incontro. Grazie. Lascio una lettera per il
Procuratore Caselli Giancarlo. Lo conosco da 16 anni, sempre per carcere e
dintorni. Non ho un recapito, ora che non è più in Procura. Grazie tanto.

Suor
Elsa Caterina,
Cuneo, 08/01/2015

I dannati di
Atene,

gli eroi del
Lussemburgo e l’eroina di Berlino

Spero che il giudice Caselli scriva ancora tanti articoli
su MC perché quello della legalità è un concetto che va approfondito.

Per me che sono credente legalità significa innanzitutto
rispetto della legge naturale, quella del Vangelo, quella della Bibbia, quella
della Chiesa, quella di Papa Francesco, ma siccome sono anche italiano
significa anche rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana.

Ora certe leggi, certe regole, certi patti, certi
impegni, dai quali i nostri governanti dicono di non poter assolutamente
derogare mal si conciliano con la nostra Costituzione.

Non passa giorno che la Commissione Europea non minacci
sanzioni contro i paesi come l’Italia, non passa giorno che i nostri politici
non discutano di riforme, non passa giorno che non si parli di spread con i
bund tedeschi, di crescita, di rispetto dei parametri di Maastricht, di Grecia
sull’orlo del disastro. Dopo la vittoria di Tsipras, dopo la sua decisione di
riassumere una parte di coloro che erano stati licenziati, di ridare la
tredicesima ai pensionati che se l’erano vista sottrarre dalle riforme di
Samaras, di innalzare le pensioni minime, il Presidente della Commissione
Europea J.C. Juncker, in perfetta sintonia con la signora Merkel, Schaeuble,
Weidmann, Katainen & C, ha subito minacciato: «Tsipras ci rispetti, la
Grecia non può derogare dagli impegni presi».

Neanche due mesi prima però lo stesso Juncker, che è
stato Primo Ministro del Lussemburgo per ben 18 anni, a chi gli faceva notare
che nel suo paese le multinazionali avevano pagato e continuavano a pagare solo
l’1% di tasse sui profitti d’impresa rispondeva: «Tutto regolare, tutto legale,
non c’è evasione».

La domanda che faccio al giudice Caselli è questa: c’è
una relazione tra il + 40% di mortalità infantile e + 90% di suicidi in Grecia
e l’1% di tasse sui profitti dei nababbi in paradisi fiscali legali come il
Lussemburgo?

Arriverà un giorno in cui i nostri giudici costituzionali
riconosceranno l’incompatibilità di certe leggi come quelle che impongono il
pagamento di tasse sulla casa e su tutti gli ambienti in cui si vive
onestamente, si lavora onestamente, si produce ricchezza pulita (materiale e
non…), con gli articoli 1 e 53 della nostra Costituzione?

C’è una relazione tra le immani difficoltà e le tremende
vessazioni fiscali che coloro che svolgono lavori umili (lavoro dei campi,
lavoro casalingo, lavoro mal retribuito, e, checché ne dica Renzi, a tutele
decrescenti) e il lavoro dorato a cui si sono abituati i cittadini del
Lussemburgo (dove 1 abitante su 19 è banchiere o bancario)?

Come mai invece di parlare di riforme in generale gli
eurovertici non dicono chiaro e tondo ai governanti e ai magistrati greci di
intervenire con mano ferma nei riguardi dei loro connazionali armatori? Come
mai non fanno nulla contro l’evasione fiscale degli armatori in generale che,
sulle loro navi, grandi e piccole, anziché la bandiera del proprio paese, fanno
sventolare quella liberiana e panamense?

Distinti saluti

Luciano
Montenigri
Fano, 04/02/2015

La
rubrica di Giancarlo Caselli è appena cominciata e già suscita aspettative.
Bello. In verità gli abbiamo dato mano libera nella scelta degli argomenti,
pregandolo di non chiudersi solo nelle problematiche italiane o europee, ma di
avere a cuore il mondo, soprattutto i poveri e le vittime dell’ingiustizia
globale.

risponde il Direttore




La Sacra Sindone 

Note di filatelia religiosa.

Dal 19 aprile al 24 giugno
2015 si svolgerà nella cattedrale torinese una nuova Ostensione della Sindone,
in concomitanza con i festeggiamenti per il bicentenario della nascita di san
Giovanni Bosco, eventi che hanno convinto Papa Francesco a venire in
pellegrinaggio a Torino.


La Sindone è il sacro lino in cui, secondo la tradizione evangelica,
Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avvolsero il Corpo di Cristo morto, cosparso di
una mistura di mirra e aloe. è
una tela di lino spigato (tessuta cioè a spina di pesce) di m 4,36 di lunghezza
ed 1,10 di larghezza. Il colore, originariamente bianco, risulta ingiallito dal
tempo e dall’incendio subito nel 1532 a Chambery, che provocò 12 buchi nella
tela, in parte rattoppati dalle suore Clarisse di quella città. Le bruciatu­ re
di Chambery formano due linee parallele che «inquadrano» per così dire la
doppia impronta di un corpo umano di circa 1,80 m su cui si scorgono segni che
corrispondo in modo impressionante a quelli che avrebbe avuto il corpo di Gesù
come conseguenza della sua passione e morte descritta dai Vangeli.

La Sindone è stata finora conservata arrotolata in una
cassa d’argento cesellata lunga un metro e mezzo, larga e alta circa 38 cm. Su
questa cassa argentea sono raffigurati, fra l’altro, gli strumenti della
passione.

La storia della Sindone risulta documentata in Occidente
solo a partire dal XIV secolo. Le notizie precedenti non sono molte, ma servono
a testimoniare il passaggio del Sacro Lenzuolo da Oriente a Occidente, ponendo
come punti di riferimento forse la città di Edessa (dal VI al X secolo) e
quella di Costantinopoli almeno fino al XIII secolo (da cui sarebbe stata
trafugata dai crociati).

La storia della reliquia subisce poi un oblio di circa
150 anni, che per ora non si è riusciti a colmare essenzialmente per mancanza
di documenti. Comunque nel 1353 la troviamo presso i canonici di Lirey, a cui
fu consegnata da Goffredo I di Chay. Costui probabilmente ne era entrato in
possesso per successione ereditaria.

Nel 1453 il Lenzuolo sacro venne ceduto a Ludovico di
Savoia, cadetto di Amedeo VIII da parte di Margherita di Chay, vedova di
Umberto di Villersexel nella città di Ginevra. Da quel momento appartenne ai
Savoia fino al 1983, quando fu donata dall’ex re d’Italia, per volontà
testamentaria, alla Santa Sede, e lasciata a Torino per volontà papale.

La Sindone rimase nella cappella di Chambery fino al
1578, tranne nei brevi periodi in cui fu al seguito dei Savoia in Francia, in
Piemonte e in Lombardia. Emanuele Filiberto in quell’anno trasportò la reliquia
a Torino allo scopo dichiarato di ab­ breviare il pellegrinaggio al sacro lino
da parte di san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano (pellegrinaggio che
l’arcivescovo rinnovò altre tre volte negli anni 1581, 1582 e 1584), ma in
realtà in un ben più vasto quadro di riforme che videro Torino divenire la
capitale sabauda.

La Sindone rimase a Torino prima nella chiesa di San
Francesco, poi a Palazzo Reale ed infine in Duomo. In seguito al rogo della
cappella del Guarini dell’11 aprile 1997 fu trasferita al sicuro, forse in un
monastero della collina torinese, per tornare in Duomo in occasione
dell’Ostensione del 1998.

 
Prima fotografia della Santa Sindone

L’interesse per la Sindone si accentuò quando fu
scattata la prima fotografia in occasione dell’Esposizione Generale d’Arte
Sacra del 1898 da Secondo Pia. Già molto prima di questa data si sapeva che
l’immagine sindonica non era dipinta, a differenza delle numerose copie
circolanti in Europa a partire dal Medio Evo, utilizzate nelle chiese per la
rappresentazione dei misteri pasquali.

La riproduzione fotografica, con sorpresa di tutti,
dimostrò come l’impronta del lenzuolo fosse un negativo. Da quel momento in poi
gli studi sulla Sindone divennero sempre più frequenti fino a portare negli
anni cinquanta a una vera e propria branca della scienza: la sindonologia.

Le analisi più recenti, eseguite dopo l’Ostensione del
1978, hanno rimesso in discussione la datazione della reliquia, ma non sono
tuttavia riuscite a dare delle risposte pienamente convincenti al problema. In
ogni caso rimane fatto indubitabile che i segni presenti sulla Sindone
coincidono con la descrizione della passione dei Vangeli.

Il Beato Giuseppe Allamano come canonico della
cattedrale ebbe il privilegio di portare sulle spalle la cassa in occasione
della Ostensione iniziata il 25 maggio 1898, celebrata per ricordare parecchi
centenari, tra cui il XV centenario del Concilio di Torino (San Massimo 398), e
durante la quale fu scattata la celebre foto da parte dell’avvocato Secondo
Pia, che rivoluzionò la sindonologia. Nel 1901 inviò in omaggio al vicario
apostolico dei Galla in Etiopia, un «artistico vetro della SS. Sindone»; stesso
dono inviò al superiore dei Lazzaristi a Roma; ripetutamente parlava della
Sindone ai Missionarie e alle Missionarie della Consolata.

Angelo Siro
Gruppo Filatelia
Religiosa «Don Pietro Ceresa», Torino-Valdocco www.filateliareligiosa.it

Angelo Siro




I Perdenti 3. Giovanna d’Arco  

Nacque a Domrémy,
Francia, nel 1412 circa, da una famiglia contadina. Lasciò giovanissima la casa
patea per seguire il volere di Dio rivelatole da voci misteriose, secondo le
quali avrebbe dovuto liberare la Francia dagli Inglesi. Presentatasi alla corte
di Carlo VII, ottenne dal re di cavalcare alla testa di un’armata e, incoraggiando
le truppe con la sua ispirata presenza, riuscì a liberare Orleans e a riportare
la vittoria di Patay. Lasciata sola per la diffidenza della corte e del re,
Giovanna non poté condurre a termine, secondo il suo progetto, la lotta contro
gli Anglo-Borgognoni. Fu dapprima ferita alle porte di Parigi e nel 1430,
mentre marciava verso Compiegne, fu fatta prigioniera dai Borgognoni, che la
cedettero per denaro agli Inglesi. Tradotta a Rouen davanti a un tribunale di
ecclesiastici, dopo estenuanti interrogatori fu condannata per eresia e arsa
viva il 30 maggio 1431. Riabilitata nel 1456, nel 1920 Benedetto XV la proclamò
Santa e Patrona della Francia.

Giovanna, tu sei una
santa molto nota ma forse pochi conoscono bene la tua vita, per cominciare puoi
parlarci della tua infanzia?

Sono nata in una famiglia di contadini di umili condizioni, fin da
bambina quindi ho dovuto aiutare i miei nel lavoro dei campi e nell’accudire
gli animali.

Quindi non hai
frequentato la scuola?

Ai miei tempi l’istruzione era solo per i figli dei ricchi che
potevano permettersi insegnati privati e per coloro che entravano in un
monastero o in un seminario. Non esistevano le scuole come le intendete voi.
Però io frequentando le funzioni religiose amavo assorbire tutto quello che
veniva insegnato dai sacerdoti del mio tempo.

Sì, ma tu sei famosa
perché fin da giovane ti sei fatta un nome prendendo le armi e difendendo la
tua patria.

Tutta la mia vita fu caratterizzata dalla Guerra dei cento anni,
che anzi durò di più in quanto cominciò nel 1337 e si concluse nel 1453. Gli
inglesi lungo tutto quel periodo occupavano gran parte della Francia e questo a
noi francesi non andava proprio bene.

Allora cosa hai fatto?

Nel 1429, seguendo la voce di Dio che veniva dal profondo della
mia coscienza e mi spingeva ad agire, riuscii a incontrare il Delfino (erede al
trono) di Francia ovvero il futuro Carlo VII e gli dissi che l’Arcangelo
Michele e le Sante Caterina di Alessandria e Margherita d’Antiochia, mi avevano
parlato dicendomi che avrei scacciato gli inglesi e insediato lui sul trono. Lo
convinsi ad affidarmi il compito di difendere il suolo francese mettendomi a
disposizione dei cavalieri e delle truppe da battaglia. Del resto, un’antica
profezia francese diceva che solo una ragazza coraggiosa avrebbe salvato il
paese dai nemici.

Si dice che per
guidare dei soldati ti sia vestita come un uomo e abbia indossato un’armatura.
Una cosa inaudita e scandalosa per i tuoi tempi.

Certamente, ma solo così potevo guidarli in battaglia senza
correre rischi inutili. Per questo mi feci fare una armatura modellata sulla
mia persona. Riportai la prima vittoria liberando Orleans da un lungo assedio.
Da quel giorno i soldati cominciarono a chiamarmi «la Pulzella d’Orleans».
Qualche settimana dopo ci fu un’altra battaglia più dura e più cruenta a Patay,
dove infliggemmo agli inglesi una dura sconfitta, riconquistando il territorio
francese fino alla città di Reims, luogo in cui da sempre avvenivano le
incoronazioni dei Re di Francia.

Si può dire quindi che
la tua missione si era conclusa positivamente?

Sì, ma purtroppo una volta incoronato Re, Carlo VII fu preso dal
tipico spirito di compromesso di molti politicanti. Decise quindi da solo,
senza consultare nessuno, di trattare con gli inglesi.

Ovviamente tu non eri
d’accordo con le sue scelte.

Ero convinta che la mia missione non fosse ancora compiuta, perché
gli inglesi continuavano a occupare buona parte della Francia. Decisi così di
continuare da sola con i soldati rimasti a me fedeli senza l’appoggio della
Corona. Ma il 24 maggio 1430 caddi in un’imboscata dei Borgognoni, i quali pur
essendo francesi erano alleati degli inglesi. Gli uomini del duca di Borgogna
mi vendettero agli anglosassoni in cambio di una forte somma di denaro
(equivalente a circa sei milioni di euro attuali).

Quindi fosti
imprigionata e gettata in carcere?

Mi rinchiusero nelle celle sotterranee del castello di Rouen per
essere processata per eresia e stregoneria, naturalmente i miei nemici
allestirono un falso tribunale dell’inquisizione con dei giudici simoniaci al
soldo degli inglesi che dovevano trovare ragioni per condannarmi a morte.

Su questo tuo processo
si sono scritti molti libri e girati diversi film che hanno evidenziato la
dignità con cui ti sei difesa…

Fin dalle prime udienze trovai in me una grande forza d’animo per
rispondere punto per punto alle accuse che mi erano mosse e, a essere sincera,
mi sono anche divertita a punzecchiarli un po’. Nel rispondere ai giudici ho
usato spesso non solo umorismo, ma anche sarcasmo. Vista la difficoltà che essi
stessi avevano nel portare avanti un processo farsa, decretarono che le udienze
si tenessero a porte chiuse.

Secondo te i giudici
cercavano davvero di conoscere la verità della tua missione?

Per niente. Dovevano condannarmi sia per levarmi di too che per
infangare il mio nome. I giudici nel cercare appigli per condannarmi erano
quasi patetici, per non dire ridicoli. Mi chiedevano che aspetto avevano gli
angeli, perché indossavo abiti maschili, perché me ne ero andata da casa e
altre tematiche che non avevano niente a che vedere con la fede. Riuscirono
comunque a mettere insieme circa settanta capi d’accusa, molti dei quali
palesemente falsi e non suffragati da nessuna testimonianza. Con questo
castello di menzogne mi condannarono a morte!

Con che spirito
accettasti questa sconfitta? Ti sentisti una fallita?

Mi sono sempre sentita uno strumento nella mani di Dio. Non avevo
iniziato quell’avventura di mia iniziativa. Avevo la consapevolezza di aver
agito sempre per il bene della mia patria, la Francia e in questo di aver fatto
sempre la volontà di Dio! Anche se prigioniera di uomini, sapevo di essere
nelle sue mani. Accettai quindi la sentenza ma non le motivazioni che
l’accompagnavano. Del resto il popolo francese era tutto dalla mia parte e la
dice lunga il fatto che, mentre venivo condotta al luogo del supplizio il 30
maggio 1431, fossi accompagnata da ben duecento soldati incaricati di tener
lontano la gente dal patibolo.

Pur condannata per
eresia ti fu concesso di ricevere i Sacramenti, un gesto col quale i tuoi
stessi giudici si sconfessavano e riconoscevano la giustezza delle tue
posizioni…

Infatti, pur condannata per eresia – e allora quella era un capo
d’accusa gravissimo – ho avuto il permesso, contro ogni regola ecclesiastica,
di ricevere l’Eucarestia. Le mie ultime parole, appena investita dalle fiamme,
furono semplicemente: «Gesù». Il rogo consumò oltre che la mia esistenza, tutta
la mia carne. Per evitare che la gente costruisse un santuario in mio onore nel
luogo in cui avvenne la mia esecuzione, i miei resti e le ceneri del rogo
furono gettati nella Senna.

Neanche vent’anni
dopo Carlo VII riaprì il processo subito da Giovanna. Nel frattempo anche una
nuova indagine ecclesiastica fu avviata su indicazione del Papa, e dopo aver
ascoltato oltre un centinaio di testimoni il processo precedente venne
dichiarato nullo e Giovanna D’Arco fu completamente riabilitata imponendosi
come una delle figure più straordinarie della storia della Francia.

Dalla vita di questa
grande santa possiamo capire alcune cose.

Che l’amor patrio è
un valore cristiano, combattere con le armi deve essere sempre una «extrema ratio»,
bisogna lottare per la verità e non per il potere. Che come si ama la propria
famiglia, così si deve amare anche la propria nazione.

Difendere la propria
patria significa anche potere e dovere in alcuni casi combattere per essa.
Quando una nazione viene ingiustamente aggredita e non c’è altro mezzo
diplomatico e incruento, come insegna la Dottrina sociale della Chiesa, per
scongiurare l’aggressione, la nazione aggredita ha il dovere di difendere se
stessa con ogni mezzo.

Santa Giovanna D’Arco
nella difesa libera e totale della sua terra, accettò anche il ricorso alle
armi, ma questo la portò a essere tradita e sconfitta e a perdere tutto, anche
la vita. Ma alla luce della storia e della santità, la sua azione verrà
riconsiderata più tardi come un’azione utile e giusta, a servizio della Chiesa
e del proprio paese. E Giovanna, umiliata da un ingiusto processo e
«cancellata» dai suoi nemici, diventerà un esempio di santità e modello di vita
per i francesi.

Don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




Ma le intese non bastano

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 27

Nonostante la legge
sulla libertà religiosa in Italia sia ancora quella del ‘29, non siamo fermi
lì. Le intese tra lo stato e le singole confessioni avvicinano il nostro paese
alla propria Costituzione, ma il deputato del Pd, Roberto Zaccaria, sostiene la
necessità di una nuova legge. Finché essa non ci sarà, non sarà realizzata in
Italia la libertà di credo. Chiudiamo con questa intervista il piccolo ciclo di
dialoghi sulla libertà religiosa con parlamentari italiani.

Una via pragmatica per arrivare in
Italia alla realizzazione del diritto alla libertà religiosa è stata indicata
dal prof. Stefano Ceccanti, ex senatore Pd, e dal senatore Fi Lucio Malan,
nelle due puntate precedenti: quella delle intese tra stato italiano e singole
confessioni religiose, uno strumento previsto dalla Costituzione.

Oggi, infatti, ci si trova ancora con
la vecchia legge del ’29 – anche se profondamente amputata delle sue parti
incompatibili con la Costituzione -, e allo stesso tempo con l’oggettiva
difficoltà a produrre una nuova legge generale, dimostrata dal fallimento di
vari tentativi del Parlamento in diverse legislature. Piuttosto di insistere
sulla strada impraticabile di una legge generale, si sostiene, è meglio
procedere con le intese, e solo in un secondo momento, quando dovessero esserci
le condizioni appropriate, arrivare a una legge generale.

Roberto Zaccaria non è però dello
stesso avviso. Professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico presso
l’Università di Firenze, ha insegnato Diritto costituzionale, Diritto
dell’informazione e Diritto regionale all’Università di Firenze, Macerata,
Lumsa e Luiss di Roma.

È stato membro della Camera dei
deputati nelle legislature XIV (2001-2006, gruppo La Margherita-L’Ulivo), XV
(2006-2008, gruppo L’Ulivo) e XVI (2008-2013, gruppo Pd).

È stato consigliere di
amministrazione della Rai dal 1977 al 1993 e suo presidente dal 1998 al 2002,
vice Presidente dell’Uer (Unione delle televisioni pubbliche europee) dal 2000
al 2002.

È giornalista pubblicista, iscritto
all’Ordine dei giornalisti.

A differenza dei suoi
colleghi Ceccanti e Malan, lei sostiene la necessità di giungere il più presto
possibile a una legge generale sulla libertà religiosa. Per quali motivi?

«L’esigenza
di intervenire per sostituire la legge del 1929 è essenziale e prioritaria. I
principi contenuti nella nostra carta costituzionale soffrono per una
attuazione incompleta nonostante quello che è stato fatto dall’ordinamento
internazionale ed europeo e dalla giurisprudenza a ogni livello.

Le
intese hanno in qualche modo accentuato la divaricazione tra i fedeli delle
diverse religioni e il trattamento delle stesse confessioni e associazioni.

La
strada di trasformare in legge unilaterale il contenuto comune delle diverse
intese è teorica: bisognerebbe comunque passare da un Parlamento che al momento
sembra poco sensibile verso questi temi. Tanto vale, allora, fare una legge ad
hoc, all’altezza dei tempi».

Una normativa
generale inevitabilmente cerca di dare delle «definizioni di sistema» su cui
l’accordo tra le diverse anime del Parlamento è arduo. Qualcuno lo ritiene
addirittura impossibile. Non pensa che sia difficile superare le diverse
visioni quando si affrontano problemi generali, concettuali e teologici?

«Non
credo che il problema sia quello della difficoltà di dare definizioni di
sistema condivise. Il problema è rappresentato piuttosto dalla difficoltà per
il Parlamento di fare leggi di sistema in ogni campo. Basta guardare i dati
sulla produzione normativa per convincersene. La riforma costituzionale e la
legge elettorale sono due eccezioni accompagnate da una fortissima
determinazione politica. Il resto è governo dell’economia. E questa è la
seconda motivazione: una legge sulla libertà religiosa non rientra tra le
priorità in questo momento storico, come non lo rientrano del resto alcune
leggi complementari come quella sulla cittadinanza e quella sull’immigrazione».

Nella XV legislatura
lei è stato promotore di una legge generale che caratterizzasse in modo molto
preciso il diritto di libertà religiosa, specificando i diritti dei singoli e
delle varie confessioni.

«Nella
XV legislatura sono stato più precisamente il relatore della legge sulla libertà
religiosa riprendendo il lavoro che era stato avviato dall’on. Maselli nella
XIII legislatura (1996-2001). Nella XIV legislatura il percorso parlamentare
alla Camera aveva preso le mosse da un disegno di legge del governo Berlusconi
(Ac – Atto della Camera – n. 2531) che riproduceva nella sostanza il testo del
progetto di legge del governo Prodi della XIII legislatura. Nella XV abbiamo
invece lavorato su due proposte di legge d’iniziativa parlamentare,
rispettivamente dei deputati Bornato (Ac n. 36) e Spini (Ac n. 134), intitolate «Norme
sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi». Ci
siamo mossi con grande rigore svolgendo addirittura due cicli di audizioni: la
prima sulle proposte Bornato e Spini e la seconda su un testo del relatore.
L’atteggiamento intransigente della Cei, manifestato soprattutto nel secondo
ciclo di audizioni, sull’inserimento nel testo di un riferimento al principio
di laicità, ha prodotto un irrigidimento anche in alcuni dei partiti del
centrodestra. Di fronte a un numero rilevantissimo di emendamenti, il
provvedimento si è arenato. La conclusione dei lavori è avvenuta il 24 luglio
2007. La legislatura è finita alcuni mesi dopo».

Ora ha promosso il
«Gruppo Astrid» che lavora in vista della stesura di una nuova proposta di
legge.

«Poco
dopo l’inizio della XVII legislatura, vedendo che il Parlamento non sembrava
intenzionato ad affrontare l’argomento, con il sostegno di un nutrito gruppo di
professori di diritto ecclesiastico, ho proposto alla Fondazione Astrid di
avviare un gruppo di lavoro per definire una nuova legge sulla libertà
religiosa. A motivare quest’iniziativa non c’era solo il fatto che in
Parlamento il tema risultasse assente, ma anche la necessità di rimettere mano
a una nuova impostazione della legge. I testi che avevano accompagnato il
dibattito parlamentare nelle legislature che abbiamo ricordato erano
decisamente datati e quindi si è deciso di impiegare utilmente le energie
dell’accademia nella predisposizione di un testo che sarebbe potuto essere
utile in una prossima stagione parlamentare. L’idea del gruppo di lavoro ha
preso forma più concreta a Camaldoli, nel maggio del 2013 (cfr. L. Rolandi, L’Italia
religiosa tra disinteresse e sospetto
, in Mc agosto-settembre 2013),
in un convegno organizzato dalla redazione del n. 1 dei «Quadei di diritto e
politica ecclesiastica» in collaborazione con il Fidr (Forum internazionale
democrazia e religioni, www.fidr.it). Il convegno aveva per titolo La libertà
religiosa in Italia: un capitolo chiuso?
1».

In quanto tempo pensa
che il testo possa essere pronto?

«I
tempi di lavoro sono costanti in relazione al progetto. Esiste un gruppo
redazionale più ristretto che presenta proposte per il gruppo più ampio2. Sono stati esaminati una sessantina di
articoli. Il lavoro istruttorio si concluderà entro 6-8 mesi. A quel punto
credo che verrà convocato un seminario per discutere coralmente il testo».

Il testo di questa
nuova proposta di legge si differenzia, e in che cosa, da quello da lei
promosso nella XV legislatura?

«Come
dicevo, il nuovo testo, pur prendendo le mosse da quello vecchio, ne allarga
considerevolmente l’orizzonte, e tiene conto degli stati di avanzamento sia
della giurisprudenza che della dottrina. A partire dagli anni 2000 sta
crescendo sensibilmente il profilo internazionale e comunitario della libertà
religiosa; si affacciano i problemi identitari connessi ai flussi migratori; si
prospettano problemi di bioetica; cresce il coinvolgimento di realtà
confessionali estranee alla tradizione giudaico-cristiana; aumentano i problemi
di pluralismo religioso; si fa più complesso il rapporto tra profilo collettivo
e profilo individuale del diritto di libertà religiosa; e tutto questo ha
rilevanti conseguenze sul concetto stesso di libertà religiosa. Questo è un
diritto che viene sempre più spesso associato a problematiche di natura
etico-morale e di natura politico-culturale in riferimento al cambiamento della
geografia religiosa dovuto ai fenomeni migratori. In più, come vediamo anche in
questi giorni, aumentano le questioni di ordine pubblico e sicurezza».

Su cosa basa la sua
fiducia che questa volta una legge generale sulla libertà religiosa possa
essere approvata dal Parlamento? In particolare, ritiene che tale risultato si
possa conseguire nel corso della presente legislatura?

«Non
ho detto che cresce la fiducia sulle possibilità che il Parlamento arrivi ad
approvare un testo in questa legislatura. È proprio questo il motivo per cui
riteniamo utile lavorare al di fuori del Parlamento in una fondazione come
Astrid che lavora al fianco delle istituzioni ma che consente di riunire
esperienze e discipline diverse. Quando saremo pronti offriremo ben volentieri
questo lavoro alle istituzioni e alla politica. Oggi lavoriamo tranquillamente
anche al riparo dalle inevitabili tensioni che il dibattito politico genera».

La sua proposta
precedente si fermò anche perché non ci fu accordo sul fatto che essa si
fondasse sul principio di laicità che, tuttavia, è alla base della Costituzione
repubblicana. Perché dunque non ci si è trovati d’accordo? Oggi le cose sono
cambiate o l’affermazione della laicità dello stato costituisce ancora un
problema per qualcuno?

«In
quel momento quel riferimento nel testo al principio della laicità è risultato
dirompente, ma non è detto che debba essere
sempre così: le cose cambiano. Del resto ripeto che la nostra proposta
avrà un respiro più ampio e, pur fondandosi ovviamente sul principio di laicità
che è parte essenziale della nostra Costituzione, potrà declinarlo in modo
altrettanto efficace. Non credo proprio che andando alla radice del problema vi
possano essere dei contrasti. Magari vi saranno su altri aspetti».

Ritiene che, anche
quando fosse approvata la nuova legge generale sulla libertà religiosa, sarebbe
utile proseguire con la stipula delle intese tra lo stato e le confessioni
religiose?

«Diciamo
subito che non è lecito chiudere una porta, come quella delle intese, che la
Costituzione prevede. D’altra parte ci sono delle intese che hanno fatto
ampiamente il loro percorso, come quella con i Testimoni di Geova, che
dovrebbero essere approvate. Certo, su un piano generale, diciamo di opportunità,
credo che sarebbe meglio procedere con una legge unilaterale dello stato che
regoli il diritto per tutti perché, paradossalmente, se procedessimo solo sul
terreno della regolamentazione bilaterale attraverso le intese rischieremmo di
allargare le disparità tra chi gode di regimi particolari e chi ancora è
soggetto all’anacronistica legge 1159 del 1929».

In attesa della legge
generale, rimane aperta nel nostro paese la questione di un’intesa con l’Islam.
Quali problemi crea questa situazione, nella prospettiva di una piena
integrazione dei fedeli islamici nel sistema costituzionale e giuridico, oltre
che nella società, del nostro paese?
L’approvazione di una legge generale sulla libertà religiosa faciliterebbe la
soluzione di questi problemi o la renderebbe invece più difficile?

«È
esattamente questo il problema. Proprio all’Islam mi riferivo quando parlavo di
inaccettabili differenziazioni. Visto che fino a questo momento la strada
dell’intesa si è rivelata impercorribile con l’Islam, è essenziale procedere
sulla base della cosiddetta legge generale.

Non
ho alcun dubbio. Oggi questa legge è necessaria. Si potrebbe procedere anche
con la creazione di un testo unico che riunisca le disposizioni sparse in una
quantità enorme di testi normativi diversificati. In questa materia però la
mera compilazione non è sufficiente: si tratta di riordinare e ammodeare. Io
credo che la strada migliore sia invece quella di fare una legge di principi e
anche di disposizioni innovative che mettano in soffitta la legge sui culti
ammessi, che contenga una delega idonea e confezionare le disposizioni più
specifiche, e anche la delega per la redazione di un testo unico innovativo».

Paolo Bertezzolo
Note:

1- Tra i relatori di quel convegno c’erano, tra
gli altri, Roberto Mazzola, dell’Università del Piemonte Orientale A. Avogadro,
Marco Ventura della Katholieke Universiteit Leuven, Romeo Astorri
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Alessandro Ferrari dell’Università
degli Studi dell’Insubria.

2- Il gruppo è formato, oltre che dai professori
indicati nella nota 1, dall’intervistato Roberto Zaccaria, in veste di
cornordinatore, da Francesco Margiotta Broglio, Sara Domianello, Pierangela
Floris, Valerio Tozzi, Paolo Naso, Paolo Cavana e Marco Croce. Ha partecipato
ad alcune riunioni il Sen. Lucio Malan. Hanno anche aderito Paolo Corsini e
Vannino Chiti. Partecipano stabilmente alle riunioni, in veste di osservatori,
la dott.ssa Anna Nardini per l’Ufficio studi e rapporti istituzionali della
Presidenza del Consiglio, e la dott.ssa Giovanna Maria Rita Iurato della
Direzione centrale affari di culto del ministero dell’interno. Ci sono poi
alcuni esponenti di confessioni religiose che ne hanno fatto richiesta: Yahya
Pallavicini (Coreis, Comunità religiosa islamica italiana), Ezzedin Elzir
(Ucoii, Unione delle comunità islamiche d’Italia), Abdellah Redouane (Moschea
di Roma), Tiziano Rimoldi (Avventisti), un rappresentante della chiesa
Ortodossa. Per l’Uaar (Unione atei agnostici razionalisti) partecipa anche
Adele Orioli.

Del gruppo redazionale più
ristretto fanno parte Ferrari, Mazzola, Domianello e Floris.

Paolo Bertezzoro




Roma e i migranti / 1

Il ciclo di reportage
su periferie delle grandi città, disagio e migranti, ci porta questa volta a
Roma, ancora scossa per le rivelazioni dell’inchiesta «Mafia Capitale» e per i
tumulti di Tor Sapienza.

L’autobus 105 è fermo al capolinea di Piazzale
dei Cinquecento, di fronte alla stazione di Roma Termini. Attraverso le sue
quattro porte aperte, persone avvolte in sciarpe e giacconi guadagnano un
sedile o più probabilmente un posto in piedi e aspettano che lo scatolone di
plastica e metallo lungo diciotto metri cominci la sua corsa nell’aria fredda
delle sere del febbraio romano. Qualcuno scenderà dalle parti del Pigneto, per
raggiungere gli amici in qualche bar dell’isola pedonale e partecipare al rito
importato dell’aperitivo. Molti altri, invece, proseguiranno verso Tor
Pignattara, Centocelle e oltre, fino a quella Tor Bella Monaca che nel
quotidiano capitolino è da anni sinonimo di luogo della marginalità e del
degrado. L’umanità del 105 è un fedele spaccato della pancia di una città che
cerca, o semplicemente non può evitare, di scoprirsi multietnica: signore
dell’Est europeo con buste di plastica gonfie posate sulle ginocchia e i tratti
stanchi di chi ha fatto pulizie in qualche appartamento del centro, bengalesi
con in mano i bastoni per selfie che non sono riusciti a vendere ai turisti,
ragazzi cinesi con un libro fra le mani e gli auricolari alle orecchie, giovani
africani carichi di grossi sacchi che lasciano intravedere borse con le griffe
dell’alta moda. Quelle stesse borse che poche ore prima erano disposte in bella
mostra sui sampietrini a due passi dal Colonnato o dalla scalinata di Trinità
dei Monti, poi agguantate per i manici e portate via di corsa, lontano dalla
vista della polizia arrivata di soppiatto a scompigliare l’improvvisato
mercato.

Un bengalese parla al telefono, a voce alta. «Ma che
urla quello? Certo che ’sti immigrati fanno proprio come je pare…» commenta
spazientita una donna. «Che vuole, signo’, non siamo manco più padroni a casa
nostra, ormai», le risponde un’altra, un sedile più avanti. Questa non è l’aria
che tira a Roma, è solo una delle sue correnti. Ma è la corrente che fischia più
forte, che fa svolazzare i giornali, che scoperchia i tetti e rompe i vetri
nelle periferie.

Tor Sapienza, con le immagini degli scontri e delle
proteste anti-immigrati dello scorso novembre, è sempre lì, nello stesso
spicchio di città che il 105 attraversa, in quella Roma Est che secondo la
rivista online Vice era fino a pochi anni fa «poco meno che un mistero»
per i giornali e per gli altri abitanti dell’Urbe. Ma Tor Sapienza è, nella
recente memoria collettiva romana, dove rimarrà impressa per molto tempo, anche
quella frase pronunciata in una intercettazione dal presidente della Cooperativa
29 Giugno
, Salvatore Buzzi, oggi detenuto nel carcere nuorese di massima
sicurezza di Badu ’e Carros dopo che l’operazione Mondo di Mezzo
condotta dai Ros, ha portato alla luce nel dicembre scorso il suo ruolo chiave
nella vasta rete criminale di stampo mafioso facente capo all’ex Nar Massimo
Carminati: «Tu c’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di
droga rende di meno».

Spetterà a nuove indagini e ai successivi processi
chiarire le responsabilità della vicenda di Mafia Capitale, comprese le
ipotesi di manipolazione della protesta di novembre proprio da parte della
cupola romana di Carminati e Buzzi. Ma che la mala gestione del fenomeno
migratorio e, più in generale, del disagio, accenda le micce in quella che i
media hanno chiamato la «polveriera delle periferie» è evidente, da tempo.

A Corcolle – zona del VI Municipio a venti chilometri da
Termini, estremo brandello orientale della città – basta un nubifragio perché
le strade e le case siano sommerse dall’acqua. Il manto stradale è in
condizioni pessime, l’Adsl non arriva, e solo lo scorso ottobre l’Asl ha
approvato l’apertura di un servizio di pediatria, finora assente nonostante la
presenza di un migliaio di bambini. Anche Corcolle, prima di Tor Sapienza, ha
vissuto giorni di tensione fra residenti e migranti. Ma, se la presenza degli
stranieri è stata la goccia, pronto a traboccare c’era tutto un vaso.

Gli inizi
dell’accoglienza

Eppure, la città non si è certo accorta ieri del
fenomeno migratorio: «Il centro di ascolto stranieri di via delle Zoccolette»,
racconta Lorenzo Chialastri, responsabile del Centro Ascolto Stranieri
di Via delle Zoccolette dal 2003 e dell’Area Immigrazione della Caritas
di Roma dal 2013, «ha aperto nel 1981, probabilmente fra i primi in Italia.
All’epoca, i migranti in città erano eritrei, filippini e capoverdiani che
andavano via via sostituendo gli italiani come lavoratori domestici.
Probabilmente nella percezione nazionale lo spartiacque è stato il 1991, anno
dell’arrivo in Puglia dei barconi con i ventisettemila migranti albanesi.
L’anno successivo, il comune di Roma ha aperto l’Ufficio Speciale per
l’Immigrazione
».

Dal 1981, il centro di ascolto della Caritas ha
registrato oltre 250 mila schede personali, ogni anno conta seimila nuovi
utenti che effettuano più di venticinquemila richieste di servizi allo
sportello. Offre ascolto dei bisogni, orientamento nella ricerca di alloggio e
di lavoro, corsi di italiano e assistenza legale, con particolare attenzione
agli utenti più vulnerabili come i rifugiati e le vittime di tratta.

Nove assistiti su dieci sono immigrati regolari; quanto
alla presenza di immigrati irregolari in città, come per i dati nazionali, è
difficile azzardare una stima. Lo scorso anno a fronte di 170 mila arrivi in
Italia sono state avanzate solo sessantamila richieste d’asilo. Che fine hanno
fatto gli altri? Quanti sono rimasti in Italia? Molti rifiutano di farsi
prendere le impronte digitali perché vogliono potersi spostare in altri paesi
europei senza rischiare di essere «dublinati», cioè rimandati in Italia sulla
base del Regolamento di Dublino, il quale stabilisce che i migranti
richiedenti asilo devono risiedere nel paese competente a esaminare la loro
domanda, cioè quello di prima accoglienza, dove è avvenuta l’identificazione. è chiaro che al rifiuto dei migranti di
farsi registrare si accompagna un equivalente lasciar correre delle autorità
italiane, atteggiamento che gli altri paesi europei hanno bacchettato,
accusando l’Italia di utilizzare questo metodo per «liberarsi» dei migranti.

«Abbiamo visto questa dinamica all’opera ad esempio con
l’arrivo di quindici migranti trasferiti da Augusta, in Sicilia, a
Civitavecchia, e da lì al nostro centro d’accoglienza a Roma», spiega
Chialastri. «Sono arrivati con in mano un numero scritto su un foglietto, non
erano state prese loro le impronte digitali. Due sono spariti nel nulla nel
giro di pochi giorni».

 

La salute,
tema su cui ci si incontra

In
via Marsala, la strada che costeggia la stazione Termini, la Caritas di Roma
gestisce un poliambulatorio (attivo già dal 1983) del quale Salvatore Geraci,
laureato in Medicina e Chirurgia alla Sapienza, è responsabile dal 1991. Geraci
non si stanca di insistere sull’importanza dei quattro pilastri su cui si regge
l’operato dell’ambulatorio: «I servizi sanitari sono ovviamente fondamentali»,
precisa il medico, «ma dobbiamo dedicarci con lo stesso impegno alla conoscenza
dei fenomeni, alla formazione degli operatori sanitari e al nesso fra salute e
diritti dei migranti. Altrimenti si fa solo assistenzialismo».

Il poliambulatorio ha assistito in un trentennio più di
centomila pazienti, specialmente migranti irregolari e persone senza fissa
dimora; annualmente eroga fra le dodici e le ventimila prestazioni sanitarie a
una media di seimila pazienti, e ha registrato nel 2014 un aumento di assistiti
pari a 1.200 unità. Fra gli utenti sono in aumento gli italiani, che si
rivolgono al poliambulatorio soprattutto per ottenere gratuitamente i farmaci
di fascia C, quelli per cui non è possibile ottenere esenzioni. Le malattie più
frequenti sono quelle che il responsabile indica come tipiche della povertà e
cioè quelle dell’apparato respiratorio, del sistema osternomuscolare,
dell’apparato digerente e della pelle. «Ma non dimentichiamo le ferite
invisibili», precisa Salvatore Geraci, «quelle generate dai traumi psicologici
subiti dalle persone vittime del conflitto, della tratta, della violenza
intenzionale e delle torture» al centro di un progetto nel quale un’équipe di
operatori specializzati offre un servizio di ascolto e di psicoterapia
transculturale.

Il poliambulatorio, oltre che sul personale dedicato, si
regge sul lavoro di 380 volontari. Qualcuno è un ex paziente. «Mi viene in
mente il caso di una coppia di cinesi che avevamo curato qui al poliambulatorio»,
ricorda con un sorriso il dottor Geraci. «L’idea di prestare lavoro senza
ricevere un compenso – cioè il volontariato – 
è inconcepibile per i cinesi, non è nelle loro cornordinate culturali. La
gratitudine nei confronti di chi li ha aiutati però lo è. Per questo, quando i
coniugi sono riusciti tramite il ricongiungimento familiare a far venire a Roma
il figlio, lo hanno praticamente obbligato a venire a dare una mano».

 
I rifugiati

A pochi passi dal poliambulatorio c’è la sede di Prime
Italia
, un’associazione di volontariato che si occupa di promuovere
l’integrazione dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione
internazionale (www.prime-italia.org). Fra le sue attività ci sono i corsi di
scuola guida gratuiti e a prezzo agevolato per rifugiati finanziati grazie ai
fondi dell’otto per mille della Tavola valdese e dell’Automobile Club
Roma
.

Da Termini, in venti minuti di metropolitana, si
raggiunge Ponte Mammolo dove dal 2003, all’interno di un più vasto insediamento
spontaneo abitato da famiglie rom, ne esiste uno più piccolo dove vivono
rifugiati in prevalenza eritrei, un’ottantina in tutto, suddivisi in una
cinquantina di piccole abitazioni di un vano. Alcune sono in muratura, altre in
lamiera, cartone, plastica. Due generatori alimentano le aree comuni adibite a
cucina e spazio ricreativo, ma le «case» mancano dei mezzi per scaldarsi e
conservare il cibo.

«A partire dal 2013» spiega Guglielmo Micucci,
presidente di Prime, «dopo aver gradualmente cercato di creare un rapporto
di fiducia con i rifugiati, abbiamo avviato una serie di attività nel campo»:
fra queste, la distribuzione di sacchi a pelo e una collaborazione con Leroy
Merlin Italia
che ha permesso la riqualificazione dei servizi sanitari.
Fabiola Zanetti, responsabile delle attività Prime a Ponte Mammolo,
racconta soddisfatta un lieto risvolto inatteso del progetto con Leroy
Merlin
: «Augusto, uno dei ragazzi del campo, ha dato una mano nella
ristrutturazione dei bagni. Notando il suo impegno, Leroy Merlin gli ha
offerto un tirocinio: ha iniziato a metà gennaio 2015».

Quello di Ponte Mammolo è il più piccolo dei principali
insediamenti e occupazioni informali nei quali vivono richiedenti e titolari di
protezione internazionale. Gli altri sono il Selam Palace (ex Enasarco)
di Anagnina – Romanina, che ospita circa 700 persone prevalentemente di
nazionalità etiope, eritrea, somala e sudanese, e l’edificio di via Collatina
385, sette piani per un numero di etiopi ed eritrei che varia da 400 a 600. Al centro
Ararat
in zona Testaccio vivono poi un’ottantina di curdi e, se
l’insediamento di Stazione Ostiense è stato sgomberato nel 2012, l’anno
successivo è stato occupato uno stabile di cinque piani in piazza Indipendenza,
a due passi da Termini, dove abitano circa 500 rifugiati in maggioranza
eritrei. Sono circa duemila persone in gran parte uomini, ma non mancano le
donne e i bambini.

Chiara Giovetti

(1 –
continua)

tags: migranti, accoglienza, Centro Astalli, rom, integrazionediritti umani

Chiara Giovetti




Adorabile Factotum

Ricordando Giancarlo?Pegoraro

Meccanico, idraulico,
muratore, carpentiere, falegname, camionista, ma anche animatore: Giancarlo
Pegoraro è stato un grande missionario laico. Un suo ricordo nelle parole di
Paolo
Deriu, amico e compagno di missione.

 

Giancarlo arrivò a Milaico
(Missionari laici della Consolata) di Nervesa della Battaglia, in provincia di
Treviso, nell’aprile del 1998, per formarsi e prepararsi a partire per l’Africa
o il Sudamerica, come missionario laico della Consolata.

Uomo
di opinioni forti e dalla voce potente, non passava inosservato. Con sé, portò
una ventata di entusiasmo e voglia di impegnarsi. Aveva fatto tanti mestieri:
camionista, elettricista, meccanico d’auto, muratore, operaio di calzificio.
S’intendeva di motori aeronautici e gli piaceva fare il pasticciere, senza
dimenticare che era anche boy scout e suonatore di «basso tuba» nella banda del
suo paese. Un personaggio, insomma.

A
Milaico si impegnò senza risparmio come animatore missionario e si dedicò ai
molti lavori di manutenzione che una casa grande come quella di Nervesa
richiedeva, per esempio, riparare le imposte, sistemare l’impianto elettrico o
quello idraulico. Soprattutto, divenne il nostro cuoco. Tra le sue specialità,
quelli che chiamava i «piatti da meditazione», passati di verdura e altro ben
spessi, che richiedevano un certo tempo di digestione, utili appunto per
riflettere sulla propria vita interiore.

Oltre
a essere un grande lavoratore, aveva una inesauribile voglia di imparare. Non
sapeva nulla di informatica, ma seguì con passione le nostre lezioni, poi
continuò a formarsi da solo, così che «superò i maestri» e divenne un esperto.

Come destinazione, inizialmente, ci venne indicato
il Kenya. Così il buon Giancarlo si diede di buona lena ad imparare l’inglese e
in breve lo sentimmo pronunciare le prime frasi in questa lingua, rispondendo
ad un registratore. Tuttavia, cambiò il paese di destinazione e nella primavera
del 1999, finalmente si concretizzò la partenza per una missione in Mozambico,
nell’Africa meridionale. Dopo qualche mesetto in Portogallo, per perfezionare
la lingua portoghese, Giancarlo prese l’aereo per Maputo, la capitale, e – in
attesa che arrivassi anch’io, una settimana dopo -, si fece conoscere come
factotum nella Casa Regionale Imc di quella città.

Arrivammo
a Mecanhelas (nella regione del Niassa, Mozambico settentrionale), la nostra
missione, la notte del 10 maggio. Trovammo padre Franco Gioda, padre Rogelio
Alarcòn e le bambine dell’«infantàrio» (centro nutrizionale), che ci accolsero
con canti, danze e torte da loro preparati.

Il
giorno dopo ci fecero conoscere la parrocchia, i suoi animatori e i suoi
operai. Tutta la missione contava circa 60 mila abitanti e 170 comunità
cristiane. Giancarlo venne nominato responsabile tecnico: si sarebbe occupato
dei mille lavori che una missione comporta e anche della formazione
professionale di manovali e operai specializzati. Il suo campo d’azione divenne
l’officina, che provvedeva alla manutenzione degli autoveicoli e dei mulini.

La
veneranda Land Rover dei missionari aveva le portiere che si chiudevano con le
corde e i freni ad azione ritardata (a volte nulla). Il camion, invece,
bisognava spingerlo, perché si mettesse in moto.

Oltre
ai veicoli, Giancarlo, o Genki come amava essere chiamato, cominciò a
preoccuparsi dei mulini a motore della parrocchia (frequentati da una numerosa
clientela, poiché non sottraevano farina durante la macinatura dei cereali, a
differenza di altri mulini di proprietà privata). Uno dei mulini perdeva circa
un litro d’olio al giorno, che si spandeva sul pavimento. Gli sforzi di
Giancarlo per insegnare al mugnaio a inserire una lamiera che raccogliesse le
gocce di lubrificante prima che cadessero a terra furono leggendari. Solo dopo
varie settimane, con le orecchie piene delle urla del nostro missionario laico,
il mugnaio si convinse che non era il caso di raccattare con le mani l’olio
disperso sul pavimento per rimetterlo nella macchina.

Un
discorso a parte furono i diversi progetti per costruire scuole, centri di
catechesi, cappelle e ambulatori, sparsi un po’ per tutta la missione.
Giancarlo era frequentemente richiesto per andare in giro a sovrintendere a
tutti i cantieri edili. Un suo sogno era un bel camion-laboratorio, con tutti
gli ultimi ritrovati della tecnologia, purtroppo era un po’ troppo caro per
riuscire a renderlo realtà.

Nelle sue peregrinazioni, Giancarlo non passava
inosservato. La gente lo vedeva transitare di buon mattino con il suo «passo da
alpino» (era, in effetti, un appassionato di montagna) diretto alla fuoristrada
o a un autobus, caricando un enorme zaino pieno di utensili e ricambi e
commentava: «Che grinta, sembra un soldato, chissà come è forte».

Un’altra
meta dei suoi viaggi era il Malawi, dove si recava a caccia di parti di
ricambio decenti. Approfittava di questi viaggi per dare uno strappo ai malati
della parrocchia, che avevano bisogno di cure specialistiche per cataratta agli
occhi, eie, varie forme tumorali. Quando invece andava nella città di
Nampula, in Mozambico, a oltre 400 Km dalla parrocchia, se poteva, caricava
malati di mente, diretti al locale ospedale psichiatrico.

Giancarlo
infatti non si occupava solo di risolvere guasti tecnici o di dirigere lavori
edili. Si preoccupava dei più deboli, tra cui appunto i malati, e gli stavano
molto a cuore anche i bambini del Centro nutrizionale con cui trascorreva i
momenti della sera o la domenica. I bambini erano molto contenti di averlo con
loro, avevano bisogno di un punto di riferimento maschile, essendo le
educatrici tutte donne.

Importante
per Giancarlo era la formazione professionale dell’équipe di meccanici,
falegnami, muratori e manovali (erano circa 70 lavoratori) con cui lavorava.
Abituato a un approccio sincero con la gente e a parlare forte e chiaro, per
Giancarlo fu difficile, all’inizio, comprendere un particolare tratto culturale
del popolo Makua, che ci aveva accolti. Ai Makua, infatti, non piace dire di «no»
a una domanda di un ospite straniero, perché non vogliono causargli un
dispiacere. Quindi poteva capitare che i lavoratori-alunni rispondessero sempre
di «sì», durante la formazione, alle domande di Giancarlo, anche se magari non
avevano capito un bel niente. Quando durante le esercitazioni pratiche veniva
fuori la verità, il poveretto aveva un bel sgolarsi per ripetere i concetti.

Comunque,
con il tempo, l’équipe tecnica di Mecanhelas imparò a dialogare con Giancarlo
(anche familiarizzando con espressioni del dialetto mantovano che il nostro
tanto amava) e ad apprezzae la professionalità.

Rientrato
da Mecanhelas nell’aprile 2002, Giancarlo rimase per un anno come animatore
missionario e factotum a Milaico, poi rispose di nuovo al richiamo della
missione e, nel 2003, rientrò in Mozambico dove riprese a lavorare come
meccanico, idraulico, muratore, falegname, camionista nelle missioni del Nord e
del Centro e ovunque lo chiamassero per riparare auto, installare generatori,
scavare pozzi. La sua ultima missione è stata Nova Mambone, dove sovrintendeva
alle saline, importante fonte di reddito della locale missione.

 

Missionario senza secondi fini o ipocrisie,
Giancarlo diceva chiaramente quello che pensava e dedicava ogni sua energia nel
lavoro di manutenzione e direzione tecnica e in quello di evangelizzazione.
Prendeva molto a cuore ogni suo impegno e soffriva quando temeva di non
riuscire a risolvere qualche problema, ma la sua perseveranza faceva sì che
questo succedesse di rado.

Nella
sua stanza, si poteva trovare la Bibbia, come anche utensili e parti di
ricambio, sistemati anche sotto il suo letto, giacché la sera o il mattino
presto, non erano per lui necessariamente tempi di riposo. Ci teneva a rimanere
in contatto con le realtà dei missionari laici della Consolata, soprattutto in
Portogallo e partecipava volentieri alle assemblee che venivano organizzate.

La
sua salute non era delle migliori. Al mattino, a colazione, ci comunicava il «bollettino
medico» della notte trascorsa, tra spifferi, dolorini e altro. Ma non era uno
che si lamentasse e ne parlava con allegria. Purtroppo, all’improvviso, il 31
gennaio scorso, la malattia ha vinto, ma solo sul suo corpo. Giancarlo continua
a vivere nel ricordo della gente di Mecanhelas e delle altre missioni in cui ha
servito, tra coloro che ha formato come specialisti e quelli con cui ha
condiviso giornie e dolori della vita. Senza mai chiudere la porta in faccia a
nessuno.

Paolo Deriu

Tags: laici, volontariato, missione, Pegoraro, Milaico

Paolo Deriu




Sulle Sponde del Gila River

Le missionarie della
Consolata aprono in una riserva indiana

Molti italiani
conoscono l’Arizona, il Gila River e gli indiani Pima più che altro attraverso
le pagine di Tex Willer, uno dei più longevi fumetti italiani. Quattro suore,
inossidabili nella loro passione per il Vangelo, da meno di un anno stanno
scrivendo una nuova avventura missionaria proprio in quelle assolate terre.

Dal primo agosto 2014, abbiamo iniziato la nostra
missione in una riserva indiana, Gila River Indian Community, in
Arizona, 60 chilometri a Sud Est di Phoenix, nel Sud Ovest degli Stati Uniti.
La riserva si trova nella diocesi di Phoenix, che da alcuni anni assicura la
celebrazione dell’eucarestia domenicale grazie al servizio volontario di alcuni
preti in pensione che coadiuvano il direttore diocesano del Native American
Ministry
, Fr. Gregory Rice, un missionario Mill Hill che è stato in
Pakistan per diciassette anni.

Nella
riserva ci sono sei suore Franciscan Sisters of Charity di Manitowoc,
Wisconsin, che gestiscono esclusivamente la scuola cattolica di St. Peter,
dedicata all’educazione elementare e media dei bambini nativi.

Questa
comunità di religiose è ciò che rimane del gruppo missionario che si è speso al
servizio pastorale ed educativo alla popolazione nativa dal 1896.
Francescani/e, le suore di St. Joseph of Carondelet, di St. Joseph of Orange e
i Fratelli delle Scuole Cristiane si sono susseguiti nel prestare il loro
servizio religioso-educativo fino al 1990. Il famoso collegio St. John’s
High School
, che ha educato migliaia di bambini e giovani, non esiste più.
Rimasto inabitato, è stato più volte vandalizzato e anche dato alle fiamme.

La
popolazione, di circa ventimila persone, appartiene alle tribù A’kimel O‘odham
(Pima) e Pee-Posh (Maricopa). Il territorio copre 1.512 km2
circa, diviso in sette distretti. Gli uffici dell’amministrazione tribale si
trovano a Sacaton, dove la nostra comunità risiede. La comunità tribale
gestisce la propria compagnia telefonica ed elettrica, ospedale, clinica, e
pubblica mensilmente il proprio giornale.

Sfortunatamente, la riserva ha uno dei più alti tassi di
diabete, tipo 2, nel mondo, circa il 50%. Per questo motivo, la comunità ha
contribuito a testare dati importanti per la ricerca in questo campo,
partecipando anche a studi approfonditi su questa malattia. Il tasso così alto è
dovuto anche all’alimentazione a base di molti grassi, carboidrati e cosiddetti
fast food. Infatti, l’obesità è altissima e l’indice di mortalità tra
giovani adulti è impressionante.

La gente è molto affabile e ci ha accolto con tanto
calore. Infatti, la prima domanda che ci hanno fatto è stata: «Siete qui per
rimanere?». Per anni una o due religiose hanno prestato un servizio volontario,
ma rimanevano uno o due anni e poi, per vari motivi, ritornavano alle loro
comunità.

I
bambini sono quelli che rubano il cuore. Dopo alcune domeniche di presenza
nelle loro piccole e povere cappelle sorridono al vederci spuntare e se
arrivano tardi a messa, cosa che succede tutte le domeniche, senti le loro
braccia intorno alla vita con quel bel sorriso e con quegli occhietti birichini
che sembrano dirti «Tardi, ma sono qui».

Per
ora partecipiamo all’Eucaristia domenicale in quattro missioni: St. Anthony,
St. Ann, Holy Family e Our Lady of Victory (vedi mappa qui sotto).
Collaboriamo all’educazione religiosa di bambini e adulti che si preparano ai
sacramenti, visitiamo gli ammalati, e assistiamo a tutti gli eventi a cui la
gente ci invita. Questo ci permette di entrare adagio e con semplicità nella
loro vita e conoscere il loro costume.

 

Consideriamo il nostro servizio tra i membri di
questa comunità nativa un onore e l’essere le prime missionarie della Consolata
assegnate a lavorare nella Gila River Reservation un privilegio.
Infatti, i nativi sono il gruppo etnico più dimenticato. La storia di
oppressioni e umilianti leggi ha contribuito a rendere questa popolazione
invisibile, per questo, generalmente, la gente ha una stima di sé bassissima.
Si attribuisce a questo l’alta percentuale di suicidi giovanili, l’alcolismo,
la droga, studenti rinunciatari (64%) e la partecipazione in gangs.

Noi
viviamo in questo spazio che è pur sempre sacro perché qui cammina la persona
umana e Gesù. Egli ci invita a contemplare il suo volto nei giovani
rinunciatari, nelle ragazze madri che lasciano i piccoli alla cura della nonna,
nelle donne vittime di violenze e abusi, e nelle vittime della droga e
alcolismo, e ad essere fra di loro una presenza rispettosa di consolazione.

Vogliamo,
come spesso esorta Papa Francesco, essere «pastore con lo stesso odore delle
pecore», per comunicare loro quanto siano preziose e care.

Riccardina Silvestri

tags: MdC, missione, Indians, popoli indigeni

Riccardina Silvestri




Cubetti di zucchero

Racconto / in collaborazione con LINGUA MADRE

«Il valore delle cose
non sta nel tempo in cui esse durano ma nell’intensità con cui vengono vissute.
Per questo esistono momenti indimenticabili, cose inspiegabili e persone
incomparabili». (Feando Pessoa)

 

Mia nonna matea Nura e suor Vilma trascorrevano insieme ogni
sabato mattina. Caffè, tante chiacchiere e un’infinità di sorrisi che, al
ricordo, scaldano la mia anima ancora oggi. Erano ciascuna la migliore amica
dell’altra ed è veramente difficile descrivere l’atmosfera che si creava quando
quelle due grandi donne stavano insieme nella stessa stanza. Accadeva come se
il senso di tutte le cose del mondo fosse concentrato proprio lì, nei 36 metri
quadrati dell’amato appartamento. E noi quattro, i miei genitori, mio fratello
e io, abitavamo lì in quegli anni, fino a quando l’azienda di mio padre non ci
assegnò un appartamento tutto nostro. Quelle mattine di sabato, dunque,
rappresentavano un vero e proprio rituale.

Ancora
prima dell’arrivo di suor Vilma, tutti, come per magia, scomparivano per
qualche commissione, a parte me che, essendo la più piccola, rimanevo avvolta
nel calore di quei momenti, quasi mi ritrovassi immersa nelle soffici nuvole
bianche illuminate dal sole, un sole che altro non era che l’aria che in quel
momento respiravo. Immancabilmente quell’aria si mescolava all’inconfondibile
profumo del caffè fatto «alla turca» che ha tutto un suo modo per essere
bevuto: prima si mette in bocca un cubetto di zucchero inzuppato nel caffè
rigorosamente versato in una tazzina detta fildžan (si pronuncia «filgian»)
che non ha un manico ma è tonda e si avvolge con la mano in modo da percepire
il calore della bevanda. Subito dopo si prende un sorso di caffè che si mescola
con il cubetto di zucchero sciolto in bocca, ma molto lentamente, tra una
parola e l’altra, fino ad arrivare al fondo il quale, certamente, non è
intelligente bere. Ci si ferma sempre al momento giusto, è nel sangue del
popolo, non c’è che dire! E allora si riempie fildžan di nuovo e avanti
così.

Ogni
sabato mattina, quindi, suor Vilma, suora crornato-cattolica, veniva a trovare
mia nonna, atea di origini musulmane. E di che cosa queste due donne,
apparentemente così diverse nelle loro culture, potevano parlare ogni sabato?
Del come avevano trascorso la settimana, della moda (mia nonna era sarta) che
le ricche signore della città seguivano alla lettera, di catacombe (suor Vilma
aveva visitato il Vaticano ben tre volte), della poesia di un poeta che entrambe
amavano molto, del come si prepara un piatto tipico dell’Erzegovina… Sì, di
questo e di tanto altro, ma spesso non erano le tematiche ad attirare la mia
attenzione quanto l’armonia nella quale venivano trattate e la forma, di un
rispetto dalla dinamica straordinaria. Era musica per le mie orecchie. Come
incantata, mi ritrovavo a guardare i cubetti di zucchero scomparire dalla
ciotola piano piano, quasi il loro compito fosse quello di cadenzare il tempo. «Prendine
uno e inzuppalo nella mia tazzina», mia nonna richiamava la mia presenza a
tavola nella sua piccola cucina e io, seduta su una sedia con l’aiuto di un
cuscino, iniziavo allora a gustarmi quella delizia proibita.

Accadeva
poi che a volte si unisse a loro teta Vida (teta equivale a «zia»
ed è un modo tipico di rivolgersi a tutte le donne adulte conoscenti o amiche
di famiglia). Teta Vida, dunque, laica per eccellenza, era una signora
di origine serbo-ortodossa dall’eleganza ineguagliabile. Gonne plissé, a
scacchi neri e bianchi, giacchettine di velluto nero, guanti raffinati,
berrettini francesi e l’immancabile ombrello, a meno che non fosse estate. Il
tutto indossato con la grazia di una figura alta e snella illuminata da un
sorriso ammaliante che nei suoi occhi chiarissimi rifletteva la pace. E non
parliamo della sua vasca da bagno! Era più piccola di quella che aveva mia
nonna ma a forma di poltrona e quindi di gran lunga più comoda. Io la adoravo
ed era, infatti, teta Vida a fare sempre il bagno alla sua Nanà, come
lei mi chiamava. In poche parole, ero la sua prediletta. Abitava proprio
nell’appartamento di fronte, al primo piano di un palazzo dall’architettura
socialista che sorgeva nel cuore di Sarajevo. A pochi passi, il mondo intero:
la cattedrale cattolica, quella ortodossa, la moschea tra le più antiche della
città e la sinagoga. Insomma, una Gerusalemme in miniatura! Attorniate poi da
un’infinità di palazzi di tutte le epoche: turco-ottomana, austroungarica,
socialista.

Ma se
questo mondo io lo vedevo all’esterno, è dentro casa nostra che lo percepivo
nelle sue essenze. Sento ancora negli occhi i loro sorrisi, vedo ancora le
parole scorrere sulle loro labbra quando vengo distratta dal forte picchiare
sulla porta di un bastone. Eh sì, era teta Anita, una professoressa di
geografia in pensione, profondamente devota alla propria tradizione ebraica e
altrettanto incuriosita da tutte le altre. Un essere tanto ingombrante nella
propria fisionomia quanto delicato nel modo di parlare: «Queste sono un dono
raro, che non ti venga in mente di sfoltirle quando sarai grande!», mi diceva
sempre, accarezzando delicatamente le mie folte sopracciglia. Scesa dal quarto
piano dello stesso palazzo, questa alquanto insolita vicina di casa, a volte,
in segno di un saluto, picchiava sulla porta e se ne andava via, fuori, a farsi
la sua lenta passeggiata quotidiana. Ma se picchiava più di due volte, voleva
dire che anche lei era lì per un caffè e due parole. Ed ecco che mi ritrovavo
il mondo intero in casa nostra ogni sabato mattina.

Quattro
culture, o cinque o sei,  tra origini,
idee, convinzioni e pensieri. Insomma, una vera macedonia. E quale raro gusto
aveva questa macedonia, e tutta per me! Vita raccolta in quattro menti, anime e
cuori nella purezza di quell’umanesimo che incoronava la loro umanità. Tanta
semplicità vedo oggi in quei preziosi momenti, che è stata, in fondo, il vero
filo conduttore della loro esistenza. L’amicizia che scorreva in tutti quegli
anni tra i personaggi di questo racconto raffigura un’anima, l’unica anima di
un mondo che non c’è più. Quale magnifico folclore colorava l’aria e quanta
poeticità esprimevano quegli azzurri occhi di suor Vilma nel guardare mia nonna
con tanta stima e ammirazione. Due donne così apparentemente diverse, una sarta
e una suora. Ecco, mi fermerei a queste definizioni e null’altro conta. Si
erano conosciute all’ospedale di Sarajevo; una cuciva le lenzuola e l’altra
assisteva i malati, all’interno di un sistema guidato da un ideale politico che
nessuna delle due aveva mai abbracciato ma con il quale entrambe avevano convissuto
in pace e nel rispetto. Era come se viaggiassero su un binario parallelo, a un
ritmo tutto loro e a una velocità misurata. Puro teatro erano questi due
personaggi, e nasceva dal nulla.

Immaginatevi
la scena in cui mia nonna prende le misure per il suo abito da religiosa mentre
le dà notizie dei suoi generi, uno italiano e l’altro un comunista di origine
serba, nonché mio padre. Le Nozze di Figaro nasce da un’idea simile:
inizia con una scena in cui Figaro misura la stanza per vedere se dentro ci può
stare un letto nuziale, capite? E quanto parlare di una figlia così lontana e
di un’altra in casa ma così criptica, mentre nel frattempo suor Vilma cercava
di capire il modo migliore per tenere su il suo copricapo ingombrante. Ma
allora, dico io, ho vissuto su un palcoscenico per diciotto anni e mia nonna e
suor Vilma ne sono testimoni? Quale strepitosa pièce teatrale è mai
questa? È forse vero che quando il teatro diventa la nostra casa, esso diventa
anche la nostra realtà? E se questa era la mia realtà, allora la mia vita non è
stata che una commedia, un dramma, un dialogo oppure un monologo?

Se ci
penso, in ognuno di questi modi oggi potrebbe definirsi quello che è stata
l’ormai dimenticata Jugoslavia. Quanto alla Bosnia Erzegovina, non è che una
parte del puzzle di un racconto irraccontabile. Sarajevo ne è un pezzo. Nura e
Vilma, invece, un prezioso dipinto all’interno di quel pezzo del puzzle mentre
quei momenti, in cui mi immergevo come nelle più accoglienti delle acque, sono
oggi per me il viaggio eterno. Mi giro e rivedo tutto, ascolto e sento tutto,
annuso e percepisco ogni profumo, odore, l’aria di un mondo che si è sciolto
come un cubetto di zucchero inzuppato nel caffè lasciandomi l’inestimabile
ricordo del suo gusto. Custode di attimi, vado avanti nel silenzio che possiamo
sentire soltanto camminando nella notte, lungo le strade coperte di neve di una
città che accoglie ogni fiocco, gentile e discreta. Ah, che freddo generoso di
vita sulle guance. E che pace la neve mentre cade armoniosa come il sipario che
si chiude con grazia.

Sabina Gardovic
In collaborazione con


Il
concorso letterario nazionale Lingua
Madre, ideato da Daniela Finocchi,
giornalista da sempre interessata ai temi inerenti il pensiero femminile, nasce
nel 2005 e trova subito l’approvazione e il sostegno della Regione Piemonte e
del Salone Internazionale del Libro di Torino.

Il concorso è il primo a essere espressamente dedicato alle
donne straniere – anche di seconda o terza generazione – residenti in Italia
che, utilizzando la nuova lingua d’arrivo (cioè l’italiano), vogliono
approfondire il rapporto fra identità, radici e mondo «altro». Una sezione
speciale è riservata alle donne italiane che vogliano raccontare storie di
donne straniere che hanno conosciuto, amato, incontrato e che hanno saputo
trasmettere loro «altre» identità.

Il concorso letterario vuole essere un’opportunità per dar voce
a chi abitualmente non ce l’ha, cioè gli stranieri, in particolare le donne che
nel dramma dell’emigrazione/immigrazione sono discriminate due volte.
Un’opportunità di incontro e confronto, perché il bando non solo ammette ma
incoraggia la collaborazione fra le donne straniere e italiane nel caso l’uso
della lingua italiana scritta presenti delle difficoltà.

(da www.concorsolinguamadre.it)

Per
gentile concessione del Concorso letterario nazionale  Lingua
Madre pubblichiamo il racconto di: Sabina Gardovic, Cubetti di
zucchero,  dal
libro «Lingua Madre Duemilaquattordici – Racconti di donne straniere in Italia»,  Edizioni SEB27. Il racconto di Sabina
Gardovic è stato selezionato al IX Concorso letterario nazionale Lingua Madre.

tags: racconto, Boia Erzegovina, amicizia, dialogo, folclore

Sabina Gardovic