Brasile. I tamburi di oxalá

Da alcuni studiosi
l’umbanda è considerata la religione brasiliana per eccellenza perché
miscellanea di tutti gli elementi da cui il paese ha preso forma. Per cercare
di capire abbiamo visitato alcuni «terreiros», i luoghi dove si svolgono le
cerimonie. Le sorprese non sono mancate.

Floriano.
Sopra la porta d’ingresso, sul muro color verde, la scritta recita: «Casa de
productos de umbanda São Jorge». All’interno gli scaffali sono pieni: ci sono
incensi e prodotti naturali per propiziare ogni genere di obiettivo (dall’amore
ai soldi); e poi statue di varie dimensioni con le fattezze di santi cattolici
o di altre persone.

Nel centro di Floriano, piccola città del Piauí, ci sono ben
due negozi che vendono articoli per l’umbanda. Eppure, stando alle statistiche
ufficiali o semplicemente alle risposte della gente, i brasiliani che seguono
quella religione sarebbero pochi (o pochissimi).

Anche individuare un terreiro, il luogo dove si tengono
le cerimonie, non è impresa facile. In questo noi veniamo assistiti dalla
fortuna. Arriviamo a casa del signor Ademar José Soares, a pochi metri dalla
riva del Paranaiba, perché lui, un uomo di 76 anni con una vitalità ben
superiore a quella prevedibile per la sua età, è un organizzatore del bumba-meu-boi, una
nota festa popolare di antica tradizione.

Quasi subito l’obiettivo della nostra visita diventa però
un altro. Ademarzinho (i diminutivi sono una diffusa consuetudine brasiliana)
ci racconta infatti di essere un pai-de-santo, il responsabile di un terreiro dell’umbanda.
Immediatamente lo tempestiamo delle domande più disparate.

Vedendoci così interessati, l’uomo ci invita a partecipare
alla gira (sessione) del venerdì successivo. Spinti dalla nostra
grande curiosità, aderiamo con entusiasmo. Peraltro ci imponiamo di non fare
troppa pubblicità all’invito, dato che spesso le cerimonie di umbanda, pur non
essendo segrete, dai più vengono descritte come macumba nella sua accezione
negativa, cioè incontri dove si praticano malefici e dunque da evitare con
cura.

Celebrazione e riti

Ci presentiamo puntuali, verso le nove della sera,
davanti all’abitazione di Ademarzinho. La casa è assai modesta e non ci sono
insegne che indichino la presenza di un terreiro. Per accedervi si passano
due porticine. All’entrata del locale ci sono due banchi per ospitare chi
voglia assistere alle sedute che si svolgono al di là di una piccola balaustra.
A illuminare gli spazi ci sono alcune deboli luci, ma soprattutto candele (velas), sparse in ogni
angolo. Religione sincretica per antonomasia, l’umbanda viene considerata
monoteista (Dio è chiamato Olorum o Zâmbi), anche se la credenza negli orixás (di derivazione
africana) e quella negli elementi della natura (ereditata dal panteismo
indigenista) potrebbero far pensare il contrario.

Qui, nel terreiro di Ademarzinho, il sincretismo tra umbanda e
cattolicesimo trova la sua forma concreta e visibile in fondo al salone, dove,
appoggiato a una parete azzurra, c’è un vero e proprio altare (congá). Al centro un
festone circonda una statua di San Lazzaro, accanto Santa Barbara e Nostra
Signora di Aparecida, oltre a un rosario e, poco sopra, un piccolo crocefisso.
Sui lati dell’altare trovano invece spazio una serie di statue, sistemate su
ripiani in forma di scala. Si distinguono Gesù con la croce, padre Cicero (un
famoso prete brasiliano), San Francesco d’Assisi, San Giovanni Battista, Santa
Teresina delle Rose, San Benedetto, San Michele Arcangelo, San Sebastiano.

Alla destra dell’altare ci sono i tamburi (atabaques), che rimandano
alla tradizione africana, e l’ingresso ai locali privati del terreiro.

Al centro della sala c’è un palo (guna) bianco, attorno al
quale si svolgeranno le danze. Esso simboleggia l’unione tra la terra e il
cielo, ma anche il fulcro della casa.

Il celebrante (pai-de-santo) è Ademarzinho, ma ad
aiutarlo ci sono varie signore, alcune delle quali scopriremo essere medium.

La cerimonia inizia con una distribuzione d’incenso (defumação) per purificare
l’ambiente. Quindi, vengono intonati il Padre nostro (Pai nosso) e l’Ave Maria.

Sia il pai-de-santo che le donne aiutanti indossano vestiti bianchi. Va
ricordato che nell’umbanda ogni rito è associato a colori, bevande, cibi,
fiori, erbe, pietre, metalli, simboli specifici.

In un ambiente siffatto l’atmosfera è resa suggestiva dai
suoni dei tamburi e dalle litanie (pontos cantados) innalzate dal sacerdote e
dalle sue aiutanti. Attoo al palo centrale si svolge la danza delle donne,
che lentamente fanno roteare testa e braccia.

Nel terreiro sono presenti alcune persone venute per ricevere riti
purificatori o propiziatori (passes): due uomini, un ragazzo, una giovane donna accompagnata
dalla madre e dal fratello. Con un gesso il pai-de-santo disegna per terra alcuni
cerchi e al loro interno dei simboli. Accanto a questi disegni (pontos riscados) viene
posta l’immancabile candela.

Uno a uno gli uomini, venuti per chiedere la guarigione
dei loro problemi fisici, si presentano davanti alle aiutanti. Presa una
bacinella di metallo, le signore vi depongono foglie ed erbe, le imbevono di
alcol e danno loro fuoco. Poi raccolgono la fiamma con le mani e la «passano»
su piedi, gambe e braccia delle tre persone. Un abbraccio chiude il rito.

Cambio di scena: exú
e pombagira

Dopo un paio di ore una delle donne-medium ci dice di
mettere via macchina fotografica e videocamera. Il suo tono è di quelli che non
ammettono repliche. Obbediamo, anche per non venir meno al nostro ruolo di
ospiti del terreiro.

I componenti della famiglia si sono seduti a terra
attorno a una tovaglia su cui sono stati posti piatti, posate, bicchieri e
varie bottiglie di vino: è l’offerta (ebó) per ottenere una grazia. Al centro della «tavola»
sono stati inoltre deposti alcuni indumenti che ci dicono appartenere al marito
della donna, alcolista e violento che si vuole ricondurre sulla retta via.

Ora il clima che si respira è totalmente cambiato. È
cupo, senza tamburi e canti. La donna che ci aveva fatto riporre gli strumenti
appare stravolta fisicamente ed emotivamente, forse perché incorpora – così ci
verrà spiegato – lo spirito della pombagira Maria Padilha, entità
richiamata quando ci sono problemi d’amore. La scena è però nella mani del pai-de-santo,
anch’egli completamente trasformato, sia nell’aspetto esteriore che nel
comportamento. Capiamo che il pai-de-santo incorpora exú Tranca Ruas, entità che apre o chiude strade a
seconda delle necessità.

L’uomo indossa un mantello nero con una fodera intea
rossa e un tridente ricamato. Tiene in mano una bottiglia di cachaça che sorseggia di
quando in quando. I suoi canti si sono fatti più striduli e incomprensibili.
Intendiamo però chiaramente quando chiede che gli venga portata una gallina
nera. Dalle stanze appartate arriva una giovane signora con in mano l’animale
richiesto.

La gallina viene presa per il collo e passata sul corpo
delle persone. A un certo punto il celebrante tira il collo al malcapitato
animale. Il sangue (ejé) viene raccolto in una ciotola, da cui beve ogni persona
del cerchio.

Va detto che i sacrifici animali non sono affatto comuni
nell’umbanda. Assistervi non è un’esperienza piacevole, ma occorre ricordare
che questo tipo di offerte sono previste da quasi tutte le religioni.

Ormai sono passate le una della notte e noi siamo qui da
ore. Decidiamo quindi di lasciare il terreiro. In silenzio, facciamo un
segno di saluto e, indietreggiando di schiena (come ci è stato detto di fare),
usciamo dalla casa.

 

Bibliografia

• Ademir Barbosa Júnior, O livro essencial de umbanda,
Universo dos Livros, São Paulo 2014.
• Andrea D’Anna, Le religioni afroamericane,
Editrice Nigrizia, 1972
• Pedro F. Miguel, Honga. Per un’antropologia africana,
La Meridiana, Molfetta 1990.
• Pierluigi Lattuada, Sciamanesimo brasiliano, Anima
Edizioni, 2005.
• Andrea Romanazzi, Lo sciamanesimo afroamerindio,
Anguana Edizioni, 2013.

Intervista con Patricia Santos

Candomblé e umbanda
sono religioni

Patricia Santos è una giovane
professoressa di storia presso l’Università statale del Piauí. Da cinque anni
si occupa di religiosità e di fenomeni religiosi, ma sono stati i suoi studenti
a spingerla a studiare anche l’umbanda.

Professoressa, nel maggio del 2014, un giudice federale di nome Eugênio
Rosa de Araújo sentenziò che le religioni afrobrasiliane non sono religioni…

«Sulla questione ci sono state varie discussioni. Personalmente le
considero delle religioni, con regole e riti».

Si dice che l’umbanda e il candomblé siano religioni afrobrasiliane. È
un’affermazione corretta?

«Direi di sì. L’umbanda è una religione con un’origine brasiliana, ma
con varie matrici: cattolicesimo, spiritismo kardecista, elementi di religiosità
indigena e di religiosità africana. È una religione eterogenea nata anche come
forma di resistenza. Il candomblé è più una religione africana. Direi che essa ha
subito un “processo di sbiancamento” meno accentuato. Nondimeno anche in essa
sono presenti rituali di altre religioni».

Nel suo paese quanti sono i seguaci delle religioni afrobrasiliane?

«Non saprei dire quanti siano i seguaci dell’umbanda, anche perché si
assiste a una negazione da parte degli stessi umbandisti. In un sondaggio
condotto da un gruppo di ricerca nella città di Oeiras, nel Piauí, si è
riscontrato che gli stessi frequentatori dei terreiros non si
considerano umbandisti o addirittura negano qualsiasi relazione con quella
religione.

I dati Ibge (Instituto Brasileiro de Geográfia e Estatistica)
dicono che in questa città non ci sono praticanti dell’umbanda. Un dato
contraddetto dal numero di terreiros esistenti. Soltanto nella zona
urbana se ne contano almeno sette».

Se i numeri dei seguaci non si conoscono, si può almeno dire a quali
categorie sociali appartengano?

«Anche se non è così facile determinare la partecipazione delle varie
categorie sociali, è evidente che tra gli aderenti alle religioni
afrobrasiliane si incontra un gran numero di neri e di poveri. In ogni caso, va
segnalato che oggi molti frequentatori sono bianchi, ricchi e con un alto
livello di scolarità. Rimane vero che, da molto tempo, i terreiros si
trovano nelle periferie delle città o comunque in zone marginali delle stesse».

L’umbanda (e il candomblé) si celebrano sempre nei terreiros?

«Non sempre. Il terreiro è lo spazio dove vengono fatti la
maggior parte dei rituali. Tuttavia, alcuni di essi si possono fare anche all’aria
aperta».

Chi conduce i riti dell’umbanda?

«Generalmente i celebranti sono il pai-de-santo o la mãe-de-santo».

Nell’umbanda sono venerate varie divinità (orixás). Si può
comunque dire che essa sia una religione monoteista?

«La è. Olorum (detto anche Zambi) rappresenta il nostro Dio cristiano.
Oxalá è Gesù Cristo. E poi ci sono gli orixás, santi con nomi e ruoli
diversi».

Esiste un momento che accomuna le celebrazioni in ogni terreiro?

«Il momento centrale sono i pontos cantados, che sono canti e musiche
che vengono intonati durante le celebrazioni».

Esiste una «linea bianca» e una «linea nera» nelle celebrazioni
dell’umbanda?

«Altra risposta complicata da dare. In generale, gli umbandisti non
considerano pratiche denominate linea nera, volte cioè a propiziare il male. Al
contrario, l’umbanda si propone di essere vicina alle cose buone».

L’umbanda è malvista o almeno guardata con sospetto da molti
brasiliani. Come mai?

«Perché essa è sempre stata descritta con termini negativi come quello
di stregoneria. Davanti a definizioni di questo tipo le persone si spaventano.
Oltre a ciò, c’è una motivazione che deriva dalla formazione sociale e storica
del Brasile. Il paese ha sempre descritto i neri come esseri inferiori, barbari
o stregoni. Magari per il semplice fatto di saper lavorare le erbe o di adorare
la natura».

Se in passato fu la chiesa cattolica a guardare con sospetto alle
religioni afrobrasiliane, oggigiorno sono le chiese neopentecostali (con la Igreja
Universal di Edir Macedo in testa) i principali avversari di umbanda e
candomblé. È così?

«Nel passato la chiesa cattolica ha condannato i culti religiosi
afrobrasiliani, perché ai suoi occhi erano generatori di malefici. Questo
atteggiamento fu molto seguito durante il periodo coloniale brasiliano. Anche
perché era  funzionale al controllo e
alla vigilanza dei padroni (bianchi) sugli schiavi (neri).

Oggi sono le chiese neopentecostali a mostrare intolleranza. Nella loro
ricerca di proseliti, esse non esitano a porre in essere azioni violente contro
i seguaci o i luoghi delle religioni afrobrasiliane. Ad esempio, ci sono stati
molti casi (cfr. Istoé 2191, 2011) di invasione di terreiros o
distruzioni di immagini di orixás che si trovassero in vie o piazze
pubbliche».

Paolo Moiola

 


 
TRA CIELO E TERRA. Dizionario essenziale
I SOGGETTI

Orixás – Derivanti direttamente dalla
tradizione religiosa africana portata nelle Americhe dagli schiavi neri, sono
divinità, ministri di Dio (Olorum-Zâmbi), ognuno legato a uno o più elementi
della natura, ognuno con precise qualità e funzioni. Sono 16 in totale. I
principali (assieme ai corrispettivi sincretici) sono: Oxalá (Gesù Cristo),
Iemanjá (Nostra Signora), Ogum (San Giorgio), Oxóssi (San Sebastiano), Xangô
(San Geronimo, San Giovanni Battista e altri ancora), Obaluaê (San Cipriano),
Oxum (divinità femminile, Nostra Signora di Aparecida).

Eguns – Sono gli spiriti, entità
energetiche che hanno avuto una vita materiale. I principali sono i caboclos
(spiriti di indigeni), i pretos-velhos (spiriti di schiavi africani)
e i crianças (spiriti di bambini).

Exús / Pombagiras – Sono spiriti di particolare
rilevanza, in quanto messaggeri e intermediari tra gli orixás e gli uomini. Le pombagiras ne sono la versione femminile.
Quando erano incarnati in un corpo, exús e pombagiras ebbero vite difficili, segnate da
violenza, odio, vendetta, ignoranza. Gli avversari dell’umbanda e delle
religioni afrobrasiliane, identificandoli con il diavolo e il male in generale,
li usano per screditare quelle credenze.

Pai-de-Santo / Mãe-de-Santo – Sono il sacerdote o la
sacerdotessa responsabili di un terreiro. Il gruppo di fedeli si chiama família-de-santo.

Médiuns – I medium sono persone dotate di
una sensibilità particolare che le pone in condizione di fare da intermediari
con il mondo degli spiriti. È comune lo stato di transe («trance», in
inglese).

 
• LUOGHI, PRATICHE, STRUMENTI

Terreiro – È il luogo dove si svolgono le
cerimonie di umbanda o candomblé.

Congá – È l’altare sacro del terreiro.

Defumação – È la pratica di bruciare erbe e
resine per purificare gli ambienti dove si terranno le sessioni di umbanda.

Pontos cantados / Pontos riscados – I primi sono i canti e
invocazioni. Si distinguono dalle preghiere. I secondi sono invece disegni – di
solito cerchi bianchi con stelle, frecce, triangoli, croci, e altri segni
geometrici – che richiamano ciascuno una precisa entità spirituale.

Atabaque – È uno strumento musicale a
percussione. Consiste in un tamburo di legno cilindrico o leggermente conico
con la bocca coperta da cuoio. È molto utilizzato nelle cerimonie di umbanda e
candomblé.

Velas – Le candele sono sempre presenti
nei riti dell’umbanda.

Passes – I rituali usati per alleviare o
curare le sofferenze, spirituali o fisiche, delle persone.

Ebós – Sono le offerte agli orixás
per ringraziamento o per chiedere qualcosa. Si chiama ebó ejé, l’offerta
di sangue.

Corte – È il rito del sacrificio di
animali (peraltro previsto in molte religioni). Non costituendone un
fondamento, nell’umbanda non è una pratica comune.

Gira – È una sessione di umbanda.


 

• Retroterra culturale

Spiritismo kardecista – Corrente filosofica-religiosa (ma
con pretese di scientificità) fondata dal francese Allan Kardec (1804-1869). Si
fonda sulla credenza dell’esistenza degli spiriti, anime disincarnate degli
uomini. L’unica differenza tra uomini e spiriti è che i primi sono
temporaneamente incarnati in un involucro corporeo. Le comunicazioni tra uomini
e spiriti avvengono attraverso un «medium», che è una persona con particolari
doti che funge da mediatore. Lo spiritismo kardecista è una delle matrici
dell’umbanda. Quest’ultima ha anche una data di nascita: 1908, a Rio de
Janeiro.

Macumba / Macumbeiro – Nomi generici per indicare le pratiche
religiose africane trapiantate in Brasile e la persona che le attua. Tuttavia,
i due termini sono quasi sempre usati con finalità dispregiative.

Altre denominazioni – Esistono altre denominazioni delle
religioni afrobrasiliane, ognuna legata a una determinata regione geografica,
ma con caratteristiche identiche o similari. Le principali sono le seguenti: tambor-de-mina,
xangô, batuque. A?Cuba la religione di origine africana
ha assunto il nome di santeria, ad Haiti quello di vodù (cfr. MC
giugno 2014).

Paolo Moiola

Tags: Religioni afrobrasiliane, Macumba, Candomblé, sincretismo religioso

Testi e foto di Paolo Moiola




Cari Missionari

 

Ricordando P. Gianni Basso

Cari amici,

non siamo propriamente più ragazzi, la nostra età media
si aggira sui 50 anni e più, ma è ancora forte in noi il ricordo degli anni
della formazione. Siamo cresciuti nella parrocchia Regina delle Missioni di
Torino a pochi passi dalla Casa Madre di corso Ferrucci, e i missionari e le
missioni sono stati da sempre una presenza costante nei nostri pensieri e nel
nostro cuore. Ma c’è un motivo in più. Proprio nel momento più significativo
della nostra vita, l’adolescenza, abbiamo avuto la fortuna di avere come
viceparroco e quindi come nostro principale formatore un missionario davvero
speciale, padre Gianni Basso.

Padre Gianni, nato a Quinto di Treviso nel 1946, prima da
seminarista e poi come viceparroco, è stato con noi alcuni anni, presenza
fortissima e insieme riservata. Era lì e ci accoglieva sorridendo, con una
battuta o una frase scherzosa. Sembrava svagato, e invece era sempre tutto per
noi, ci vedeva «dentro», come eravamo davvero oltre l’esteriorità. Di ciascuno
di noi ricordava tutto: vicende, aspirazioni, problemi, ma anche la data del
compleanno, le ricorrenze che si sono via via aggiunte con gli anni.

Padre Gianni c’era, ma era ugualmente pronto a «sparire»,
a tirarsi indietro, a farsi da parte per quanto era umile e schivo. Un merito,
un successo non se lo prendeva mai, ma lo attribuiva agli altri, sempre pronto
invece a chiedere scusa, a camminare in punta di piedi per non disturbare…

Poi il disegno di Dio l’ha portato lontano, in Brasile,
noi sapevamo quanto lui desiderasse andare in missione e, pur immaginando che
ci sarebbe mancato, siamo stati contenti che il suo sogno si realizzasse.

Non sappiamo che cosa abbia rappresentato per le persone
che ha incontrato nei molti anni di Brasile, possiamo immaginarlo a partire
dalla nostra esperienza. Ma sappiamo che, quando ci parlava di loro, emergeva
un insieme di persone vive, concrete a cui padre Gianni aveva voluto bene nello
stesso modo in cui aveva amato noi: singolarmente, a uno a uno come persone,
ciascuna importantissima ai suoi occhi e nel suo cuore.

E siamo convinti di una cosa: è stato proprio questo suo
modo di volerci bene che ha fatto sperimentare a tutti e a ciascuno la
profondità e la concretezza dell’Amore di Dio su di noi.

Quando, due anni fa, ci ha raggiunti la notizia della sua
morte, ci siamo ritrovati dove eravamo sempre stati con lui, nella parrocchia
di Regina delle Missioni, per ricordarlo nella preghiera, con i suoi confratelli
(nella foto qui sotto).

E, piano piano, è nata l’idea di ricordare padre Gianni
anche in un altro modo, aiutando altri missionari che oggi, in giro per il
mondo, continuano a portare avanti i suoi stessi ideali, in particolare quelli
relativi alla formazione dei più giovani. Ed eccoci qui, con una nostra piccola
offerta che vorremmo farvi giungere, umilmente, nel suo nome e nel suo ricordo…

amici
di padre Gianni
17/04/2015


Il fascino di Gesù
Cristo

Una sola piccola rettifica all’articolo sull’India,
relativa al Kumbh Mela (MC 4/2015, p. 53). Questo grande pellegrinaggio
si svolge ogni tre anni (il periodo dipende dalla posizione di Giove e del
Sole) alternandosi nelle quattro località precisate nell’articolo. È il Maha
(Grande) Kumbh Mela che si svolge ogni 12 anni a conclusione del ciclo di
quattro Pua Kumbh Mela. L’ultimo, nel 2013 a Allahabad (già Prayag), ha fatto
registrare una presenza stimata di 80-100 milioni di pellegrini, con un picco
di qualche decina di milioni nella notte fra il 9 e il 10 febbraio. Il prossimo
Kumbh Mela, come precisato nell’articolo, si svolgerà a Nashik e inizierà il 14
luglio 2015, quando Giove e Sole saranno nel segno del Leone (precedente in
quella località 2003).

Ciò che mi ha colpito invece e che mi ha spinto a scrivervi è la descrizione perfetta di Gesù
Cristo, a pagina 19 dello stesso numero. Gesù Cristo, come dice spesso anche
papa Francesco, era l’uomo dei diseredati, dei più deboli, dei meno fortunati,
di coloro che sono nel mirino dei benpensanti, di coloro che vivono ai margini,
di coloro che sono considerati rifiuti, ecc.

Esempio che tanti personaggi che ho avuto la fortuna di
conoscere in terre di missione, nella stragrande maggioranza pochissimo
conosciuti dal grande pubblico, hanno cercato o cercano di imitare. Madre
Teresa è stata grande, ma voi potete testimoniare che di Madri Teresa, nel
mondo, ce ne sono state e ce ne sono parecchie. Sia al femminile, che al
maschile.

Ora che l’età e gli acciacchi mi impediscono di tornare
nelle mie zone preferite (Asia e Africa in particolare), proprio in virtù delle
significative esperienze fatte in molte zone dove la vita è realmente
difficile, sono spesso chiamato da scuole medie per parlare ai ragazzi di altri
loro coetanei meno fortunati, di «infanzia negata», della difficoltà di essere
bambini dove è già difficile vivere: bambini soldato, bambini di strada,
bambini abbandonati, bambini sfruttati, ecc. Il tutto documentato con immagini
scattate da me e quindi molto più credibili agli occhi dei ragazzi.

Sempre più spesso si tratta di scuole ormai
multireligiose (presenze musulmane, induiste, buddiste), ma per evidenziare
maggiormente il coraggio di molti di questi bambini e ragazzi meno fortunati
che hanno saputo reagire, inizio sempre con la figura di Gesù Cristo: «Possiamo
anche non essere tutti d’accordo che Gesù fosse realmente il Figlio di Dio, ma
non possiamo mettere in dubbio la sua esistenza. Non possiamo negare che, fin
da ragazzino, fosse un personaggio scomodo dotato di grande coraggio». Cito
alcuni suoi comportamenti e prese di posizione che lo portarono a essere
crocefisso come i peggiori criminali. Devo dire che funziona. Le risposte che
ottengo alla fine in termine di partecipazione attiva, sono sempre
gratificanti. Grande attenzione e domande a raffica non mancano mai. Cordiali
saluti,

Mario
Beltrami
Sesto San Giovanni (MI)
04/04/2015


Una strada per padre  Antonio Giannelli

Il giorno 07 marzo 2015 è stata inaugurata una strada
della nostra città di Parabita (Lecce), intitolata a padre Antonio Giannelli
(1923-2001), missionario in Kenya per oltre 50 anni. Alla cerimonia,
presenziata dal sindaco Avv. Alfredo Cacciapaglia, da familiari, amici ed
esponenti della cultura, era presente anche padre Efrem Baldasso (alla
sinistra del sindaco nella foto
), missionario della Consolata e superiore
nella sede di Galatina. Per noi ha tracciato un breve profilo di padre Antonio
e delle opere da lui compiute in Kenya: dalle tante cappelle sparse nel
territorio, ai laboratori artigianali, alle case per i poveri. Due opere
eccellono: la scuola per ragazzi portatori di handicap mentali e la chiesa
parrocchiale di Wamagana dedicata alla Madonna della Coltura di Parabita, sua
città natale, all’ombra della quale è nata la sua vocazione per le missioni.

amici
di Parabita
23/03/2015

Risponde il Direttore




Tra nostalgia e speranza

Cuba e l’attesa per
il dopo «bloqueo» / 2

Sull’isola caraibica
i cartelloni stradali non pubblicizzano prodotti di consumo, ma eroi della
rivoluzione. Abituata a vivere con poco, la maggioranza dei cubani attende il
cambiamento. Difficile capire come il prevedibile miglioramento economico trasformerà
i ritmi (rilassati) della loro attuale
esistenza.

Varadero. Mentre sono seduto al bar del mio hotel a sfogliare
lo stradario, il barman mi chiede dove sono diretto. Gli rispondo che
all’indomani partirò alla volta del Sud e, in particolare, per la zona di
Cardenas e Matanzas. Mi suggerisce di parlare con Yandri, una delle
responsabili dell’hotel che, come molti altri, proviene da Cardenas. Pare sia
la persona più adatta con cui scambiare qualche battuta e ricevere indicazioni.
La cerco alla reception, ma è impegnata. Mi dà
appuntamento al bar, a fine serata. Quando la incontro mi offre dell’ottimo rum
e s’informa sul mio lavoro. Non nega le sue origini ma per lei, che parla un
quasi perfetto inglese e vive a contatto più con europei e nordamericani che
con cubani, è un po’ imbarazzante parlare di Cardenas. Yandri si considera una
privilegiata a poter gestire un hotel nell’area ricca di Cuba. Al contrario –
spiega la donna -, la sua città di origine mi mostrerà proprio quegli aspetti
di povertà e vita quotidiana che intendo documentare.

Trascorriamo
la serata a parlare e bere. A un tratto della conversazione, probabilmente per
la stanchezza, la fiducia che le ispiro o semplicemente a causa di un sorso in
più di rum, Yandri decide di lasciarsi andare iniziando a parlare della sua
famiglia e della sua vita, ma soprattutto di come, grazie ai suoi studi e a suo
marito, membro Abakuá, sia riuscita a emergere e a lasciare Cardenas.

Il mondo Abakuá


Ho sentito parlare di Abakuá molti anni fa, attraverso
alcune letture sul popolo nigeriano. A memoria ricordo che non si tratta
soltanto di una religione, ma di una società segreta mutualistica, a carattere
religioso, che da molti è stata paragonata alla nostra massoneria. Adesso il
mio pensiero e la mia curiosità si accendono su quella parola «di troppo»
sfuggita a Yandri. Timidamente, le chiedo di approfondire l’argomento. La donna
non si tira indietro, ma suggerisce di allontanarci dal bar e di fare una
passeggiata in riva al mare, lontani da occhi e orecchie indiscrete.

Mi confida che è la prima volta che parla a uno
straniero di quel mondo. Sottovoce racconta che gli Abakuá sono una setta
segreta che pratica culti magici, è a partecipazione esclusivamente maschile e
la sua solidità si fonda sulla riservatezza e sull’esclusione delle donne dal
potere. Ancora oggi gli anziani di Cardenas raccontano come questa associazione
sia stata fondata nel Sud della Nigeria da una donna il cui potere era così
forte che tutti gli abitanti del paese si consideravano suoi schiavi.

L’atmosfera, il rumore delle onde e il cielo stellato
della notte cubana creano lo scenario perfetto per questo racconto
affascinante, da mille e una notte. Mi sento come mio figlio quando, a casa a
Torino, durante le sere invernali, ascolta fiabe e aneddoti della tradizione
africana: leggende e credenze di un patrimonio culturale e antropologico che a
Cuba ha trovato ospitalità. Una società segreta che mantiene ancora le
componenti di un universo religioso e musicale, fatto di magia, danze e
simboli, fedeli al modello africano, a parte qualche influenza simbolica di
carattere cristiano. La società Abakuá, come ancora oggi accade nella costa
africana, possiede un proprio linguaggio codificato per i rituali praticati, e
a Cuba il livello di stima all’interno dell’organizzazione si fonda sul grado
di conoscenza di questa lingua antica.

Sono incantato e affascinato da quello che Yandri mi sta
descrivendo con chiarezza, ma allo stesso tempo con un’accorta assenza di
dettagli e riferimenti come impongono le millenarie regole della società.
Purtroppo è notte fonda ormai e all’indomani dovrò alzarmi all’alba per
riprendere il mio cammino.

La ringrazio per la fiducia che ha riposto in me e
l’opportunità che mi ha dato di poter godere del suo racconto. Prima di
lasciarci brindando con l’ultimo bicchiere di rum, mi scrive il numero di
cellulare di suo marito, dicendomi che avrei potuto chiamarlo una volta a
Cardenas qualora avessi avuto bisogno di supporto e indicazioni pratiche
durante le mie riprese.

La prevalenza del Che

Dopo
pochissime ore di riposo, al mattino presto mi rimetto in viaggio. Percorrendo
le strade cubane nemmeno all’occhio più distratto sfugge un particolare. Una
delle caratteristiche uniche di Cuba è l’assenza di cartelli pubblicitari di
quell’immaginario a cui in Occidente siamo abituati: effetti speciali,
automobili elettriche e tablet di
ultima generazione. Qui i volti sui cartelloni pubblicitari non sono quelli di
modelle famose. Sono raffigurati epici disegni e gigantografie di Che Guevara e
slogan di propaganda politica che inneggiano ai valori e ai trionfi della
Rivoluzione o ricordano gli effetti deleteri dell’embargo. I pochi chilometri
dell’autopista che mi porta verso Cardenas sono rovinati e spesso pieni di
buche. Mi fanno compagnia decine di Cadillac, Chevrolet, Buick, Dodge rumorose
e scoppiettanti ed enormi autobus turistici che trasportano masse di persone
verso la più famosa e rinomata Trinidad, situata quasi sulla costa Sud
dell’isola.

Mi
rendo conto molto presto che sto per entrare in una dimensione di Cuba
totalmente diversa da quella vista finora. Incrocio e sorpasso carretti e
carrozze trainate da buoi e cavalli. Mezzi di trasporto d’altri tempi che si
fanno sempre più numerosi man mano che mi addentro nei piccoli centri abitati
ma che presto diventano la normalità nelle stradine intee dove, sempre più
spesso, mi ritrovo a dare la precedenza a un cavallo piuttosto che a
un’automobile. Cardenas sorge a soli dieci chilometri a Sud di Varadero ed è la
città dormitorio della maggior parte della forza lavoro della costa. Lontana
dai riflettori del turismo, essa offre uno spaccato della vita cubana, oltre a
cultura e storia, testimoniate da edifici coloniali ormai fatiscenti.

Sul ciglio delle
strade

Parcheggio
l’auto in quello che è il centro della vita sociale della cittadina, Parque Colón,
la piazza dove sorgono la cattedrale dedicata all’Immacolata Concezione, in
perfetto stile coloniale, e il monumento a Cristobál Colón. È la prima statua
eretta a Cuba in memoria di Cristoforo Colombo nel 1862. Celebri e scolpite
nella memoria storica degli abitanti di Cardenas le parole che il genovese pronunciò
appena sbarcato a Cuba: «Non ho mai visto paese più bello». La città non
nasconde il suo stato di decadenza, le sue strade sono malmesse, piene di
rifiuti e attraversate, anche qui come a La Habana, da rivoli d’acqua di ogni
genere. Tuttavia è sufficiente percorrere l’Avenida de Céspedes per assaporare
il vero spirito cubano, quello fatto di musica, sorrisi e felicità a dispetto
del poco che un’economia stanca e impoverita offre agli abitanti dell’isola. A
Cardenas uno straniero è abbastanza raro da avvistare e per questo attira molto
presto l’attenzione degli abitanti che vivono le loro giornate sul ciglio delle
strade. Insomma, non passo inosservato. Anche qui il rituale dell’approccio è
lo stesso: «Sigari? Ron? Chica?».

Sono
tutti molto disponibili a farsi fotografare e ognuno mi racconta un pezzo della
propria esistenza. Pillole di vita dal ritmo lento o forse rassegnato, lontano
anni luce dalla nostra realtà fatta di stress, inutili lotte contro il tempo,
insoddisfazione e consumismo esasperato. Enrique, giovane molto curato ed
elegante, dice di essere un «benefattore» per le turiste canadesi. Aleida, con
i suoi due piccoli figli vestiti di niente, racconta il suo sogno di andare in
Italia come sua cugina. Yisel, dietro al suo banchetto di verdure, mi chiede di
trovare un marito italiano per la sua giovane e bella figliola che timidamente,
imbarazzata per le parole della madre, mi fissa seduta su un gradino poco
distante. Lucrecia, donna di circa 75 anni, dai lineamenti delicati e memori di
un’antica bellezza, è vedova e vive da sola. Mi invita a entrare in casa
offrendomi da bere e mi racconta di sua figlia che abita in Germania. Vive di
stenti in attesa del ritorno a Cuba dei suoi nipoti, ma dimostra piglio, dignità
e tutto il proprio orgoglio cubano mentre mi parla. Mi fissa con le lacrime
agli occhi e il suo sguardo profondo sembra trasmettermi in pochi attimi tutta
l’essenza del suo popolo.

Un futuro di
nostalgia?

Sono molto rari i visitatori tentati di spendere qualche
ora a Cardenas, Matanzas, Colico. È difficile che qualcuno scenda dall’autobus
per lasciarsi trasportare dal fascino del silenzio e della desolazione che
pervade le viuzze di paesini dimenticati e quasi disabitati come San Miguel de
los Baños, lontano dal frastuono delle città più famose e della costa.

È qui
che resiste l’ultimo baluardo dello spirito cubano. I turisti occidentali sono
figli e schiavi del marketing superficiale e artefatto dei tour operator:
spiagge, sole, relax e finzione perdendo di vista il senso della storia, della
cultura, del viaggio, della scoperta. È soltanto in queste zone isolate e
sperdute che si ha la possibilità di entrare in contatto con il passato di Cuba
e con la gente al tempo dei fratelli Castro.

Dopo
la stretta di mano e gli accordi tra i presidenti Raúl e Obama (Città di
Panama, 10-11 aprile 2015), tra qualche anno (non molto lontano, credo), questa
Cuba probabilmente cambierà o scomparirà del tutto, magari sotto i colpi delle
multinazionali ormai alle porte.

Daniele Romeo*
 (*) La prima parte di questo
reportage di Daniele Romeo è stata pubblicata sul numero di maggio 2015.

Daniele Romeo




Perché lo avete fatto?

La testimonianza di un sopravvissuto a S-21


«Perché lo avete fatto?»

Il pittore Vann Nath, morto nel 2011, è stato
rinchiuso nella prigione S-21. L’intervistatore è stato talmente colpito dalla
sua storia che gli ha dedicato un romanzo, S-21. Nella prigione di Pol Pot.

 

S-21 era
il nome di una ex scuola di Phnom Penh convertita in prigione dai Khmer Rossi.
Il suo direttore era Kaing Guek Eav, conosciuto
come Duch. In essa, principalmente tra
il 1976 e il 1978, vennero reclusi gli oppositori del regime di Pol Pot.

Vann Nath, pittore, è stato uno dei pochi prigionieri
sopravvissuti alla S-21. Quella che segue è un’intervista concessa poco prima
della sua morte, avvenuta nel 2011, in una galleria che esponeva i suoi quadri,
osservati dagli sguardi attoniti dei visitatori: «Comprendo la loro incredulità,
ma tutto ciò che ho dipinto è accaduto veramente», ha esclamato d’un tratto
Nath mentre mi accompagnava nella stanza in cui viveva e lavorava. Dal 1979,
anno in cui era stato liberato dall’incubo, Nath ha dedicato la sua vita a
testimoniare la sua esperienza nella S-21.

Quando e perché è stato arrestato?

«Sono stato arrestato alla fine del 1977,
ufficialmente per aver offeso l’Angkar (l’organizzazione politica dei Khmer Rossi, ndr). Ricordo che, per settimane intere, ho cercato di
ripercorrere ogni parola, ogni mio gesto per risalire all’attimo in cui è stato
deciso il mio arresto. Ma non sono riuscito a individuarlo. Ero un artista e
questo bastava per essere catalogato come nemico».

Delle 196 prigioni esistenti in Kampuchea Democratica, la S-21 è stata
la più «letale». Chi vi entrava poteva uscie solo morto. Che cosa l’ha
salvata?

«Mi ha salvato Pol Pot!» – dice ridendo -. «Sì, è vero,
Pol Pot mi ha salvato. Duch aveva notato la mia abilità artistica e Nuon Chea (numero 2 nella scala gerarchica dei Khmer Rossi, ndr) gli aveva commissionato un monumento plastico
raffigurante Pol Pot in marcia davanti a un gruppo di rivoluzionari. Avrebbe
dovuto essere costruito al posto del Wat Phnom (un tempio buddista, ndr).
Nel frattempo dovevo dipingere ritratti di Pol Pot».

Ha mai incontrato Pol Pot?
«Mai. L’ho visto solo in fotografia».
Il regime di vita è sempre stato brutale?

«No, verso la fine del 1978 il regime si fece
improvvisamente più rilassato e non c’erano quasi più torture. Anche le guardie
si mostravano più gentili. Penso che il regime avvertisse l’imminenza della
guerra con il Vietnam e cercava appoggi all’estero».

Dopo la sua liberazione ha dipinto quadri che raffiguravano scene di
vita quotidiana all’interno della prigione. È stato testimone diretto di tutto
ciò che ha rappresentato?

«La maggior parte le ho viste direttamente: i prigionieri
sdraiati e incatenati, quelli stremati e affamati, le unghie strappate durante
gli interrogatori, i morsi dei serpenti o degli scorpioni, le scosse
elettriche. Sentivo le urla di dolore, i pianti dei neonati e delle loro madri.
Vedevo i prigionieri caricati sui camion e portati a Choeung Ek. I camion
tornavano vuoti e tutti capivamo che fine avremmo fatto. Altre, invece, mi sono
state raccontate da altri sopravvissuti, come il dipinto del khmer rosso che
uccide un neonato sbattendolo contro un albero».

Pensa di essere stato obiettivo nelle sue rappresentazioni o ha in
qualche modo esagerato?

«È una domanda che continuo a farmi ed è un peccato che
nessun giornalista, fino a oggi me lo abbia chiesto. Sono stato “onesto”? Non
so. Per ciò che ho visto posso dire di sì».

Ha mai incontrato i suoi carcerieri?

«Sì. Ho incontrato Him Huy. Ha detto che se non avesse
fatto quello che gli era stato ordinato di fare, sarebbe lui stesso stato
ucciso. Ma ricordo che nei suoi occhi non vedevo alcuna pietà per i prigionieri
da lui torturati».

Recentemente è iniziato il processo ai dirigenti superstiti di
Kampuchea Democratica. Che effetto le ha fatto vedere Duch, il direttore della
S-21, alla sbarra?

«Non ho provato odio, voglia di rivalsa. Voglio solo
capire quale sia stato il meccanismo che ha prodotto tale regime, tale fobia
del nemico. Voglio capire. Non voglio vendetta. Penso di avere diritto a una
spiegazione. Non mi interessa neppure che vengano condannati. Fosse per me li
lascerei liberi a patto che ci diano delle spiegazioni. Perché è stato fatto
tutto questo? Solo così potremmo evitare il ripetersi di questi drammi. Voglio
che le future generazioni siano immuni da questi pericoli. Ma servono risposte.
Se il processo si limita solo a condannare, allora è tutto inutile».

Piergiorgio
Pescali

 

Piergiorgio Pescali




Un milione e settecentomila

Le vittime dei Khmer rossi


Sul numero delle
vittime del regime khmer in tanti hanno giocato per proprie finalità. Nel
tentativo di avvicinare la verità storica, proviamo a fare qualche
considerazione e qualche calcolo. 

 

Sin
dalla caduta del regime di Kampuchea Democratica a Phnom Penh, sono state
emesse un’infinità di cifre sulle vittime causate dai tre anni e otto mesi di
potere Khmer Rosso. I numeri venivano arbitrariamente gonfiati o ridotti a
seconda della convenienza di chi foiva le cifre, privando di ogni coerenza i
supposti calcoli utilizzati per trarre il numero definitivo. Ad esempio, i
primi a fornire un numero ufficiale dei morti furono i vietnamiti. Ansiosi di
ottenere l’appoggio internazionale per la loro azione di invasione militare,
gonfiarono artificialmente le cifre, che ben presto raggiunsero i quattro
milioni (su una popolazione che, nel 1975, non raggiungeva gli otto milioni di
abitanti). Viceversa, stime più contenute indicavano i cambogiani periti tra le
ottocentomila e il milione di unità. A complicare ulteriormente i conteggi,
c’era il fatto che l’ultimo censimento ufficiale fatto in Cambogia risaliva al
1962.

Un primo calcolo «scientificamente» attendibile in
questo senso fu fatto da un gruppo di analisti solo alla metà degli anni
Novanta, acquisendo i pochi dati ufficiali redatti prima, durante e dopo
l’avvento di Pol Pot al governo ed elaborandoli con formule matematiche.

La base comune, accettata da quasi tutti i demografi,
per risalire alle perdite umane del periodo Khmer Rosso, fu la stima fatta nel
1970 da Jacques Mingozzi, secondo cui la popolazione cambogiana al tempo
ammontava a 7.363.000 unità1. La recrudescenza della guerra e i bombardamenti
statunitensi rallentarono il tasso di crescita, normalmente alto, nei
successivi cinque anni, tanto che alla metà del 1974, stime dell’Onu,
suffragate da calcoli di Ong straniere operanti nel territorio, contavano
7.890.000 cambogiani. Una cifra non irreale, tenuto conto che, nel marzo 1976,
la stessa Kampuchea Democratica fece ufficialmente sapere tramite Radio Phnom
Penh, che la popolazione che viveva sotto il suo controllo era di 7.735.279
persone2. Da quel momento non si ebbero più notizie attendibili
sulla popolazione del paese fino alla caduta del regime.

Nel gennaio 1979 si cercò di fare una prima stima della
popolazione cambogiana conteggiando le derrate alimentari distribuite, i capi
di vestiario, le case e i villaggi. Si arrivò così a formare un raggio di un
minimo di 6 milioni e massimo di 6,7 milioni di persone3,
con una prevalenza di stime verso il basso (6.130.000 abitanti, secondo l’Fbi)4.

Ben Kiean, nel suo libro The Pol Pot Regime, è
forse l’unico ad aver tentato di dare una stima scientifica sulle perdite
cambogiane durante Kampuchea Democratica, dividendo le vittime secondo i
criteri di classificazione del nuovo regime: «Popolo Nuovo» e «Popolo Base».
Alla prima classe sociale appartenevano 3.050.000 cambogiani, di cui, al 17
aprile 1975, solo 610.000 erano dislocati nelle campagne. A parte i vietnamiti
(10.000, tutti urbanizzati), il gruppo che subì maggiori perdite fu quello
cinese: 215.000 su un totale di 430.000 (50%) morirono prima della caduta del
regime. Dei due milioni di khmer residenti nelle città (principalmente Phnom
Penh) alla vigilia della liberazione, 500.000 (pari al 25%) perirono, a cui se
ne devono aggiungere altri 150.000 (su un totale di 600.000) residenti nelle
campagne. Il totale delle vittime del Popolo Nuovo fu di 879.000 (29%).

Una percentuale inferiore colpì il Popolo Base: su
4.840.000 componenti, 792.000 soccombettero alle privazioni del regime (16%).
Anche in questo caso i gruppi etnici non-khmer ebbero le perdite maggiori:
tralasciando i vietnamiti, furono i Thai e i Khmer Krom a subire i lutti più
numerosi, mentre i Cham musulmani ebbero il maggior numero di morti in assoluto
dopo i Khmer (90.000 vittime su una popolazione pre 1975 di 250.000 unità).
Solo i tribali, considerati da Pol Pot gruppo a lui fedele tanto da scegliere
le proprie guardie del corpo tra le loro file, ebbero una percentuale di morti
pari a quella che colpì i Khmer: 15%.

In totale, durante il regime di Pol Pot, su 7.890.000
cambogiani in vita il 17 aprile 1975, 1.671.000 morirono (21%). C’è però da
notare che non tutti furono vittime dirette delle violenze dei Khmer Rossi: la
maggioranza morì per affaticamento da superlavoro, stress psicofisico,
malattie, malnutrizione e denutrizione, mentre solo una parte (si stima circa 3-400.000)
caddero vittime delle epurazioni.

 

Rimpallo di
responsabilità

Anche il governo di Kampuchea Democratica è intervenuto
diverse volte sulla questione delle vittime perite durante il periodo di
potere. La prima menzione fu fatta da Pol Pot stesso nel dicembre 1979, quando
quattro giornalisti giapponesi ebbero la possibilità di intervistarlo in un
campo di addestramento nella giungla cambogiana. Il leader khmer affermò che «solo
diverse migliaia di kampucheani possono essere stati uccisi a causa di qualche
errore nel mettere in pratica la nostra politica di provvedere una vita decente
al nostro popolo». Le accuse di milioni di morti, rivolte al suo governo da
parte dei vietnamiti, vennero liquidate come montature5.
Subito dopo, l’11 e 12 dicembre 1979, a una televisione statunitense, l’Abc (American
Broadcasting Corporation
), ancora Pol Pot paragonava i vietnamiti a Hitler
denunciando la «guerra di genocidio» che stavano conducendo contro il popolo
cambogiano: «Hitler uccise gli ebrei e quelli che si opponevano a lui. Il
Vietnam uccide coloro che si oppongono al suo volere e la gente innocente che
non si unisce alla sua guerra contro la Cambogia».

In una terza serie di interviste, questa volta concesse
a dei giornalisti svedesi, Pol Pot minimizzò ulteriormente il numero dei
cambogiani uccisi durante il suo governo: «Il numero di persone morte a causa
dei nostri errori fu soltanto di poche centinaia».

Nel 1987 il portavoce dei Khmer Rossi, Khieu Samphan,
fece notare che meno di 3.000 persone morirono in Kampuchea Democratica come
risultato degli «errori» del regime. Khieu Samphan, però non negava che durante
la sua presidenza in Cambogia vi furono decine di migliaia di vittime, ma le
imputava al Vietnam: secondo lui furono ben 30.000 i cambogiani uccisi da «agenti
vietnamiti». 11.000 di questi infiltrati vennero poi scoperti e giustiziati. A
chi gli chiedeva giustificazione delle fosse comuni contenenti i resti di
centinaia di migliaia di cambogiani, Samphan rispondeva che nel 1980 «circa 1,5
milioni di persone morirono vittime degli aggressori vietnamiti»6.

Per anni i Khmer Rossi negarono ogni responsabilità di
uccisioni di massa, respingendo anche le accuse di aver gestito la prigione
S-21 di Phnom Penh. Solo all’inizio degli anni Novanta, con le prime defezioni,
alcuni leaders, come Ieng Sary, ammisero che sotto il regime di
Kampuchea Democratica si era creata una situazione di fobia verso chiunque
ostentasse un atteggiamento non in linea con le direttive del «Centro». Tutte
le colpe, però, venivano fatte ricadere su un solo uomo: Pol Pot. La definitiva
scomparsa del movimento Khmer Rosso, avvenuta alla fine degli anni Novanta,
scatenò una serie di scuse da parte dei maggiori dirigenti: Khieu Samphan e
Nuon Chea giusero a Phnom Penh e, in una conferenza stampa, si dissero
dispiaciuti per le enormi sofferenze causate «agli uomini e agli animali»
durante il loro governo. Successivamente anche Ta Mok, responsabile di migliaia
di esecuzioni, affermò che Kampuchea Democratica aveva dato origine a una serie
di violenze e uccisioni impressionante, facendo però ricadere la colpa sul solo
Pol Pot, Son Sen (già defunti) e al loro entourage.•

 
Note

(1)
Jacques Mingozzi, Cambodge: Faits et problèmes de population,
Parigi, Cnrs, 1973, pp. 226, 212.

(2)
The Party’s Four-Year Plan to Build Socialism in All Fields,
1977-1980
, Documento del Centro Cpk datato Luglio-Agosto 1976, in Chanthou
Boua, David P. Chandler e Ben Kiean, Pol Pot Plans the Future:
Confidential Leadership Documents from Democratic Kampuchea, 1976-77
, New
Haven, Yale University Southeast Asia Studies Coucil Monograph N°33, 1988, pp.
45-119, p. 52, tabella 1.

(3)
Afp Reports Figures on Kampuchea Population, Agence
France-Presse, Hong Kong, 22 Gennaio 1980.

(4)
Fbis, Asia Pacific, 24 Gennaio 1980, p.H4.

(5)
Sho Ishikawa, I Want to Join with Sihanouk, Lon Nol, Bangkok
Post, 11 dicembre 1979.

(6)
Ufficio del vicepresidente di Kampuchea Democratica in carica degli Affari Esteri – Khieu Samphan – , What
Are the Truth and Justice about the Accusations against Democratic Kampuchea of
Massa Killings from 1975 to 1978?
, luglio 1987.

Piergiorgio Pescali




Cambogia: Troppi incubi, pochi sogni

La genesi della
tragedia e la tristezza del presente
Le?colpe di Sihanouk,
l’acrobata

Quarant’anni fa – era
il 17 aprile 1975 – i Khmer Rossi di Pol Pot entrarono nella capitale Phnom
Penh. Rimasero al potere per tre anni e nove mesi, fino all’invasione del
Vietnam. Come troppo spesso accade, le tragedie legate a quegli eventi non sono
mai state spiegate con obiettività. Anche per questo, la Cambogia del 2015 è un
paese degradato e corrotto, che sta perdendo tutte le sfide.

La Cambogia celebra quest’anno il quarantesimo
anniversario dell’arrivo dei Khmer Rossi a Phnom Penh. Il 17 aprile 1975
iniziava il periodo che oggi viene ricordato come Samai Pol Pot, l’era di Pol
Pot (il cui vero nome era Saloth Sar, 1925-1998). Un termine, Samai Pol Pot,
che più di ogni altro indica la forza con cui i tre anni e nove mesi di governo
dei Khmer Rossi (fino al 7 gennaio 1979, vedi scheda storica a pag. 40)
vengono (erroneamente) attribuiti alla responsabilità di un solo uomo, Pol Pot,
appunto.

Quella del 17 aprile è, da sempre, una ricorrenza
rievocata in modo diverso e controverso da chi ha vissuto gli anni di «Kampuchea
Democratica», il nome ufficiale dato al paese dai Khmer Rossi a partire dal
1976, e da chi, invece, non ha conosciuto in modo diretto difficoltà e
sofferenze patite da padri o nonni. Secondo le statistiche delle Nazioni Unite,
più del 70% dei cambogiani ha meno di quarant’anni. Il che indica
l’assottigliarsi di quella fetta di popolazione che è stata diretta testimone
di un periodo storico di cui ancora troppo poco si parla e che non si è
analizzato con sufficiente obiettività. A rendere più delicata e problematica
la trasmissione della memoria è la cronica ritrosia psicologica con cui chi ha
subito il trauma della Samai Pol Pot parla tra le mura familiari delle proprie
esperienze. Questo ha portato una netta frattura nella società cambogiana
divisa appunto tra chi ha conosciuto Kampuchea Democratica e chi è nato negli
anni successivi.

Fatta questa premessa, va detto che il dramma del popolo
cambogiano non è iniziato con l’arrivo dei guerriglieri a Phnom Penh. Quello è
stato solo l’atto finale di una tragedia che ha avuto innumerevoli attori e
altrettanti scenari. A cominciare da Norodom Sihanouk (1922-2012), regista
degli eventi precedenti il 1975, uomo pieno di contraddizioni, sicuramente la
figura più ambigua del panorama politico cambogiano.

 

Il sovrano, la
guerriglia, gli Stati Uniti

Fu Sihanouk il primo a gettare benzina sul fuoco della
nascente (e allora ininfluente) guerriglia comunista sin dalla metà degli anni
Sessanta. Il suo governo, corrotto e inaffidabile, gestiva l’intera economia
del paese come fosse stata proprietà privata, mentre la repressione della
polizia, abbinata alle strette maglie della censura, garantiva il tacito
assenso popolare.

Solo un manipolo di intellettuali ebbe il coraggio di
opporsi. Facevano parte dei circoli della sinistra parlamentare e avevano
contatti con i guerriglieri comunisti, ma nessuno di loro era mai stato
coinvolto in azioni militari né aveva intenzione di partecipare alla lotta
armata. La simpatia che questi ideologi, conosciuti per la loro abnegazione e la
loro incorruttibilità, destavano tra i movimenti studenteschi e tra i
contadini, indusse Sihanouk a cercare ogni pretesto per eliminare la loro
scomoda presenza. Tre, in particolare, erano le figure più spinose per il
monarca: Khieu Samphan, Hou Youn e Hu Nim, che in seguito diverranno membri di
spicco tra i Khmer Rossi in forte contrapposizione, in particolare gli ultimi
due, con la politica di Pol Pot. Hou Youn e Hu Nim verranno assassinati dai
loro stessi compagni dopo il 1975.

Nel 1967 si concluse il primo atto della tragedia
cambogiana: Sihanouk costrinse i tre politici alla fuga con la minaccia della
prigione e dell’esecuzione capitale. Non si seppe più nulla di loro, tanto che
il popolo cominciò a soprannominarli «i tre fantasmi». Riappariranno solo dopo
il 1970, quando l’atto finale del dramma si starà avviando alla conclusione.
Nel frattempo furono proprio questi «tre fantasmi» a delineare le basi
ideologiche del movimento comunista, mutuandole dall’esperienza del loro
soggiorno in terra di Francia nell’immediato dopoguerra. E sarà poi Pol Pot,
anche lui reduce da un lungo (e scolorito) periodo francese, a stravolgere
quasi completamente la loro elaborazione ideologica, radicalizzandola al fine
di bruciare i tempi necessari per trasformare una società agricola e
sottosviluppata in un immenso campo collettivistico.

Nella visione di Hou Youn, Khieu Sampahn e Hu Nim, la
politica rurale che la Cambogia liberata avrebbe dovuto ricalcare e
intraprendere avrebbe dovuto essere quella maoista, con una ridistribuzione
delle terre e un generale trasferimento della popolazione dalle città alle
campagne. L’ascesa di Saloth Sar e Ieng Sary ai vertici del partito durante gli
anni Settanta, pur conservando gran parte delle idee espresse dai «tre fantasmi»,
scardinò il programma della loro attuazione, accelerando in modo insostenibile
le tappe.

Il sipario si riaprì il 18 marzo 1969, poche settimane
dopo che Washington e Phnom Penh ebbero riallacciato le relazioni diplomatiche
interrotte da Sihanouk. Quel 18 marzo 1969 sarebbe poi passato alla storia come
il giorno in cui iniziarono i bombardamenti «segreti» degli Stati Uniti sulla
Cambogia per stanare i Viet Cong dai loro santuari appostati lungo il confine.
Per quattordici lunghi mesi, i B-52 appartenenti a un paese straniero
lasciarono cadere tonnellate di esplosivo e napalm su villaggi che,
formalmente, non facevano parte di una nazione in guerra (la Cambogia, infatti,
si era sempre dichiarata neutrale cercando attentamente di evitare il
coinvolgimento nelle ostilità).

Decine di migliaia di persone, la stragrande maggioranza
delle quali innocenti e inermi contadini, furono vittime di uno dei più
inutili, criminali e vigliacchi atti di distruzione a cui la storia abbia mai
assistito. Inutili, perché la distruzione delle basi «Charlie» (così erano
soprannominate le basi dei Viet Cong), anziché costringere i guerriglieri a
uscire allo scoperto, li spinsero sempre più all’interno della Cambogia.
Criminali, perché niente può giustificare la morte di civili in una guerra (e più
le armi si fanno sofisticate e «intelligenti», maggiore è la sproporzione tra
le vittime civili – la stragrande maggioranza – e militari). Vigliacchi, perché
chi seminava morte e distruzione non era tenuto ad avere il coraggio di
guardare negli occhi chi moriva a causa sua.

La crescita e la
vittoria dei Khmer Rossi

Le bombe che «innaffiavano» le risaie cambogiane, si
trasformarono in sementi per il minuscolo e pressoché inerme movimento di
guerriglia locale, i semisconosciuti (allora) Khmer Rossi. Un termine, Khmer
Rossi (khmer krohom), coniato in senso dispregiativo da Sihanouk nel
1966, che, così come fu per i Viet Cong, si trasformò in un potente simbolo
propagandistico del movimento guerrigliero.

Lo stesso Sihanouk, nel 1955 in uno dei suoi rari momenti
di lucida saggezza, descrisse con sorprendente intuizione un eventuale paese
governato dai comunisti: «Non ci sarà felicità. Tutti lavoreranno per il
governo. Nessuno guiderà macchine o moto o indosserà bei vestiti: tutti
vestiranno di nero, tutti esattamente allo stesso modo. Non ci saranno cibi
gustosi da mangiare. Se tu mangerai più di quanto ti sia concesso, il governo
verrà a saperlo segretamente dai tuoi figli, sarai portato via e ucciso».

Alla fine degli anni Sessanta, i Khmer Rossi erano solo
duemila, tutti sotto la direzione del Partito dei Lavoratori della Repubblica
Democratica del Vietnam e tutti con mansioni di gregari. Il loro esercito (se
così si poteva chiamare) nel 1969, quando iniziarono i bombardamenti, contava sì
e no qualche decina di guerriglieri dotati di vecchi fucili, retaggio della
Seconda Guerra mondiale e totalmente inadeguati alla lotta armata.

Un anno dopo, il gruppo, a cui nel frattempo aveva dato
il suo appoggio re Sihanouk (incurante della sua stessa profezia), spodestato
il 19 marzo 1970 da Lon Nol con l’aiuto della Cia, aveva ancora tremila unità,
salite a diecimila alla fine del 1970.

Nel frattempo i bombardamenti, non più segreti perché a
Washington erano stati svelati a un attonito Congresso, furono sospesi, ma la
miccia comunista era stata accesa e nessuno sarebbe stato più in grado di
spegnerla.

Nel marzo 1973, quando la guerra si era allargata in
tutta la Cambogia, il Pentagono decise di dare avvio a una seconda campagna per
estirpare il «cancro rosso». Cinque mesi più tardi la cura venne di nuovo
sospesa dal Congresso, ma nel frattempo erano cadute al suolo 250.000
tonnellate di esplosivo.

Fu durante questa seconda fase che i Khmer Rossi
riuscirono a far fruttare tutta la loro potenza ideologica e politica. In breve
tempo collettivizzarono i territori liberati e, già nel 1974, l’esercito
governativo di Lon Nol si limitava a controllare solo le città più importanti.

La resa del 17 aprile 1975 fu, quindi, l’ultimo atto di
una serie di clamorosi errori sociali, politici e tattici commessi sia dagli
Stati Uniti, sia dagli stessi politici cambogiani susseguitisi alla guida dei
governi del paese.

Il 17 aprile 1975 tutta la nazione cadde nelle mani
dell’allora sconosciuto Saloth Sar, che l’anno seguente diverrà primo ministro
(mantenendo la carica di segretario del Partito comunista) col nome di Pol Pot.

Pochi giorni prima, i cittadini di Phnom Penh, stremati
e impauriti da una guerra imposta da stranieri, avevano visto un elicottero
atterrare sul tetto dell’ambasciata statunitense. Assieme a pochi eletti, vi
era salito anche l’ambasciatore John Gunther Dean. Tra le mani stringeva un
fagotto piegato alla bell’è meglio: la Stars and Stripes. La bandiera
era sventolata per la prima volta in una Cambogia relativamente felice,
prospera e pacifica. Quel giorno la lasciava devastata, miserabile e con un
futuro incerto: nessun cambogiano, allora, rimpianse la sua partenza.

La Cambogia, coinvolta suo malgrado nella guerra del Sud
Est asiatico, sembrò ritrovare la via della pace. Così non fu.

 

L’esperimento finì a
«S-21»

Kampuchea Democratica fu un esperimento unico e
drammatico. Tuttavia, a differenza di quanto la nostra idea ci porti a
immaginare, la vita sociale, i rapporti comunitari, gli orari di lavoro,
persino le libertà individuali dei cambogiani tra il 1975 e il 1979 furono
differenti da regione a regione a seconda delle autorità locali preposte al
controllo. All’indomani della vittoria del 17 aprile, i Khmer Rossi suddivisero
la Cambogia in sei aree: Zona Sudovest, Est, Nordest, Nord, Nordovest e Zona
Speciale, comprendente i territori attorno a Phnom Penh.

All’interno delle singole Zone esistevano vere e proprie
isole «autogestite» dove nei primi mesi della liberazione e, in certi casi,
ancora nel 1978, la gente viveva senza grossi problemi e traumi: i nuovi arrivati,
evacuati dalle città, ricevevano il medesimo trattamento riservato ai contadini
appartenenti al «popolo base» dividendo con loro lavoro e cibo senza subire
alcuna discriminazione. In certe aree la fedeltà dei contadini ai principi
della rivoluzione permetteva addirittura di evitare la presenza di militari
nelle vicinanze. In alcune province esistevano ospedali che, grazie alla scorta
di medicine e alla presenza di medici e infermieri se non professionisti per lo
meno esperti, funzionavano decentemente, garantendo riposo e adeguata
alimentazione ai pazienti. In altri distretti i bambini continuarono a
frequentare le scuole senza essere separati dalle loro famiglie. Vi erano
regioni in cui, se, al termine della giornata di lavoro, non si raggiungeva la quota
prescritta dai quadri, non era prevista alcuna penale e si riceveva la quantità
di cibo regolarmente prescritta.

Anche questa, comunque, differiva in quantità, qualità e
dieta da regione a regione. Nel peggiore dei casi si riceveva un barattolo
(circa duecentocinquanta grammi) di paddy a testa al giorno (riso non
brillato; cento chilogrammi di paddy foiscono in media sessanta chili
di riso) o, in mancanza di riso, farina d’avena con l’assoluta proibizione di
procurarsi alimenti alternativi. Altre testimonianze indicano che il cibo non
fu mai un problema, potendo ottenere tre barattoli al giorno di riso per
persona a cui si aggiungeva frutta, verdura e, in casi speciali, pezzi di
carne, mentre nel tempo libero si poteva pescare e raccogliere i prodotti della
foresta.

Perfino la nuova moneta rivoluzionaria, prima di essere
completamente abolita nel settembre 1975, ebbe altee fortune circolando in
regioni sempre più ristrette. Al suo posto fiorì il baratto, di cui si servì il
«popolo del 17 aprile» per comprare alimenti. Alcune testimonianze affermano
che la parità di scambi variava di zona in zona seguendo le fluttuazioni della
domanda e dell’offerta: un damleung (l’unità di peso cambogiana
equivalente a 37,5 grammi) d’oro garantiva settanta scatole di paddy
subito dopo la vittoria dei Khmer Rossi, scendendo a venti barattoli un mese più
tardi, mentre in altre zone con la stessa quantità d’oro si potevano ottenere a
scelta trentacinque chili di riso, venti di sale, cinque di zucchero, cinque di
prahoc (pasta di pesce fermentata) o un chilo di zuppa in polvere. Anche
le medicine, sempre più rare a trovarsi, avevano un preciso valore di scambio:
a Kompong Cham, una delle principali città cambogiane, prima che il baratto
fosse proibito, un chilogrammo di riso veniva barattato con una compressa di
aspirina, mentre se ne potevano ottenere sette per un fiala di vitamina B12; un
flacone di streptomicina poteva valere quindici chili di riso.

Anche l’orario lavorativo si allungava o restringeva
secondo il volere della dirigenza locale. C’erano comunità che lavoravano
ininterrottamente per dieci giorni per quattordici ore al giorno, riservando il
giorno di riposo a interminabili riunioni politiche di autocritica o di
denuncia. In altre, invece, erano rispettate le otto ore di lavoro con il
decimo giorno riservato alle proprie incombenze personali.

Neppure sulle restrizioni ideologiche imposte dal nuovo
regime c’era uniformità di vedute: mentre in molti casi si assistette a
esecuzioni sommarie di soldati del disciolto esercito di Lon Nol, di ex
funzionari governativi, di intellettuali, di dissidenti o di persone poco
inclini al lavoro manuale, in altri queste stesse categorie poterono
sopravvivere convivendo pacificamente con il resto della popolazione.

Solo dopo il 1976, con l’istituzione pressoché
generalizzata delle mense comuni, cominciarono a esserci i primi attriti su
scala nazionale, generalmente dovuti a un ricambio dirigenziale voluto dal
governo di Saloth Sar (Pol Pot).

Da quel momento le condizioni di vita in Kampuchea
Democratica divennero insostenibili per la maggior parte dei cambogiani. Le
purghe all’interno del partito falciarono i rivoluzionari più moderati e oggi è
possibile visitare alcuni dei simboli più nefasti di quel periodo: la prigione
S-21 a Phnom Penh (oggi Museo del genocidio) e Choeng Ek, dove i prigionieri
della S-21 venivano portati a morire. Qui, dove circa sedicimila persone
vennero torturate e, in seguito, uccise con le accuse più disparate che
andavano dall’attività controrivoluzionaria a essere spie della Cia o del Kgb, è
concentrata tutta la ferocia del governo di Pol Pot.

Le due zone in cui la popolazione fu sottoposta alle
condizioni più brutte e meno brutte furono rispettivamente la Zona Sudovest (di
Ta Mok) e quella Orientale (di So Phim).

La Zona Sudovest, posta sotto il comando di Ta Mok, un
comandante militare fedelissimo a Pol Pot, fu una delle regioni che implementò
con maggior vigore le direttive del governo centrale in materia di ordinamento
sociale e ideologico. Già prima della caduta di Phnom Penh, i contadini di
questa zona ebbero a lamentarsi dei metodi troppo rudi imposti dai loro capi,
giungendo anche a organizzare delle ribellioni che indussero il partito ad
allentare, almeno temporaneamente, la morsa. Per contro, la Zona Orientale,
amministrata dal moderato So Phim, alleggerì le misure radicali imposte alla
popolazione dal governo centrale garantendosi l’appoggio sincero dei cambogiani
sotto la sua giurisdizione attraverso un miglioramento delle condizioni di
vita, un ritmo di lavoro meno ferreo, una certa libertà di movimento, la
protezione dell’integrità dei nuclei familiari. Certamente la superiorità dello
stile di vita degli abitanti della Zona Orientale era dovuta anche al fatto che
le sue risaie foivano alla nazione una quantità di cereale seconda solo alla
provincia di Battambang, ma il governo di So Phim contrapposto a quello
intransigente di Ta Mok avrebbe potuto essere additato dal governo di Phnom
Penh come esempio da imitare. Invece il governo centrale interpretò il relativo
benessere come una prova della distorsione ideologica che stava infettando i
quadri del partito, intraprendendo una serie di azioni che, alla fine,
emarginarono So Phim dalla cerchia dirigenziale, decretandone prima
l’espulsione e poi la morte. A rendere insostenibile la posizione di So Phim,
contribuì anche la collocazione geografica della Zona Orientale, posta ai
confini con il Vietnam, cosa che induceva l’ala dura dei Khmer Rossi a credere
che Hanoi stesse infiltrando spie e collaborazionisti al fine di sottomettere
l’intera nazione cambogiana.

 

L’invasione del
Vietnam

Lo scontro fu inevitabile e il 7 gennaio 1979 le truppe
vietnamite entrarono a Phnom Penh decretando la fine di Kampuchea Democratica.

L’invasione vietnamita (perché di invasione si trattò)
portò il mondo occidentale a insorgere pressoché compatto contro quella che
esso considerava una guerra di espansione ai danni di un governo regolarmente
accettato sul piano diplomatico internazionale. A chi giustificava l’intervento
di Hanoi portando le prove della durezza del governo di Pol Pot, veniva
risposto che nessun paese aveva il diritto di imporre la propria politica a un
altro, anche se questo negava i diritti umani dei propri cittadini. Poche
settimane dopo, però, si consumò un altro dramma del tutto simile a quello in
atto nel Sud Est Asiatico: in Africa, le forze armate tanzaniane costrinsero il
dittatore ugandese Amin Dada a lasciare il potere, sostituito da Obote. Questa
volta il colpo di stato non venne condannato dall’Occidente che, anzi, mostrò
chiari segni di approvazione.

Il confronto tra i due avvenimenti venne portato come
esempio di faziosità dell’Occidente da chi riteneva giustificato il
rovesciamento cruento di Pol Pot.

Le Nazioni Unite continuarono per diversi anni a
riconoscere Kampuchea Democratica come legittimo e unico rappresentante del
popolo cambogiano. La guerra civile cambogiana si protrasse fino al 1998, anno
in cui Pol Pot morì dopo essere stato processato e accusato di tradimento dai
suoi stessi ex compagni.

Le regioni occidentali, assieme ad Anlong Veng, la
cittadina nella quale si era arroccata la dirigenza comunista, passarono sotto
il controllo di Phnom Penh che, per evitare il pericolo di una nuova rivolta,
vi incentivò il trasferimento di nuovi abitanti in modo da diluire la
componente fedele ai Khmer Rossi.

Ancora oggi un viaggio ad Anlong Veng e a Pailin,
l’altra città sul confine thailandese rifugio degli ultimi dirigenti khmer
rossi, rappresenta una sorta di deja vu nella storia cambogiana. Non è
raro incontrare gente che ricorda con nostalgia il periodo in cui erano i Khmer
Rossi ad amministrare la regione: i lavori di sviluppo agricolo intrapresi
sotto la direzione dei tecnici comunisti dopo gli anni Ottanta, avevano portato
un benessere diffuso e il livello di vita degli abitanti era decisamente
superiore a quello registrato nelle zone poste sotto il controllo governativo.
La vicinanza con il confine thailandese garantiva, inoltre, un rifoimento
pressoché continuo di qualsiasi tipo di manufatti e prodotti provenienti da
tutto il mondo.

 

Hun Sen,
padre-padrone

La resa dei Khmer Rossi nel 1998 obbligò la comunità
internazionale a chiedere a gran voce un processo per i crimini da loro
commessi tra il 1975 e il 1979. Un atto dovuto, ma che non ha mai fatto piacere
a nessuno.

Un processo equo coinvolgerebbe troppi attori che
dovrebbero dare spiegazioni sui loro comportamenti prima, durante e dopo
l’avvento dei Khmer Rossi al potere. L’Occidente e le stesse Nazioni Unite
dovrebbero, ad esempio, spiegare gli aiuti diplomatici, finanziari e militari
dati ai Khmer Rossi dopo il 1979; Sihanouk (morto nel 2012) avrebbe dovuto
spiegare a un’eventuale giuria (obiettiva) le sue acrobatiche manovre politiche
per restare aggrappato al trono regale sostenendo la dirigenza khmer rossa sin
dal 1970; Hun Sen, attuale primo ministro e da tempo padre-padrone della
nazione, avrebbe dovuto raccontare come aiutò Pol Pot a conquistare il potere e
come si trasformò nel suo più violento accusatore.

La scuola non è ancora pronta ad affrontare seriamente
il periodo di Kampuchea Democratica. Quattro decenni, se possono sembrare tanti
per la nostra percezione del tempo immediato, sono un’inezia per la storia e
per potersi confrontare con essa con obiettività.

La Cambogia post Khmer Rossi è corrotta nel suo interno.
Nell’animo, si potrebbe dire. Le speranze di ricostruire un paese nuovo, libero
e moralmente virtuoso, si sono infrante di fronte agli scogli del potere. Un
potere personificato in primo luogo dai politici: da Hun Sen, al governo
ininterrottamente dal 1993, ma anche dall’inconcludente Sam Rainsy, esponente
di spicco dell’opposizione.

Non sorprende, quindi, il disinteresse con cui i
cambogiani hanno seguito e stanno seguendo le fasi del processo (scheda a
pag. 40
). Fatto che dimostra quanta sfiducia vi sia nella nuova classe
dirigente.

 

Angkor, specchio del
degrado

La Cambogia, paese relativamente poco popolato (15
milioni di abitanti sparsi su 181 mila kmq), potrebbe essere una nazione tra le
più ricche del Sud Est Asiatico. Un sottosuolo ricco di rubini, un terreno
fertile e attraversato da innumerevoli corsi d’acqua, un mare e un lago, il
Tonle Sap, pescosi e alcuni dei siti archeologici più straordinari al mondo
potrebbero garantire un relativo benessere a tutta la popolazione.

Eppure così non è. La Cambogia non è mai riuscita a
superare lo stallo di Kampuchea Democratica.

L’evidenza dell’inefficienza e dell’incuria con cui le
autorità locali e nazionali (con la complicità della comunità internazionale)
trattano la stessa cultura khmer si manifesta ad Angkor, sito in cui ogni anno
si riversano più di due milioni di persone trasportate da pullman, tuc tuc, macchine private, motorette.
Una volta scese, le masse di turisti invadono i centri archeologici senza rispettare
le più elementari regole di educazione artistica e storica. Più che dai Khmer
Rossi e dalle guerre, Angkor è stato e continua a essere devastato
dall’inquinamento e dagli eserciti dei turisti, la maggior parte dei quali si
dimostra completamente disinteressata a tutto quello che il sito archeologico
rappresenta. Da parte loro i funzionari ministeriali si preoccupano solo di
accrescere il numero dei visitatori, visto che ognuno di essi paga la bellezza
di 20 dollari al giorno per visitare il sito.

L’esempio di Angkor, della corruzione dilagante e del
degrado morale a cui si è ridotta la società cambogiana rimangono i cavalli di
battaglia di chi cerca di rivalutare, se non Kampuchea Democratica, almeno la
classe dirigente Khmer Rossa. E, con la classe politica che oggi governa la
Cambogia, non è difficile trovare chi, seppur provocatoriamente, rimpiange il
passato.•

Tags: Cambogia, Khmer Rossi, Pol Pot, massacri, genocidio, Vietnam

Piergiorgio Pescali




Giustizia e mentalità nuova

 

A metà aprile sono scappato per un
paio di giorni dalla città, questo luogo in cui per vedere il cielo devo
guardare in su. Ho fatto un bagno di primavera. Brevissimo. Poi l’inverno è
tornato di prepotenza: i migranti annegati, il terremoto in Nepal, la morte
improvvisa di un confratello, la violenta manifestazione a Milano, l’aumento
della disoccupazione, la gravissima situazione della Grecia, le vuote promesse
dei politici, il rapporto Caritas sullo sfruttamento e il traffico di persone
nel Sud-Est asiatico, il massacro degli Yazidi, le tensioni in Burundi e anche
le piccole grandi notizie di malattie, speranze deluse, mancanza di lavoro, di
fame che mi arrivano alla spicciolata da tante persone che ho amato in Kenya…
Sono quasi quarant’anni che faccio questo mestiere, dovrei essere abituato alle
cattive notizie. Ma non ci riesco. E soprattutto non riesco ad abituarmi alle
sparate di quelli che colgono al volo occasioni di forte emotività per fare
proposte miracoliste di soluzione ai problemi del mondo. Proposte accattivanti,
magari anche esplosive, che, se guardate con occhio critico, non vanno oltre il
solito buonismo.

Anche il grande avvenimento dell’Expo
rischia di titillare l’orgoglio buonista senza affrontare le cause vere di
un’ingiustizia che penalizza gran parte dell’umanità. Il tema «Nutrire il
pianeta, energia per la vita», è di grande attualità. «Purché non resti solo un
“tema”, purché sia sempre accompagnato dalla coscienza dei “volti”: i volti di
milioni di persone che oggi hanno fame, che oggi non mangeranno in modo degno
di un essere umano», ha detto papa Francesco all’inaugurazione, nella quale i
bambini, modificando l’Inno di Mameli, hanno cantato di essere «pronti alla
vita». Ha poi continuato: «Vorrei che ogni persona – a partire da oggi -, ogni
persona che passerà a visitare l’Expo di Milano, attraversando quei
meravigliosi padiglioni, possa percepire la presenza di quei volti. Una
presenza nascosta, ma che in realtà dev’essere la vera protagonista
dell’evento: i volti degli uomini e delle donne che hanno fame, e che si
ammalano, e persino muoiono, per un’alimentazione troppo carente o nociva.
[…] Anche la Expo, per certi aspetti, fa parte [… del] “paradosso
dell’abbondanza”, se obbedisce alla cultura dello spreco, dello scarto, e non
contribuisce a un modello di sviluppo equo e sostenibile. Dunque, facciamo in
modo che questa Expo sia occasione di un cambiamento di mentalità, per smettere di
pensare che le nostre azioni quotidiane – a ogni grado di responsabilità – non
abbiano un impatto sulla vita di chi, vicino o lontano, soffre la fame».

Cambiamento di mentalità. Ecco le
parole chiave. L’aumento degli aiuti e della cooperazione internazionale
(arrivando finalmente allo 0,7% del Pil), una riedizione del Mare Nostrum,
un’accoglienza più responsabile e condivisa possono aiutare a non far finire in
tragedia quello che è già un dramma. Ma non bastano. Occorre un grandissimo
cambiamento di mentalità che investa la politica, l’economia e le relazioni
inteazionali. La politica deve riappropriarsi dell’economia e non esserle
suddita. I paesi da cui fuggono i migranti hanno bisogno di pace, giustizia e
lavoro. Giustizia soprattutto: nelle retribuzioni di chi lavora (persone, non
schiavi); nel commercio delle materie prime e dei prodotti agricoli (non
rapina, desertificazione, inquinamento, land grabbing e monocolture);
nel movimento delle persone (no alla tratta, al traffico dei minori, al turismo
sessuale). E ancora: eliminare il commercio delle armi, le guerre per procura,
la corruzione dei politici, e riscrivere i trattati di «libero» scambio. La
lista di ciò che si deve fare per evitare il disastro dell’umanità è lunga.
Troppo ambiziosa per un semplice editoriale e oltre la capacità della singola
persona. Ma non si può stare con le mani in mano, aspettando che siano gli
altri a cambiare mentalità.

Informazione, formazione e azione sono le altre parole chiave per
cambiare. Informarsi criticamente, senza accontentarsi di slogan ed emozioni.
Approfondire le conoscenze, studiare, capire. E cambiare il nostro modo di fare
la spesa, di utilizzare le risorse, di relazionarci con gli altri, di
partecipare alla vita politica, di vivere l’ambiente.

Toiamo a sognare allora e a fare sognare, non da soli, ma insieme. E
torniamo ad agire, cominciando dal nostro «piccolo»: «Se molti uomini di poco
conto – come ha scritto anche Giorgio Torelli -, in molti posti di poco conto,
facessero cose di poco conto, allora il mondo potrebbe cambiare».

Gigi Anataloni




La «mia» Irene

23 Maggio 2015, a Nyeri, beatificazione di suor Irene Stefani.
Nyaatha, la mamma misericordiosa, sarà proclamata beata dal cardinal John Njue di Nairobi, legatissimo alle missionarie della Consolata e ai missionari a cui deve la sua educazione. La cerimonia si svolgerà nel campus della Dedan Kimathi University di Nyeri. La prima beatificazione in assoluto in Kenya, dove da secoli si attende il riconoscimento della santità dei 149 martiri di Mombasa, massacrati nel 1631.



Suor Irene Stefani, nata Mercede, una delle prime missionarie della
Consolata, ha dato la sua vita per amore di Cristo, consumandosi fino
all’ultimo. Condivido con voi alcuni pensieri molto personali.

Ho incontrato suor Irene che ero ancora un ragazzino appena dodicenne. Bazzicando attorno all’altare come fedelissimo chierichetto, mi sono imbattuto in un giovane missionario scherzoso e dinamico che, saputa la mia passione per i libri, me ne ha passati «a gogò». Erano «I racconti della brughiera», «I romanzi del brivido» e le vite di missionari e missionarie in Africa, letture che integravano la mia passione per l’avventura, alimentata sui libri di Vee, Salgari e compagni. Un libro spesso, copertina azzurra con due scarponi bene in vista mi prese gli occhi e il cuore. «Gli scarponi della gloria» di suor Giampaola Mina raccontavano di una bresciana e valsabbina come me, una che, come me, aveva bevuto le acque del fiume Chiese. Lessi quel libro di un fiato, e poi lo rilessi ancora e ancora. Lo conservo tutt’ora, foderato con la classica carta marron del tempo. Un incontro per la vita. Due anni dopo entravo anch’io in seminario.

La «mia» Irene è una ragazzina di un paese di montagna adagiato vicino a un piccolo lago da cui esce il fiume Chiese. È un paese di confine. Poco più in là c’è il Trentino che a quei tempi era sotto l’Impero Austroungarico. Da lì i garibaldini erano partiti nella terza guerra d’indipendenza nel loro tentativo di liberare Trento. Una grande rocca domina Anfo, collegata a una serie di fortificazioni sulle montagne vicine. Migliaia di soldati vanno e vengono. La ragazzina si chiama ancora Mercede. È abituata agli scarponi e al lavoro duro. La famiglia è numerosa, il papà nonostante abbia una locanda e commerci in vino, non naviga nell’oro. Questo tempra il carattere della ragazza sana e robusta, formata al lavoro, alla disciplina, alla fede e alla preghiera. Attiva in parrocchia, si lascia contagiare da quel giovane prete missionario, padre Angelo Bellani, che ha l’Africa nel cuore e sta partendo per il Kenya. Ventenne, nel 1911, Mercede va a Torino e diventa suora alla scuola dell’Allamano: uno che vuole che i suoi missionari siano prima di tutto dei santi. Parte per l’Africa a fine 1914. E si trova gettata nel vortice della guerra, la «grande guerra» che insanguina anche Kenya e Tanganika, opponendo inglesi e tedeschi, mentre anche al suo paese, Anfo, vicino al fronte, la chiesa è trasformata in ospedale militare. Lei e le sue sorelle missionarie sono buttate in quel mare di sofferenza che sono gli ospedali militari dove i soldati di ultima categoria, i forzati dei trasporti, i portatori (carriers appunto) muoiono a migliaia. Si parla di 500mila arruolati a forza e 200mila morti. L’esperienza più dura per lei è a Kilwa Kivinje, un posto sperduto a 300 km a Sud di Dar-es-Salaam, un porto di trafficanti omaniti che razziavano schiavi nell’interno del Tanganika. I morti sono talmente tanti che ogni sera vengono accatastati sulla spiaggia perché la potente marea dell’Oceano Indiano dia loro sepoltura. La montanara è instancabile e senza paura. Un angelo per i carriers. Li conosce per nome, li cura, li consola, dono loro il suo splendido sorriso, li accompagna fino alla fine.

Con personale del campo, dott. Elliot al centro

La foto più bella di lei è stata scattata proprio a Kilwa. Il fotografo l’ha bloccata nel pieno dell’azione. L’ha chiamata a posare mentre era impegnata a curare qualcuno. In mano ha una garza, al collo il crocefisso. Interessante quel crocefisso. Non è in posizione da cerimonia, ma da lavoro. Così, col cordino stretto alla gola, poteva essere facilmente gettato dietro le spalle perché non impedisse di chinarsi sugli ammalati e curae le ferite o pulie i corpi martoriati. E quel sorriso che oltre alla bellezza del viso irradia tutta la gioia e la serenità di una donna cui non pesa dedicarsi agli altri perché ha il cuore pieno di Gesù. Ho sempre amato quella foto. L’ho capita di più quando grazie alle nuove tecnologie ne ho fatto emergere i dettagli e ho guardato Irene negli occhi. Una vera missionaria, pronta al servizio del suo Signore che la chiama nei poveri, negli ammalati, nelle persone meno amate. È una donna coraggiosa, conosce la paura, ma l’amore le da tutto il coraggio necessario per gesti di grande gratuità e libertà. Così, nel buio della notte africana, alla luce delle stelle, sulla spiaggia dove una catasta di morti attende l’onda impietosa dell’Oceano che ruggisce contro la barriera corallina, Irene cerca tra i corpi il suo Othiambo (colui che è nato la sera tardi) dato per morto, ma ancora vivo, per farlo rinascere Omondi (nato all’alba) in Paradiso.

È lo stesso coraggio che qualche anno dopo, sulle colline di Gekondi, la spinge alla ricerca degli anziani portati a morire in foresta, in pasto per le iene o altri caivori come il leone o il ghepardo. La foresta. Incute timore di giorno, tanto più di notte. Foresta sono le pulci che ti mangiano le gambe, le formiche caivore su cui è meglio non mettere i piedi, i serpenti, le iene, i mille rumori che ti mettono i brividi. Ma niente ferma la sua passione per chi soffre, chi è ridotto a scarto, sia esso un anziano morente o un bambino abbandonato.

È lo stesso coraggio che trasforma la maestrina in paladina dell’educazione delle ragazze, che va a stanare nei villaggi e sostiene quando lottano pacificamente con i loro genitori che si rifiutano di mandarle a scuola.

L’icona di suor Irene sono i suoi scarponi. Non si portano per stare in casa, in salotto, nella quiete della cappella, nell’intimità del convento. Gli scarponi sono strada, sentirnero, sassi, fango. Sono arrampicarsi sulle erte colline, passare tra le ruvide erbacce, percorrere piste infangate, calpestare le spine. Sono essere in strada per amore, sulle orme di Cristo, alla maniera di Cristo, alla ricerca del suo volto nascosto negli umili, nei poveri, nei sofferenti.

Per questo ho amato questa missionaria dal cuore grande. E mi ha colpito la sua obbedienza. Ha chiesto al padre il permesso per diventare missionaria. E alla sua superiora quello di offrire la sua vita. Le due decisioni fondamentali della sua esistenza. Chiede il permesso non per debolezza, ma per vera umiltà. L’umiltà di chi è cosciente di non essere padrona assoluto della propria vita, ma solo serva per amore. E vuole donare tutto. Fino alla fine.

Gigi Anataloni

Suor Irene Stefani, suor Cristina Moresco, crocerossine al campo di Voi nel 1916, con padre Benedetto Pietro (con bicicletta) e il dottor Tisbone e il suo assistente nell’ospedale da campo per i carriers a Voi, nel 1916

Cenni biografici

La biografia di suor Irene è di una semplicità sconcertante. Il 22 agosto 1891, di sabato, quinta di 12 figli, nasce ad Anfo, un paesino del bresciano sulle sponde del lago d’Idro. Battezzata il giorno dopo, è educata alla fede da genitori ferventi cattolici. Una volta cresciuta, diventa zelatrice dell’Apostolato della preghiera e insegna catechismo in parrocchia.

Nel 1905 padre Angelo Bellani, missionario della Consolata, visita Anfo prima della sua partenza per la missione del Kenya. Tra le ascoltatrici attente c’è anche la nostra, quattordicenne, che aveva già manifestato il desiderio di farsi missionaria.

Nel 1907 le muore improvvisamente la mamma, Annunziata. Nel 1909 il padre si risposa e Mercede si trova bene con Teresa, la nuova mamma. Memore dell’incontro con padre Bellani, alla notizia che a Torino sono nate le suore missionarie della Consolata, Mercede chiede al padre il permesso di farsi missionaria. Vinte le sue resistenze con l’aiuto del parroco, don Capitanio, il 19 giugno 1911, ventenne, parte per Torino. Veste l’abito da suora e prende il nuovo nome di «Irene» nel 1912; conclusi i due anni noviziato nel gennaio 1914, si dedica poi alla preparazione per l’Africa e lo studio delle lingue. Il 28 dicembre parte per il Kenya e il 31 gennaio 1915 arriva a Mombasa, dove, salutando la sua nuova terra, esclama «Tokumye Yesu Kristo!», ovvero «Sia lodato Gesù Cristo!», l’unica frase, per il momento, che conosce in lingua kikuyu.

Appena il tempo di inserirsi e di imparare la lingua locale ed è inviata con altri missionari e missionarie negli ospedali militari dove si curano i carriers, i portatori a servizio dell’armata inglese in guerra con i tedeschi che controllano il Tanganika. Prima a Voi, in Kenya, e poi a Kilwa Kivinje, Lindi e Dar-es-Salaam in Tanzania, per quattro anni (1915-1919) Irene si spende come crocerossina (insieme a quarantacinque altri missionari e missionarie della Consolata e Vincenzine del Cottolengo) in quelle anticamere della morte dove venivano curati migliaia di giovani africani arruolati a forza.

Nel 1920 la troviamo a Gekondi (pron. Ghecondi), nella regione centrale del Kenya, dove si butta nell’insegnamento nella scuola per ragazze e nella visita ai villaggi. Infaticabile e scattante, visita i malati, consola i morenti, recupera i bambini abbandonati, convince i genitori a lasciare che le loro figlie vadano a scuola, segue un gruppo di ragazze desiderose di consacrare la vita a Gesù, e tanto di più. La gente comincia a chiamarla «Nyaatha» (mamma misericordiosa).

Nel settembre 1930, dopo l’annuale settimana di preghiera e ritiro a Nyeri, chiede alla sua superiora il permesso di offrire la sua vita per la missione. Nel frattempo, a Gekondi scoppia la peste. Suor Irene ne è contagiata assistendo un ammalato. Muore il 31 ottobre 1930, a 39 anni. Sepolta prima nel cimitero dei missionari al Mathari, alla periferia di Nyeri, è stata poi posta in un’urna di marmo rossastro nella chiesa della parrocchia del Mathari stesso. Dopo la beatificazione sarà trasferita nella cattedrale di Nyeri, dedicata alla Consolata. (Gi.A.)

Tomba originale di suor (beata) Irene Stefani

Tomba suor Irene nella chiesa del Mathari

Continua




Amico

 

A ssomigliano all’indemoniato di Gerasa posseduto dalla Legione (Mc
5,1-20) questo nostro mondo e l’uomo che lo abita: sembra che non riescano a
fare a meno di dimorare nei sepolcri e di gridare continuamente sui monti,
percuotendosi con pietre notte e giorno. Sembrano assillati da una moltitudine
di demoni, ciascuno dei quali ha il suo modo di manifestarsi, le sue personali
strategie persecutorie, ciascuno dei quali parla la propria lingua. Assillati
anche dai molti che, stringendoli in ceppi e catene, intraprendono tentativi
per «ridurli» alla normalità, per impedire loro di nuocere, per eliminare l’imperfezione
dall’umanità.

Il
Vangelo racconta di come Gesù liberi l’indemoniato mandando la Legione in una
mandria di porci, e di come questi si lancino dal dirupo nel mare di Galilea.
Lo stesso mare nel quale, qualche ora prima, i discepoli di Gesù avevano temuto
di inabissarsi, e avevano urlato al Maestro: «Non t’importa che moriamo?».

Il
mare di Galilea è simbolo, tra le altre cose, dell’inconscio abitato da demoni,
della contorta e conturbante natura dell’uomo che fa paura.

Pure
questa c’è tra le paure spezzate dal dono delle lingue a Pentecoste (At
2,1-11). Non solo il dono di parlare gli idiomi dei popoli, ma anche quello di
comprendere le lingue dei demoni che scuotono i singoli, le comunità, il mondo
intero, e di saper rispondere loro.

Saper affrontare la traversata
del mare senza lasciarci ingoiare dalla gola rapace dei demoni che ci lacerano,
e che lacerano la società, è un altro dei doni ricevuti. La vita accolta e
sposata per ciò che è, e non quella abbandonata o in via di perfezionamento, è
la rivelazione bella che ci viene fatta dal rombo dello Spirito.

E le lingue di fuoco vivo che
illuminano i volti dei discepoli, trasformano gli spauriti amici di Gesù in
apostoli.

Da amico
Buona Pentecoste,
buona festa delle lingue.
Luca Lorusso

Luca Lorusso




La laicità che allarga le opportunità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 28

Oggi l’Italia è un
paese multiculturale e multireligioso, molto diverso da quello che esisteva
soltanto alcuni decenni fa. Benché il diritto alla libertà religiosa sia
sancito dalla Costituzione, nel mosaico legislativo italiano mancano ancora
diversi tasselli. Uno fra tanti, ad esempio, è quello dell’intesa con l’Islam.
In attesa di una legge generale che, anno dopo anno, diventa sempre più ineludibile.

 


L’opinione comune è che in Italia non
esistano veri problemi all’esercizio della libertà religiosa. Essa, del resto, è
tra i diritti più tutelati. Ne parla la Costituzione, direttamente in ben
cinque articoli (3, 7, 8, 19 e 20) e indirettamente in altri quattro (2, 17, 18
e 21). La Corte costituzionale è stata chiamata in molte occasioni a garantie
il rispetto.

Perché dunque occuparsene?

Come emerge dalle interviste
pubblicate nei numeri precedenti di MC (si vedano i n. 1/2, 3 e 4 del 2015, ndr.),
la questione non è affatto risolta. C’è, sì, quanto prevede la Costituzione, ma
i suoi principi non sono ancora attuati del tutto e per tutti.

È tuttora in vigore la legge del ’29,
promulgata dunque durante il fascismo, che definiva la Chiesa cattolica come
religione dello stato riservando alle altre confessioni religiose la condizione
di «culti ammessi». Superato il fascismo e approvata la Costituzione
repubblicana, questa legge non era più sostenibile. La Carta fondamentale dello
stato riconosce infatti ai cittadini piena uguaglianza di fronte alla legge,
indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche,
condizioni personali e sociali (art. 3). Tuttavia sono occorsi diversi anni per
arrivare alla revisione del concordato tra la Chiesa cattolica e lo stato
italiano che, nel 1984, ha reso possibile superare ogni prospettiva
confessionale, eliminando appunto il principio del Cattolicesimo come religione
dello Stato.

Il ruolo del Concilio

Si è giunti a tanto anche grazie al
Concilio Vaticano II, che ha una grande importanza per quanto riguarda la
libertà religiosa. In esso, infatti, la Chiesa ha proclamato «il diritto della
persona umana e delle comunità alla libertà sociale e civile in materia di
religione» (Dignitatis Humanae), ha rilanciato l’ecumenismo, dichiarando
come uno dei principali compiti «promuovere il ristabilimento dell’unità tra
tutti i cristiani» (Unitatis Redintegratio) e promosso il dialogo
interreligioso (dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni con le
religioni non cristiane).

Grazie al Concilio si è diffusa nella
Chiesa italiana una nuova sensibilità ai valori della libertà religiosa che ha
permesso, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, di iniziare il cammino
della revisione concordataria concluso poi nel 1984 con la stipula del nuovo
concordato con lo stato italiano.

Il mosaico incompleto delle
intese

Sull’onda di
questo risultato si è aperta la «stagione delle intese», dando così attuazione
all’art. 8 della Costituzione, che le prevede ma che era rimasto fino ad allora
disatteso. Le intese, secondo la Costituzione, hanno il compito di
regolamentare i rapporti reciproci tra lo stato e le varie confessioni
religiose. La prima è stata siglata con i Valdesi proprio nel 1984. Negli anni
successivi sono state raggiunte intese con altre 11 confessioni. Dieci sono
state poi recepite nell’ordinamento giuridico italiano da apposite leggi,
necessarie per renderle pienamente operanti. Per una, quella con i Testimoni di
Geova, l’approvazione per legge non è ancora avvenuta.

In Italia,
insomma, si sta procedendo molto pragmaticamente per regolamentare la libertà
religiosa, costruendo una sorta di mosaico, di cui ogni nuova intesa
rappresenta un tassello, che tuttavia non è ancora concluso. Si tratta di
un’opera notevole e preziosa per rispondere alla geografia religiosa del nostro
paese, profondamente mutata nel corso del tempo anche per effetto dei flussi
migratori. Oggi infatti l’Italia è un paese multiculturale e multireligioso,
molto diverso da quello che esisteva soltanto alcuni decenni fa. Rimangono
aperti tuttavia problemi notevoli. Con l’Islam, ad esempio, non è ancora stato
possibile raggiungere alcuna intesa, soprattutto perché risulta difficile
individuare interlocutori in grado di rappresentare l’intera comunità islamica.
Si può comprendere quanto sia manchevole e fonte di problemi questa situazione
se si pensa che la questione non sta nel «concedere diritti» (che esistono già,
in quanto, appunto, sanciti dalla Costituzione e dalle leggi), ma
nell’integrare pienamente anche questa religione nell’ordinamento
costituzionale e giuridico del nostro paese: il che significa riconoscee i diritti
– tra cui quello ai luoghi di culto, spesso messo in discussione o addirittura
negato nei fatti ricorrendo a espedienti e cavilli: come non dimenticare la «guerra
delle moschee» che si è avuta negli anni scorsi in diverse città? – ma anche
definie i doveri verso la comunità nazionale in cui essa vive.

Tentativi a vuoto

Molti problemi sarebbero risolti se
si arrivasse ad approvare una legge generale che sostituisca definitivamente
quella del 1929.

È dal 1990 che il parlamento prova a
realizzarla, senza riuscirci: cosa che sorprende ancora di più se si comparano
tra loro i vari disegni di legge via via presentati dalle maggioranze che in
questi 25 anni si sono alternate in Parlamento. Essi, infatti, non sono molto
diversi tra loro nelle questioni fondamentali.

Perché allora un tale ritardo? Quasi
tutti riconoscono che una legge generale sulla libertà religiosa è necessaria.
L’ultimo tentativo per approvarla è stato compiuto nella XVI legislatura con la
«proposta Zaccaria» (vedi Mc aprile 2015, ndr.). Nella seduta del 24
luglio 2007 essa è stata «sepolta» sotto una montagna di emendamenti e si è
arenata, senza riuscire ad arrivare al voto.

Il motivo principale è stato il
rifiuto di molti del riferimento, contenuto nell’articolo 1, alla laicità dello
stato, così come definita dalla Costituzione, quale fondamento della legge che
si presentava al Parlamento. Nella Commissione affari costituzionali di
Montecitorio sono risuonate parole di sorpresa e commenti sdegnati, soprattutto
dai banchi del centrodestra. Qualcuno ha sostenuto che parlare di laicità come
fondamento della legge fosse in contrasto con la Costituzione e col principio
della libertà religiosa, qualcun altro ha affermato che fosse «pleonastico e provocatorio»
il parlarne in una proposta di legge che riguardava scelte da assumere «sul
versante della religione», altri ancora che stabilire «un principio di laicità
al quale deve essere data attuazione nelle leggi dello stato» costituisse «uno
strumento certamente rivoluzionario e certamente difforme dalla logica
costituzionale».

È evidente che si è trattato di
fraintendimenti del concetto di laicità e anche di scarsa conoscenza del
significato che essa ha nella Costituzione del nostro paese. Anche questo può
aiutare a capire come mai il parlamento non riesca ad approvare una legge
generale sulla libertà religiosa.

L’imprescindibile concetto
di laicità della Stato

Non è possibile che una legge
riguardante questa materia prescinda dal principio della laicità dello Stato,
cioè dal fatto che esso non si identifica, né ha una posizione di favore, nei
confronti di alcuna religione. Lo stato è neutrale nei confronti della
religione, e proprio per questo può e deve assicurare agli individui e ai
gruppi la libertà di professare il proprio credo (o di non credere) e garantire
che non subiscano per questo motivo alcuna discriminazione.

La Corte costituzionale, con una
sentenza molto importante (n. 203 del 12 aprile 1989), ha chiarito la portata e
il significato della laicità secondo l’ordinamento italiano. Proprio
riferendosi al nuovo Concordato del 1984, essa ha sostenuto che laicità non
significa indifferenza dello stato dinanzi alle religioni. Al contrario,
costituisce la garanzia che esso, in un regime di pluralismo confessionale e
culturale, intervenga a salvaguardare la libertà di religione di tutti. Ma la
parte forse più significativa della sentenza sta nel riconoscimento che il
nuovo Concordato realizza pienamente la laicità prevista dalla Costituzione.
Infatti il dibattutissimo articolo 7, che attribuisce alla Chiesa cattolica una
condizione del tutto particolare, definita appunto da un concordato, appartiene
alle disposizioni che danno sostanza al principio della laicità dello Stato.

Insomma, è importante rilevare che la
laicità definita dalla Costituzione italiana non stabilisce la separazione
rigida tra lo stato e le religioni come fanno, sia pure con modalità molto
diverse tra loro, quella degli Stati Uniti d’America e della Francia. Per lo
stato italiano la secolarizzazione crescente della società non riduce
l’incidenza della religione o l’esigenza di religiosità delle persone. Il
principio di laicità, inoltre, riconosce l’eguale dignità delle diverse fedi
religiose, andando oltre il semplice principio della tolleranza. E questa è
l’architrave di una effettiva garanzia della libertà religiosa. Ma, e questo è
altrettanto importante, la stessa sentenza riconosce che la pari dignità di
tutte le confessioni convive, per ragioni storiche e culturali che l’ordinamento
costituzionale permette di riconoscere, con uno speciale regime a vantaggio del
cattolicesimo. È una situazione presente anche in altri paesi europei. A una
disciplina di natura generale della religione si affianca una disciplina
speciale.

Per un verso, insomma, si fanno leggi
valide per tutte le religioni, per un altro si ammette un regime bilaterale che
regola, sulla base del concordato, la condizione giuridica del cattolicesimo.
La laicità dello stato italiano, dunque, ha un carattere intermedio rispetto ai
modelli statunitense e francese. Si tratta di una «laicità aperta», in base
alla quale viene garantita la separazione dello stato dalle chiese, ma non
dalla religione. Viene riconosciuta la libertà religiosa e l’eguaglianza di
tutte le confessioni religiose ma anche il «patrimonio storico» del
cattolicesimo. Lo stato non fa propri i principi appartenenti alla sfera
religiosa, rendendoli obbligatori e vincolanti per i suoi cittadini, ma
contemporaneamente garantisce un’apertura dello spazio pubblico ai valori
religiosi. Si tratta, in altri termini, di un atteggiamento che, nei confronti
del fenomeno religioso, affida allo stato il compito non solo di evitare
discriminazioni e di tutelare il pluralismo, ma anche di allargare le
opportunità. La neutralità dello stato si identifica con il rispetto per
l’eguale dignità di tutte le credenze religiose e, naturalmente, anche della
mancanza di ogni credenza.

Riferirsi al «principio di laicità»
nel definire una legge sulla libertà religiosa non deve dunque costituire un
ostacolo alla sua approvazione.

Una necessità reale e
impellente

Risulta chiaro, comunque, che ancora
molto resta da fare. Una regolamentazione tuttavia è indispensabile. Infatti
l’esigenza di assicurare la libertà religiosa si presenta in molteplici
situazioni che fanno parte della vita ordinaria delle persone, come
l’alimentazione, la sepoltura, il matrimonio, l’educazione scolastica, il
lavoro, il ricovero nei luoghi di cura. Ma vanno regolamentati anche il rispetto
delle festività religiose, la disponibilità e la tutela degli edifici di culto,
il libero esercizio dell’attività dei ministri di culto, l’assistenza
spirituale ai carcerati, i rapporti con le pubbliche amministrazioni,
l’appartenenza alle forze armate. Non si tratta di questioni formali o
astratte. Per darvi risposta si può procedere «pragmaticamente» seguendo la
strada delle intese. Ma si deve essere consapevoli che il risultato sarà
ottenuto pienamente solo quando il «mosaico» sarà completato, cioè quando si
arriverà a un quadro legislativo generale delle condizioni che rendono
effettiva la libertà religiosa, eliminando ogni discriminazione in questo
ambito. È una necessità reale e impellente, che sarà soddisfatta solo se
governo e parlamento riusciranno finalmente a superare il limite da più parti
evidenziato, della mancanza nella storia recente del nostro paese di una
consapevole e organica politica ecclesiastica.

Paolo Bertezzolo

Tags: patti lateranensi, concordato, concilio vaticano II, laicità della stato, legge, libertà religiosa, intese

Paolo Bertezzolo