Globalizzazione dell’”I care”

Abbiamo
appena dato l’addio al nostro fratello padre Benedetto Bellesi
, un
missionario generoso che ha dedicato ben 27 anni della sua vita a
questa rivista. Gioalista e fotoreporter, ha girato in lungo e in
largo tutte le missioni della Consolata per offrire ai lettori di MC
una documentazione di prima mano, onesta e verificata, sul vissuto
della missione. Formato come insegnante di lettere, con un buon dono
per le lingue – maneggiava oltre che un perfetto italiano e un buon
latino e greco, anche un inglese fluente con francese, portoghese,
spagnolo e zulu – e una grande passione per la Bibbia, padre
Benedetto ha sempre curato i suoi articoli nel dettaglio per rispetto
all’intelligenza e al cuore dei lettori. Non credo si sia mai
identificato con le parole di Elbert Hubbard: «Il lavoro del
giornalista consiste soprattutto nel separare il grano dalla pula. E,
naturalmente, nel provvedere che la pula sia stampata». No, lui
raccontava del grano, anche a costo di non essere alla moda. Perché
era prima di tutto un missionario, servitore della verità. Servire
la verità era per lui servire il Signore nascosto negli ultimi, nei
poveri, nei diseredati della terra.

Penso
a questo mentre cerco di rendermi conto di cosa significherà fare la
rivista senza di lui.
Una rivista che non vuole giocare sul
pietismo, che non cerca di manovrare le emozioni, che desidera
evitare i luoghi comuni e ama e rispetta le persone e i popoli di cui
scrive, come ama e rispetta i suoi lettori. Padre Benedetto ha
dedicato il meglio di sé per un sogno di frateità, di pace e di
giustizia, raccontando in maniera pacata e documentata di persone e
fatti che non fanno breccia in un mondo di comunicazione rapida, che
brucia le notizie, che rende la realtà finzione e la finzione stile
di vita, che rende spettacolo le tragedie ed eventi mondiali le
vanità e le cose fatue, fino all’intontimento delle coscienze e
all’indifferenza totale per tutto quello che non tocca il «mio»
benessere immediato.

A
proposito di indifferenza
, ho sotto gli occhi il testo dell’omelia
di papa Francesco a
Lampedusa (8 luglio 2013). «Chi è il
responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti
noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri,
non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: “Dov’è il sangue
del tuo fratello che grida fino a me?”. Oggi nessuno nel mondo si
sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della
responsabilità fratea; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita
del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù
nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto
sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo
per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci
tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che
ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida
degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non
sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta
all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione
dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo
caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati
alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non
è affare nostro! Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La
globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”,
responsabili senza
nome e senza volto».

«Voce
contro la globalizzazione dell’indifferenza»: oso applicare questa
espressione alla nostra rivista e alle altre riviste missionarie –
con cui stiamo condividendo tempi difficili -. Siamo una piccola
realtà, non abbiamo la forza dei grandi network, ma per
quanto riguarda l’amore alla verità e la passione per i
«senzavoce», non siamo secondi a nessuno. Neppure per quel che
riguarda il rispetto dei nostri lettori e del loro impegno per un
mondo più giusto, fraterno, bello e giornioso. Padre Benedetto ha
speso gran parte della sua vita in favore della «globalizzazione
dell’I care», quel «m’interessa, mi sento responsabile e
me ne occupo» che è l’unica forza che può cambiare il mondo.
Buona estate.

Gigi Anataloni




Una voce in meno

L’editoriale di ottobre della
rivista «Popoli», dopo un caldo saluto a lettori e lettrici, recitava: «Vi
comunico la sofferta decisione di interrompere, con il numero di dicembre 2014,
la pubblicazione». Probabilmente, a voi, amici lettori di Missioni Consolata,
questa comunicazione dice poco. Io, invece, non ho potuto fare a meno di
piangere, poche, sentite lacrime, per una notizia che mi ha dato tristezza. Una
tristezza ampiamente condivisa dagli amici e colleghi di tutta la stampa
missionaria.

«Popoli» è la rivista missionaria dei Gesuiti italiani. Fondata nel
1915 col nome di «Le Missioni della Compagnia di Gesù», diventata «Popoli e
Missioni» nel 1970 e poi «Popoli» a fine anni Ottanta. A dicembre conclude 100
anni di servizio alla missione. Nata durante la prima guerra mondiale, muore
mentre è in corso quella che il papa chiama la «terza guerra mondiale». E muore
per fallimento economico, strozzata dai debiti. Sanissima quanto a idee,
progetti e visione, «Popoli» è vittima però più della crisi «missionaria» del
nostro paese che della crisi economica.

Non è di conforto il fatto che non sia l’unica vittima nel settore
della stampa missionaria e che negli altri paesi europei sia ancora peggio. «Ad
Gentes» dell’Editrice Missionaria Italiana ha chiuso in questo 2014, «Afriche»
della Società Missioni Africane nel 2010, il nostro «Amico» nel 2010, altre
hanno ridotto il numero delle pagine o la periodicità, altre ancora si sono
fuse tra loro. Le riviste missionarie ancora in circolazione, nonostante il
grande sforzo di rinnovamento e di riqualificazione a servizio del Vangelo e
dei poveri, non scoppiano di salute, condividendo in pieno tutte le difficoltà
dell’editoria italiana, religiosa e non.

Con gli altri amici della stampa missionaria italiana (che non è poi
solo stampa, ma è web, e video, e tanto altro) ci chiediamo se la chiusura di «Popoli»,
al di là delle ragioni oggettive portate dagli editori, non sia un sintomo di
una situazione ben più complessa. Ogni anno vediamo drammaticamente invecchiare
e diminuire di numero i missionari italiani «a vita» (17 mila negli anni
Ottanta, poche migliaia già oggi e in continuo calo), chiudere comunità,
rarefarsi le partenze non compensate dal pur crescente numero di missionari
laici. Allo stesso tempo si chiudono o si accorpano parrocchie, si vendono
chiese, per la preoccupante diminuzione del numero dei sacerdoti.

è questo solo un momento di purificazione? O la fiaccola della missione è stata tolta ai cristiani italiani
per essere affidata ad altri? è
la missione che non interessa più o non ci sono più neppure i cristiani che
possano appassionarsi ad essa? Oppure è la missione che è talmente cambiata da non avere più bisogno di missionari e
tantomeno delle loro delle riviste?

Le riviste missionarie raccontano della bellezza della missione,
della dedizione di tanti missionari, del sogno di un mondo più fraterno, di una
Chiesa viva che cresce nelle periferie del mondo, dello Spirito che suscita
nuovi evangelizzatori da ogni angolo della terra. Pur nella loro povertà e
debolezza (evidente nel confronto con gli altri media!), sono testimonianza di
speranza e di un mondo più fraterno. Non hanno più nulla da dire? Quello che
scrivono non interessa più a nessuno? O non c’è più nessuno che creda nel
mandato di annunciare il Vangelo fino ai confini del mondo?

Sempre il mio vizio di far domande! Anche perché non ho risposte
chiare in una situazione così fluida come quella che stiamo vivendo. Certamente
gli interessi degli italiani sono cambiati in questi anni. E l’annuncio del
Vangelo non è in cima alle loro preoccupazioni. La nostra società è sempre meno
cristiana nonostante il numero sempre alto dei battezzati. I cristiani
praticanti costituiscono ormai una minoranza e sembra che la maggior parte dei
giovani non si identifichi più con la Chiesa. Questi sono dati di fatto,
confermati da abbondanti statistiche.

In un simile contesto la chiusura di una o più riviste missionarie non
cambia molto le cose. Però fa riflettere: quale sarà la prossima? Noi intanto
andiamo avanti con serenità nel nostro servizio, cercando in tutti i modi di «far
bene il bene», fino in fondo. Abbiamo (noi missionari) una convinzione
profonda: «Siamo semplicemente dei servi» (Lc 17,10). Il vero missionario è lo
Spirito di Dio. Anche se una voce si spegne qua o là, Lui farà «parlare anche
le pietre» (cfr. Lc 14,40). E non ditemi, come fa il mio correttore di bozze,
che queste ultime sono solo parole di consolazione messe lì per non chiudere
l’editoriale con troppa tristezza. Ogni bene a voi.

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Buona lettura!

Gigi Anataloni




(Cana 35) E io dissi: «Chi sei, o Signore?»

«E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti”»  (At 26,15)

Gv 2,9b: «L’architriclìno… non sapeva da dove è (il vino), ma sapevano i diaconi/servitori…».

Siamo quasi alla fine del nostro lungo pranzo nuziale, durato non alcune ore come è tradizione, ma più di due anni; prima di riflettere sugli ultimi due versetti, è necessario aggiungere ancora qualche tassello alla puntata precedente e capire il pensiero dell’autore che è sfuggente come un anguilla, costringendoci a inseguirlo «dove» lui sa di volerci portare. L’obiettivo del racconto infatti non è cronachistico né agiografico.
Sarebbe ben strano se il racconto fosse agiografico, perché di Gesù nulla sappiamo se non le poche e scarne notizie essenziali, funzionali in Giovanni alla sua personalità di Figlio di Dio: sappiamo che naque a Betlemme (ma non sappiamo quando), che ebbe una madre di Nàzaret e un padre legale; che svolse la professione di falegname prima e «rabbino» nell’ultimo tratto della sua vita, ma non sappiamo se per uno o due o tre anni; sappiamo che fu molto polemico con il potere religioso, con il quale cercò di evitare lo scontro finché poté, defilandosi in località lontane dai palazzi che contavano; sappiamo che alla fine dovette accettare lo scontro frontale e non si tirò indietro, correndo il rischio della sua stessa vita senza scendere a compromessi; sappiamo che morì a causa della instabilità istituzionale che la sua esistenza e le sue parole rappresentavano per la religione formale, alleata con il potere politico per farlo fuori e riuscendoci in modo illegittimo e illegale.
Valore teologico del racconto
Il racconto e l’importanza che assume, collocato al «principio» del «libro dei segni» (Gv 2-12), hanno valore «teologico» nella prospettiva dell’intero vangelo che la tradizione attribuisce alla scuola di Giovanni. Esso serve a mostrare la personalità di Gesù e ad aiutarci a scandagliare la sua «identità». Tante volte abbiamo detto che il IV vangelo (ma anche Marco) ruota attorno alla domanda: «Chi è Gesù?». In altre parole: come «conoscere/sapere» la sua identità? «Dove» incontrare la sua straordinaria personalità? Il racconto di Cana anticipa i temi di tutto il vangelo dalla prospettiva dell’alleanza del Sinai, che l’autore non considera superata, ma la condizione per un rinnovamento radicale che passi di nuovo attraverso il tema profetico della nuzialità (cf Os 2), del ritorno di Dio in mezzo al suo popolo dopo l’esilio e l’abbondanza della vita come ritorno al giardino di Eden (cf Is 40) dopo la siccità della separazione e abbandono.
Per questo, alla fine del racconto, che termina col versetto 10, l’autore si riserva di annotare che l’architriclino, cioè il rappresentante ufficiale della religione formale, non sapeva di «dove» veniva il «vino bello», qui simbolo della presenza di Dio, visibile in Gesù. Sul «dove» ci siamo soffermati nella puntata precedente, qui vediamo in breve il senso cristologico dell’avverbio «dove – pòthen», che nel IV vangelo ricorre 13 volte, su 29 occorrenze in tutto il NT, quasi la metà, per cui si può dire che è un termine importante nella teologia giovannea. In Gv 1,48 Natanaèle chiede a Gesù: «Dove mi conosci?» e Gesù risponde: «Ti conoscevo già prima che Filippo ti chiamasse». Qui il dove per due volte si relaziona con la conoscenza per fare emergere la vera consistenza del capo del popolo (Natanaèle è membro del sinedrio) che non ha una consuetudine con «i segni dei tempi» (Sir 42,18; Mt 16,3), ma si barcamena nella banalità dell’ordinario, standosene sotto il fico. Incontrare Gesù significa scoprire il proprio dove, affinare la propria prospettiva, orientare la direzione della propria vita per riconoscere da dove egli viene e accogliere i doni che egli offre, in primo luogo la «alleanza nuova» (Ger 31,31).
Sapere da dove viene il Signore
Il primo aspetto riguarda «l’origine» di Gesù e quindi la sua relazione col Padre: gli abitanti di Gerusalemme, disorientati di fronte al comportamento dei loro capi, sono perplessi sulla persona e l’operato di Gesù, ma hanno una certezza: «Costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia» (Gv 7,27); per due volte ricorre l’avverbio «dove – pòthen». Gesù risponde loro di non illudersi, perché possono arrivare a conoscere il «luogo» della sua nascita, ma senza attitudine spirituale non potranno mai scoprire la «sua origine», quella che lo mette in relazione con «chi mi ha mandato… e voi non conoscete» (Gv 7,28). Ancora una volta il «dove» è intimamente legato alla «conoscenza», che non è cognizione di dati, ma esperienza di vita.
Da parte sua Gesù conosce il suo «dove» d’origine e anche quello del suo compimento, a differenza dei farisei che invece si ostinano nel loro limite, impedendosi da soli qualsiasi conoscenza e qualsiasi prospettiva: «So da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado» (Gv 8,14).
Gli avversari di Gesù non possono accettare di non avere sotto controllo anche Dio perché per avere il monopolio della religione devono imbrigliare Dio nei loro schemi e nei loro riti: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato» (Gv 9,16). Essi arrivano ad addomesticare alle loro mire e pensieri anche la tradizione dietro la quale si rifugiano per fuggire dalle novità di Dio: «Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia» (Gv 9,28-29).
A essi pensava il profeta nel riportare le parole del Signore: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Solo l’esperienza salvifica (la guarigione dalla cecità) libera l’anima e il cuore da ogni condizionamento prevenuto e legge la realtà per quello che è, chiamandola per nome: «Voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi» (Gv 9,30). È la religione del dovere che si contrappone alla fede della ricerca. Scomodano anche Mosè, senza rendersi conto che se avessero ascoltato il condottiero, avrebbero fatta propria la sua preghiera e oggi la sperimenterebbero compiuta: «Mosè disse al Signore: “Il Signore, il Dio della vita di ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore”. Il Signore disse a Mosè: “Prenditi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui è lo spirito”» (Nm 27,15-18)1.
Il Profeta pari a Mosè
In ebraico il nome «Yehosuàh» nella forma lunga, oppure «Yoshuàh» nella forma corta, significa «Giosuè/ Gesù». La Bibbia greca della Lxx, traduce sempre con «Iēsoûs – Gesù». Il nome è come di solito «teofòrico» perché ha il significato di «Dio salva»2. Nel libro dei Numeri, Giosuè è successore di Mosè, ma nel libro del Deuteronomio c’è la promessa al popolo e a Mosè di suscitare un profeta «pari a» Mosè stesso, il profeta più grande di tutti i tempi: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15).  
Ecco, il profeta di Dio è ora davanti a Israele, al popolo di Gerusalemme, ai capi, agli scribi e farisei e costoro prendono per sé il Mosè accomodato ai loro bisogni e non si rendono conto che la sua preghiera è stata esaudita nella persona di Gesù che parla «in mezzo a loro»; ma essi perduti nel deserto della loro religiosità senza Dio, non sanno «di dove sia».
Si spiega così perché non possono accogliere i doni dell’abbondanza che egli annunzia: il vino bello delle nozze dell’alleanza rinnovata (Cana in Gv 2,9), l’acqua viva della coscienza delle proprie scelte (Samaritana in Gv 4,11) e il pane che sfama (il pane/eucaristia dell’abbondanza in Gv 6,5). Essi sono ciechi pur vedendo, miscredenti pur praticando la religione, sazi di sé, nella presunzione di credersi i rappresentanti della volontà di Dio. A loro è precluso il soffio dello Spirito che «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove (pòthen) viene né dove va» (Gv 3,8). Per cogliere lo Spirito e il suo «dove» bisogna essere disposti a staccarsi dalle proprie sicurezze per correre tra le spire del vento e lasciarsi portare in luoghi e «dove» inesplorati e forse mai sognati.
Nel IV vangelo pare che l’unico interessato a sapere il «dove» di Gesù sia l’uomo più lontano da lui, per compito e per stato: Pilato, il procuratore romano, rappresentante di quel potere antagonista con il servizio annunciato e vissuto da Gesù ed espressione di una potenza deificata, tanto che il suo imperatore è «divino» per antonomasia. Incuriosito dal mistero che circonda quell’uomo che si trova di fronte, non esita a chiedere, disarmante: «“Di dove sei tu?”. Ma Gesù non gli diede risposta» (Gv 19,9). Non è tempo di discussione tra concezioni di vita e di poteri: il dramma è agli sgoccioli e anche Pilato è nelle mani di un gioco più potente di lui, perché la sua legittima domanda è immediatamente stritolata nelle maglie dell’alleanza tra la religione e il potere, la spada e l’altare: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare!» (Gv 19,12).
Se Cesare prende il posto di Dio
Ai capi dei sacerdoti interessa non l’amicizia di Cesare né tantomeno quella di Pilato, ma che non si rompa il patto di stabilità tra il potere religioso e quello politico, pagando il prezzo della consegna di Gesù che afferma di essere «Figlio di Dio», anzi proprio per questo. Qui si svela il «dove» dei capi dei sacerdoti, cioè delle guide, coloro che si vantavano di essere discepoli di Mosè, il padre dell’esodo e il maestro del Sinai, il profeta dell’alleanza sponsale, colui che guidò il suo popolo, gli antenati dei capi di oggi, a scegliere Dio come proprio Re, trasformandolo in popolo regale (cf Es 19,6; 1Pt 2,9). Essi sono apostati perché rinnegano il Dio del Sinai e danno nome al vitello d’oro chiamandolo Cesare, il come di un imperatore qualsiasi, una caricatura di re, di norma pazzo e assassino: «Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,15) che è il capovolgimento della promessa unica e solenne: «Quanto ha detto il Signore, lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24,7). È l’apostasia totale.
Solo in questa prospettiva si può capire l’economia del racconto di Cana come midràsh dell’alleanza del Sinai: Cana è l’invito, anzi l’appello alla coscienza di Israele ad abbandonare la teoria dei Cesari che hanno dominato la sua vita e il suo cuore per tornare al Dio di Abramo, al Dio di Isacco, al Dio di Giacobbe, al Dio dei Padri (cf Es 3,16), lavandosi e purificandosi non già nell’acqua delle giare che sono vuote e abbandonate, ma nel sangue, cioè nella vita di Dio stesso che non esita a darsi per amore (cf Gv 15,13). Il racconto delle nozze di Cana è un affresco mite e seducente di un Dio prossimo che viene a cercare chi si era smarrito nei patti scellerati con il potere, aderendo a una religione di comodo che fa a meno di Dio, pur servendosene peccaminosamente, perché non può vivere senza il guinzaglio del «cesare» di tuo.
Per questo l’architriclino non ha saputo o potuto riconoscere il vino bello dell’alleanza sinaitica nuova perché non aveva il collirio adatto (cf Ap 3,18) per vedere e contemplare che «lo sposo di quelle nozze (Cana) raffigurava la persona del Signore» (Sant’Agostino, In Johannis Evangelium. Tractatus cxxiv 9,2). Abbiamo qui una prova del metodo di Giovanni: il significato materiale delle singole parole o dei personaggi (la figura dello sposo, più allusa che reale) è simbolo di un altro Sposo che solo chi possiede o è posseduto dallo Spirito può cogliere e assaporare (cf 1Cor 2,11).
L’apparenza, il simbolo e la realtà
Nelle nozze degli umani, il vino buono si spreca all’inizio perché l’obiettivo è fare «bella figura» con gli ospiti e, alla fine, quando tutti sono ubriachi e nessuno è più in grado di distinguere il vino dall’acqua, si mette in tavola vino scadente; nelle nozze del Regno, al contrario, poiché si guarda all’evento in sé, quando il Messia porterà a compimento la storia e il suo senso, che oggi può apparire confuso e complicato, allora, e solo allora si gusterà il «vino bello» della comprensione di ciò che si è vissuto. Nella prospettiva del Regno non si guarda alla «figura», cioè all’apparenza, ma si è proiettati verso la dimensione escatologica, «in quel tempo» unico e assoluto, quando contempleremo la Sposa di Dio, la Gerusalemme del cielo «adoa per il suo Sposo» (Ap 21,2), pronta a riscattare il pianto di «Rachele (che) piange i suoi» (Ger 31,15; Mt 2,18), perché ora accoglie l’umanità intera invitata a prendere parte alle «nozze dell’Agnello» (Ap 19,7), sigillo definitivo e supremo dell’alleanza aperta e conclusa nel segno della Parola sul monte Sinai, quando Dio scelse Israele e Israele si consacrò al suo Signore (cf Es 19,8; 24,3.7).
Il racconto di Cana s’interrompe in modo brusco, senza conclusione, restando in sospeso, perché ogni lettore sia costretto a fermare il suo pensiero e a immaginare ciò che non è scritto, perché lo riguarda direttamente: qual è il mio posto di lettore in questo racconto? Quale personaggio descrive il mio stato d’animo, la condizione della mia fede, il mio «dove» nel cammino della mia ricerca?
In altre parole, il racconto di Cana resta «sospeso» perché aspetta la risposta all’interrogativo di fondo: a che punto sono della mia storia della salvezza? Sono seduto al banchetto delle nozze dell’Agnello o sono ancora nel giardino di Eden alla ricerca dell’albero «gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6)? Sono schiavo in Egitto, in attesa dell’irruzione di Dio, nella quale forse non spero più? Sono forse nel deserto a rimpiangere il passato, preferendo la schiavitù alla fatica del cammino verso la libertà? Ho preferito il «dio facile», rappresentato dal vitello d’oro, o il Dio esigente della coscienza sulla cima del monte che consegna le «dieci parole» di responsabilità? Non è affatto scontato che ciascuno di noi sia nel NT, accanto a Gesù Cristo, Messia e garante. No, non è proprio scontato.
Chi è Gesù per me?
Si può essere papi, vescovi, preti, consacrati, cristiani, studiosi della Bibbia da generazioni e generazioni e si può essere benissimo fuori della stanza nuziale, senza abito della festa (cf Mt 22,10-14), lontani dall’alleanza e dal Dio dal volto umano manifestato in Gesù di Nàzaret. La domanda cruciale è solo una e non può essere posta in altro modo: «Chi è Gesù per me?».
A questa domanda si deve rispondere e non si può rimandare; non è neppure sufficiente dare risposte prefabbricate, come fanno gli apostoli che riportano le «opinioni» degli altri: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta (cf Mt 16,14) o come fa Pietro stesso che crede di risolvere tutto affidandosi all’attesa messianica: «Tu sei il Cristo!» (Mt 16,16). Anche la sua risposta, che poteva venire dallo Spirito, è invece così generica e imprecisa che Gesù si sente in dovere di snudare la superficialità e doppiezza fino a chiamarlo satana: «Satana! Tu sei a me di scandalo» (Mt 16,23).
La domanda «Chi è Gesù per me?» impone al lettore di andare oltre il racconto di Cana, di scendere tra le pieghe delle parole che lo descrivono e di immergersi nel cuore dei sentimenti nascosti nel pozzo dello spirito. È il momento supremo della coscienza, che non può ingannarsi davanti a un evento che attende solo di essere vissuto: lo Sposo è giunto, le nozze possono cominciare! Si accendano le lampade (cf Mt 25,6).
È il momento della verità senza sconto: Gesù è un sistema di conoscenze catechetiche? Una struttura di dogmi o di etica? Un marcatore di civiltà da contrapporre ad altre? La chiave di un codice di potere? Lo strumento per esigere privilegi e «valori», magari non negoziabili? Oppure è una Persona che vuole essere incontrata, accolta, amata e frequentata?
Se è una Persona, c’è spazio per i sentimenti profondi fino all’innamoramento che fa sì che «quella Persona» diventi l’asse portante, il referente, il punto di arrivo e di partenza della vita, delle scelte, degli eventi, della morale, del pensiero, della fede e della speranza: «Il Dio della mia vita» (Sir 23,4).
(35 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Jihad, Sharia e terrorismo

Il professor Massimo Campanini, orientalista, storico del Vicino oriente arabo e di Filosofia islamica insegna all’Università di Trento. Ci spiega alcuni concetti di base.

Cos’è la jihad, la guerra santa?
Nel corano il termine ha significato di «sforzo». Ovvero impegno, coinvolgimento personale e comunitario sulla via di Dio. Può essere interpretato in senso spirituale (come ad esempio dai sufi), trasformazione del sé, raggiungimento della perfezione spirituale che consente di avvicinarsi a dio. Ha avuto caratterizzazione bellica, che può essere offensiva o difensiva. Offensiva nel senso di estensione della comunità islamica, ma mai come strumento di forzata conversione degli infedeli.
Diventa più aggressiva a partire dagli anni ’70: affermazione di fondamentalismo e radicalismo islamico. I teorici dei movimenti estremisti hanno sostenuto che il dovere jihadistico rivelato all’origine è stato per secoli dimenticato e i contemporanei lo devono rinverdire.
Il jihadismo è un problema contemporaneo. Forma contemporanea di radicalizzazione di alcune frange di islam che trovano riferimenti teologici nel medioevo ma li riadattano a certe prese di posizione e alla necessità della contingenza contemporanea.
I salafiti sono tutti jihadisti?
I salafiti sono una realtà plurale, non sono un blocco omogeneo. Esistono gruppi salafiti jihadisti ma anche gruppi salafiti quietisti, che predicano il non impegno politico, l’islamizzazione delle coscienze dei singoli e non la necessità di impadronirsi dello stato. In Arabia Saudita, convivono entrambe le tendenze.
Perché usano il terrorismo?
Il terrorismo è spesso l’arma di coloro che non hanno la possibilità di mettere in campo eserciti organizzati. Non riduciamo il terrorismo al jihad. Ma è il jihad che usa il terrorismo, è una questione tattica.
Cos’è la Sharia, legge islamica?
Sharia vuol dire «direzione»: ha valore più etico, ideologico che normativo. Nel Corano e nella Sunna (testi fondamentali dell’islam) sono contenute norme civili e penali.
Un conto è la rivelazione, altro è l’interpretazione fatta sulla rivelazione, umana e contestualizzata, a cui è data autorevolezza della sharia fraintendendo e tradendo le aspirazioni originarie.
Quando i gruppi fondamentalisti vogliono applicare la sharia, intendono alcune regole di comportamento, velo, applicazione delle pene corporali. Agitare lo spauracchio della sharia è un problema più formale che sostanziale.
Operano una semplificazione, radicalizzando alcune norme che fanno scalpore e sono anche utilizzate a livello mediatico.
Perché gli islamisti di Ansar Dine hanno distrutto i mausolei a Timbuctu?
Purificazione dell’islam, puritano e rigido, che non sopporta che venga adorato nient’altro accanto a Dio. Questo il senso teologico, malinteso ed esagerato, estremista, fondamentalista. C’è poi la mediatizzazione del fenomeno: allo scopo di trovare altri appoggi, convincere altra gente a seguire una posizione di tipo politico o ideologico. Convincere gli incerti a venire dalla loro parte.

a cura di Marco Bello

Marco Bello




Attaccati alla stessa corda

Era il 1992, vent’anni fa, a febbraio. I miei ultimi mesi a Maralal, Kenya. La siccità imperava.
Tutti ne soffrivano. In missione, mettendo insieme tutte le nostre risorse, avevamo
aperto un rubinetto per la gente. La coda cominciava alle quattro del mattino. Si dava acqua
fino alle sette di sera, quando era già buio pesto. A ognuno un bidoncino da 20 litri.
Venivano i bambini, marinando scuola. C’erano le donne/mamme, contente di non dover far chilometri
e trovare acqua pulita. C’erano i poverissimi e i benestanti del paese, accomunati da un
problema che rendeva tutti uguali. Anche se chi poteva, negozianti soprattutto, pagava dei giovanotti,
altrimenti sfaccendati, per l’incombenza. I miei ragazzotti dell’Azione Cattolica distribuivano
l’acqua e tenevano la disciplina. I litigi erano frequenti. I bambini si perdevano a giocare, le
donne si imponevano sui bambini, i giovanotti a cottimo scavalcavano tutti per guadagnare di più.
Neanche le bacchettate distribuite generosamente dai miei «ascari» riuscivano a mantenere
l’ordine. E si sprecava un sacco d’acqua. Provammo così con i tappi delle bottigliette. Ne raccogliemmo
un bel po’ e li numerammo con dei punzoni. Entro sera non ce n’era più uno in giro: i
bambini li avevano presi tutti per giocare. In magazzino c’era un rotolo di spago. Infilammo allora
lo spago nei manici dei bidoncini per bloccarli in una fila ordinata. L’ultimo arrivato andava in
coda, infilava il suo bidone e attendeva tranquillo il suo tuo e, se bambino, poteva anche perdersi
a giocare. Funzionò per alcune ore. Poi lo spago si bagnò, si sfilacciò e si spezzò. Fioccarono
bacchettate. Inutili. Occorreva una soluzione radicale. Comprammo allora una lunga corda di
nailon, robusta, resistente all’acqua, difficile da tagliare senza farsi notare. Finalmente si formò
una lunga coda ben ordinata, senza litigi, immune da bullismo, da distrazioni, da petulanza. Tutti
uguali, bambini e adulti, ricchi e poveri a condividere quel bene così prezioso ed essenziale.
Si potesse trovare una corda così per affrontare insieme la gestione di questo nostro mondo!
Era lo scorso agosto, quando è stato dato l’allarme che avevamo già consumato la nostra
razione annuale di risorse e che stavamo già consumando la quota dell’anno prossimo.
Ci è anche stato detto che quell’«avevamo» non include tutti gli abitanti della terra in
maniera uguale. C’è un 20% di mangioni che consumano l’ 80% del tutto, ed è indifferente, se
non arrabbiato, al fatto che l’altro 80% voglia una fetta più grande della torta o addirittura parti
uguali. Si inquina il mondo, e gli inquinatori pensano di risolvere il problema comperando le
quote verdi di chi (per ora) non inquina. C’è un bisogno vorace di energia per il dio «auto» e tutte
le altre comodità della vita, Inteet compreso. Allora si fanno le «operazioni di pace» che lasciano
lutti e rimpinguano i fabbricanti d’armi, e si affamano quelli che son già poveri per prendee
le terre e produrre il cosiddetto biofuel, che di bio (vita) ha ben poco perché sta causando
la morte per fame (quella vera) di milioni di persone. Una parte del mondo consuma troppo. Invece
di dire: «Condividiamo in giustizia ed equità», dice «siamo troppi» e vuol risolvere il problema
impedendo la crescita di chi già consuma poco attraverso controllo delle nascite, aborti facili,
sterilizzazioni forzate. Certo, questo non viene detto così brutalmente, ma presentato con belle
parole che confondono anche gli onesti. Non dimenticherò mai quelle due consonanti, «T.L.»,
scritte nell’angolo in basso a destra di un foglio di quaderno che doveva essere la cartella clinica
di una giovane madre keniota a cui avevano legato le tube (T.L.= tube ligation) senza neanche
informarla, solo perché ragazza madre, disoccupata, analfabeta e al terzo figlio.
Niente di nuovo in quanto scrivo e non ci stancheremo mai di scrivere su questa rivista. Un
approccio troppo sociologico? Dipende dai punti di vista. Un tempo la Chiesa è stata accusata
di aver benedetto la colonizzazione del mondo. Tacere oggi sulle ipocrisie di un
benessere (di pochi) costruito sulla pelle dei più poveri (molti), è rendersi complici di un
sistema schiavista e ingiusto che di cristiano non ha niente. Questo nostro mondo non si salva
con delle «arche» per pochi, ma con una cordata dove tutti fanno la propria parte.

                                                                                                                              Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Etnomedicina oggi

L’importanza delle medicine tradizionali

Sono trascorsi più di trent’anni da quando, nel 1978, ad Alma Ata, oggi capitale della Repubblica del Kazakistan, l’Organizzazione Mondiale della Sanità emanò per la prima volta la raccomandazione ai governi dei paesi in via di sviluppo di riconoscere l’importanza dei sistemi medici indigeni tradizionali. La Conferenza espresse la necessità urgente di azioni da parte di tutti i governi, degli operatori della salute e della comunità internazionale per proteggere e promuovere modelli di cura antichissimi per il bene di tutti. Era un proposito ambizioso che indicava le medicine tradizionali come risorsa terapeutica, accettando al contempo il ruolo rilevante dei terapeuti tradizionali per il soddisfacimento dei bisogni di salute. Aveva così inizio la modea epopea dell’etnomedicina globale.

Cos’è l’etnomedicina?
Le «medicine tradizionali» sono un insieme di pratiche preventive, igieniche e terapeutiche, nonché una serie di teorie sulla salute e sulla malattia, specifiche di determinate culture, nell’ambito delle quali esse si sono sviluppate. Spesso, però, nell’utilizzo corrente, il termine medicina tradizionale è stato sostituito da altre espressioni, quali «medicina indigena», «medicina non ortodossa», «medicina popolare», generando di fatto incomprensione e confusione. Noi useremo il termine etnomedicina per indicare quel complesso di saperi di origine antichissima, preesistenti all’applicazione del metodo scientifico della medicina modea.
Eccetto la medicina cinese e ayurvedica indiana, codificate da un’ampia letteratura millenaria, la quasi totalità degli altri sistemi medici tradizionali (africani, americani e asiatico-pacifici) sono trasmessi direttamente da terapeuta in terapeuta senza una documentazione scritta. L’etnomedicina potrebbe, quindi, sembrare una medicina primitiva, in realtà è una conoscenza primordiale ben inserita nel contesto etnico, culturale, religioso e storico di tutte i popoli, diventando un’autentica visione del mondo che influenza e determina sia nella filosofia che nella prassi quei sistemi sanitari. È implicito allora che esistano tante medicine tradizionali quante culture e popoli sul pianeta.
Oggi l’etnomedicina rappresenta l’unica speranza di cura e di prevenzione per molte società del Sud del mondo. D’altro canto quasi 3,5 miliardi di individui non utilizzano la medicina occidentale, quella sintetica e da laboratorio, quella sperimentale delle ricche multinazionali del farmaco. E mai ne diverranno fruitori, in quanto indigenti.
Grazie anche al loro approccio olistico e allo stile di cura che pone l’uomo, nella sua complessità, al centro di ogni processo di guarigione, le medicine tradizionali stanno largamente prendendo piede nei paesi industrializzati del ricco occidente. Le statistiche foite dall’OMS ci dicono che la percentuale della popolazione che ha utilizzato le medicine tradizionali almeno una volta è pari al 48% in Australia, al 70% in Canada, al 42% negli Stati Uniti e al 75% in Francia. Anche in Italia, secondo una recente indagine ISTAT sulla salute, circa 9 milioni di italiani, il 15.6% della popolazione, avrebbero fatto ricorso almeno una volta a metodi di cura tradizionali nell’ultimo decennio. Un’indicazione importante su cui riflettere.
Etnomedicina,
per la salvaguardia del
patrimonio locale
Da sempre l’uomo per curarsi ha attinto dal suo habitat i rimedi e ha adottato differenti strategie terapeutiche in funzione della propria cultura e delle proprie strutture sociali, oltre che delle caratteristiche climatiche, geologiche, fito-geografiche e faunistiche. Proprio perché legati a credenze e opinioni specifiche delle culture tradizionali, questi sistemi sono più facilmente accettati dalle comunità tradizionali, che invece vedono con sospetto molte delle pratiche terapeutiche collegate al sistema di cura della medicina occidentale.
Tutto l’enorme bagaglio di sapere e conoscenza legato all’etnomedicina può essere trasmesso di generazione in generazione sia dalla tradizione orale che dall’insegnamento strutturato in scuole ed università.
È un sapere smisurato che, un po’ ovunque, continua a tradursi in un immenso ricettario di rimedi naturali e tecniche di cura.
Ricordiamo, per esempio, che le popolazioni del Nord-ovest amazzonico utilizzano oltre 2mila specie vegetali; negli stati eurasiatici dell’ex-Unione Sovietica circa 2.500 piante sono impiegate a scopi medici; in Cina oltre 5.100 specie vegetali e animali sono sfruttate dalla medicina tradizionale, che copre oltre il 40% delle cure sanitarie del paese. Questi dati diventano ancora più marcati in altri contesti più poveri, soprattutto in Africa e nelle aree rurali dell’Asia, dove la medicina occidentale non è molto diffusa e comunque troppo costosa e più dell’80% della popolazione utilizza solo la farmacopea tradizionale come unico mezzo di cura primario. In Laos, Myanmar, gran parte dell’Indonesia, Vietnam e Cambogia si arriva addirittura al 90%! Questi dati rivelano una pratica che sta diventando sempre più globale, dato che nel mondo il bisogno di piante medicinali, comunemente utilizzate dalle medicine tradizionali, è triplicato nel corso dell’ultimo decennio.
Esperti, medici e scienziati sul libro paga delle ricche multinazionali del farmaco trascorrono lunghi periodi tra le culture tradizionali per apprendere pratiche e segreti atavici lavorando al fianco di sciamani, medici delle foglie, stregoni e guaritori locali. L’aspetto negativo di questo fenomeno è che le multinazionali non solo si appropriano di un patrimonio tradizionale,ma lo monopolizzano grazie a brevetti che renderebbero addirittura illegale l’uso di tali risorse naturali alle popolazioni locali.
Anche per questo il Programma di Medicina Tradizionale dell’Oms si propone di disciplinare con maggiore chiarezza questa assurda pratica. Per l’agenzia delle Nazioni Unite si tratta di una decisa risposta ai rischi e abusi del rinnovato interesse verso le risorse naturali tradizionali, attraverso la messa a punto di dettagliati sistemi di classificazione, per lo più database e registri depositati negli archivi legali dei governi, che garantiscano l’identificazione e la classificazione del patrimonio locale. È anche un modo per dire basta a truffe e a nuovi colonialismi in campo sanitario e soprattutto per promuovere un eventuale utilizzo dell’etnomedicina e del patrimonio così codificato all’interno dei servizi sanitari nazionali.
Stile di cura,
salute e malattia
Economicità, efficacia e sicurezza sono sicuramente contributi importanti che l’etnomedicina offre alla promozione della salute a livello globale. Tuttavia vi è un ulteriore fattore che ha determinato la grande diffusione di questo tipo di medicina anche nei paesi industrializzati: lo stile di cura che è caratterizzato da una visione olistica che non perde mai di vista l’uomo nella sua complessità e nella correlazione con l’ambiente naturale e socio-culturale di cui è parte. Ricordiamo che il presupposto comune a tutte le medicine tradizionali è proprio la concezione della vita come una profonda armonia tra materiale e spirituale.
È un approccio – fondato sull’applicazione delle scienze naturali e lo studio dell’influenza dell’ambiente sugli organismi – che si contrappone fortemente a quello della biomedicina occidentale che normalmente lega la malattia a una disfunzione biochimica specifica e tratta separatamente i singoli organi come le sole cause responsabili della patologia dell’individuo. Al contrario, per le medicine tradizionali, l’uomo è la perfetta rappresentazione di un’armonia profonda tra corpo, mente e spirito e la fenomenologia dell’essere sano o malato è sempre vissuta all’insegna dell’esaltazione della vita stessa. In Africa, presso molte etnie, per indicare la salute di un individuo si usano espressioni quali «avere il corpo solido» e «avere tranquillità», o meglio ancora, come indice di un benessere totale, la locuzione «avere forza fisica e spirituale».
Sebbene le etnomedicine ricorrano a un sistema basato sulla causa ed effetto, per identificare l’origine e la ragione dell’evento patologico, l’interpretazione che viene data della malattia fa riferimento spesso alla dimensione spirituale per la quale la malattia è il risultato di una rottura dello stato di equilibrio interno all’individuo o tra esso e l’ambiente in cui vive, e di cui la patologia fisica è l’effetto finale.
Medicine da esportazione
La rinnovata fiducia verso questo tipo di «approccio totale» proposto dall’etnomedicina sta determinando il successo del metodo terapeutico sud-mondista a livello mondiale. Questa fiducia è alimentata dalla convergenza di diversi fattori: nessuna tossicità dei preparati, maggior valorizzazione delle potenzialità d’autoguarigione del singolo paziente, attitudine preventiva nei confronti della salute e costi minori.
I dati recenti foiti dall’Oms nel World Health Report 2010 parlano chiaro. Il 70% degli episodi di malattia che affliggono i cittadini occidentali sono trattati, in prima istanza, all’interno della sfera della medicina popolare. Circa un quarto delle prescrizioni mediche totali, contiene principi attivi estratti dall’etnomedicina dei paesi tropicali. Ma anche: sei farmaci su dieci prodotti nei laboratori occidentali vengono ricavati, direttamente o indirettamente, dai principi naturali dei sistemi di cura del Sud. E tutto si traduce in un indotto da capogiro destinato a crescere in modo esponenziale. Si stima che, ad esempio, la sola spesa statunitense per le medicine alternative sia di circa 2.700milioni di dollari l’anno, mentre in totale il mercato globale per le nuove terapie si aggirerebbe attorno ai 60 miliardi di dollari annui.
Risorsa o business?
Cifre e ricavi miliardari a parte, l’etnofarmacologia dovrebbe essere anche, e soprattutto, una mano tesa verso i paesi del Terzo Mondo, nella speranza di aiutarli a sviluppare le loro ricchezze, non solo una fonte di guadagno facile per i monopolii farmaceutici. Anche per questa ragione numerosi stati, dalla Thailandia all’India, dal Messico al Sudafrica e al Brasile, hanno deciso di adottare le loro semplici ricette e i rimedi tradizionali, invece di ricorrere all’importazione dall’estero di costosi ed elaborati composti chimici, soprattutto fra i farmaci primari. D’altro canto le risorse naturali da cui ricavare farmaci sono distribuite nel mondo in maniera proporzionalmente inversa a quelle finanziarie. Basti pensare, ad esempio, che in Perù si contano oltre 18mila specie di piante – contro le sole 1.800 dell’Inghilterra – ma nessuna industria nazionale farmaceutica degna di questo nome. Nella sola Londra, invece, vi sono almeno due delle più grandi aziende farmaceutiche mondiali in grado di mobilitare enormi investimenti per la ricerca, naturalmente una ricerca finalizzata a produrre nuovi profitti con farmaci dal costo elevato da cui sono esclusi i paesi poveri. Eppure gli ingredienti per confezionare questa ricchezza sono patrimonio e risorsa locale della medicina tradizionale.
E per le popolazioni del Sud la coltura delle piante medicinali può rappresentare un potenziale economico non certo trascurabile, tanto più che l’utilizzo sperimentale delle stesse è ormai illimitato. Ricordiamo che nella composizione dei farmaci, circa un quarto del totale delle prescrizioni commercializzate, contiene principi attivi estratti dalle piante. E in media oltre il 60% dei farmaci globali vengono estratti dalla fitocoltura locale. Ma non solo. Composti vegetali, microrganismi e animali servono ad esempio allo sviluppo attuale dei venti farmaci più venduti negli Stati Uniti.
Recentemente alcuni paesi occidentali hanno promosso programmi sanitari in linea con le proposte dell’Oms. Alla base dei loro interventi c’è anche la consapevolezza di dover sensibilizzare un po’ tutti ad un utilizzo equo e solidale delle risorse naturali per dire no allo sfruttamento dissennato di ogni diversità biologica la quale non può essere solo ricchezza esclusiva del business e dell’industria. Tale sfruttamento ha fatto sì che in molte regioni piante tradizionali da sempre oggetto di interessi economico-sperimentali – come il Ginseng coreano o la Cordyceps sinensis, il fungo della salute e della virilità – siano ormai in via di estinzione.
Per scongiurare questo pericolo di depauperamento – e di esclusione sanitaria -, importanti associazioni inteazionali come la Forest Stewardship Council, il più grande ente mondiale di certificazione di prodotti forestali, ha dato vita ad un complesso sistema di controllo della sostenibilità delle piante medicinali. Recentemente applicato anche nell’Amazzonia brasiliana, questo metodo comincia ad essere applicato anche da alcune aziende farmaceutiche piccole e attive, come la Renaco Perù S.R.L., e grandi, come il colosso britannico Welleda Ltd, che cercano di offrire al consumatore moderno anche la sicurezza che, acquistando i loro prodotti, non solo non si danneggia l’ambiente, ma si contribuisce anche allo sviluppo economico e sostenibile della popolazione locale. Biopirateria permettendo…

di Massimo Ruggero

Massimo Ruggero




RD Congo: si riparte dalle donne

Volge alla conclusione una parte del progetto che la Fondazione Misna, attraverso
Missioni Consolata Onlus, sta realizzando in Repubblica Democratica del Congo grazie al programma di contributi a progetti di cooperazione decentrata e solidarietà̀ Internazionale del Comune di Roma.

Dall’alfabeto alla micro-imprenditoria il passo non è breve, specialmente se a tentare di farlo sono donne congolesi che vivono in situazioni di difficoltà a volte estrema e portano sulle spalle l’intero peso di una famiglia o, peggio, il trauma di una violenza subita durante una guerra che, nelle zone orientali della RD Congo, sembra non voler finire mai.
Eppure, pole pole, come si dice in swahili, o malembe malembe (in lingala, la lingua franca più diffusa del Congo), anche in una quotidianità fatta di espedienti e di sfiducia può prendere forma un progetto di vita dove la dignità di un intero Paese si ricostruisce a partire da quella delle sue donne. è il progetto bi/triennale Empowerment delle donne vulnerabili e delle ragazze madri di Kinshasa e Isiro attraverso la formazione di base e professionale per l’acquisizione di life skills, di conoscenze igienico–sanitarie e il microcredito, che la Fondazione Misna ha realizzato attraverso i missionari della Consolata e con fondi del Comune di Roma, che mira proprio a questo: ricostruire un’architettura sociale devastata rafforzando per prima cosa le donne, che di essa sono le colonne portanti.
Il contesto del progetto:
la situazione delle donne in RDC
La Repubblica Democratica del Congo è ufficialmente uscita nel 2002 da una guerra devastante – da molti osservatori definita la prima guerra mondiale africana – che ha provocato oltre cinque milioni di vittime. Durante quegli anni di guerra si sono registrate atrocità e violenze fra le peggiori mai perpetrate nella storia dell’umanità; casi di cannibalismo, eccidi di massa e torture sono stati all’ordine del giorno e lo stupro è stato utilizzato regolarmente come strumento di guerra.
Nonostante la cessazione ufficiale delle ostilità e le elezioni politiche che – dopo ripetuti rinvii e interminabili negoziazioni – hanno avuto luogo nel 2006 confermando Joseph Kabila alla presidenza, la RDC, a quasi dieci anni dalla fine del conflitto, appare ancora un paese smembrato. è praticamente privo di infrastrutture e ostaggio di interessi stranieri che ne prosciugano le pur ingenti risorse naturali, escludendo la stragrande maggioranza della popolazione dai benefici che dovrebbero derivare dall’essere cittadini di uno dei Paesi con il sottosuolo più ricco del mondo.
In alcune zone, specialmente nella parte orientale del Paese, il conflitto è lungi dall’essere concluso. Le schermaglie e le violenze interetniche fra esercito e milizie irregolari terrorizzano le province del Nord e Sud Kivu, mentre i ribelli dell’ugandese Lord’s Resistance Army con le loro incursioni, e i massacri che ne derivano, provocano fughe e spostamenti in massa delle popolazioni dell’Alto Uele. Anche qui lo stupro è utilizzato come arma o come semplice strumento di umiliazione e affermazione del potere e il numero di donne stuprate è ormai impossibile da stimare. Nel 2009, l’agenzia delle Nazioni Unite, Unfpa (United Nation Population Fund), denunciava oltre quindicimila casi, ma le segnalazioni di stupri di massa sono state sistematiche e ricorrenti anche nel corso dei successivi due anni.
Per sfuggire a questa situazione di terrore e incertezza, la popolazione civile è spesso costretta ad abbandonare i propri villaggi e cercare nelle città un rifugio e un’occupazione, andando a ingrossare le fila dei cosiddetti exoderirales, centinaia di migliaia di uomini e donne che partecipano all’esodo verso le città.
Saint Hilaire
Saint Hilaire, alla periferia della capitale Kinshasa, è uno dei luoghi nei quali trovano una meta tanto questi esuli provenienti da tutto il Paese quanto altri abitanti della capitale alla ricerca di un quartiere con un costo di vita più abbordabile. Sebbene non abbia l’aspetto di una vera e propria baraccopoli, è pur sempre un quartiere fortemente disagiato. Costruito su una piattaforma sabbiosa che diventa del tutto impraticabile durante la stagione delle piogge, è privo di acqua corrente ed è servito dalla rete elettrica solo per un decimo degli utenti. La mortalità infantile colpisce il 14% dei bambini e il virus dell’HIV si sta diffondendo a ritmi allarmanti. Un quarto dei giovani non ha mai frequentato la scuola.
La situazione delle donne è drammatica: più della metà sono ragazze madri, costrette a vivere di espedienti per sostenere se stesse e le proprie famiglie. La prostituzione occasionale è uno dei mezzi a cui più spesso le giovani ricorrono, esponendosi così all’infezione da HIV. «L’urbanizzazione accelerata, coniugata al declino dell’educazione comunitaria propria dei villaggi – spiega padre Santino Zanchetta, da dieci anni attivo nel quartiere –, provoca un rilassamento del controllo parentale sui figli. La mancanza di mezzi finanziari paralizza l’autorità̀ dei genitori che assistono impotenti alla prostituzione precoce delle loro figlie con tutte le conseguenti difficoltà̀ che ne derivano, dalla necessità di provvedere ai bisogni del neonato alla stigmatizzazione e marginalizzazione delle ragazze stesse».
Isiro
Queste dinamiche sono in parte all’opera anche a Isiro, cittadina di 250 mila abitanti immersa nella foresta pluviale nel distretto nordorientale dell’Alto Uélé, del quale è capoluogo distrettuale. «La presenza nella zona settentrionale di Isiro di miniere di diamanti artigianalmente sfruttate – racconta padre Daniel Lorunguyia – ha come conseguenze un’alta incidenza di malattie polmonari e una promiscuità sessuale cha aumenta il rischio di contagio da HIV. Inoltre, nel caso delle donne, alle difficoltà legate alla sopravvivenza e alle precarie condizioni sanitarie si aggiungono spesso i traumi derivanti dalle violenze subite. Vista la quantità di soldati e di miliziani, la violenza perpetrata nei confronti delle donne è una triste costante della zona e Isiro chè è stata varie volte segnalata nei rapporti OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs delle Nazioni Unite) per l’elevato numero di stupri».
Il progetto:
formazione e autostima
è chiaro che in contesti come questi il lavoro da fare non si limita alla formazione e all’organizzazione dei corsi, ma deve abbracciare una pluralità di aspetti legati anche alla dimensione psicologica delle donne e al recupero dell’autostima che la loro condizione di ragazze-madri spesso vittime di violenza ha minato profondamente.
Ecco perché il progetto si è dato come obiettivo quello di coinvolgere 225 donne a Kinshasa e 100 a Isiro in un percorso di un anno che parte dall’alfabetizzazione per approdare alla formazione professionale passando per l’acquisizione di conoscenze igienico-sanitarie e dei cosiddetti life skills. Essi sono un insieme di abilità che hanno a che sviluppano il senso critico, la consapevolezza di sé, la capacità di prendere decisioni, la gestione delle emozioni, la creatività e la conoscenza dei diritti umani e dei diritti della donna in particolare.
I padri Santino Zanchetta e Daniel Lorunguyia, responsabili del progetto rispettivamente a Saint Hilaire e a Isiro, sono d’accordo nel sostenere l’importanza di far crescere l’autostima nelle donne per evitare che si espongano alle frustrazioni e ai rischi derivanti da attività degradanti o male organizzate e per questo votate al fallimento. Ma questo aspetto, che viene affrontato fin dal primo anno di progetto nella fase dell’alfabetizzazione, continua per tutto l’arco dell’iniziativa e si nutre dei risultati che le donne ottengono grazie agli effetti della formazione professionale.
A Kinshasa, quest’ultima riguarda ambiti come la sartoria, l’informatica, l’estetica, mentre a Isiro introduce, accanto alla sartoria, anche attività legate all’agricoltura e alla gastronomia, in linea con le caratteristiche più rurali della zona dell’Alto Uele.
Formazione e lavoro
La formazione professionale viene offerta alle donne sulla base di un’attenta analisi preliminare del mercato del lavoro locale. Per quanto riguarda la sartoria, infatti, il progetto mira a mettere le donne in condizione di rispondere alla domanda di abiti confezionati per varie occasioni. «Ci sono le richieste di vestiti per matrimoni, funerali e ricorrenze varie – dice padre Santino – oppure per chi vuole semplicemente rinnovare il guardaroba; un’altra opportunità è poi quella che viene dal confezionamento di uniformi scolastiche». Le uniformi per le scuole sono una delle commissioni per le donne anche a Isiro, come conferma p. Daniel, e a queste si aggiungono anche quelle per il personale sanitario che opera nei dispensari pubblici o nelle strutture private, spesso gestite proprio da missionari.
Le ragazze affrontano anche un periodo di apprendistato presso degli ateliers con i quali i padri, sia a Saint Hilaire che a Isiro, hanno rapporti regolari e accordi precisi. Spesso, le giovani formate finiscono per venire assunte presso gli ateliers dove hanno effettuato lo stage.
Altri sbocchi professionali vengono dal lavoro in proprio: diverse ragazze formate si trovano presto a ricevere richieste di confezionamento abiti da parte di privati oppure, nel caso della gastronomia, aprono piccoli ristoranti dove cucinano e vendono cibo. Per incentivare questa parte, è stato attivato il programma di microcredito che permette a quaranta donne all’anno a Isiro e ottanta a Kinshasa di accedere a un fondo di rotazione grazie al quale cominciare un’attività in proprio con un prestito che deve poi essere restituito in rate mensili, in modo da poter includere ulteriori donne nella tornata successiva.
«Salvo disgrazie familiari o situazioni veramente gravi – che sono però rare – i microcrediti vengono di solito restituiti; quel che è certo è che, rispetto ai primi esperimenti avviati già anni fa dalla parrocchia, la formazione successiva è stata determinante nel migliorare il funzionamento del microcredito e nell’accrescere la cultura del risparmio», aggiunge p. Santino. «Oggi, il programma di microcredito è anche molto più strutturato: la scelta delle beneficiarie deriva da una valutazione fatta da un’apposita commissione della parrocchia e tenendo conto delle tendenze del mercato locale. La stessa commissione si occupa poi di monitorare costantemente “sul campo” l’evolversi delle micro-attività avviate dalle donne».
Sia a Saint Hilaire che a Isiro, i corsi terminano con un esame ufficiale che dà alle ragazze un titolo di studio riconosciuto dalle autorità pubbliche e spendibile non necessariamente nelle immediate vicinanze della località dove hanno frequentato il corso, ma anche in altre zone del Paese. «Il certificato – precisa padre Daniel – è riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione e la valutazione finale viene sempre effettuata mediante l’ispezione di una commissione scolastica».
Il progetto, compresa la valutazione finale dei risultati, si concluderà entro la fine del 2011, e presto ne saranno illustrati i dettagli durante un evento pubblico congiuntamente organizzato a Roma dalla Fondazione Misna e Missioni Consolata Onlus.

di Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Tutto di un pezzo … e santo?

La fede cattolica

Un esempio per tutti
È un cattolico praticante che si confessa sovente e fa la comunione quasi tutti i giorni. In chiesa uomini, donne e bambini lo scrutano con ammirazione, perché è il loro mwalimu, il presidente della repubblica, che si inginocchia come loro, e prega: «Dio onnipotente, benedici i tuoi figli del Tanzania. Signore, abbi pietà di me, peccatore!».
Un giorno, poi, si viene a sapere qualcosa di assolutamente inedito per un politico, specialmente in Africa: inizia il processo di «beatificazione» di Julius K. Nyerere; lo annuncia, il 26 gennaio 2006, il cardinale di Dar es Salaam Polycarp Pengo. Dunque: Nyerere sarà dichiarato beato e santo dalla Chiesa cattolica? Come i martiri d’Uganda? Come Bakhita, la schiava del Sudan, e pochissimi altri del continente nero?
«Però l’interessato – si interroga il professor J. M. Lusugga Kironde di Dar es Salaam – cosa direbbe? Sarebbe d’accordo con la decisione della Chiesa?». In altri termini: l’idea di proclamare santo Nyerere come si concilia con il fatto che era presidente di tutti, senza differenze di religione?(1). La domanda evidenzia una preoccupazione: quella che qualcuno (i cattolici soprattutto) voglia impadronirsi di Nyerere e di strumentalizzarlo a proprio vantaggio.
La preoccupazione emerge già alla morte dello statista (14 ottobre 1999). I musulmani si oppongono a che il «padre della patria» sia sepolto nella chiesa cattolica di Butiama, nonostante che Nyerere, da vivo, ne abbia manifestato il desiderio. Così è posto in un mausoleo, vicino casa sua, per consentire a tutti i tanzaniani di rendergli omaggio, senza il disagio di sentirsi in un luogo di culto estraneo al proprio credo religioso(2).
Tuttavia il professor Lusugga riconosce il diritto della Chiesa cattolica di continuare il processo di beatificazione, perché il «padre della patria» non fece mai pesare la sua fede. «I tanzaniani (compresi i musulmani) non vi scorgano un’appropriazione indebita di Nyerere da parte dei cattolici!».
La Chiesa cattolica seguirà la scia del primo presidente. Questi, già alla vigilia dell’indipendenza nel 1961, incontrando i rappresentanti di tutte le religioni, annotava nella sua agenda: «Abbiamo deciso che né il colore, né la tribù, né la religione, né altra cosa potranno mai togliere all’individuo la sua uguaglianza fra tutti nella comunità. Questa è la nostra bussola»(3). Ha sempre mantenuto fede a tale impegno. A prescindere dalla beatificazione, il mwalimu resta un esempio di uomo fedele e onesto per tutti, soprattutto per i leader politici, il cui comportamento spesso è l’esatto contrario di quello di Nyerere. «Beatificando Nyerere – dichiara il cardinale Pengo – miriamo a stimolare i politici, i commercianti e i capi in genere a condurre una vita degna anche di santità»(4).

Tre ragioni
Beard Joinet, dei Missionari d’Africa, elenca tre motivi per cui Nyerere è da additarsi come esempio a tutti(5).
Il primo motivo è la pacifica convivenza (già ricordata) del presidente con l’Islam e le altre religioni. Non vi furono tensioni nella Tanzania continentale (problemi di tolleranza emersero, invece, nelle isole di Zanzibar e Pemba, a grande maggioranza di fede islamica). Non vi fu alcun partito di ispirazione religiosa. Il partito unico Tanu e, successivamente, il Ccm erano aperti anche agli europei ed asiatici; anzi, Nyerere insisteva affinché vi aderissero. Tribalismo e fanatismo religioso, che sono come benzina sul fuoco, furono scongiurati.
Seconda ragione: la libertà di Nyerere di fronte al potere. Quando nel 1985 lasciò la presidenza, resistette all’enorme pressione del popolo che non voleva privarsi del suo «maestro signore». Senza una grinza, ritoò al villaggio natale.
Infine colpisce il distacco dal denaro. Lo statista vestiva sobriamente. Abitava non nel palazzo presidenziale, ma in una villetta con la moglie Maria, che cucinava. I figli non godevano di alcun privilegio. Percepiva uno stipendio di 6 mila scellini, ridotti per sua volontà a 4 mila. «Tale somma – riferisce la figlia Anna – non bastava per mantenere la famiglia e una zia, oltre a rifondere un prestito ottenuto da una banca»(6).
Tali comportamenti erano ispirati da una fede cristiana viva. Il progetto politico dell’ujamaa scaturiva pure dagli Atti degli Apostoli, come rivela un biglietto di auguri del presidente stesso, inviato ai capi di stato nel 1967: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva. Fra loro tutto era in comune» (Atti 4, 32).

Momenti difficili
Di più. Si dice che Nyerere, dovunque andasse, portasse con sé la Bibbia e la «Dichiarazione di Arusha», la magna charta dell’ujamaa. A dieci anni da quella Dichiarazione, il presidente scrisse Arusha Declaration Ten Years After, dove riconobbe alcuni errori: primo fra tutti la costituzione forzata dei «villaggi sociali».
Se la causa di beatificazione di Nyerere proseguirà, «l’avvocato del diavolo» troverà nella villaggizzazione buoni argomenti per incrinare la presunta santità del «socialista», anche perché la Chiesa non è mai stata tenera verso i sistemi socialisti.
Oltre al fallimento economico, la formazione dei villaggi socialisti generò violenze gratuite, spargimenti di sangue e uccisioni (7). Ciò detto, occorre riconoscere che simili «fattacci» non sono riconducibili direttamente a Nyerere, ma ai suoi impiegati troppo zelanti. Il presidente si prefiggeva ben altro! Egli fu schietto al riguardo: «Posso chiedere scusa – confessò a The Vision Newspaper (settembre 1986) – per il modo in cui l’operazione fu condotta da vari funzionari in alcune regioni; ma non posso chiedere perdono per avere cominciato i villaggi socialisti, che sono stati l’inizio dello sviluppo di cui oggi vi vantate».
Nyerere, in alcuni eventi drammatici, pregava, digiunava ed esortava a fare altrettanto. Ricorreva a queste «armi» anche nelle lotte politiche, prima e dopo l’indipendenza.
Nel 1986 egli stesso ricordò un incontro del Tanu, prima dell’indipendenza del Tanganyika, durante il quale dal Kenya giunsero notizie preoccupanti. «Venimmo a sapere che alcuni nostri amici, fra cui Tom Mboya, furono imprigionati, essendo implicati nell’uccisione di Mau Mau (che lottavano armati contro i britannici). Pensammo che il modo migliore per aiutare i nostri compagni fosse il digiuno: non mangiare né bere per un giorno. Chiedemmo che l’intero paese facesse lo stesso»(8).
Il 1978 fu un anno funesto per i tanzaniani, perché lo spregiudicato Idi Amin Dada invase il loro paese. Nyerere usò ancora l’arma del digiuno e sostò in preghiera per vari giorni consecutivi. Ma prevalse la real politik e fu guerra, vinta dall’esercito tanzaniano. Però Nyerere visse quegli interminabili mesi di conflitto con la morte nel cuore. Incontrava i soldati: «Ragazzi, partecipo alla vostra sofferenza. Tutti sono con voi ed io prego [per voi]». Ad un combattente sul fronte disse: «Evita di spargere sangue inutilmente! Non finire la vita di persone senza colpa!».
Quando le truppe tanzaniane entrarono in Uganda, trovarono alcune delle sacche di resistenza che si dovettero eliminare a forza. E Nyerere era presente. Un soldato confessò: «La nostra audacia era finita, per far posto alla pietà. Il mwalimu mormorava fra le lacrime: “Mi dispiace molto. Tanto sangue e la vita di questa gente! Dio ci perdoni, Dio abbia pietà di noi!”. Fu necessario portarlo via (dal teatro di guerra) con la forza…»(9).
In Africa è raro scorgere un adulto che pianga in pubblico, sia pure al cospetto della morte. Julius K. Nyerere piangeva perché era un «maestro signore» davvero speciale. Unico in Tanzania; unico – molto probabilmente – in tutta l’Africa.

di Francesco Beardi

Note

1) Cfr. E. R. Katare, Julius K. Nyerere, falsafa zake na dhana ya utakatifu, Dar es Salaam 2007,  p. V.
2) Cfr. www.culturacattolica.it
3) Parole di Nyerere, riportate da E. R. Katare, op. cit., p. 66; cfr. Ibid., p. VII.
4) Mwenge, aprile 2007, p. 5.
5) Cfr. www.missionaridafrica.org e Missioni Consolata, op. cit., p. 18.
6) Cfr. E. R. Katare, op. cit., p. 78.
7) Cfr. Ibid., p. 114 e 133.
8) Ibid., 28-29. I Mau Mau erano un movimento rivoluzionario clandestino, che lottò in Kenya negli anni ’50. Tom Mboya, sindacalista e politico del Kenya, morì assassinato nel 1969.
9) E. R. Katare, op. cit., pp. 140-141.

PROCESSO DI BEATIFICAZIONE

Butiama, 21 gennaio 2006, inizio del
processo diocesano per la beatificazione
di Julius K. Nyerere

Lanciata da mons. Samba, che ammirava l’onestà e sobrietà di vita e la profonda spiritualità di J. Nyerere, la causa di beatificazione ha perso energia dopo l’improvvisa morte del vescovo stesso nel giugno 2006. Il nuovo vescovo di Musoma, mons. Michael Nsonganzila, intende rilanciare la causa, facendone una priorità per tutta la Chiesa del Tanzania.

Francesco Beardi




Io resto socialista e tu?

L’impegno politico

Semplicità
Per gli amanti della cabala, Nyerere sarebbe stato certamente baciato dalla fortuna, poiché nacque il giorno «13». Tuttavia, forse, il suo destino era già scritto fra le stelle in modo meno fortunoso, giacché, quando emise il primo vagito, dalle cateratte del cielo si rovesciarono sulla terra torrenti di pioggia. E la pioggia, nell’Africa delle capanne dei pastori e contadini, è la benedizione di Dio più agognata.
La storia dirà se Julius K. Nyerere fu una benedizione per il Tanzania. Oggi, a 50 anni dall’indipendenza del paese, il suo primo presidente resta un personaggio carismatico, un «maestro signore» scevro da ogni culto della personalità: atteggiamento più unico che raro in Africa, e non solo. Ancora vivente, nella città di Mwanza gli dedicarono una strada: Nyerere Street, ma egli dirottò l’onorificenza, dichiarando: «È per mio padre». A Dar es Salaam qualcuno propose di abbattere «il monumento all’askari» (eretto dagli inglesi per ricordare i soldati africani vittime delle due guerre mondiali: 1914-1918 e 1939-1945), sostituendolo con una statua del presidente. L’interessato tagliò corto: «Non se ne parla neppure!»(1).
E il Nyerere semplice?
Padre Giulio Belotti, missionario della Consolata, testimonia: «Durante la festa del Saba Saba (7 luglio), anniversario del 20° della fondazione del partito Tanu svoltasi ad Iringa nel 1976, lo vidi lasciare il corteo presidenziale per salutare due missionarie della Consolata, conosciute anni prima nella scuola di Tosamaganga dove erano due dei suoi figli: si fermò così a lungo che anche Samora Machel, presidente del Mozambico e ospite d’onore, lasciò il corteo per parlare con le suore»(2). La cordialità del tanzaniano aveva stregato persino il mozambicano. Fatto notevole, giacché Machel non era affatto dolce verso i missionari!

Concretezza
Nyerere non sognava la luna. Affermava: gli americani e i russi stanno raggiungendo la luna, mentre noi dobbiamo accontentarci di assai meno; essi usano il cervello e noi dormiamo; essi lanciano satelliti e noi sopravviviamo con radici selvatiche. Aggiungeva: negli Stati Uniti i coltivatori di tabacco ottengono 10 quintali per acro, mentre in Tanzania il raccolto non arriva a 3 quintali. «Tuttavia nelle piantagioni di tabacco di Urambo si raggiungono già 7 quintali. Non è la luna. Però questo lo possiamo fare (this we can do)»(3).
La concretezza del mwalimu ridimensionava persino la decantata ospitalità africana e gli consentiva di smascherare l’ospite scroccone. Citava con arguzia il seguente proverbio: «L’ospite è tale per due giorni, ma al terzo dagli la zappa»(4). Al lavoro, dunque. Il lavoro è una medicina per sanare la piaga della povertà.
Nyerere sulla povertà non fece sconti. Nel 1967 rammentava ai connazionali: se si raccogliessero in una cesta le ricchezze del Tanzania per distribuirle a tutti in parti uguali, ogni individuo percepirebbe solo l’equivalente di 525 scellini, ossia il reddito di 16 mesi di un lavoratore. «Noi siamo come 10 cacciatori che inseguono una sola lepre» commentava con amara ironia(5).
Con quale progetto sociopolitico far sviluppare il paese indipendente dal 1961? Che fare? Innanzitutto creare una identità nazionale comune fra le 127 etnie.
A tale scopo, Nyerere abolì i poteri tribali e stimolò l’uso della lingua swahili, che divenne ufficiale e nazionale, favorendo la comunicazione fra tutte le tribù. Tradusse in swahili il famoso libro di George Orwell, La fattoria degli animali, e persino alcune tragedie di William Shakespeare, quali Giulio Cesare e Il Mercante di Venezia, e, anni dopo, riscrisse in rima poetica i quattro Vangeli(6).
Fin dagli albori dell’indipendenza, si caratterizzò per una netta presa di distanza da ogni legame economico con le potenze mondiali: Stati Uniti e Unione Sovietica. Per concretare tale obiettivo, Nyerere caldeggiò il socialismo rurale, fondato sulla comunità-famiglia-fratellanza (ujamaa). Un socialismo assai diverso rispetto al modello marxista: senza lotta di classe e senza ateismo. Un socialismo confezionato in casa. Il presidente invitava a riflettere e a chiedersi: le nostre famiglie tradizionali non sono forse da sempre socialiste? Quando le donne, in vista di una festa nel villaggio, preparano insieme il pombe (birra) per tutti, non esprimono forse l’ideale socialista del lavoro comune e dell’attenzione alle esigenze comunitarie?

Alcuni capisaldi
Il socialismo di Nyerere non si tradusse in un’obbedienza cieca ad un rigido schema politico, come avvenne nei paesi del socialismo reale: Unione Sovietica, Cina, Cuba o Mozambico.
Il presidente definì il socialismo «un atteggiamento mentale» o «una fede in un sistema di vita», concepiti e vissuti nella libertà, attraverso i quali ogni individuo si prende cura dei suoi simili, come avviene nella tradizionale «famiglia estesa» o ujamaa.
La magna charta dell’ujamaa fu la «Dichiarazione di Arusha», pubblicata nell’omonima città nel 1967. Alcuni capisaldi(7):
–  ogni cittadino ha diritto alla libertà di parola, associazione, movimento e fede, nel contesto delle leggi vigenti;
–  le ricchezze naturali del paese appartengono a tutti i cittadini, che le trasmettono ai figli e nipoti;
–  il governo deve usare tutte le risorse nazionali per eliminare povertà, ignoranza e malattia;
–  affinché il Tanzania sia socialista, è essenziale che il suo governo sia scelto e guidato da contadini e operai;
–  lo sviluppo inizia dalle campagne, non dalle fabbriche;
–  è stupido puntare sul denaro quale mezzo principale di sviluppo, quando il paese è povero;
–  il popolo e il duro lavoro sono la base dello sviluppo; il denaro è uno dei frutti del lavoro;
–  è giusto essere orgogliosi dei lavoratori, ma vergognarsi dei pigri, dei fannulloni, degli ubriachi;
–  indipendenza è contare sui propri mezzi (self-reliance), non su doni e prestiti monetari estei…

Villaggi socialisti
I passaggi obbligati, per approdare ad una società socialista e raggiungere risultati importanti, furono le nazionalizzazioni delle strutture economiche ed educative del paese, nonché la formazione di «villaggi socialisti» (vijiji vya ujamaa).
Mentre le nazionalizzazioni furono stabilite da norme vincolanti, i villaggi socialisti erano soltanto raccomandati, rispettando la libertà individuale. Tuttavia, poiché la popolazione non mostrava interesse nei villaggi socialisti, il governo fece ricorso alla coercizione: i villaggi si dovevano fare, e subito.
L’operazione scattò, senza preavviso, nell’agosto del 1974, mentre Nyerere era all’estero. Un’esperienza drammatica e convulsa. In pochi giorni migliaia e migliaia di persone furono costrette a sloggiare dalle loro abitazioni, abbandonando tutto, per trovare una sistemazione precaria sotto un albero. In agosto, di notte, il freddo è ancora pungente, specialmente nelle regioni montuose: e aumentava il disagio degli «sfollati», per non parlare della minaccia di leopardi, tigri e leoni.
Ero a Madibira in quel frangente, nella regione di Iringa. Mi impegnai in numerosi traslochi con la Land Rover aperta della missione, carica di granoturco, riso, arachidi, caschi di banane, nonché pentole, secchi, sedie e… qualche bimbo in pianto. Tutto veniva ammassato all’aperto, in un luogo stabilito dagli agenti del partito Tanu, sotto lo sguardo di altre persone che avevano subìto la stessa sorte.
Gli occhi di tutti erano rassegnati, ma anche sdegnati e sospettosi. Un tale si chiedeva: «Ora che faccio se, accanto a me, c’è uno stregone?». Un altro mi confidò: «Padre, tu non puoi immaginare la mia paura. Mi hanno allontanato da tutto, persino dalle tombe dei miei morti. E se mi maledicessero?».
Nel 1981 si contarono 8.180 «villaggi socialisti», abitati da circa 13 milioni di contadini: il 90 per cento della popolazione rurale.
I nuovi villaggi non facevano una grinza in vista dello sviluppo. La popolazione, raggruppata, avrebbe goduto con maggiore facilità di istruzione, sanità e acqua, senza scordare la vicinanza con la chiesa. Si rafforzò «l’identità tanzaniana», grazie alla pacifica convivenza di famiglie appartenenti a etnie diverse e al loro lavoro condiviso. Per incoraggiare la villaggizzazione, negli anni 1967-69 il governo compì sforzi notevoli per dotare le comunità di macchinari agricoli modei; ma diventarono presto ferraglia, abbandonata sul campo per mancanza di tecnici capaci di manutenzione e riparazione.
Inoltre, per assicurare un adeguato introito ai contadini, venne creato l’ammasso dei prodotti agricoli di largo consumo interno e di esportazione. Però tale iniziativa fu gravata da tasse a vantaggio del governo e del partito Tanu. Un segno premonitore di corruzione.

Fallimento
Formati i villaggi dell’ujamaa, la produzione agricola fu così risicata da far scuotere la testa a molti con delusione e disapprovazione(8). Poiché i prodotti erano scarsi, il governo fu costretto ad aumentare le importazioni. Dal 1967 al 1975 l’import di granoturco passò da 14.322 tonnellate a 294.100, quello di riso aumentò da 7.586 tonnellate a 72.600 e quello di frumento da 13.908 tonnellate a 46.500. Mentre l’import aumentava, l’export diminuiva: il cotone da 71 tonnellate a 44 e la canapa da 103 tonnellate a 51. Invece caffè e tè crebbero(9), ma troppo poco per superare l’andamento generale di sfiducia e penuria.
L’ujamaa, sotto l’aspetto economico, fu un fallimento, complici le siccità e la crisi petrolifera internazionale, a tal punto che Nyerere fu costretto addirittura a svuotare le banche nazionalizzate per acquistare derrate alimentari.

Nodi cruciali
In Nyerere non mancarono altri comportamenti di-scutibili. Sono «nodi cruciali», che destarono malumori e resistenze. Ignorarli sarebbe offendere lo stesso mwalimu, amante della verità.
Un nodo cruciale furono le leggi sulla detenzione preventiva di qualche sospettato: leggi approvate dal parlamento dopo l’assassinio del vicepresidente Abeid Karume e un tentato colpo di stato. Tuttavia, a detta di J. Marensin, le detenzioni preventive, anche nel periodo di maggiore rigore, «non hanno toccato più di qualche centinaio di persone»(10).
Discutibile fu l’allontanamento dal Tanzania del politico Oscar Kambona. Fra Julius e Oscar esisteva un rapporto di amicizia. Nel 1967, alcuni mesi prima della rottura finale, Kambona riconosceva ancora in Nyerere due qualità: «Se le conserverà, sarà un grande leader in Africa. La prima qualità è la semplicità, che lo rende capace di comprendere subito il punto di vista dell’altro; la seconda qualità è il distacco dalla ricchezza». La prima volta che Nyerere si presentò alle Nazioni Unite, a New York, vi andò con una valigia rotta.
In seguito Kambona, poco prima del suo esilio a Londra, dichiarò: «Accuso il presidente di nascondersi dietro una parvenza di democrazia; sta diventando un dittatore. Ha la mente di una persona chiusa in una rete di malvagità»(11).
Secondo Nyerere, Kambona era un timido che cercava di piacere a tutti, ma non gradiva la critica. Esiliato, cercò di ritornare in patria. Il presidente non si oppose, a patto che si sottoponesse al giudizio popolare prima di essere riammesso al parlamento, perché «ha imbrogliato il Tanzania e l’Africa intera». Kambona minacciò di «sollevare il coperchio dalla pentola» e di fare rivelazioni clamorose. Al che, il giornale The Nationalist, organo del governo, replicò secco: «Ciò che devi dire dillo, altrimenti sarai marchiato come un vigliacco, un traditore del Tanzania e dell’Africa»(12).
Ancora: Nyerere fu accusato di antidemocrazia perché volle «il sistema del partito unico». Il presidente spiegò: il partito unico è una scelta obbligata, perché il Tanzania non è culturalmente preparato alla democrazia a più partiti; con diversi partiti, infatti, il paese cadrebbe nel marasma politico di altri stati africani, divenendo facile preda di demagoghi abili nel cavalcare malumori tribali o religiosi, che non mancano nel paese…
Il 30 ottobre 1978 Idi Amin Dada, il dittatore dell’Uganda, invase il Tanzania armi in pugno. Tra i due paesi divampò la guerra. L’esercito tanzaniano, sostenuto dall’appoggio di circa 800 mila cittadini (che offrirono carne e farina), cacciò l’invasore e conquistò persino la capitale ugandese Kampala. Fu l’episodio più sconcertante nella vita del mwalimu, uomo di pace. Molti paesi africani presero le distanze da lui, accusandolo di violare i principi dell’Organizzazione dell’Unità Africana. Il presidente dichiarò guerra, perché prevalse in lui «la ragion di stato» e la consapevolezza che con l’imprevedibile e sanguinario Amin era impossibile ragionare. Il 2 settembre del 1979 Nyerere festeggiò la vittoria. Ma la nazione era esausta, perché il conflitto aveva ingoiato quasi tutte le riserve in valuta pregiata (in dollari) e la metà del budget annuale destinato allo sviluppo(13). E imperversava la siccità. Il Tanzania, povero, non poteva concedersi il lusso di una guerra.

E le luci?
I nodi cruciali menzionati avvolgono Nyerere di cortine d’ombra. E le luci?
La stella del presidente brillò allorché offrì asilo ai Movimenti africani di liberazione contro il colonialismo. Nyerere sostenne il Fronte di liberazione del Mozambico (Frelimo) nella lotta contro il governo coloniale del Portogallo, appoggiò la resistenza al regime razzista di Jan Smith in Rodesia (Zimbabwe) e denunciò la clamorosa ingiustizia dell’apartheid, imposta dai boeri ai neri del Sudafrica.
Nell’agosto del 1977 Nyerere visitò gli Stati Uniti su invito del presidente Jimmy Carter. In una settimana coprì 51 mila chilometri, volando in aereo per 55 ore. Ad ogni sosta si impegnava in «una crociata» per la liberazione dell’Africa del Sud. Durante una conferenza-stampa un giornalista gli chiese: «Signor presidente, in Rodesia e Sudafrica la guerriglia combatte con armi di Russia e Cina. Si sa che lei ritiene esagerata la paura del comunismo in Africa da parte dell’occidente. Ebbene: perché i regimi comunisti foiscono armi ad altri paesi?».
«Perché diventino loro amici. Ed è la stessa ragione per cui il presidente Carter aiuta noi! Carter afferma: mostriamoci amici con i paesi dell’Africa del Sud, per ottenere in cambio la loro amicizia. Non è serio combattere una dittatura e rimpiazzarla con un’altra. Voi, americani, avete combattuto gli inglesi con le armi dei francesi. Non penso che abbiate voluto liberarvi dei primi per sottomettervi ai secondi. Come minimo spero che gli americani non considerino la guerriglia in Africa come la strada per introdurvi il comunismo»(14).
Parecchi stati africani raggiunsero l’indipendenza negli anni ’60. Se la loro strada verso l’autonomia fu accidentata, quella del post-indipendenza fu minata. Tristemente celebre fu «il caso Burundi», indipendente dal Belgio nel 1962, dilaniato da un feroce tribalismo che opponeva i tutsi agli hutu: minoritari e spesso al potere tramite violenza i primi; maggioritari e sovente sottomessi con umiliazione i secondi. Un esempio tragico: nel 1971 circa 350 mila hutu furono uccisi dalla repressione governativa dei tutsi, mentre altri 70 mila furono costretti all’esilio. Molti trovarono scampo in Tanzania. Nyerere bollò l’olocausto come una vergogna per l’Africa. L’attenzione di Nyerere per il Burundi continuò negli anni successivi, sempre travagliati per le due tribù. Poiché il mwalimu godeva di elevato prestigio internazionale, gli furono affidate complesse missioni di pacificazione fra tutsi e hutu(15). Al di là dei risultati conseguiti, le missioni erano un riconoscimento del suo carisma.

IL Maestro
È il carisma del maestro, che non demorde di fronte alle bocciature dei suoi allievi. Sarà proprio il campo dell’istruzione a vederlo impegnato nell’ultimo tratto della sua vita. A Londra, il 4 giugno 1997, difese gli investimenti in favore della scuola primaria, che non è di serie B rispetto a quella secondaria o universitaria, come alcuni ritenevano attribuendo maggiore urgenza ai licei. «Che cosa avverrà – intervenne Nyerere – della maggioranza dei ragazzi senza istruzione? Non saranno forse causa di problemi, specialmente in città? Allora sì che bisognerà spendere tanti soldi!»(16).
Il 5 marzo 1999 a Dar es Salaam venne inaugurata la prima «università popolare». Nel discorso inaugurale, ricevendo la laurea honoris causa, l’ex presidente, ormai vecchio e ammalato, fu tagliente come una lama d’acciaio, ritornando sul «suo cavallo di battaglia» di sempre: la scuola elementare. Ne stigmatizzò la situazione dolorosa e fallimentare dove solo il 3% degli allievi superava l’esame finale, mentre il 97% lo falliva. «Questo aggettivo fallimentare – incalzò il mwalimu – è intollerabile: aggiunge insulto ad insulto. Così i nostri figli, invece di inviarli a casa sereni, li cacciamo via con il marchio della vergogna, perché sono dei falliti! Un paese povero come il Tanzania non può avere una scuola che favorisca gli egoisti. L’istruzione è un investimento per l’individuo e la comunità intera, completa l’indipendenza, è servizio e il servizio degli altri è parte dell’amore per se stessi»(17).
Nel 1985 Nyerere cessò di essere presidente della repubblica e, nel 1995, abbandonò pure la carica di presidente del Partito della Rivoluzione. Ritiratosi dalla politica, dichiarò: «Nonostante il fallimento, io resterò sempre socialista, perché il socialismo è la migliore politica per un paese povero come il Tanzania»(18).
Restava socialista, perché l’ujamaa, per questo «maestro signore», era la risposta più concreta alla domanda inquietante: «Caino, dov’è tuo fratello Abele? Cosa hai fatto di lui?» (Cfr. Genesi 4, 9-10).

Di Francesco Beardi

Note
1)   Cfr. William. E. Smith, Nyerere of Tanzania, Victor Gollancz Ltd, London 1973, p. 31.
2)  Missioni Consolata, gennaio 2000, p. 18.
3)  Cfr. W. E. Smith, op. cit., p. 11.
4)  Il proverbio è: mgeni siku mbili; siku ya tatu mpe jembe (Julius K. Nyerere, Ujamaa, Essays on Socialism, Oxford University Press, Dar es Salaam 1968, p. 5).
5)  Cfr. Ibid., pp. 161 e 159.
6)  La diffusione dello swahili in Tanzania è da ascriversi anche alla colonizzazione tedesca (1885-1914) e all’evangelizzazione dei Benedettini tedeschi, rimpiazzati nel 1919 dai Missionari della Consolata. In italiano pregevoli sono la Grammatica swahili (1953) e il Vocabolario (1978) di Vittorio Merlo Pich, missionario della Consolata, nonché Corso di Lingua Swahili (2002) di Gianluigi Martini, edito dall’Emi.
7)   Cfr. Julius K. Nyerere, Feedom and Socialism / Uhuru na Ujamaa, Oxford University Press, Dar es Salaam 1968, pp. 231-250.
8)   Cfr. Goran Hyden, Beyond Ujamaa in Tanzania, Heinemann, London 1980, p. 152.
9)   Cfr. Ibid., 141 e 146.
10) La citazione è da Missioni Consolata, op. cit., p. 19.
11) W. E. Smith, op. cit., pp. 31-32.
12) Ibid., p. 187.
13) Cfr. Beard Joinet, Tanzanie, Manger d’abord, Khartala, Paris 1981, pp. 16-20.
14) Julius K. Nyerere, Crusade for Liberation, Oxford University Press, Dar es Salaam 1978, pp. 35-36, 65.
15) Cfr. Daily News, June 12, 1996.
16) Cfr. Nyerere on Education / Nyerere kuhusu Elimu, II (Edited by Elieshi Lema, etc.), HakiElimu, Dar es Salaam 2006, pp. 210-211.
17) Julius K. Nyerere, Open University of Tanzania, Education, Dar es Salaam, March 5, 1999.

Francesco Beardi




Il presidente «per caso»

Tratti biografici

Figlio del capo
Nasce il 13 aprile 1922 nel villaggio di Butiama, a circa 30 chilometri dalla città di Musoma, nel nord del Tanganyika, come si chiamava allora il paese senza Zanzibar. Si chiama Kambarage Nyerere: Kambarage (spirito benefico che vive nella pioggia), perché piove quando nasce; Nyerere, come il padre Burito Nyerere, capo della piccola tribù dei Wazanaki. È uno dei 26 figli di Burito, che vanta almeno 18 mogli(1). Sua madre, Mgaya Wang’ombe, è la quinta consorte del boss.
Fa il pastorello Kambarage. Ma il ragazzo è troppo arguto per accudire soltanto pecore e capre. Così, a 12 anni, impara a leggere e scrivere. Dopo la scuola elementare, frequenta la Tabora School, liceo retto dai Missionari d’Africa. Costoro intuiscono che c’è «ottima farina nel suo sacco» e gli spalancano i battenti dell’università di Makerere, in Uganda, dove l’ex pastore ottiene il diploma in pedagogia.
Nel 1942, a 20 anni, un evento straordinario arricchisce l’esistenza di Kambarage: diventa pure Julius, cattolico. Sua madre lo seguirà con il nome di Cristina(2).
Corre voce che Julius voglia addirittura fare il prete. Intanto insegna biologia e storia alla Saint Mary’s Secondary School di Tabora. Poi, grazie ad una borsa di studio offerta dai soliti missionari, ritorna sugli scranni dell’università, ad Edimburgo (Scozia): vi consegue il master in storia ed economia. è il primo tanzaniano a studiare in un’università britannica. Qui conosce la Fabian Socialist Society: è un movimento sociopolitico, che mira ad elevare le classi lavoratrici per renderle idonee ad usufruire dei mezzi di produzione locale. È «la prima pietra socialista» di Nyerere, destinata a diventare «una casa» in Tanzania.

Il maestro
Nel 1952 ritorna in patria e insegna storia, inglese e swahili al Saint Francis College di Pugu, vicino a Dar es Salaam. È in tale istituto cattolico che Nyerere viene chiamato mwalimu, cioè «il maestro». Il suo insegnamento eccelle per semplicità, qualità e sagacia. Il futuro presidente della nazione sarà sempre «maestro» per vocazione e «politico» per caso(3).
Il 1953 è un anno significativo per Nyerere: primo, perché sposa Maria Gabriel Magige (con la quale avrà otto figli); secondo, perché viene eletto presidente della Tanganyika African Association (Taa), movimento culturale che egli stesso ha promosso all’università di Makerere. L’anno successivo, 1954, Taa diventa Tanu (Tanga-nyika African National Union): un partito dove si inizia a discutere di indipendenza del paese.
Chi sarà «il capo» del Tanganyika indipendente? Ovviamente lui, Julius K. Nyerere, gradito sia alla popolazione sia all’ultimo governatore britannico, Richard Tubull.

Il presidente
La magica ora dell’uhuru (libertà-indipendenza) scocca a mezzanotte tra l’8 e il 9 dicembre 1961. Nello stadio di Dar es Salaam, gremito di persone in festa, si ammaina la bandiera dell’Impero Britannico, mentre le stelle sorridono a quella inedita del Tanganyika indipendente. Il nuovo stendardo armonizza il nero del volto dei cittadini con l’azzurro dell’Oceano Indiano, il verde della foresta con il giallo dell’oro. In primo piano spiccano «lui» e «lei», a rappresentare tutti gli uomini e le donne delle 127 etnie del paese.
Nyerere è acclamato primo ministro del governo e, l’anno seguente, 1962, presidente della repubblica. Veste la casacca di Mao Zedong. Ma le differenze fra i due sono nette. Non è affatto detto che il tanzaniano sia succube o inferiore al cinese, anzi!
Intanto sul Kilimanjaro, il monte più alto del Tanganyika e dell’Africa, arde la fiaccola annunciata da Nyerere stesso. «Vorremmo accendere una candela – dichiara il 22 ottobre 1959 il futuro presidente – e collocarla sulla vetta del Kilimanjaro. Quella luce brillerà oltre i nostri confini e offrirà speranza dove c’era disperazione, amore dove c’era odio, dignità dove c’era umiliazione. Con sincerità, preghiamo il popolo della Gran Bretagna e i popoli di ogni razza e lingua, nostri vicini, di guardare a noi, di guardare al Tanganyika non con imbarazzo, ma con un raggio di speranza»(4).
Grazie anche a Nyerere, l’indipendenza non conosce violenza. Non è poco, se si pensa all’indipendenza insanguinata di altri paesi africani: dal Congo al Mozambico, dal Kenya all’Angola. Senza scordare le tragedie di Burundi e Rwanda e la vergognosa discriminazione razziale in Rodesia e Sudafrica.

La nave va
Con l’indipendenza, la vita di Nyerere cambia. Gli impegni sono fitti, esigenti, complessi: non è più l’insegnante di una scuola, bensì il maestro di un’intera nazione da costruire.
Nel 1961 il Tanganyika, su 10 milioni di abitanti, può contare soltanto su: 1 ingegnere, 9 veterinari, 16 medici, nessun architetto e nessun magistrato. Un paese impreparato all’autonomia? Certo, ma la responsabilità non è degli autoctoni. Al riguardo Nyerere ragiona: «Non abbiamo mai accettato che il popolo fosse impreparato ad autogovernarsi, perché sarebbe come dire: ‘Tu non sei pronto a vivere, tu non sei pronto ad essere uomo’»(5).
Nyerere parla di «indipendenza di bandiera»(6), un punto di partenza per restituire al paese la sua anima. Il presidente non dimentica gli insulti «ehi, tu, bastardo!», subiti dal «bianco»: hanno inoculato nel «nero» il virus del complesso d’inferiorità. Tuttavia, pur comprendendo il risentimento dei connazionali, non approva contro gli europei frasi quali «questi cani!»(7).
La nave dell’indipendenza prende il largo, raggiungendo traguardi significativi fra burrasche e bonacce. Al timone c’è Nyerere, presidente della nazione e del partito TANU (Tanganyika African National Union).

Date significative
26 aprile 1964: nasce il Tanzania dall’unione tra Tanganyika e Zanzibar. Il motto della nuova nazione è «libertà e unità».
5 febbraio 1967: con la dichiarazione di Arusha il Tanzania diventa socialista secondo l’ideale dell’ujamaa. Il termine swahili significa «famiglia allargata» da allargarsi: quindi comunità e fratellanza. Bisogna vivere e lavorare tutti insieme in «villaggi socialisti», scelti liberamente.
1974, agosto e mesi seguenti: poiché i tanzaniani sono reticenti di fronte al progetto «villaggi socialisti», vengono obbligati con la forza a costituirli. È una «tempesta» con gravi disagi. Ma il regime di Nyerere tiene. I risultati economici sono stitici. In compenso l’alfabetizzazione supera il 90%.
5 febbraio 1977: nasce il Partito della Rivoluzione (Chama cha Mapinduzi: CCM). Ha origine dalla fusione del Tanu (partito del Tanzania continentale) con l’Afro Shirazi Party (partito di Zanzibar). Nel paese vige «il sistema del partito unico», senza un’opposizione costituita.
30 ottobre 1978: Idi Amin Dada, dittatore dell’Uganda, invade il Tanzania. Tra i due paesi è guerra. Il 2 settembre del 1979 Nyerere festeggia la vittoria. Ma il paese è squattrinato.
1984: anno cruciale per il Tanzania, che rischia di ritornare Tanganyika e Zanzibar, date le spinte separatiste. Il presidente resiste.
25 novembre 1985: dopo 24 anni di potere-servizio, Julius K. Nyerere si ritira. Tuttavia regge il Ccm fino al 1990.
Un giorno confida: «Nel 1997 alla Banca Mondiale di Washington mi chiesero: Perché hai fallito? Risposi dicendo che l’Impero Britannico ci aveva consegnato un paese con l’85% di analfabeti, mentre quando mi ritirai (1985, ndr.) erano il 9% e il reddito pro capite era il doppio di quello attuale (1997, ndr.). Inoltre ricordai che oggi (1998, ndr.) abbiamo un terzo di bambini in meno a scuola, mentre la sanità e i servizi sociali sono in rovina. Eppure, in questi 13 anni, il Tanzania ha fatto tutto ciò che la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale gli hanno imposto di fare. Allora fui io a chiedere: Voi, perché avete fallito?»(8).

Gli ultimi anni
Con il nuovo presidente Ali H. Mwinyi e i suoi successori tutto cambia in Tanzania, specialmente dopo il crollo del muro di Berlino (1989). Si instaura il pluripartitismo.
L’ex presidente, dal villaggio natale di Butiama, dove vive nella sobrietà coltivando i campi, non lesina consigli. Ricorda che «la giustizia è la garanzia della pace» e ai giovani addita il servizio civile quale strumento di unità politica e religiosa(9).
A livello internazionale il mwalimu gode di grande prestigio. Ecco perché gli sono affidate «missioni impossibili»: vedi l’intesa fra tutsi e hutu in Burundi, facendo pressione sui primi (in minoranza, ma detentori del potere) per una maggiore giustizia verso i secondi (in maggioranza).
Il 5 marzo 1999 a Dar Es Salaam si inaugura la prima «università popolare aperta» (Open University). È il sogno di Nyerere da 20 anni. Il primo laureato in Lettere, honoris causa, è l’ex presidente, vecchio e ammalato. È l’ultima comparsa in pubblico ad alto livello dell’ex pastore di capre, figlio del capo. Infatti, poco dopo, il 14 ottobre 1999 Julius Kambarage Nyerere muore a Londra di leucemia.
Il giorno seguente il giornalista Tom Porteous scrive: «Non era né arrogante né banale, ma onesto e sincero, dedito alla famiglia e leale (fin troppo) verso gli amici. Il rispetto e la devozione che godeva presso il popolo li ricambiava con una dedicazione totale al suo impegno di capo dello stato. Pronto a riconoscere i suoi errori, era flessibile e pragmatico, senza tuttavia scendere a compromessi con la sua cristallina fede cattolica e con i suoi ideali di umanista e socialista»(10).

Nyerere è uno schiaffo a non pochi leaders, che sottomettono dignità e libertà, giustizia e pace al successo e tornaconto personale attraverso ostentate autocelebrazioni, turpi avventure sessuali, smaccate demagogie, sfrenate ricchezze.
Julius K. Nyerere è il maestro, il presidente, il padre della patria. Qualcuno si spinge molto più in là: auspica che sia proclamato «santo». Se sono rose…

di Francesco Beardi

Note

  1) Secondo E. R. Katare, invece, le mogli di Burito Nyerere furono 22 (cfr. E. R. Katare, Julius Kambarage Nyerere: falsafa zake na dhana ya utukufu, Dar Es Salaam 2007, p. 22).
  2) Il padre di Nyerere, Burito, rimase attaccato alle credenze tradizionali. Il figlio Julius raccontò: «Quando i missionari cristiani cercavano di convertire mio padre, egli prima li ascoltava, poi era lui a far loro la predica ed essi se ne andavano tranquilli. Quando i missionari gli dicevano ‘ama tuo fratello’, egli rispondeva ‘sono d’accordo con voi’. L’unico fatto che i missionari rimproveravano al vecchio erano le sue 21 mogli» (William E. Smith, Nyerere of Tanzania, London 1973, p. 34).
  3) Cfr. Missioni Consolata, gennaio 2000, p. 18.
  4) Julius K. Nyerere, Freedom and Unity / Uhuru na Umoja, Dar Es Salaam 1966, p. 72.
  5) William E. Smith, op. cit., p. 63.
  6) Espressione riportata da www.missionaridafrica.org
  7) Cfr. William E. Smith, op. cit., p. 49.
  8) Da un’intervista a Nyerere (dicembre 1998), riportata da www.culturacattolica.it
  9) Cfr. Sunday News, October 9, 1988, e Daily News, July 9, 1966.
10) The Indipendent, October 15, 1999.

Francesco Beardi