Le olimpiadi dei rifugiati

Storie dall’ex Villaggio olimpico di Torino, occupato dai
profughi.
Finito il progetto Emergenza Nord Africa, centinaia di
africani rimangono senza assistenza e casa. A Torino gli appartamenti dell’ex
Villaggio olimpico sono vuoti. Inizia così l’occupazione delle palazzine di via
Giordano Bruno. Circa 500 rifugiati senza letti, cucine, cibo. Mentre la città
sta a guardare.

«Ascoltare, guardare le persone in
faccia, rendersi conto. È questo che le autorità devono fare: scendere in mezzo
alla gente. Almeno per spiegare perché non possono rispondere alle richieste».
Sono le chiare parole dell’Arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia,
pronunciate durante la visita all’ex Villaggio olimpico in un’afosa domenica
d’estate (3 luglio 2013), in favore delle centinaia di profughi che lì vivono.
Un passo importante verso la soluzione dei molti problemi che attanagliano la
vita di questi uomini e donne, primo tra tutti quello della casa.

Chi
lo avrebbe detto sette anni fa che il cuore delle Olimpiadi torinesi sarebbe
diventato residenza di circa cinquecento profughi provenienti dall’Africa
attraverso la Libia sconvolta dalla guerra? Forse nei luoghi risiede un
destino, e quelle palazzine rimaste vuote dopo il trionfale inverno del 2006
hanno ripreso il loro lavoro di accoglienza verso chi viene da lontano. Lo
spirito dei Giochi aleggia ancora in molte sfavillanti piazze del centro
torinese, e ci piace pensare che sia rimasto anche qua, in via Giordano Bruno.
Quartiere popolare e benestante, per molti anni sede dei mercati generali, oggi
è in grado di vivere l’impegnativa esperienza di accoglienza dei profughi, una
massa umana semi abbandonata che vive grazie alla generosità di singoli
cittadini. Questa è la situazione etico morale, la parte probabilmente più
nobile di questa vicenda non eccezionale in Italia.

Occupazione

Diversa invece la storia materiale vissuta sul campo tutti i
giorni. I cinquecento africani, ma anche asiatici, est europei e qualche
impaurito italiano sfrattato, hanno occupato alcune palazzine, che appartengono
a un fondo immobiliare cui sono state vendute dal comune di Torino.
Occupazione, ai sensi di legge, illegale. Alcuni ragazzi dei centri sociali
torinesi avrebbero visto gli stabili in disuso, ma non fatiscenti, da anni e
avrebbero deciso di forzare i lucchetti che li lasciavano vuoti. Si tratta di
un reato penale. E qui la coscienza inizia a scontrarsi con le regole del
vivere in una società, creando una matassa che richiede molto buon senso per
essere sbrogliata. Subito dopo la forzatura, dentro le quattro palazzine alte
sei piani si sono riversati gli ultimi della città che hanno velocemente
occupato tutti i posti disponibili. Lunghe liste di attesa sono state poi
completate con chi non ha trovato posto, con momenti di tensione perché la
solidarietà tra i poveri esiste fino a un certo punto, prima è solo sopravvivenza.

Passati i primi giorni di caos i torinesi, pochi, hanno iniziato a
portare mobili, cibo e vestiti.

La generosità dei singoli cittadini è diventata l’architrave che
non fa collassare questa situazione, seppur largamente insufficiente. Ma il
cibo resta un problema, soprattutto per quei pochi che hanno un lavoro. Quando
tornano a casa non trovano più nulla perché ciò che arriva viene immediatamente
consumato da chi è presente nella struttura. E dai più forti. Così giovani
uomini, circa cinquanta donne e uno stormo di bambini sono diventati, loro
malgrado, protagonisti di un quadro pericoloso, che per nulla si connatura con
le loro aspirazioni, lontane dal vivere uno stato di illegalità formale.

Non siamo criminali

Non sono criminali ne sbandati. Sono i profughi scappati dalla
guerra libica, giunti con un barcone sulle coste italiane dopo viaggi che
definire avventurosi è riduttivo. Traversate dispendiose alla ricerca di un
nuovo inizio. I loro racconti sono tutti molto simili, anche se provengono da nazioni
diverse.

Alpha Omar ha ventisette anni ed è nato in Senegal. Un paese che
non presenta particolari problemi legati alla violazione dei diritti umani.
Quello di Omar, un ragazzo intelligente e sensibile, giunto a Torino dopo aver
girato mezza Italia, è un caso esemplare. «Non mi piace vivere in questa
maniera. Non sono contento di vivere in un palazzo occupato insieme a
cinquecento uomini nelle mie condizioni. Di dover aspettare il cibo che non
riesco a guadagnarmi perché nessuno vuole farmi lavorare. Di essere qua a
parlare del mio passato. Tutto questo non è ciò per cui ho fatto tanti
sacrifici».

Alpha Omar racconta la sua storia dentro la piccola ma ben
attrezzata aula dell’ex Villaggio olimpico dove si svolgono lezioni di
italiano. Lui parla la nostra lingua in modo stentato, così come molti altri. È
strano perché buona parte dei rifugiati presenti a Torino ha fruito della
mastodontica organizzazione messa in piedi nel 2011, quella che prese il nome
di «Emergenza Nord Africa». Progetto del ministero dell’Inteo, istituito per
accompagnare tramite strutture italiane i profughi fuggiti dalla guerra in
Libia. Progetto molto strutturato che, come minimo, doveva portare a una
conoscenza della lingua italiana almeno spendibile. Ma buona parte delle persone
che vivono in questa struttura sembrano sbarcate da pochi giorni.

È finita l’emergenza?

Nella primavera del 2011 la fuga dalle coste
Nord libiche sconvolte dai bombardamenti portò in Italia sessantamila persone.
Di questi circa un terzo si fermarono, i restanti decisero di continuare il
loro viaggio verso il Nord Europa.

È bene ricordare che i rifugiati politici
presenti nel nostro paese sono circa un decimo di quelli che vivono in Germania
o in Francia. Il termine «invasione» è da considerarsi quindi improprio. Per
questa ragione i profughi giunti durante la guerra libica sono stati di fatto
obbligati a rimanere in Italia dalle autorità francesi e tedesche che hanno
chiamato alla responsabilità il governo italiano.

Ma la doverosa assistenza a queste persone in
fuga si è trasformata in un caos molto oneroso e scarsamente proficuo. Un
miliardo di euro, mediamente 20 mila euro spesi in servizi per ogni uomo, donna
o bambino approdato nel nostro paese. Nonostante questi fondi spesi, oggi le
grandi metropoli subiscono il problema di migliaia di stranieri che vagano
senza meta, senza lavoro, senza casa. Non tutto è andato sprecato ovviamente,
soprattutto i progetti che hanno coinvolto piccoli gruppi hanno portato a
risultati concreti. Ma ci si domanda che fine abbiano fatto le associazioni che
avevano assistito i profughi durante il progetto «Emergenza Nord Africa»,
quanto per ogni rifugiato venivano corrisposti all’associazione circa 40 euro
al giorno.

Continua Omar: «I sacrifici che ho fatto, e
con me la mia famiglia che ha sostenuto i miei sforzi, non li ho fatti per
venire in Italia a fare il mendicante. Il mio obiettivo era andare a lavorare
in Libia perché è un paese africano in forte crescita economica. E così ho
fatto. Facevo il carpentiere e il lavoro non mancava mai. Guadagnavo bene,
anche mille dollari al mese. In Libia più lavoravi più guadagnavi, e a me
andava bene così. Poi, un giorno, è scoppiata la rivoluzione. Sembrava dovesse
durare poco, ma poi sono arrivati i bombardamenti Nato e io sono scappato su un
barcone. Non volevo tornare in Senegal, dove non c’è lavoro né la possibilità
di migliorare la propria vita. Cosa dovevo fare? Così ho speso quasi tutti i
miei soldi per venire in Italia».

E come lui Seko, venticinquenne, senegalese,
Mohammed, ventiquattro anni del Burkina Faso e centinaia di altri. Dicono: «L’Italia,
e in genere la comunità occidentale, ha supportato i bombardamenti che hanno
distrutto la mia vita. Questo implica una responsabilità morale da parte di chi
mi ha imposto un viaggio in Italia che non avevo alcuna intenzione di fare».
Storie simili, piene di frustrazione, voglia di andar via. Ma come?

Pais, congolese: «Dove posso andare? Non ho
nemmeno il denaro per il biglietto del bus. Non posso uscire dall’Italia perché
il permesso che ho me lo impedisce».

Rifugiato parcheggiato

Ma se la guerra è stata l’origine,
l’evoluzione successiva in Italia è ancora più inquietante. Molti raccontano di
essere stati mandati in luoghi sperduti, in mezzo alle montagne per mesi, dove
passavano le loro infinite giornate senza far nulla, in attesa del pranzo,
della cena, della notte.

Centinaia di milioni di euro spesi così, tra corsi di italiano
fasulli, creste all’italiana, volontari buttati in prima linea che tamponavano
le volute falle dell’Emergenza Nord Africa con ampie dosi di sacrifici
personali.

E loro, i profughi, divenuti dopo mille peripezie burocratiche,
rifugiati a tempo determinato, a seconda del paese di nascita, presi in mezzo,
rimbalzati da un posto all’altro. Interi hotel, anche fatiscenti e abbandonati
da anni, sono stati «messi a disposizione» dello stato che spesso li ha usati
come parcheggi. Tutto questo carosello è terminato il primo marzo, allo scadere
del progetto ministeriale, quando a buona parte dei profughi giunti è stato
riconosciuto il diritto all’asilo temporaneo e un assegno di cinquecento euro è
entrato nelle loro tasche: «Ognuno si arrangi come preferisce». C’è chi li ha
spesi in un giorno, chi li ha centellinati, chi non ha nemmeno capito subito
cosa fosse quel pezzo di carta che riceveva.

Racconta Noasarda, ventiquattro anni, del Burkina Faso: «Non
sapevo dove andare e cosa fare, così ho iniziato a vagare per Torino con
l’assegno in tasca. Mangiavo alla Caritas, dormivo per strada. Ho cercato
qualsiasi tipo di lavoro ma ne ho trovato pochissimo. Essere neri è ancora un
ostacolo insormontabile. I soldi che mi hanno dato non li ho ancora finiti, a
differenza di molti miei compagni. Poi ho saputo di questo posto e sono venuto».

Il resto è la quotidianità. Il tempo passa per tutti lentamente e
senza speranza. L’assenza di lavoro, di qualsiasi tipo, anche il più umile e
peggio pagato, porta a forme di depressione collettiva, alienazione,
frustrazione. Il tempo per questi uomini sembra infinito. Non solo. L’idea
balzana secondo cui non esiste nessun tipo di diritto, o dovere, ma tutta la
vita passa attraverso il favore concesso dall’autorità di tuo, o sedicente
tale, dilaga. A questo si devono unire le difficoltà dettate da una convivenza
spesso complicata, gestita da giovani volontari aderenti ad alcuni centri
sociali torinesi, che con immenso spirito di sacrificio rendono un servizio
alla collettività. Viene da domandarsi cosa sarà di queste persone quando i
loro status temporanei da rifugiati scadrà. Verrà riconosciuto un altro
lasso di tempo? Diverranno clandestini? I rifugiati al momento sono regolari,
ma senza il riconoscimento della residenza difficilmente potranno rinnovare il
permesso di soggiorno che per moltissimi scadrà entro la fine dell’anno.
Nonostante un doveroso ottimismo, la situazione rimane molto grave.

Maurizio Pagliassotti
 

Il fotografo

Matteo Montaldo, nato nel 1987 a Cuneo, si avvicina alla
rappresentazione fotografica già dal 2005, prima in modo autarchico poi
seguendo corsi specifici e studiando la teoria. Tra il 2010 e il 2012 consegue
a Milano un master in reportage e un corso di photoediting e ricerca
iconografica. Si laurea in filosofia nel 2011 con una tesi di estetica su Cindy
Sherman e il suo approccio postmoderno alla fotografia. Acquisito il
valore  della riproducibilità tecnica si
interessa di fotogiornalismo, documentazione sociale lavorando sull’attualità,
sulle trasformazioni socio-culturali e non disdegnando la riflessione circa i
tratti somatici della fotografia stessa.

matteomontaldo.photoshelter.com

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Maurizio Pagliassotti




La Torta di Pedro

Nel Piauí, uno degli stati più poveri del Brasile.
Da quando è diventato una potenza economica il Brasile è sempre un argomento da prima pagina. Tuttavia, considerate le sue dimensioni continentali, esso racchiude realtà molto diverse e spesso sconosciute. Siamo stati nel Piauí, stato del Nord-Est, per capire se speranze e problemi della gente siano i medesimi che nel resto del paese. Lo abbiamo chiesto a tre preti locali, padre Angelo, padre Lindo e padre Pedro, quest’ultimo tornato a casa dopo 5 anni trascorsi in Italia.

Bertolinia. «Il Piauí è lo stato più cattolico della federazione brasiliana.
Qui le chiese neopentecostali non hanno avuto il successo che c’è stato negli
altri stati. Detto questo, soltanto il 2-3% dei cattolici frequenta la messa
domenicale».

Padre
Angelo Oliveira Costa è giovane e pieno di grinta. Lui è il parroco di
Bertolinia, paesone agricolo situato a qualche ora di bus da Teresina, capitale
del Piauí. Padre Angelo vive nella casa parrocchiale, a pochi metri dalla
chiesa Nossa Senhora da Conceição Aparecida. La piccola costruzione, datata
1856, ha un campanile centrale ed è stata costruita su un terrapieno, alle
falde di una collinetta. Sono soltanto un paio di metri in più che però le
consentono di dominare sulla sottostante piazza. Rettangolare, ingentilita da
qualche albero, la piazza Nossa Senhora Aparecida è circondata da casette ad un
piano (compresa quella che ospita il municipio) e da una strada frequentata da
pochissime auto e molte motociclette.

Con
padre Angelo c’è padre Lindinaldo detto Lindo. Questi lavora nei paesini vicini
a Bertolinia, che raggiunge in motorino.

Oggi
però saliamo su un pick-up giapponese. «Regalato da Misereor,
l’organizzazione caritativa della chiesa cattolica tedesca», precisa padre
Angelo.

La malattia dei politici

Dalla strada che collega Bertolinia con Floriano deviamo a destra.
E subito capiamo perché qui un fuoristrada è indispensabile. La via è una
mulattiera, stretta tra vegetazione e recinzioni. Ogni tanto padre Lindo è
costretto a scendere dall’auto per aprire i cancelli in legno che delimitano le
varie proprietà. Il buio è sceso all’improvviso. Si distingue soltanto ciò che
viene illuminato dai fari.

Finalmente arriviamo a destinazione. È una casetta bianca,
semplicissima. Le persone sono sedute fuori, a godersi le ore meno calde della
giornata. I padroni di casa si chiamano Francisca e Francisco Messias de Sousa,
piccoli agricoltori e allevatori. Hanno un figlio prete, che ci accoglie con un
«Buonasera». Pedro parla italiano perché ha vissuto in Italia per 5 anni.

Caagione dorata, capelli corti e crespi, occhiali, un sorriso
che non perde di simpatia pur in presenza di un apparecchio dentistico portato
con disinvoltura, padre Pedro è il settimo di 10 figli: 4 maschi e 6 femmine.
Un paio sono nel Piauí. Gli altri vivono a Brasilia e San Paolo. «Hanno uno o
due figli. Se mia madre avesse fatto come loro io non sarei neppure nato»,
racconta con tono scherzoso. Ricorda i suoi trascorsi italiani. «Tra studi e
lavoro sono stato in Italia 5 anni. Lì ho ottenuto la licenza in teologia
pastorale e ho fatto la professione solenne. Sono stato ad Avellino, alla
parrocchia Cuore immacolato di Maria per un anno. Poi, d’accordo con il mio
provinciale, invece di andare
all’Università a Roma, ho chiesto di tornare a lavorare nel mio paese».

Simpatico e sorridente padre Pedro, ma le sue risposte non sono
buoniste. «Il Brasile è un paese ricchissimo. La sua torta è grande, ma la
maniera di dividerla è sbagliata. E poi c’è la malattia della corruzione e
quella dei politici che non sanno distinguere ciò che è pubblico da ciò che è
privato. Così accade che troppi di essi non fanno politica per migliorare la
vita della gente, ma per migliorare la propria e quella dei loro parenti».

Padre Pedro riconosce i successi ottenuti da Lula e dall’attuale
presidente Dilma, ma non chiude gli occhi su una realtà complessiva che rimane
problematica e troppo diseguale. «Il primo dei problemi – afferma – rimane
ancora la povertà. Poi c’è la carenza di strutture sanitarie pubbliche e di
abitazioni degne. Senza dimenticare l’analfabetismo: occorre migliorare
l’educazione, perché un paese può crescere soltanto attraverso di essa. Insomma
i problemi sul tappeto rimangono numerosi dato che, come dicevo prima, la
grande ricchezza del Brasile, sesta potenza mondiale, non si vede ancora nella
vita quotidiana della gente comune». In particolare negli stati del Nord-Est:
Alagoas, Ceará, Bahia e soprattutto Maranhão e Piauí, i due che si contendono
il poco invidiabile primato di stato brasiliano con il maggior numero di
poveri.

Il Piauí: da Vila Irmã Dulce a Guaribas  

Stato agricolo e d’allevamento bovino, grande quasi come l’Italia
(251mila chilometri quadrati contro 301mila), ma scarsamente abitato e senza
etnie indigene (tutte sterminate nei secoli passati), il Piauí ha gravi problemi
sociali e ambientali. Il paese ha il secondo più alto tasso di analfabetismo
del Brasile e, oltre il 40 per cento dei suoi abitanti, vive senza una rete
fognaria e senza un servizio di raccolta dei rifiuti.

Teresina, capitale dello stato, ospita una delle più grandi favelas
dell’America Latina: Vila Irmã Dulce. Qui, per migliaia di famiglie, la
precarità delle condizioni di vita costituisce la normalità.

I problemi sociali dello stato sono tanto evidenti che, nel marzo
2003, all’inizio del suo primo mandato, il presidente Lula scelse Guaribas,
città piauiense localizzata nel cosiddetto «poligono della siccità», per
lanciare il proprio programma «fame zero». A distanza di 10 anni, i suoi
abitanti sopravvivono, ma Guaribas continua a essere una città senza
infrastrutture, senza servizi e probabilmente senza futuro.

Quanto al disastro ambientale, esso trova la sua manifestazione più
drammatica nel Sud dello stato, attorno alle città di Gilbués, Alegrete e Monte
Alegre, dove si è formata la più grande area desertificata di tutto il Brasile.
La desertificazione è avvenuta non per cause naturali, ma esclusivamente per
azione antropica. Inizialmente è stata la ricerca disordinata e quasi sempre
illegale dei diamanti. Successivamente è stato il diffondersi dell’allevamento
estensivo di mucche. E, a completare l’opera di distruzione, la pratica del «taglia
e brucia».

Nel resto del Piauí, è stata l’introduzione su larga scala della
coltivazione della soia a produrre pesanti effetti sul territorio piauiense. La
soia è infatti fattore determinante nell’inquinamento dei fiumi e dei suoli (a
causa dell’utilizzo di prodotti agrotossici). Ma essa ha anche contribuito in
maniera sostanziale alla distruzione del cerrado (uno dei biomi tipici
della regione) attraverso il disboscamento e l’utilizzo del legno nativo come
fonte energetica («carbone vegetale»1, di cui il Piauì è il quarto
produttore a livello nazionale) per i processi di trasformazione industriale
della soia. Per produrre e trasformare questa leguminosa sono arrivate nel Piauí
alcune multinazionali, che – come troppo spesso accade – apportano alla
collettività più danni che benefici (questi spesso collegabili a progetti di greenwashing)2. Le più
conosciute sono la Monsanto e la Bunge Alimentos. Quest’ultima,
grande produttore di alimenti a base di soia (margarina, olio, ecc.), per
installarsi nella città di Uruçuí, ha avuto dal governo statale l’esenzione
quasi totale dalle imposte.

A conferma della gravità della situazione ambientale, secondo una
recente classifica, il Piauí figura al terzo posto per quanto concee il
disboscamento della mata atlantica3, preceduto soltanto dagli stati
di Minas Gerais e Bahia. La regione più colpita è quella della Serra Vermelha,
nel Sud dello stato.

Acqua, bene prezioso

La conversazione con padre Pedro e padre Angelo è stata baciata
dalla fortuna: temperatura piacevole, nessun rumore molesto, zanzare in
vacanza. Ma è ora di ripartire. C’è tempo per bere un bicchiere d’acqua
conservata in due vasi di terracotta (pote, in brasiliano), che stanno
accanto alla porta della casa di Francisca e Francisco. Prima di salire in auto
stabiliamo che padre Lindo scenderà ad aprire i cancelli, anche se lo ha fatto
pure all’andata. «Mentre noi discutevamo, lui ha mangiato. Un po’ di moto gli
farà bene», spiega padre Angelo.

Paolo Moiola
 
Note

1 – Contrariamente a quanto sostenuto, anche la produzione
di carbone vegetale da legno di eucalipto genera seri problemi ambientali. In
quanto pianta esotica, l’eucalipto non ha predatori naturali. È inoltre una
pianta «competitiva» in grado di impedire la crescita della flora nativa.
Infine, essendo caratterizzato da una rapida crescita, è un albero ad alto
consumo idrico.
2 – Come può essere – ad esempio – l’asfaltatura di una
strada sterrata.
3 – La mata
atlantica è un bioma brasiliano a rischio di estinzione.

 
       Giugno 2013: le manifestazioni nelle città brasiliane                                      

Il pane ma anche le rose

Le politiche del Pt, al governo da 10 anni, hanno ridotto
sensibilmente la povertà, ma lo sviluppo perseguito è fondato sulle grandi
opere e l’agrobusiness, con pochi investimenti nei campi della salute e
dell’istruzione pubbliche, e a detrimento dei diritti dei popoli indigeni e
della natura. In linea con i dettami della filosofia neoliberista. I
brasiliani, scesi nelle strade a protestare (oscurando il «sacro» rito del
calcio), oggi chiedono di avere la dignità del pane ma anche la bellezza delle
rose. Il Brasile, paese dalle molte facce (spesso antitetiche), vuole andare
oltre i numeri da sesta potenza mondiale.

Sul Brasile i luoghi comuni si sprecano: è il paese delle
favelas, delle spiagge dove donne bellissime sfilano tutto il giorno sulla
sabbia dorata e, ovviamente, del carnevale e del calcio, per i quali ogni
attività si ferma. Per questo e altro le rivolte urbane accadute a giugno,
durante il toeo calcistico internazionale della «Coppa delle confederazioni»
(poi vinto proprio dai padroni di casa del Brasile), hanno trovato quasi tutti
(governo, comunità internazionale, giornalisti) impreparati. «È difficile, se
non impossibile – ha scritto Mino Carta -, dire perché i brasiliani siano scesi
in piazza. Di certo è un grido di protesta che proviene dalla periferia di un
paese ancora diviso tra padroni e schiavi. Mi riferisco alla maggioranza dei
brasiliani che prende l’autobus e non sa cosa sia lo stato sociale. Sono loro a
pagare le conseguenze di un sistema sanitario, scolastico e dei trasporti di
pessima qualità»1.

Negli ultimi 10 anni, sotto le presidenze di Lula e oggi di
Dilma, il Brasile ha fatto grandi progressi tanto da raggiungere il rango di
sesta potenza mondiale. Tuttavia, il paese rimane terra di incredibili
contrasti e di enormi diseguaglianze. Lo sviluppo è stato ed è perseguito nel
solco dei dettami della filosofia neoliberista, come più volte segnalato anche
nei nostri reportages. Pur approvando
generosi programmi assistenziali in favore dei più poveri, il governo ha
lavorato per favorire le aziende private, le banche e l’oligarchia finanziaria.
I casi più emblematici riguardano la costruzione di opere faraoniche (una per
tutte, la contestatissima centrale idroelettrica di Belo Monte, sul fiume
Xingu) e l’esplosione dell’agrobusiness
fondato sulle monocolture e sostenuto dalla potente bancada ruralista del Congresso2. Queste scelte economiche hanno
spinto verso l’alto la crescita e il Prodotto interno lordo, ma allo stesso
tempo hanno prodotto conseguenze molto negative: per le popolazioni indigene
(scacciate dalle loro terre e di fatto spogliate dei propri diritti) e per la
preservazione dei grandi ecosistemi naturali che il Brasile ha la fortuna di
ospitare.

Per contro, il governo di Brasilia ha investito risorse
irrisorie nei campi della salute e dell’istruzione. Perché – chiedevano i
manifestanti – spendere miliardi di soldi pubblici nella costruzione degli
stadi per i Campionati mondiali di calcio del 2014 quando mancano scuole e
ospedali degni di questo nome? Anche il consiglio della «Conferenza dei vescovi
brasiliani» (Cnbb) si è schierata – attraverso una lettera dal titolo Ascoltare
il grido che viene dalle strade – con i contestatori3.

«Quando mio figlio sarà malato – si poteva leggere sui
cartelli e sui muri -, lo porterò allo stadio?». Scelte politiche sbagliate,
corruzione e sprechi sono riusciti nell’impresa di portare migliaia di
brasiliani nelle strade a contestare il calcio, da sempre considerato un rito
sacro e intoccabile.

Si dimentichino i luoghi comuni e le semplificazioni, il
Brasile ha innumerevoli facce, spesso antitetiche. Come quella di Marco
Feliciano, deputato e pastore evangelico della Asembléia de Deus. Nel 2010, Feliciano è stato eletto alla Camera
dei deputati del Brasile, risultando l’esponente evangelico più votato del
paese. Il deputato è famoso per le sue idee razziste sugli africani e per le
dichiarazioni di fuoco contro l’omosessualità, causa di odio e crimini, un
comportamento che – a suo giudizio – può essere curato tramite un adeguato
aiuto psicologico e spirituale (soprannonimato «cura gay»). Pur accusato di incitare all’omofobia e all’intolleranza,
a marzo 2013 il parlamentare evangelico è stato eletto presidente della «Commissione
per i diritti umani e le minoranze» della Camera.

Ma il Brasile ha anche la faccia di Jaoquim Barbosa, primo
presidente nero della Corte suprema4 (e possibile candidato alle presidenziali
del 2014). Nato nello stato di Minas Gerais, è il primogenito di 7 figli.
Barbosa ha intrapreso una lotta senza precedenti contro la corruzione annidata
nei partiti politici brasiliani (lo scandalo conosciuto con il nome di mensalão), compreso il Pt, il partito di
Lula e Dilma, i presidenti che hanno portato il Brasile nel novero delle
potenze mondiali, senza però riuscire a eliminae vizi, contraddizioni e
diseguaglianze. Come le manifestazioni popolari di giugno 2013 hanno voluto ricordare.
La vita ha bisogno del pane, ma anche delle rose.

Paolo Moiola
Note

1 – Mino Carta, editoriale di Carta Capital, 21 giugno 2013:
www.cartacapital.com.br.
2 – Claudia Fanti, In Brasile è guerra contro i popoli
indigeni. La resa di Dilma agli interessi dell’agrobusiness, Adista, 15 giugno 2013.
3 – Cnbb, Ouvir o
clamor que vem das ruas
, Brasilia, 21 giugno 2013.
4 – Secondo altre fonti, sarebbe il terzo. Si veda:
www.joaquimbarbosapresidente.com.br.

 
       Il crack, un’emergenza nazionale                                                                      

Le pietre del suicidio

Il Brasile della crescita economica e delle manifestazioni
inteazionali affronta un’emergenza che si sta diffondendo come un’epidemia.
Il crack ha invaso le strade brasiliane e catturato migliaia di persone. Anche
nei centri più piccoli.

Teresina. La rivista locale, Cidade Verde («città verde», nome con cui un tempo era
soprannominata Teresina), racconta la storia di cinque fratelli, il più piccolo
di appena 9 anni, tolti ai genitori perché i due erano tossicodipendenti e
vivevano per le strade.  Una vicenda –
pensiamo – drammatica e triste, ma forse unica e comunque amplificata dalle
consuete esagerazioni dei giornalisti.

Usciamo per una passeggiata. È la mattina di un giorno di
festa. Per le strade del centro di Teresina non c’è traffico. Le saracinesche
dei negozi sono abbassate, gli uffici pubblici chiusi.

Sulla Rua Areolino de Abreu e sulle vie laterali, nella
piazza Marechal Deodoro da Fonseca (conosciuta come Praça da Bandeira), nei pressi della chiesa Nossa Senhora do Amparo,
ci sono soltanto piccoli gruppi di persone che bivaccano sui marciapiedi o
sotto gli alberi dei giardini. Hanno un aspetto trasandato, volti emaciati,
sguardo perso, movimenti rallentati. Altri camminano con passo barcollante,
trascinando i propri corpi con fatica, pur essendo persone giovani. Sono tutti
tossicodipendenti – viciados, come si
dice in lingua brasiliana -. Ci dobbiamo ricredere. Quelle lette sulla rivista
non erano esagerazioni giornalistiche: il crack è arrivato anche qui.

La conferma arriva da un’inchiesta di Veja. Secondo
il settimanale, il crack ha ormai raggiunto oltre il 90% delle città
brasiliane, comprese quelle del Piauì, uno degli stati più poveri del paese.
Nel gergo giornalistico si parla di «cracolandia»,
per indicare i luoghi delle città dove si spaccia e consuma crack. Statistiche ufficiose raccontano
che per le strade di Teresina ci siano 8.000 tossicodipendenti.

Un esercito in crescita. Il crack è poco costoso e molto più pericoloso della cocaina di cui è
un sottoprodotto ottenuto mischiando questa con bicarbonato di sodio. Si
presenta in forma di piccole pietre (cristalli) che, una volta scaldate,
rilasciano un vapore che viene aspirato dal consumatore. L’euforia che si
produce dura non più di 10 minuti. Ad essa segue una depressione fisica e
mentale che si cerca di combattere procurandosi un’altra dose di crack. Una
volta entrata nel circolo vizioso della dipendenza l’unica preoccupazione della
persona è quella di procurarsi una nuova dose. Se non ha il denaro necessario, se
lo procura con furti, violenze o prostituendosi. Molti iniziano a vivere per le
strade come indigenti. A São Paulo come a Teresina, ma anche – ecco perché si
parla di epidemia – nelle città più piccole.

Dal lungofiume risaliamo a piedi la Rua Areolino de Abreu.
Nei pressi di una fermata dell’autobus, scoppia una lite tra due giovani donne
che stanno salendo sul mezzo. Si accapigliano e si insultano gridando con voce
stridula. Dopo qualche minuto la porta del bus si chiude lasciando fuori una
delle due e ponendo così fine al litigio. La donna che non è salita ha
l’aspetto e il fare inconfondibili di una consumatrice di crack. Non ci si può sbagliare: quella droga distrugge l’aspetto
esteriore e la testa delle persone che la scelgono.

Paolo Moiola

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Paolo Moiola




Noi stiamo con gli Indios

Reportage dalla missione di Tartagal.


All’inizio del 2012 i missionari della Consolata hanno accettato
la responsabilità della parrocchia di San Ramon Nonato a Tartagal. La missione
abbraccia vari slums, abitati soprattutto da immigrati boliviani e da indios, e
cerca di rispondere concretamente ai problemi sociali e di povertà che tale situazione
comporta. Nella parrocchia di San Lorenzo a Morillo vive invece padre Giuseppe
Auletta, incaricato della pastorale indigena per tutta la diocesi di Oran.

Verso le ore 9 del mattino, padre
Luigi Inverardi e il sottoscritto lasciamo Jujuy in corriera alla volta di
Tartagal, dove i missionari della Consolata si sono stabiliti di recente. Sono
sorpreso nel sapere che ci vorrà tutta la giornata per arrivare a destinazione.
La distanza tra le due città è di 500 km, eppure sulla mappa sembrano così
vicine. Ciò dimostra che l’Argentina è tra le nazioni più vaste del mondo, e
percepire le distanze con una cartina geografica può essere ingannevole.

In Argentina, viaggiare in
corriera è relativamente comodo. Per i tragitti a lunga distanza ci sono veicoli
a due piani che offrono servizio di pasti e sedili reclinabili per garantire un
tragitto rilassante.

Nel nostro viaggio a Tartagal ci
siamo sistemati al piano superiore per avere una migliore visione dello
scenario, caratterizzato da vaste distese di praterie. La corriera fa varie
fermate durante le quali salgono venditori di panini, spuntini e bibite.

Arriviamo a destinazione con 15
ore di ritardo. Padre Luigi Manco ci accoglie calorosamente alla stazione degli
autobus di Tartagal. Più tardi, alla residenza dei missionari dalla Consolata,
riceviamo l’abbraccio di padre Manuel Candela Garcia.

Missione nuova

Tartagal è situata nella
provincia di Salta nell’estremo Nord del paese, a circa 1.700 km dalla
capitale, Buenos Aires, 55 dalla frontiera con la Bolivia, 103 dal Paraguay. È
una città di circa 80 mila abitanti, nella diocesi di Oran, la più povera
dell’Argentina, dove ci sono circa 13 differenti gruppi indigeni.

Tartagal è una missione nuova di
zecca per i missionari della Consolata che vi arrivarono nel marzo 2012, dopo
aver consegnato al clero locale la parrocchia della città di Oran, dove avevano
lavorato per dieci anni. Per Tartagal il vescovo ha voluto una comunità di
preti non solo entusiasti, ma soprattutto capaci di stare con la gente. Il superiore
regionale ha destinato alla nuova missione i padri Luigi Inverardi (classe
1938), Luigi Manco (1941) e Manuel Garcia Candela (1956).

La parrocchia conta un grande
numero di giovani e vari gruppi indigeni, tra i quali i Guaraní e i Wichí.
Nonostante ogni nuovo inizio comporti sfide sempre più grandi, i due padri
Luigi hanno accettato questa nuova fase della loro vita missionaria con zelo.
Entrambi i missionari confermano che questo cambiamento è per loro il modo
ideale per sfidare se stessi nel creare qualcosa di nuovo e durevole
ricominciando da capo.

Durante il nostro viaggio in bus
verso Tartagal, padre Luigi Inverardi menziona spesso le sfide dell’adattamento
al nuovo ambiente. Eppure, vedo che i suoi occhi brillare ogni volta che parla
del lavoro che lo attende. Quando glielo faccio notare, riconosce che è vero. «Benché
il fuoco di giovinezza non arda necessariamente così luminoso quando avanziamo
in età, con la grazia del Signore possiamo, come missionari, trovare in fretta
l’energia, l’entusiasmo e la forza di cui abbiamo bisogno per andare avanti».

Nuove sfide

In Tartagal la sfida principale è
l’integrazione tra la popolazione indigena e la maggioranza composta da
eurodiscendenti e da meticci. Tale integrazione, racconta padre Luigi durante
il viaggio, spesso è difficile da creare anche tra gli stessi gruppi indigeni,
anche quando si tratta di lavorare insieme per progetti comunitari che
potrebbero ottenere l’appoggio del governo e di altri sostenitori.

Secondo i missionari della
Consolata a Tartagal, le aspettative dei parrocchiani sono semplici: liturgia e
sacramenti. Essi partecipano alla messa e vogliono che i loro figli ricevano
l’eucaristia e la cresima. I preti vorrebbero fare di più, andare oltre le
fondamentali attività pastorali della sacramentalizzazione. La comunità di
Tartagal è certamente molto devota, ma c’è molto spazio per la crescita,
soprattutto per quanto riguarda la presa di coscienza sociale verso un più
grande senso di giustizia.

Padre Manco aggiunge che ci sono
tuttavia vari gruppi religiosamente motivati che sono coinvolti in attività
sociali e pastorali. Infatti si è formato il gruppo di parrocchiani di San
Ramon per lavorare con lui in attività pastorali, come la visita ai malati e
carcerati. Altri portano la comunione a infermi e anziani. Altri ancora
lavorano con i giovani per aiutarli a crescere in una più articolata coscienza
sociale o per aiutare i preti nell’animazione missionaria. C’è perfino un
gruppo che lavora con le coppie sposate.

I padri Luigi Inverardi e Manuel
Garcia sono stati missionari in Venezuela prima di venire in Argentina, ma qui
trovano più facile esercitare il loro servizio missionario perché ci sono meno
interferenze estee e controlli burocratici.

Secondo padre Manuel, il
Venezuela del presidente Hugo Chavez è stato emulato da altri paesi
sudamericani per il desiderio di liberarsi dalla pesante dipendenza
nordamericana. La speranza è che questi paesi vogliano ritenere gli aspetti più
positivi del «chavismo» e tralasciare quelli negativi.

I padri Luigi Manco e Luigi
Inverardi contano ciascuno circa 35 anni di esperienza missionaria. La
situazione in Argentina è notevolmente migliorata a partire dalla fine degli
anni Settanta. Quando padre Luigi Manco arrivò per la prima volta in Argentina,
al governo c’era la dittatura e le condizioni ambientali di lavoro erano molto
difficili. I giovani cattolici avevano paura di esprimere se stessi. Per questo
è chiaro che il missionario preferisce l’Argentina del 2012.

La prima destinazione di padre
Luigi Inverardi, appena ordinato, fu l’animazione missionaria negli Stati
Uniti. Certo i tempi sono molto cambiati e i luogi sono ben diversi rispetto
alle esperienze vissute in quegli anni, ma egli è contento di fare lavoro
pastorale in Tartagal dove si sente molto più vicino alla gente.

Per molti anni la Chiesa
argentina avrà ancora bisogno di missionari, in alcune diocesi più che in
altre. Scopo principale dei missionari in Argentina è sostenere la chiesa
locale nel lavoro pastorale e di evangelizzazione; ma i missionari della
Consolata sono impegnati anche nell’animazione vocazionale tra i giovani
argentini nelle parrocchie loro affidate e altrove, per far maturare la chiesa
locale, fino a inviare missionari fuori dei propri confini. Anche questa è una
delle sfide di cui i missionari in Tartagal si sono resi conto e che hanno
abbracciato con impegno.

Tra gli indios wichí

In due ore di auto da Tartagal
raggiungiamo la parrocchia di San Lorenzo a Morillo per incontrare padre
Giuseppe Auletta, missionario e antropologo con lunga esperienza tra gli
indios, nominato di recente vicario episcopale per la pastorale indigena. A
padre Giuseppe è stato specificamente chiesto di lavorare tra i Wichí che nella
parrocchia sono circa 4.500. Egli è ben felice di condividere le sue esperienze.

La parrocchia a lui affidata
conta circa 12 mila persone, di cui solo la metà abita in Morillo, una
cittadina con le strade che si incrociano a scacchiera, con la centro la piazza
con la scuola, la chiesa e il municipio.

Prima dell’arrivo degli europei
nel secolo XVI, l’America centrale e meridionale contavano molte civiltà
sofisticate, tra le quali gli Aztechi in Messico, gli Incas in Perù, e i Guaraní
e altri in Paraguay e Argentina. Oggi si contano circa 800 mila indigeni nella
popolazione argentina, distribuiti tra 20 gruppi etnici sparsi in tutto il
paese, dal Gran Chaco a Nord alla Terra del Fuoco nella punta meridionale. I
gruppi etnici più grandi sono i Toba e i Mapuche.

La regione del Gran Chaco copre
oltre un milione di kmq nella parte nordorientale dell’Argentina e sconfina
dentro la Bolivia e il Paraguay. Dopo l’Amazzonia è la seconda regione più
importante del continente in termini di biodiversità. È anche uno spazio
culturale e sociale abitato da circa 389 mila indios, tra i quali i Wichí, i
quali, a seconda delle fonti, oscillerebbero tra 40 e 70 mila persone, sparse
lungo i confini settentrionali dell’Argentina, con alcuni gruppi in Bolivia.

Padre Giuseppe parla con
ammirazione di questa popolazione, che vive nelle foreste e tra le montagne, la
cui sussistenza si basa sulla raccolta di frutti e miele, sulla caccia e la
pesca. Sono artigiani di grande talento: scolpiscono un legno duro e profumato
che essi chiamano algarrobo (o legno di carob), tessono cesti,
stuoie e braccialetti di fibre vegetali e fanno terrecotte di varie forme e
dimensioni. Oggi i Wichí stanno abbandonando il loro sistema di vita
tradizionale di cacciatori e raccoglitori nomadi, stabilendosi in villaggi e
dedicandosi all’agricoltura.

Vita dura per i Wichí

La sfida principale per i Wichí,
secondo padre Giuseppe, è l’educazione. I ragazzi wichí dedicano poco tempo
alla scuola. L’insegnamento è in spagnolo, verso il quale i Wichí non nutrono
grande simpatia e gli insegnanti non conoscono la lingua wichí, tanto meno la
loro cultura. Il fatto che la scuola sia d’obbligo non è certo un incentivo per
i ragazzi wichí. L’ignoranza dello spagnolo agisce da barriera e benché ad
alcuni insegnanti siano assegnati degli aiutanti indigeni per fare da mediatori
culturali, fino a ora i risultati positivi sono scarsissimi. Il governo
argentino,secondo padre Auletta, dovrebbe preparare insegnanti indios per
offrire una educazione bilingue e interculturale.

I Wichí sono colpiti da molte
malattie evitabili, soprattutto tubercolosi, lebbra, la febbre dengue e
il morbo di Chaga. La malnutrizione è uno dei maggiori ostacoli al loro
benessere: nel 2011 nell’ospedale locale sono morti per malnutrizione 19
bambini. Alcolismo e tossicodipendenza sono le altre malattie sociali che
colpiscono i Wichí.

Intanto, nel loro territorio
avanzano le piantagioni di soia e i progetti di sviluppo di olio e gas gestiti
dai bianchi, a scapito dei Wichí che vengono cacciati dalle loro terre. Poiché
non hanno titoli di proprietà, i loro reclami vengono disattesi. Le autorità
della provincia di Salta sarebbero obbligate a riconoscere le loro
rivendicazioni territoriali, secondo l’emendamento costituzionale del 1994, ma
sotto la pressione dei proprietari terrieri bianchi e delle multinazionali
argentine e straniere, esse continuano a distribuire terra a coloni che vengono
da fuori, a permettere la deforestazione e ad approvare progetti di sviluppo da
cui i Wichí non hanno alcun beneficio. Non solo essi vengono derubati della
terra, ma sono anche impotenti di fronte al deterioramento dell’ambiente
causato dallo sviluppo sfrenato. I contadini poveri e gli indigeni sono
cacciati via dalle loro terre.

In risposta allo sfruttamento
degli indigeni e dei piccoli contadini, nel 2004 fu creata l’organizzazione
indigena Mesa de tierra, di cui fanno parte varie Ong e anche padre
Auletta. Lo scopo principale è promuovere incontri per trovare soluzioni ai
problemi. Ma nonostante le buone intenzioni contenute nella Costituzione e gli
impegni del governo, gli indigeni si trovano di fronte a molti ostacoli nella
lotta per difendere i loro diritti. I membri della Mesa de tierra
intervengono quando possono ma spesso senza successo.

La minaccia più immediata per i
Wichí è l’assimilazione della loro cultura a quella della maggioranza della
popolazione argentina. Per resistere a ciò ogni anno associazioni e chiese
locali organizzano la «Settimana del popolo indigeno» per creare autocoscienza
e mostrare apprezzamento per le culture dei popoli nativi. C’è infatti bisogno
di promuovere maggiore coscienza nelle strutture della chiesa, nella
popolazione in generale e tra gli indios stessi per creare migliori relazioni
tra tutti gli elementi della società.

Padre Giuseppe esercita il suo
ministero parrocchiale ben consapevole della cultura indigena. Presente nel
territorio wichí solo dal marzo 2012, nonostante i suoi 65 anni, egli ha
cominciato a studiare la lingua indigena, un’idioma non facile da apprendere.
Per il suo ministero egli usa una bibbia tradotta in wichí da missionari
protestanti.

A difesa della cultura wichí è
schierato anche il Centro Tepeyac, fondato dalla diocesi nel 1993 e
amministrato da un gruppo di donne. Oltre a provvedere alle famiglie servizi
sociali di base in ambito di sanità e nutrizione, il Centro è molto impegnato
in campo culturale, sviluppando strumenti didattici per l’insegnamento della
lingua wichí. Alcune attività sociali sono organizzate in collaborazione con la
chiesa anglicana, che è molto presente tra gli indios. Il Centro espone e vende
molti oggetti di artigianato fatti dagli artisti locali, inclusi braccialetti,
cesti e sculture.

Integrare i valori del Vangelo
con il rispetto della cultura wichí e assicurare relazioni armoniose tra i Wichí
e la popolazione locale è una delle sfide della chiesa cattolica; è anche una
sfida che padre Auletta e i confratelli sono determinati ad affrontare.

Jean-François Dubois
 

Testo dalla rivista Consolata Missionaries (Canada) n. 125,
marzo-aprile 2013, tradotto e adattato da Benedetto Bellesi.

Su padre Auletta vedi anche L. Lorusso, Terra contesa, MC
marzo 2012, e P. Moiola, Tutta un’altra storia, MC settembre 2007.

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Jean-François Dubois




Segni concreti di speranza

Intervista.Parla monsignor Giorgio Bertin, amministratore
apostolico della Somalia.
Mons. Bertin ritorna in Somalia dopo
anni. Vede intorno a sé segnali positivi di cambiamento. Ma le
istituzioni
restano deboli. E gli Al Shabaab continuano gli attacchi terroristici. I
cristiani vivono in clandestinità.  Oggi la Chiesa vuole riaprire una
sua presenza
stabile e visibile.

Monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della
Somalia, ha recentemente compiuto due visite in Somalia, dopo sei anni di
assenza. Ci racconta le sue impressioni.

Dopo le sue recenti visite in Somalia ha detto di aver
trovato «segni concreti di speranza». Può spiegarci meglio?

«In diverse parti della capitale ho potuto constatare la
ricostruzione di edifici abbandonati oppure nuove costruzioni; per esempio
lungo il “Lido” di Mogadiscio ci sono almeno tre ristoranti in funzione e altri
edifici stavano “spuntando”: segno che la vita sociale sta riprendendo. Durante
il giorno i somali circolano tranquillamente; per esempio in ‘”via Roma” nel
centro storico, ho visto i negozi aperti e c’era un brulicare di persone. Una
accresciuta sicurezza favorisce gli investimenti soprattutto della diaspora
somala. Qualche ministero, come quello degli Esteri, o dello Sviluppo e Affari
sociali è riabilitato e il personale del ministero è presente. L’aeroporto di
Mogadiscio conosce un andare e venire di gente che indica fiducia».

Cosa può dirci rispetto alle istituzioni governative, le
prime a essere riconosciute a livello internazionale dopo 20 anni di guerra
civile? Hanno oggi un margine di manovra per migliorare la situazione della
popolazione?

«Le istituzioni governative rimangono fragili. Sono sì
riconosciute dalla comunità internazionale; ma il problema è a livello locale,
a livello somalo. Dopo 22 anni di anarchia è difficile per la gente, abituatasi
a vivere senza istituzioni statali, esprimere la sua fiducia al primo venuto.
Ne sentono l’esigenza, soprattutto i poveri e il somalo comune. C’è poi il
discorso del federalismo che suona bene, ma è tutto da costruire in dialogo con
l’esigenza di avere una vera autorità centrale.

Per migliorare la situazione della popolazione si deve
sapere provvedere una certa sicurezza e alcuni servizi sociali, come scuola e
sanità, che in questo momento sono nelle mani di varie entità private. Lo stato
dovrà cornordinare le attività private con l’esigenza di un maggior impegno
pubblico».

Ci può parlare della situazione dei cristiani in Somalia:
quanti sono nelle sue stime? Come vivono? Sono sempre costretti in clandestinità?
Più in generale ci parli dell’aspetto della libertà religiosa in Somalia. È
teoricamente garantita dal governo e minacciata dai gruppi integralisti?

«I cristiani erano molto rari anche prima di questi 22
anni di guerra (forse qualche centinaio). Ora sono ancora meno. Ho incontrato
alcuni cattolici durante il mio ultimo viaggio a Mogadiscio. Chiaramente vivono
in situazione di clandestinità. I diritti umani sono affermati dalla nuova
Costituzione. Ma essi sono limitati sia dall’ignoranza della gente che non è
stata educata all’idea di rispetto della diversità anche dal punto di vista
religioso, sia da gruppi integralisti musulmani, come gli Al Shabaab.
Perché ci sia più rispetto dei diritti religiosi, è necessario che lo stato
cresca: senza uno stato con autorità nessun diritto umano sarà rispettato».

Gli Al Shabaab
si sono ritirati da Mogadiscio nel 2011, ma recentemente sono tornati a colpire
in capitale e hanno promesso di continuare. Legge questo evento come un colpo
di coda o piuttosto un ritorno a un’offensiva reale del gruppo islamico?

«Sì, gli Shabaab sono ancora presenti e possono
colpire con relativa facilità. Essi controllano ancora in gran parte le zone
rurali del Centro-Sud Somalia. È chiaro che le loro azioni, che colpiscono in
gran parte semplici cittadini, li alienano sempre più dalla simpatia popolare. È
necessario però che le nuove autorità dimostrino che sanno offrire qualcosa di
meglio: rispetto, riconciliazione, lavoro, educazione, sanità, ecc. È solo in
questo modo che l’estremismo islamico può efficacemente essere combattuto».

In generale la sicurezza in Somalia e in capitale è
migliorata? Anche l’Onu ha riaperto l’ufficio dell’Unhcr dopo 3 anni. Un
segnale di speranza o solo immagine?

«La riapertura di vari uffici e anche di ambasciate è
segno di un miglioramento e di speranza: ma la strada, ripeto, è lunga, non
bisogna illudersi. La sicurezza è migliorata per i cittadini comuni. Invece per
i funzionari statali e per gli stranieri, c’è bisogno ancora di farsi
proteggere da armati».

Secondo lei la conferenza di Londra sulla Somalia del 7
maggio avrà qualche effetto positivo? Si è parlato di investimenti
nell’esercito e nella polizia, ma per migliorare le condizioni di vita della
gente si è promesso qualcosa?

«Penso che la recente seconda conferenza di Londra sulla
Somalia abbia mostrato che questo paese ha ancora bisogno di un perseverante
sostegno politico ed economico. Certamente la sicurezza merita la priorità. Ma
non basta: bisogna che certi servizi, come la sanità, l’educazione, il lavoro
siano pure sostenuti e incoraggiati. La sicurezza con la pancia vuota non può
andare molto lontano!».

La carestia tra il 2010 e il 2012 avrebbe, secondo la
Fao, ucciso 258.000 persone in Somalia, nella «quasi» totale indifferenza
(salvo alcuni allarmi nel 2011). Secondo lei cosa oggi si dovrebbe fare?

«Io non sono così pessimista. Per me non c’è stata una
quasi totale indifferenza. Per noi che abbiamo vissuto questi anni difficili,
la Somalia non era stata dimenticata. Ciò che ha frenato è stata la difficoltà
a trovare delle soluzioni alla crisi somala. Era necessario affrontare il
problema non solo dal punto di vista umanitario o militare, ma anche e
soprattutto dal punto di vista politico-istituzionale. Il dramma di tutte
queste vite “perdute” è stato causato più che dalla siccità o altre calamità
naturali, dalla mancanza di una istituzione statale. A me sembra che
ultimamente ci si sia resi conto di tutto ciò».

Come Amministratore apostolico quali sono i suoi
programmi per la Chiesa in Somalia, e quali i suoi desiderata?

«Incontrando recentemente il ministro degli Esteri
somalo e altre autorità, ho espresso il desiderio di riaprire una presenza “fisica”
della Chiesa Cattolica in Somalia e in particolare a Mogadiscio, con la
possibilità di un luogo di culto (si vedrà più avanti se si potrà riutilizzare
la nostra cattedrale distrutta e occupata) e di esprimere più direttamente la
nostra partecipazione all’azione umanitaria e allo sviluppo, penso in modo
particolare attraverso la nostra Caritas».

Marco Bello
                     

        PORTFOLIO                                                                               
La Basilica della Consolata a Mogadiscio consola ancora


Indistruttibile


La cattedrale di Mogadiscio,
Basilica della Consolata, è stata costruita tra il 1925 e il 1928 su disegno
dell’architetto Antonio Viandone che si ispirò al Duomo di Cefalù (foto qui
in basso
). Fu consacrata il 1° marzo 1928 in una cerimonia che durò dalle quattro
alle nove del mattino, presieduta da mons. Gabriele Perlo, missionario della
Consolata e primo Vicario apostolico della Somalia, alla presenza di Umberto di
Savoia. Le foto in bianco e nero ne documentano i lavori di costruzione e lo
splendore.

I missionari della Consolata, arrivati nel 1924, nel 1930
lasciarono la Somalia ai Frati Minori lombardi, i quali ne sono ancora
responsabili nella persona del vescovo di Gibuti, mons. Giorgio Bertin,
amministratore apostolico della Somalia. L’imponente cattedrale, voluta e
costruita come imposizione coloniale e, allora, unica chiesa cattolica tra le
oltre 40 moschee di Mogadiscio, non ha mai servito a una vera cristianità
locale. Cacciati gli italiani, nel 1950 c’erano ancora circa 8.500 cattolici,
scesi a 2.600 nel 1970 e a un centinaio nel 1990. L’anno prima, il 9 luglio
1989, il vescovo Pietro Salvatore Colombo Ofm era stato assassinato proprio sul
sagrato.

Con la caduta di Siad Barre nel 1991 cominciava la persecuzione
dei cristiani e fu ucciso un altro francescano, p. Pietro Turati (1991),
seguito da Graziella Fumagalli (1995) e Annalena Tonelli (2003), volontarie,
dalla nostra suor Leonella Sgorbati (2006) e da oltre una trentina di cristiani
locali. La basilica è stata saccheggiata e vandalizzata nel 1991 e
cannoneggiata dai fondamentalisti nel 2008 che ne hanno demolito le torri di
37.50 m con la dinamite. Nonostante i loro sforzi non sono riusciti ad avere la
meglio del grande edificio che condivide la generale distruzione di quella che
era una bellissima città. Oggi, come documentano le fotografie recentissime
di Marco Procaccini
, il terreno della cattedrale è diventato un campo di
rifugiati, sui quali ancora campeggia, consolante, la grande croce della navata
centrale.

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Marco Bello




Il vento cambia a Mogadiscio

La Somalia di oggi tra business, Al Shabaab e tentativi di democrazia.
I somali della diaspora vedono possibilità di ricostruire il paese. E soprattutto «fare business». Ma per questo occorrono tanti soldi. Iniziano a essere profonde le differenze tra chi ha accesso alle risorse e chi no. La ricostruzione si intravede, ma la strada intrapresa non pare la migliore. Ne parliamo anche con mons. Giorgio Bertin, amministratore apostolico della Somalia.

Nairobi. Il vento di cambiamento che
investe la Somalia soffia sulle verande degli hotel che costellano Eastleigh,
la piccola Mogadiscio annidata nel cuore di Nairobi, in Kenya. È qui che la
diaspora ha coltivato per oltre vent’anni un’idea di «somalità» senza confini,
sospesa tra buufis, l’onnipresente anelito d’emigrazione, e fakudire,
la nostalgia per la patria a pezzi. Mai come ora dal crollo del regime di Syiad
Barre, però, questi frammenti hanno la possibilità di ricomporsi. Ma in che
forma? Uno stato centrale o federale? Come garantire la presenza delle
istituzioni su territori governati da miriadi di autorità locali? E che fare
delle centinaia di migliaia di rifugiati nei campi profughi in Somalia e nei
paesi limitrofi?

Missione diaspora

Attoo a un piatto di spaghetti e a un chai con latte di
cammello, queste domande restano sullo sfondo, mentre somali con passaporti
americani, canadesi, britannici, o con la semplice carta d’identità da
rifugiato dell’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), discutono
nell’unico linguaggio che non conosce differenze di clan: quello degli affari.

Democrazia è il mantra che pizzica le corde dei donatori
inteazionali, la chiave per allentare i cordoni della borsa. La politica
resta un gioco da equilibristi, dove le alleanze sono determinate dagli
interessi in gioco.

«Possibilità d’investimenti» è pertanto la formula che schiude
scenari futuri e che ridisegna la geografia regionale e le rotte della
diaspora, pragmaticamente proiettata sempre più verso l’Africa orientale e
meridionale ricche di opportunità, sempre meno verso l’Occidente della crisi e
dei sospetti.

«In Europa è sempre più difficile fare affari», dice Bashir,
cittadino britannico, imprenditore edile con investimenti nel Golfo Persico. «Possiamo
ricostruire la Somalia da zero. Mogadiscio può diventare la prossima Dubai».
Lui crede nel suo paese: può permetterselo. Può permettersi i 100 dollari a
notte degli alberghi di lusso presidiati come fortezze e i 20 dollari al giorno
per ogni guardia della sua scorta, quando viaggia nella capitale somala, una
volta al mese. Non ha bisogno di pagare quando si reca più a Nord, a Galqayo,
nella regione dove domina il suo clan, Hawyie. Indicativa della nuova
aria che si respira in Somalia è l’affabilità con cui parla con Axmed Dhadin e
Cabdullahi Moxamed. Il primo è un businessman con passaporto del Kenya:
un somalo kenyota, come quegli oltre due milioni che vivono (secondo
statistiche ufficiose) nella provincia Nord orientale. Ma nei fatti il confine
con la Somalia è sempre stato solo sulle mappe. I legami di sangue con il
proprio clan annullano qualunque frontiera. E Axmed è un darod ogaden:
nei vent’anni di anarchia che hanno lacerato la Somalia, lui e Bashir (o,
meglio, i loro clan) si sono spesso trovati su fronti opposti. Anche Cabdullahi
Omar è un darod ogaden, ma con carta d’identità da rifugiato. Vive a
Nairobi da sei anni. Grazie all’aiuto di Axmed, ha evitato il campo profughi di
Dadaab (vedi MC gennaio 2012), al contrario di centinaia di migliaia di somali
con meno appoggi di lui.

Attentati e rappresaglie

Nel dicembre del 2012 l’aria di Eastleigh si
fa pesante: l’intero quartiere è scosso da una raffica di attacchi
terroristici, che la polizia kenyana attribuisce immediatamente alle milizie islamiste
di Al Shabaab, attive soprattutto nel Sud della Somalia e nella zona di
confine con il Kenya. Il governo dell’allora presidente Kibaki annuncia un giro
di vite sulla popolazione di rifugiati, ordinando di sgomberare le aree urbane
per andare nei campi profughi in attesa di rimpatrio. Si moltiplicano gli
episodi di abusi da parte della polizia. Cabdullahi, confortato dalle notizie
in arrivo dalla Somalia, si fa rilasciare un foglio di rimpatrio e torna a
Mogadiscio. Ma si accorge ben presto che nella capitale presidiata da migliaia
di soldati dell’Unione Africana (la missione Amisom) si continua a morire, per
un sospetto di spionaggio, per una rapina, per aver rivendicato una proprietà
di un tempo e oggi occupata da un’altra famiglia.

Così torna in Kenya per la via più sicura,
apertasi negli ultimi anni: quella aerea, per Entebbe, in Uganda, dove il
passaporto somalo non solo è sfogliato senza batter ciglio, ma anche timbrato
con un visto che offre la possibilità di circolare legalmente per l’intera Africa
orientale.

Ora Cabdullahi sa che è possibile tornare in
Somalia, ma solo con risorse: soldi, documenti, protezione. È di questo che
discute con Bashir e Axmed. Nel concreto, dell’acquisto di terre nella regione
di Gedo, al confine con l’Etiopia: un’area fertile lungo il corso del fiume
Juba, ideale per la coltivazione del tabacco. Attoo a questo tavolo nel
ristorante dell’hotel Diamond emerge un quadro della Somalia di oggi: dove le
fratture separano non più (solo) i diversi clan, ma più in generale chi ha
accesso alle risorse chiave e chi ne è escluso.

Ottimismo e rimesse

Dall’elezione del presidente Hassan Sheikh
Mohamud, beniamino dei donatori inteazionali per il suo passato di attivista
della società civile, lo scorso settembre, un crescente ottimismo ha
accompagnato i passi avanti fatti, soprattutto nel campo della sicurezza.
Mentre il contingente di circa 18.000 soldati dell’Ua è riuscito a strappare
Mogadiscio ad Al Shabaab, le truppe kenyane hanno messo alle corde gli
islamisti nel Sud del paese. Inoltre, il prestigio del presidente ha attratto
il sostegno degli emirati del Golfo e ha consolidato quello della Turchia, al
momento uno dei principali (e sicuramente il più popolare) partner della
Somalia.

La maggiore linfa vitale, tuttavia, resta
quella delle rimesse della diaspora. Rimesse che, se prima garantivano la
sopravvivenza di intere famiglie, adesso stanno ricostruendo il paese. Mentre
le istituzioni pubbliche restano un guscio vuoto, buono se mai per attirare
aiuti umanitari, i capitali privati tengono in piedi infrastrutture e servizi,
dalla sanità all’istruzione. Il capitale scorre nei circuiti inteazionali:
quello delle grandi banche che offrono anche linee di finanziamento lariba,
senza interessi, conformi ai precetti islamici. O quello dell’hawala, il
capillare sistema di rimesse, basato sulla fiducia, attraverso il quale la
diaspora muove soldi nel mondo. Un’istituzione finanziaria situata in una zona
grigia tra legalità e illegalità, opaca e guardata con sospetto dalle intelligence
occidentali, che v’intravedono un canale di sostegno per la pirateria o per
militanti islamici.

Eppure l’hawala continua a essere un
canale privilegiato per riversare capitali in Somalia: un fiume di dollari
americani che, negli ultimi anni, ha continuato a crescere, finanziando il
settore edilizio, le telecomunicazioni e il business della sicurezza. Ma
anche facendo schizzare alle stelle il costo della vita e consentendo a ricchi
esponenti della diaspora di acquistare terra, soprattutto nelle zone dei fiumi
Juba e Shabelle, gli unici corsi d’acqua perenni del paese. Là dove si piantano
i semi dei conflitti futuri.

Capelli crespi

Ne è sicuro Omar, insegnante d’inglese a
Eastleigh e attivista per i diritti umani. Per lui e quelli della sua comunità
non c’è posto al tavolo attorno al quale la Somalia viene comprata un pezzo
alla volta. E, pur arrivando da Qoryoley, nel basso Shabelle, non ha risorse
(denaro e protezione armata) né per visitare la madre malata né tantomeno per
comprare terra. È un somalo jareer, termine che indica i capelli crespi
che lui ha in comune con altri africani, ma non con i Somali cushiti,
dai lineamenti e dai capelli lisci. Per loro, lui e quelli come lui sono stati
per secoli adon, schiavi, agricoltori marginalizzati dai pastori, quindi
usati come braccia dagli italiani nelle piantagioni di banane, etichettati come
bantu dalle agenzie umanitarie dopo il collasso dello stato somalo, nei
primi anni ’90.

«Continuiamo a essere discriminati nella
nostra terra, usati da Ong create e gestite da hawyie e darod per
attrarre i finanziamenti inteazionali e reclutati da al Shabaab» dice.

«L’apartheid del Coo d’Africa», come
l’ha definita lo storico Mohamed Eno, è una crepa che incrina il mito della
monolitica identità somala. I jareer, popolazioni indigene secondo una
versione, discendenti degli schiavi rapiti lungo la costa swahili dagli
arabi e rivenduti sui moli di Merca e Brawa, a sud di Mogadiscio, secondo
un’altra, sono le vittime croniche di una storia che si è sviluppata secondo le
dinamiche dei rapporti tra mercanti, nomadi e agricoltori, prima ancora di
quelli tra clan. La guerra ha travolto le loro terre, spingendoli in massa nei
campi profughi. La pace rischia ora di legittimae l’esclusione sociale. Sono
loro a guardare con sospetto la diaspora ingrassata all’estero negli ultimi
vent’anni e ora tornata a Mogadiscio per uno shopping miliardario, tra dollari
e mitra. Sono loro che ingrossano le fila di Al Shabaab, dove una forma radicale
di Islam offre una possibilità di riscatto sociale. Gli entusiasmi
inteazionali per i progressi sul piano della stabilità sono puntualmente
stemperati dagli attacchi che prendono di mira il governo somalo, le agenzie
umanitarie od obbiettivi civili. Simboli della nuova Somalia che sta lentamente
sorgendo dalle macerie, ma non nella forma e nei modi che molti somali
vorrebbero.

Gianluca
Iazzolino

       Il difficile processo di stabilizzazione                                                          


Toare a essere un paese

Dal 2012 la Somalia vive un complicato processo politico.
Con un nuovo presidente e un governo che non controllano il territorio. Mentre
continua la presenza di militari stranieri. E a Londra si celebra la Conferenza
internazionale per la Somalia.

Il 7 maggio scorso a Londra, il premier britannico David
Cameron ha organizzato la seconda Conferenza internazionale sulla Somalia. Vi
hanno partecipato 50 paesi e organismi inteazionali (Italia compresa), allo
scopo di spingere sul processo di pace e la normalizzazione del paese.

È nel febbraio dello scorso anno che i leader somali
(governo federale transitorio, Tfg, e leader regionali) si incontrano per
fissare i prossimi passi. Nel giugno gli stessi leader approvano una bozza
della nuova Costituzione, che viene poi approvata a grande maggioranza dal
parlamento (i cui deputati risiedono a Nairobi). Il parlamento federale somalo
si insedia il 20 agosto 2012 e dà origine al governo federale. È questo
parlamento che elegge l’attuale presidente, Hassan Sheikh Mohamud, il quale
nomina il primo ministro Abdi Farah Shirdon.

È proprio il presidente, ben visto dalla comunità
internazionale, che presiede la conferenza insieme a Cameron.

Il presidente Mohamud vuole raccogliere soldi per
ricostruire la Somalia e creare alleanze. L’Unione europea ha promesso 44
milioni di euro e la Gran Bretagna circa 29 per esercito, polizia e sistema
giudiziario. La questione «sicurezza» rimane infatti centrale per pensare alla
stabilizzazione del paese. L’assetto che si pensa è di tipo federale, tenendo
in conto che due regioni, il Somaliland e il Puntland (non rappresentate alla
conferenza), si sono dichiarate indipendenti rispettivamente nel 1991 e 1998,
senza mai essere riconosciute dalla comunità internazionale.

Il governo che si è insediato nel novembre 2012 è il primo a
essere riconosciuto da Usa e Fondo monetario internazionale dall’inizio della
guerra civile nel 1991. Goveo che, ancora oggi, è appoggiato dai 18.000
militari dell’Amisom (African Union Mission in Somalia) di cui fanno parte
Burundi, Uganda, Kenya (con 5.000 uomini), Gibuti e Sierra Leone. Sono presenti
inoltre truppe etiopi. Ma, garantisce il presidente alla conferenza di Londra,
entro il 2015 il governo sarà in grado di gestire direttamente la sicurezza.

Gli islamisti di Al Shabaab (vedi MC novembre 2012) sono però
sempre attivi, anche se hanno perso forza, e hanno colpito con due attentati a
Mogadiscio il 14 aprile scorso, causando 45 morti. Hanno poi replicato il 5
maggio (11 vittime). Cacciati dalla capitale nell’agosto 2011, gli Al Shabaab
continuano a imperversare con azioni di guerriglia.

Marco Bello

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Gianluca Iazzolino




La guerra è finita! O no?

L’isola dell’oceano indiano


Dopo una guerra civile durata 26 anni (1983-2009), lo
Sri Lanka sta ancora cercando la propria strada. La questione dei Tamil – una
minoranza di origini indiane e di fede indù – è lontana dalla soluzione,
soprattutto a causa delle chiusure del governo centrale, arroccato sulle
posizioni della maggioranza singalese-buddhista. Con ciò trascurando anche le
istanze delle altre due minoranze che abitano l’isola, quella
musulmana e quella cristiana.

Quattro anni fa, ufficialmente il 18 maggio 2009, finiva
il quasi trentennale conflitto srilankese. Una guerra civile atroce, in
particolare per il ruolo che la leadership nazionale ha avuto nel
renderla inevitabile e nel precludere ogni possibilità al negoziato utilizzando
in modo massiccio infiltrazioni dei servizi segreti, omicidi extragiudiziari,
tortura e abusi. Un periodo buio in cui la guerriglia tamil ha espropriato
buona parte dei diritti, necessità e aspirazione della più consistente
minoranza isolana, creando un regime di terrore e tenendo i propri connazionali
in ostaggio mentre il conflitto cresceva d’intensità e brutalità. Un tempo di
paura e silenzio che ha segnato la vita del paese, portando alle estreme
conseguenze tendenze che venivano da lontano, durante e prima della
colonizzazione britannica, e proiettandolo verso un sistema di potere semi-dittatoriale
controllato dal presidente. Portando a una situazione tanto fortemente
discriminatoria sul piano interno quanto arrogante e nazionalista su quello
internazionale.

Gli accordi di pace e la provincia tamil

«Quattro anni dopo la fine del conflitto,
deve ancora concretizzarsi la soluzione politica promessa dal governo durante
il conflitto – sostiene Jehan Perera, attivista sociale -. La provincia
settentrionale (a maggioranza tamil), dove fu sparato il primo proiettile del
conflitto e dove è caduto l’ultimo dei combattenti ribelli deve ancora godere
del diritto a dotarsi di un governo provinciale, seppure limitato, come le
altre otto provincie. Un politico pro-governativo ha addirittura avanzato
richiesta alla Corte suprema per chiedere che sia abolito il sistema di
decentralizzazione del potere».

«Questo non è il modo migliore per
perseguire la riconciliazione e per guadagnare il consenso delle minoranze
senza concessioni al nazionalismo srilankese. Mostra invece una miopia che
sfida la gestione corretta del paese. In questo contesto – conclude Perera –
chiamiamo il governo ad assicurare che si tengano le elezioni per il Consiglio
provinciale settentrionale previste a settembre».

Sinhala, Tamil, Mori:  mosaico di etnie e religioni

Considerato fino agli anni Settanta un
esempio di convivenza di etnie e fedi diverse, paese con il più alto reddito
pro-capite in Asia meridionale, lo Sri Lanka è una nazione isolana di 65.610
chilometri quadrati, con 20,3 milioni di abitanti. I Singalesi (Sinhala)
rappresentano il principale gruppo etnico (74 per cento della popolazione) e
sono buddhisti al 90 per cento. Il buddhismo, riconosciuto ufficialmente
religione di stato nel 1972, è strumento identitario ma allo stesso tempo elemento
discriminatorio. In particolare così viene individuato dalle minoranze
religiose, a partire dai Tamil di fede indù, il 17 per cento della popolazione.
I musulmani costituiscono il terzo grande gruppo religioso (9,2 per cento) e
sono anch’essi considerati una etnia a sé (Mori), contrariamente ai cristiani
(7,5 per cento) che, presenti sia tra i Tamil, sia tra i Singalesi, vengono
assimilati etnicamente a questi gruppi. L’origine della violenza che per oltre
un quarto di secolo ha devastato lo Sri Lanka risale alla fine del potere
britannico, nel 1948. La politica del divide et impera e la fine di
antichi equilibri per favorire l’economia coloniale (ad esempio l’immigrazione
di molti Tamil dall’India per lavorare nelle piantagioni di caffè e di tè), non
potevano non avere ripercussioni sull’isola. Gli anni immediatamente successivi
all’indipendenza furono sostanzialmente pacifici, ma questo non impedì
l’emergere di tensioni fra la maggioranza singhalese e la minoranza tamil.
Differenza ma non incompatibilità riconosciuta da un sistema di quote nel
pubblico impiego e nelle università che, eredità coloniale, è stato da sempre
additato dai Tamil come prova del loro essere discriminati.

Le tigri tamil  e la guerra civile

Il 23 luglio 1983, con l’uccisione di 13
soldati singalesi (cui seguì un pogrom anti-tamil che costò la vita a
600 persone e una prima ondata di sfollati), segna la data d’inizio del
conflitto srilakese. Da allora, per 26 anni, il paese ha conosciuto battaglie
campali, guerriglia senza quartiere, gravi abusi dei diritti umani e
distruzione delle infrastrutture economiche, provocando 80-100mila morti e
enormi danni alle proprietà pubbliche e private. Oltre un milione di persone
hanno abbandonato le loro case negli anni del conflitto e in parte non sono mai
rientrati; mezzo milione ha dato origine a folte comunità di profughi
all’estero. La discriminazione è la ragione per cui Vellupillai Prabhakaran,
fondatore nel 1972 delle Nuove Tigri Tamil, milizia che nel 1976 avrebbe preso
il nome di Tigri per la liberazione della patria tamil (Liberation Tigers of
Tamil Eelam
, Ltte) decise di portare all’estremo limite le velleità di
indipendenza della sua gente. Il mito dell’Eelam – una patria tamil nel
Nord e nell’Est dell’isola – diventa negli anni Ottanta l’obiettivo dichiarato
delle Tigri, che utilizzano metodi di guerriglia raffinati e devastanti, come
gli attacchi suicidi su obiettivi militari e civili, e portano a termine azioni
di ampio risalto internazionale, come l’attentato che nel 1991 costò la vita al
primo ministro indiano Rajiv Gandhi (responsabile dell’invio di un corpo si
spedizione militare con intenti pacificatori tra il 1987 e il 1990) e quello
che nel 1993 uccise il presidente srilankese Premadasa.

La «sporca guerra», successiva al 1983,
racconta una storia di interessi in conflitto che hanno alimentato odio e
sospetto tra le comunità. Racconta anche il sostanziale fallimento della
mediazione internazionale per lungo tempo affidata – con altee fortune – a
negoziatori scandinavi. Con una società civile a sua volta vittima del
conflitto (repressa duramente da parte governativa, di fatto cancellata nelle
regioni tamil, se si esclude la presenza della Chiesa), ci sarebbero voluti
anni prima che in settori sempre più ampi della popolazione si affermasse una
nuova volontà di dialogo. Tuttavia… «La fine della guerra ha indubbiamente
migliorato la vita delle persone, che non devono più temere attentati o per la
loro vita come in passato. Ma il paese deve ancora fare i conti con il dolore
collettivo che accompagna ogni conflitto civile», dicono alla «Commissione per
la riconciliazione e le lezioni apprese» (Lessons Leat and Reconciliation
Commission
, Llrc), di iniziativa presidenziale, in un documento che lo
scorso 19 maggio chiedeva che non vi fosse solo una giornata dedicato alla
vittoria sui Tamil, ma anche una ricorrenza in cui ricordare tutte e vittime
del conflitto.

Anche il «Consiglio nazionale per la pace»,
che cornordina diversi gruppi dedicati al dialogo e alla riconciliazione, segnala
come le celebrazioni della vittoria siano state boicottate fino dall’inizio
dalla leadership politica tamil e viste come un ulteriore segnale di
insensibilità del governo verso la sua popolazione multietnica. «La nazione
intera – sostiene il Consiglio – deve comprendere meglio la prospettiva tamil,
le loro perdite materiali e i loro lutti. Capire che non hanno avuto alcun
beneficio dalla vittoria militare». Alla classe politica srilankese
l’organizzazione chiede che, a 4 anni dalla fine del conflitto, il paese trovi
finalmente una propria via alla riconciliazione attraverso un percorso di
negoziato politico e di impegno sincero per guarire le ferite del
conflitto.  «Crediamo – afferma Jehan
Perera, tra i responsabili del gruppo – che, se le raccomandazioni del Llrc
fossero state ascoltate, il governo avrebbe già dovuto cambiare posizione. I
suoi leader avrebbero dovuto smetterla di impegnarsi ancor più nel
trionfalismo etnico e invece concentrarsi sulla commemorazione delle vittime di
un conflitto insensato».

Rajapaksa, un presidente  poco dialogante

Il governo di Colombo finora ha sempre negato
la possibilità di svolgere un’inchiesta internazionale. «Il mondo non saprà mai
con esattezza il numero dei civili innocenti deceduti nell’ultima, sanguinosa
fase del conflitto», ammetteva nel primo anniversario della fine del conflitto
John Holmes, vicesegretario Onu responsabile per gli Affari umanitari. Il mondo
tuttavia si sta muovendo e chiede con insistenza al presidente Mahinda Rajapaksa
e ai suoi ministri di accertare le responsabilità delle violenze, degli abusi,
del soffocamento di diritti e democrazia che hanno accompagnato il conflitto
srilankese. Ad essi sono associate le Tigri che, sul lato opposto, prendendo di
fatto in ostaggio la popolazione tamil, ne hanno usato e abusato senza scrupoli
per perseguire un sogno d’indipendenza prima e di potere esclusivo dei suoi
leader poi. Mentre si manifesta in prospettiva la vera dimensione della
tragedia srilankese, i contrasti tra comunità internazionale e regime di
Colombo sono andati accentuandosi, con toni di insolita durezza. Esiste
certamente un problema di gestione politica. Il presidente Mahinda Rajapaksa
(che è capo dello stato e capo del governo) detiene un potere pressoché assoluto
e continua a negare ogni necessità di indagine internazionale sui crimini
commessi durante il conflitto, accusando invece potenze estee – a partire
dall’India – di non volere riconoscere il loro ruolo nella crescita del
movimento tamil e nel fallimento di ogni negoziato.

A questo, si aggiunge il bavaglio
sull’informazione, accusata di fomentare l’ostilità del mondo verso il paese.
Decine di mass-media sono stati sospesi, chiusi o commissariati, decine di
giornalisti hanno pagato – con la vita (scomparendo senza lasciare traccia) o
con l’esilio – l’impegno a cercare di far prevalere verità e giustizia. Pure
questo è parte di un costante un conflitto tra l’establishment e la
società civile, di cui anche le minoranze religiose, a partire dalla Chiesa
cattolica, hanno spesso denunciato i pericoli per il paese, attirandosi
sospetto e persecuzione. In mancanza di azioni concrete per chiarire tanti
degli aspetti oscuri del conflitto e in particolare riguardo gli abusi sulla
popolazione civile, per il presidente Rajapaksa come per i suoi gregari, civili
e militari, membri del parlamento e ministri parte della sua famiglia o sovente
ad essa connessi, rischia di concretizzarsi un’indagine internazionale e
un’incriminazione per i crimini di guerra e genocidio.

 
Un’economia di speranze deluse

Oggi il regime incentiva il paese a dimenticare passato e
contraddizioni puntando molto sullo sviluppo economico e sulla diffusione del
benessere.

Immediatamente dopo la fine del conflitto, sembrava che il paese
fosse avviato a diventare la prima «tigre economica» in Asia meridionale. Sulla
distanza, la crescita appare moderata e i benefici diseguali e discontinui.
Come conferma il parlamentare dell’opposizione Harsha de Silva, «il paese ha
avuto una possibilità concreta alla fine della guerra, ma non siamo riusciti ad
approfittae. Le nostre politiche non hanno convinto gli investitori stranieri».
Esaurita anche «l’onda lunga» della ricostruzione post-tsunami del 2004 e quasi
prosciugatosi – anche per gli ostacoli al lavoro delle Ong (vedi box) –
l’interesse per la ricostruzione post-bellica delle aree tamil, il paese
arranca sugli obiettivi ufficiali.

Oggi, anche per la situazione internazionale, il governo fatica a
mantenere sotto controllo il suo deficit di bilancio, vicino al 7% del Prodotto
interno lordo, mentre anche il previsto aumento delle entrate fiscali e la
riduzione delle spese correnti segnano il passo. Gli investimenti pubblici,
attorno a 6,6 per cento del Pil sono al momento lo strumento principale per
rilanciare l’economia sotto pressione. «Durante l’anno (2012) è risultato
difficile raggiungere gli obiettivi fiscali a causa della riduzione netta degli
introiti governativi», ha ammesso il governatore della Banca centrale, Nivard
Cabraal, pur insistendo sul fatto che «tutto è pronto per un recupero di quota
nei prossimi anni, a partire da una crescita economica prevista in via
tendenziale al 7,5 per cento contro il 6,4 dello scorso anno». Crisi globale a
parte, lo Sri Lanka può contare su vecchi e nuovi amici interessati a fare
dell’«Isola di Smeraldo» un ponte tra Estremo Oriente e Subcontinente indiano,
ma anche tra Asia Meridionale e Medio Oriente. Puntando magari anche sulla
ripresa del turismo, ancora incerta, che come altri settori economici ha le
potenzialità per riannodare le fila con i successi degli anni Ottanta.

Meno India, più Cina 

Se i rapporti con la vicina India sono andati
raffreddandosi anche per l’atteggiamento critico di Nuova Delhi verso il non
immacolato record di democrazia e diritti umani dell’amministrazione Rajapake,
la presenza di Pechino è invece sempre più imponente, e non solo con un export
massiccio e invadente di prodotti cinesi verso il mercato srilankese.

Pechino, che negli ultimi tempi del conflitto
e fino ad oggi ha sostenuto le ragioni del presidente davanti alle critiche
inteazionali e rafforzato le sue forze armate con un concreto supporto di
materiale bellico, è oggi insieme protettore e partner più qualificato –
in numerosi settori economici, soprattutto nello sviluppo delle infrastrutture
– dell’«Isola di smeraldo».

A questo proposito è significativa la più
recente concessione (a fine maggio) da parte della Banca cinese per lo sviluppo
di una linea di credito di 580 milioni di dollari. 300 milioni da utilizzare
per lo sviluppo della rete stradale, 200 milioni per progetti di
approvvigionamento idrico e il resto per la Scuola economica nazionale. Una
concessione che ha portato il totale dei prestiti della Banca a 1,4 miliardi di
dollari.

Stefano
Vecchia

       La Chiesa cattolica                                   
Una presenza trasversale 
 

La cattolicità srilankese conta 1,2 milioni di fedeli ed è
organizzata in 11 diocesi, inclusa l’arcidiocesi di Colombo, 391 parrocchie
affidate a 955 sacerdoti coadiuvati da 626 religiosi e 2.300 religiose. La
Chiesa cattolica è da sempre attiva sui «fronti» del dialogo interreligioso,
dello sviluppo socio-culturale e della difesa dei diritti umani e delle libertà
civili. Vivendo però anche al suo interno tensioni e contraddizioni parallele a
quelle della società. La tensione tra l’anima «sociale» e quella più «istituzionale»,
infatti si è affiancata alla varia appartenenza etnica del clero e della
diversa attenzione verso le richieste, e sovente le imposizioni, del regime
negli anni del conflitto. Presenza di fede trasversale alle varie etnie del
paese (con l’esclusione dei Mori islamizzati), ma concentrata sulle coste
occidentale e nord-occidentale dell’isola, la cattolicità srilankese ha anche
un ruolo importante nel processo di pacificazione, come pure nella
ricostruzione post-tsunami e post-bellica, veicolando soccorsi e iniziative
dall’estero, ad esempio dalla rete Caritas.

Numerose e apprezzate le sue iniziative educative, sanitarie
e socio-culturali che ne fanno un elemento attivo della società e promotrice di
integrazione. Erede di una tradizione religiosa che risale al XVI secolo, la
comunità cattolica si è trovata sovente in contrasto con il cristianesimo
calvinista e anglicano arrivati sull’isola con le dominazioni olandese e
inglese, come testimonia la vicenda di Joseph Vaz, beatificato nel febbraio
1995 da papa Giovanni Paolo II a Colombo. (Ste.Ve.)

      Le (discutibili) iniziative del governo                                     


«Guerra» alle Ong

A metà giugno 2013, il governo ha deciso una revisione delle
Organizzazioni non governative straniere presenti nel paese e maggiori
controlli sulle loro attività. A questo proposito è stato creato un comitato
speciale con il compito di indagare su eventuali accuse e denunce avanzate nei
loro confronti. Contemporaneamente, scatta l’obbligo di registrazione presso un
apposito ufficio governativo.

Le nuove iniziative sono state giustificate dal dipartimento
dell’Informazione con la necessità di «impedire a certe Ong di avviare attività
sediziose che portino a un cambiamento del regime, partecipando ad attività
politiche mentre fingono di impegnarsi in attività sociali». Verso le
organizzazioni che non rispetteranno le nuove direttive, saranno prese misure
legali e, in alcuni casi, è prevista anche l’espulsione dal paese.

Secondo il «Centro d’informazione sulla sicurezza nazionale»,
le Ong impegnate nello Sri Lanka sono un centinaio, ma un buon numero di esse
sarebbero impegnate «in attività contrarie allo stato in collaborazione con
politici dell’opposizione». Sempre secondo il Centro, in diversi casi avrebbero
ottenuto in modo illegale, con la corruzione, la registrazione come
organizzazione non-profit da parte del dipartimento per il Registro delle
aziende.

In vista della revisione, alle Ong è stato chiesto di
preparare un rapporto che spieghi le ragioni della presenza sull’isola,
descriva il loro personale e spieghi entità dei fondi e donazioni ricevute
dall’estero; chiarisca, infine, i loro metodi di lavoro e i piani futuri.

Il sospetto verso le Ong è in parte risultato della più
ampia insofferenza verso le pressioni su presidente e governo affinché
accettino un’indagine internazionale sulle responsabilità, in particolare, per
i massacri di civili e per le esecuzioni extragiudiziarie di militanti tamil
nella fase finale del conflitto. Risente anche dell’impegno delle organizzazioni
umanitarie verso i «perdenti» del conflitto e i rapporti che per questo possono
avere con gruppi e individui che il regime considera ostili, a partire da
leader sociali, religiosi e mass media. Da qui le difficoltà poste anche al
lavoro delle Ong accreditate, incluse quelle d’ispirazione cristiana. (Ste.Ve.)

 

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Stefano Vecchia




4 Iran sulla pelle della gente

Prof.ssa Razie Amani

L’Italia era il primo partner
europeo dell’Iran. Per obbedire all’embargo, ha ridotto progressivamente un
legame commerciale molto importante.
Divenendo complice di un’enorme ingiustizia.

Razie
Amani è una giornalista e docente universitaria iraniana. Ha studiato in Italia
e insegna la lingua italiana in un ateneo di Teheran.

Professoressa Amani, qual è
l’attuale situazione economica dell’Iran dopo le sanzioni inteazionali?

«A causa delle sanzioni l’economia
dell’Iran ha subito forti e innegabili conseguenze negative. Un aumento
drastico dei prezzi e di conseguenza il calo notevole di potere di acquisto
della moneta. I settori economici più toccati sono quello petrolifero e
bancario, ma in generale un po’ tutti. La mancanza di alcuni prodotti pesa
maggiormente. È il caso dei medicinali e dei farmaci indispensabili
(soprattutto per malattie considerate gravi o croniche) e dei pezzi di ricambio
(per le attrezzature ospedaliere, per le auto eccetera), perché la mancanza
incide direttamente sulla produzione e sui costi. In generale, l’embargo va a
colpire soprattutto i più deboli, la fascia medio-bassa della popolazione che
ora si vede costretta al “minimo indispensabile”. Questa è la ragione
principale per la quale la gente non accetta le accuse delle potenze straniere
e i loro ragionamenti; essa si sente vittima diretta e innocente di una
punizione e una pressione economica ingiuste che vorrebbero costringere l’Iran
a cambiare la sua politica estera e intea. Nulla di quello che viene detto
contro l’Iran risulta credibile agli occhi del più semplice cittadino iraniano,
anche quello meno allineato con le politiche dei suoi governanti. In sintesi,
le sanzioni stanno pesando molto sulle spalle della gente, danneggiano
l’economica e le imprese, mettono in seria difficoltà la vita di tutti, ma non
piegano gli Iraniani, anzi li rafforzano».

Come reagisce
la popolazione?

«La popolazione reagisce con
attenzione e intelligenza. Ha una capacità straordinaria di valutare la
situazione politica dell’Iran e del mondo; ha anche la capacità critica di
giudicare la condotta del governo e dello stesso presidente ma non si lascia
ingannare facilmente dalla macchina propagandistica delle potenze occidentali
obbedienti agli Stati Uniti. Sente sulla propria pelle l’arroganza e
l’ingiustizia dei paesi ostili all’Iran e delle ragioni vere di questa ostilità
costruita artificiosamente».

La rielezione di Obama a presidente
degli Stati Uniti ha aperto nuove prospettive per l’Iran?

«Nessun
cambiamento serio. Forse un tono meno aggressivo ma sicuramente un paese come
l’Iran, preso di mira, è difficilmente ingannabile dalle parole e dai media,
siano nazionali che inteazionali. Gli Iraniani sono cittadini di un Paese
culturalmente molto elevato e colto: essi subiscono anche l’ingiustizia
dell’Occidente e ne sono consapevoli; con questo non voglio dire che in Iran
non ci sono opposizioni, dissidenze o persone che vorrebbero un approccio più
morbido del governo con gli Usa e con l’Occidente in generale, ma la
maggioranza ha compreso gli inganni dialettici e gli scopi reali della propaganda
occidentale e si fa poche illusioni. Tuttavia nessuno rinuncia a sperare in una
chiarificazione internazionale e in una pacificazione. Questo è sicuro…»

Lei è vissuta in Italia e ne conosce bene la cultura e la lingua. Quali
sono le relazioni con il suo paese, dopo le sanzioni?

«Le relazioni economiche
Iran-Italia hanno subito anch’esse conseguenze molto negative. E pensare che
l’Italia rappresentava il primo partner economico europeo dell’Iran! Non so se
tale situazione è rimasta immune dalle sanzioni occidentali. Esse, certo,
danneggiano l’Iran, ma anche l’Italia che, purtroppo, deve obbedire. Anche a
costo della bancarotta».

Secondo lei, quali percezioni hanno gli italiani dell’Iran?

«Gli italiani, in generale,
bombardati anche loro dai mass-media non hanno una giusta visione dell’Iran e
degli iraniani, ma questo non rappresenta solo una realtà italiana: riguarda
tutto l’Occidente. Vi sono, tuttavia, italiani informatissimi con i quali ho
avuto la fortuna e il piacere di parlare e scambiare le idee, che conoscono il
mio paese per quello che realmente è. Per la sua incomparabile civiltà e
storia, per la sua gente, rivoluzionaria nel cuore e nella mente, e per le sue
caratteristiche religiose e culturali».

Qual è il ruolo
dei media in relazione all’embargo e all’informazione sull’Iran?

«È stato un ruolo fondamentalmente
distruttivo, se intende quello dei media occidentali mainstream. Si sa che sono
loro che formano la cosiddetta “opinione pubblica” che, in sé, non esiste
autonomamente. È stato fondamentale per rendere passiva, anzi accondiscendente
alle sanzioni, l’opinione pubblica occidentale, senza che ne capisse neppure le
raioni al di là del solito spauracchio delle “armi chimiche” e della “bomba
nucleare”».

L’attuale
guerra in Siria che scenario disegna nei confronti dell’Iran?

«L’Iran è al centro di questa
guerra proprio perché ne è l’obiettivo direi esclusivo. Tuttavia è considerato
anche l’avversario principale e più forte capace di frenare quest’aggressione
internazionale contro la Siria. Di difendere il governo siriano in se stesso
all’Iran può interessare poco; ma vedersi arrivare fuori della porta di casa
quelli che già si sentono “padroni” dell’intera area… renderebbe preoccupato
chiunque. E del resto anche la Russia e la Cina avvertono questo pericolo e
sentono che questa è la vera intenzione degli americani e dei loro alleati.
L’aggressione alla Siria è solo l’inizio perché è vista come una dei componenti
del “Fronte trilaterale della resistenza islamica” composta da Hezbollah, dalla
Repubblica Islamica dell’Iran e, appunto, dalla Siria, contro Israele e
l’imperialismo in generale. Questo dovrebbe apparire chiaro anche a una certa
fascia della popolazione dei paesi arabi, ma i suoi governanti non le danno
spazio per capire a che gioco si sta giocando ai danni dell’intero Islam, e non
solo di quello sciita».

Rimaniamo in
tema di fede religiosa. Come vede l’elezione del nuovo Papa, Francesco?

«È sicuramente un evento molto
importante nella storia della Chiesa cattolica e forse incisivo anche per
l’intero mondo cristiano; ovviamente quello autentico e sincero; e questo, sia
per le dimissioni storiche e senza precedenti del precedente Papa sia per ciò
che dice e promette il nuovo Papa Francesco. Un nome molto amato da tutti
cristiani, al di là delle appartenenze nazionali o di altra natura, ma che
rende più difficile il compito di colui che sembra voler essere vicino a una
certa visione spirituale e a una condotta coerente. Sembra una bella figura che
ispira sincerità». •

Per?Approfondire

•  Angela Lano, E dopo la primavera, arrivò l’inverno, Dossier Missioni Consolata,
gennaio 2013.
•  Marco Perissinotto – Hamid Masoumi Nejad, Iran, un viaggio in Persia tra Oriente e
Occidente
, Edizioni Polaris, Firenze 2013.
•  Alì Reza Jalali, La Repubblica Islamica dell’Iran tra
ordinamento interno e politica internazionale
, Irfan Edizioni, Roma 2013.
•  Matteo Bressan, Hezbollah, Datanews,  Roma 2012.
•  Giorgio Frankel, L’Iran e la bomba, Edizioni Derive e Approdi, Roma 2010.
•  Wael Hallaq, The Origins and Evolution of Islamic Law,  Cambridge University Press, 2005.
•  Gilles Kepel, Jihad, ascesa e declino, Carocci editore, Roma 2001.
•  Henri Laoust, Gli scismi nell’Islam, Ecig, Genova 1990.
•  Joseph Schacht, An Introduction to Islamic Law, Oxford
University Press, 1964.
•  Fulvio Grimaldi, Target Iran, documentario (in Dvd).


 Termini?arabi?e?farsi

Abbiamo scelto una
traslitterazione scientifica parziale per non appesantire con inserzioni
grafiche la lettura.

L’autrice

Angela Lano, giornalista e
scrittrice, orientalista per studi e passione, da molti anni viaggia in Medio
Oriente. Collaboratrice di MC, vive a
Salvador Bahia, Brasile.

Coordinamento editoriale:
Paolo Moiola, redattore MC.

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Angela Lano




3. Iran: La forza di un popolo giovane e colto

Intervista con
Davood Abbasi
A Teheran abbiamo incontrato il direttore dell’edizione
italiana di Radio Irib, l’emittente dello stato iraniano ascoltabile anche in
Italia. L’embargo (occidentale), la guerra in Siria, le relazioni
inteazionali, l’Islam, l’origine e il ruolo dei gruppi salafiti, i rapporti
con il mondo cristiano, ma anche i progressi scientifici e il nucleare. Ecco i
punti salienti di una conversazione a 360 gradi.

Teheran. Il compound della Radio e Tv di stato iraniana
occupa una vasta area della collina a nord della città. I controlli all’entrata
sono severi e anche l’abbigliamento deve essere adeguato. Qui non si ammettono
licenze in fatto di capigliatura, tollerate fuori, e i capelli devono essere
ben nascosti sotto un foulard o un chador. Gentili e accoglienti, le addette
alla sicurezza ci accolgono, ci perquisiscono e ci indirizzano verso la
redazione di «Radio Irib» (http://italian.irib.ir), in un dedalo di
stanze e sale di trasmissione, dove ci aspetta il giovane direttore
dell’edizione italiana, Davood Abbasi, giornalista ma anche ingegnere
aerospaziale.

Direttore Abbasi, l’Iran è sotto
embargo da molto tempo, ma negli ultimi anni le sanzioni si sono fatte più
pesanti. I cittadini come affrontano la situazione?

«La situazione dell’Iran sotto
embargo è ormai consolidata. Nel senso che quando contro un paese sono in
vigore sanzioni da oltre 30 anni, la questione non è certo una novità. Nel
corso degli anni l’embargo è stato però graduale e ciò ha dato al popolo
iraniano e naturalmente alle autorità la possibilità di sviluppare le proprie
difese e di mettere a punto le dovute contromisure. L’Iran sopravvive, ma
soprattutto progredisce perché l’embargo (box di pagina 37) non è “internazionale”
quanto piuttosto “occidentale”. Inoltre, molti paesi del fronte “occidentale”,
alla fine, non riescono ad attenervisi e continuano a fare affari con noi».

L’embargo colpisce però la vera
ricchezza dell’Iran: il petrolio.

«Prima dell’inizio del contenzioso
sul nucleare, gli Stati Uniti hanno cercato di penalizzare l’Iran a più riprese.
Nel 1996 approvarono la legge Ilsa
(Iran and Libya Sanctions Act). Ancora prima cercarono di interrompere
le relazioni Iran/Europa con la farsa del caso tedesco Mykonos, un attentato di
cui vennero incolpate le autorità iraniane senza uno straccio di prova. Accuse,
sanzioni, misure hanno indotto diverse volte le compagnie energetiche e
petrolifere occidentali come la Siemens, l’Eni, la Total, l’Ansaldo a lasciare
l’Iran per poi ritornarvi. In questi continui tira e molla l’Iran ha imparato a
fidarsi sempre di più di partner di altre parti del mondo, come delle compagnie
provenienti da Malesia, Indonesia, Cina, India, e delle proprie compagnie
private.

Gli Usa da anni vietano la vendita
all’Iran di pezzi di ricambio di aerei e l’Iran ha imparato a procurarseli dal
mercato nero pagando qualcosa in più, o utilizzando compagnie estere come
prestanome.

L’ultima fase riguarda gli otto
anni di governo dell’ (ex) presidente Ahmadinejad, che, mossa dopo mossa, è
riuscito a prevedere i passi dell’Occidente impedendo il collasso della
nazione.

Quando i paesi occidentali
sventolarono la probabilità di interrompere la vendita di benzina all’Iran, lui
cambiò velocemente i sistemi di diverse raffinerie che invece di altri prodotti
iniziarono a produrre il combustibile. Egli applicò, inoltre, il razionamento
della benzina e così non solo rese l’Iran autosufficiente nella produzione, ma
lo trasformò in un esportatore».

Il petrolio iraniano continua ad
essere una carta pesantissima nei rapporti inteazionali del suo paese…

«Certamente. Prendiamo la Turchia.
Ankara può anche pensarla diversamente rispetto all’Iran in questioni come la
Siria, ma sia l’Iran che la Turchia sanno benissimo di essere legati a doppio
filo per via dell’esportazione del gas iraniano, una vera e propria linfa
vitale per l’economia turca senza la quale Erdogan non può nemmeno immaginare
di sopravvivere. Lo stesso vale per Iraq, Repubbliche Centro-asiatiche e
Afghanistan. Con questi paesi ci sono scambi di energia elettrica, con alcuni
stati della regione, come il Kuwait, persino quelli di acqua potabile. Il
Pakistan, entro un anno, con il completamento del “gasdotto della pace”, sarà
collegato a Teheran ed è in fase di studio anche la costruzione di un oleodotto
che colleghi le due capitali. La Cina ha già annunciato il proprio per
l’ampliamento di entrambi i progetti verso il suo suolo, concedendo persino una
linea di credito al Pakistan.

Dall’altra parte c’è un’India che
dipende dal petrolio iraniano in maniera considerevole e che ha più volte dichiarato
di non volervi rinunciare. Nel lontanto est-asiatico ci sono la Corea del Sud e
il Giappone, due alleati Usa che però sono troppo collegati al mercato
iraniano. In particolare la Corea del Sud dipende dal greggio dell’Iran e
rivende una quantità incredibile di automobili ed elettrodomestici nel mercato
iraniano.

Sommando l’Africa, l’America Latina
e alcuni paesi dell’Europa con maggiore indipendenza, l’Iran ha ancora una
buona fetta di comunità internazionale con cui commerciare e trattare. È forse vero
che la popolazione, in questo periodo, ha sentito l’effetto dell’embargo
obamiano in maniera più consistente del passato. In effetti mai era stato
proibito l’acquisto del petrolio e mai era stata boicottata la banca centrale
iraniana, ma anche in questo caso la dirigenza ha trovato le soluzioni. Da
Turchia e India si fa dare l’oro, dalla Cina riceve merce, con ogni nazione ha
trovato la sua formula ideale. Le navi iraniane vanno a vendere il petrolio in
alto mare. Insomma, l’Iran è diventato ancora più forte ed è poco obiettivo
sostenere che sia stato messo in ginocchio dall’embargo. La conclusione è che
oggi la nazione va avanti nonostante le sanzioni. Se qualcuno lo vuole proprio
fuori dai giochi, dovrà pensare a qualcos’altro».

Come reagiscono i giovani iraniani
davanti alle sanzioni che colpiscono il loro paese?

«L’Iran ha un numero elevato di
laureati e specializzati, e il lavoro abbonda per questa generazione dato che
c’è tanto da fare e costruire. Per questo la quasi totalità dei giovani si
impegna e dà vita a quello che, senza esagerazioni, bisogna chiamare il “prodigio
tecnologico e scientifico” dell’Iran.

Nel 2012 le organizzazioni
inteazionali hanno proclamato l’Iran la nazione al mondo con il più veloce
progresso scientifico dato che il numero di pubblicazioni di studiosi iraniani,
nel giro di 10 anni, era aumentato di 11 volte. Oggi, nella regione, la nazione
supera pure la Turchia e ha ottenuto il primato. Nella classifica mondiale
generale è al 14esimo posto secondo alcune classifiche, al 17esimo secondo
altre. E questo non è l’identikit di una nazione isolata.

Una nazione che clona gli animali,
che manda nello spazio i suoi satelliti autonomamente, che padroneggia la
tecnologia nucleare, che vince l’Oscar con i suoi film, che eccelle pure nelle
discipline sportive, o non è isolata, o come minimo ha saputo reagire bene a
tutti i tentativi di isolarla».

Nel novembre 2012 Barack Obama è
stato rieletto presidente degli Stati Uniti. Vede, in prospettiva, un
cambiamento di linea politica nei vostri confronti?

«È inutile nascondere che Barack
Obama, con tutta una serie di azioni di basso profilo, sta cercando di
preparare al meglio una vera e propria guerra all’Iran. Al contrario della sua
parvenza pacifica, Obama ha imposto contro il nostro paese le sanzioni più dure
della storia, ossia il divieto di acquisto del petrolio, nostra principale
fonte di reddito, e poi il boicottaggio della Banca centrale iraniana. Per
essere chiari, sono misure che distano solo un passo dalla guerra vera e
propria. Questo l’Iran lo ha capito e non a caso nei mesi scorsi autorità
politiche e militari di Teheran hanno informato che sarebbero pronte a chiudere
lo Stretto di Hormuz nel caso di un’aggressione militare. Attraverso questo
stretto passa gioalmente qualcosa come il 40% del greggio mondiale ed è
naturale che basterebbe una chiusura anche temporanea per far schizzare a cifre
impensabili il suoprezzo. Naturalmente ne conseguirebbe un contraccolpo
economico spaventoso che l’Occidente – già oggi alle prese con una pesantissima
crisi – non sarebbe in grado di assorbire. 
Obama è il paziente stratega che nel corso di anni ha preparato l’azione
finale contro l’Iran1». 

Quali sono i legami tra la guerra
civile in Siria e le minacce all’Iran?

«Come ho spiegato prima non credo
che i venti di guerra contro l’Iran si siano placati ed anzi, in Siria, gli Usa
hanno scelto probabilmente di combattere una guerra per procura anche contro
l’Iran. Loro stanno agendo per conto di Israele, che in pratica considera
nemica la Siria solo per il fatto che Damasco rivendica la proprietà delle
alture del Golan, zone effettivamente siriane occupate da Israele con la “Guerra
dei Sei giorni” (1967).

Come ha fatto notare alle Nazioni
Unite il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, l’accanimento contro la
Siria è dovuto all’alleanza di Damasco con l’Iran. È notorio che nei primi mesi
del conflitto in Siria, ad Assad era giunta una proposta da parte
dell’Occidente: l’alleanza con il suo governo in cambio dell’interruzione delle
relazioni con l’Iran.

Il motivo è semplice. L’alleanza
non solo politica ma anche militare dell’Iran con la Siria, l’Iraq e il Libano,
rende di fatto impensabile per l’Occidente un’azione ai danni di Teheran. Perché
– con la collaborazione di questi alleati – l’Iran potrebbe colpire
tranquillamente e dolorosamente sia Israele che le basi Usa e Nato nel
Mediterraneo e nel Golfo Persico».

Dunque, secondo lei, la guerra in
Siria è soltanto un tassello di una partita contro l’Iran che vede in campo
numerosi attori. È così?

«Arabia Saudita e Qatar hanno
voluto creare una “primavera” fasulla in Siria per evitare che si sviluppasse
la primavera autentica che si stava creando e che c’è ancora nei loro
territori. L’est dell’Arabia Saudita, la regione di Qatif, ed il Bahrain sono
da oltre due anni teatro di moti popolari anti-monarchici e l’Arabia Saudita ha
cercato di soffocarli nel sangue. In più ha sguinzagliato estremisti religiosi,
criminali comuni, e terroristi provenienti da diverse nazioni arabe in Siria,
nella speranza che questa fasulla “primavera” potesse allontanare l’attenzione
mondiale e le forze che contano nella regione dai suoi territori. Poi c’è la
Turchia che si è lasciata ingannare dalle promesse di “potere” fattele dagli
Usa. Il ministro degli Esteri turco Davutoglu è un teorico del pensiero
neo-ottomano2, che crede nella possibilità di
ridare vita all’Impero Ottomano di un tempo. Per questo si notano, nell’ultimo
periodo, le politiche aggressive di Ankara non solo nei confronti della Siria,
ma anche dell’Iraq. In più non bisogna ignorare gli sforzi della Turchia, negli
ultimi anni, di proporsi come un modello per tutte le nazioni del Nordafrica e
di improvvisarsi come un sostenitore sincero persino per la Palestina. In
questo senso anche il Qatar ha cercato di avvicinarsi ai palestinesi.

Purtroppo Davutoglu ha letto la
storia a metà e non si ricorda che uno dei motivi che portò l’Impero Ottomano
alla rovina furono le sue guerre contro l’Impero Persiano. Oggi, stiamo
assistendo ai famosi corsi e ricorsi storici teorizzati da Giambattista Vico.
Nella regione mediorientale ci sono due potenze emergenti, Iran e Turchia, ed
il bene di entrambe sarebbe cornoperare. Già una volta, in passato, questi due
centri di civiltà caddero in rovina, dato che attori stranieri riuscirono a
creare divergenze tra di loro. L’Iran comprende benissimo questa situazione e
lo ha dichiarato più volte. Ahmadinejad disse chiaramente che “certi paesi
saranno importanti per l’Occidente fino a quando ci sarà un governo
indipendente a Damasco. Se questo governo crollerà, altri paesi della regione
non varranno più nemmeno un fazzolettino di carta e toccherà a loro essere
attaccati”.

La Turchia non si accorge che dopo
Siria e Iraq, ammesso che in questi due paesi crollino gli attuali governi
indipendenti, l’obiettivo sarà proprio Ankara. In generale si può dire che
l’azione contro la Siria è l’inizio di tutta una serie di azioni successive.
Probabilmente contro l’Iraq, contro la Turchia stessa, e – perché no? – anche
contro l’Arabia Saudita.

Dopo aver disegnato una nuova
cartina della regione, gli americani cercheranno probabilmente di sferrare il
colpo finale anche contro Teheran. Per loro l’Iran è importante per due motivi
basilari. In primis, esso è il punto, probabilmente l’ultimo autentico, di
forza del mondo islamico: senza l’Iran sarebbe credibile la previsione di
Samuel Huntington3 che dava per condannata alla
scomparsa la civiltà islamica. In secondo luogo, è l’ultima tappa che precede
il grande duello, teorizzato da Huntington e altri, tra civiltà occidentale e
civiltà confuciana, cioè tra Usa e Cina».

Il neo-salafismo è un fenomeno in
crescita, costituendo una reale minaccia per molti Paesi.

«Credo che il neo-salafismo sia
frutto del pensiero di alcuni paesi arabi, Arabia Saudita in primis, che ha
cercato in qualche modo di salvarsi dalla morte. Spiego perché. Nel 1979,
quando in Iran vinse la rivoluzione islamica guidata dall’Imam Khomeini,
l’intero mondo islamico rimase a guardare stupito quella novità: quell’Islam
che voleva riportare in vita gli insegnamenti degli albori del profeta e che
non era corrotto, laico o occidentalizzato come quello di altre nazioni.

L’Islam iraniano ha veramente
rivoluzionato la scena politica della regione. È inutile negare che la regione
mediorientale del 1970 è molto differente rispetto a quella del 2000 e ciò
soprattutto per merito dell’Iran. Una nazione che nonostante l’aggressione
dell’Iraq di Saddam, nonostante le sanzioni e nonostante il “no” grande e grosso
detto sempre a Usa e Israele, ha costruito la sua fortuna contando sulla forza
della sua gente. Se tutte le nazioni della regione e persino in Europa
comprendessero che, per essere una nazione forte e indipendente, e non c’è
bisogno di essere sudditi di una qualsiasi potenza del momento, gli Usa
perderebbero il dominio su tante nazioni del mondo».

Ma a chi giova la diffusione del
fondamentalismo salafita?

«L’estremismo islamico è nato come
pensiero alternativo e alternativa politica al pensiero sciita iraniano. Per
questo gli Usa, con la cooperazione di Arabia Saudita e servizi d’intelligence
di altri paesi, hanno inventato i talebani, i salafiti, i gruppi di combattenti
estremisti.  Questi gruppi sostengono di
essere rivoluzionari, di combattere contro l’ingiustizia, contro le dittature,
certe volte anche contro gli stranieri, ma sono manovrati e gestiti proprio da
loro. Essi, tra l’altro, non possono nemmeno essere definiti islamici perché  l’Islam ha una radice che significa “pace” e
loro uccidendo persino musulmani di altre confessioni (sciiti, sufi, ecc.)
hanno dimostrato di non essere assolutamente degni di tale appellativo.

I gruppi estremisti salafiti,
impiegati in Libia, e poi esportati in Siria, e strumentalizzati pure in Mali,
hanno una duplice funzione: 1) sono strutture che possono arruolare giovani
ignoranti e poveri nei paesi arabi, impedendo loro di trovare vere vie di
liberazione dei propri paesi. In questo modo si garantisce la forza delle
monarchie filo-occidentali come quella saudita. 2) Questi gruppi hanno ai loro
vertici agenti della Cia, del Mossad e dell’MI6 o sono comunque molto vicini ai
servizi occidentali. Per questo possono essere usati e strumentalizzati per
giustificare azioni militari.

In pratica gli Usa formano queste entità
e le mantengono più o meno attive per impedire che nel mondo islamico si
formino autentiche forze rivoluzionarie. In più, possono usare questi “falsi
islamici” per azioni di terrorismo che poi servono per giustificare le campagne
militari di conquista». 

Qual è il ruolo di Arabia Saudita e
Qatar nell’attuale scenario mediorientale?

«Arabia Saudita e Qatar sono due
monarchie traballanti e sanno molto bene che mantenere un simile sistema di
governo nella regione del Golfo Persico tra popolazioni musulmane è tutt’altro
che semplice.

È noto che dopo il crollo
dell’Impero Ottomano, gli inglesi cercarono di costruire su modello della
Corona inglese degli imperi nella regione ed oggi in nazioni come Arabia
Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati, Oman, Giordania osserviamo più o meno la
stessa cosa.

L’Arabia Saudita, storicamente, ha
sempre cercato di impedire l’ingresso di onde modeizzatrici nel suo
territorio e nelle nazioni circostanti. A questo ruolo dei sauditi si è unito
quello svolto dal Qatar. Entrambi i paesi cercano di alimentare l’estremismo
salafita per salvaguardare la propria monarchia. Infatti, in una situazione di
normalità e assenza di conflitti nella regione, la situazione in Arabia Saudita
sarebbe difficilmente sostenibile. Già oggi le regioni orientali sono quasi
gioalmente teatro di proteste.

Le donne hanno una condizione
insostenibile; nonostante i grandi introiti petroliferi la povertà in Arabia
Saudita è a livelli allarmanti, molte città non hanno nemmeno la rete fognaria;
a Mecca e Medina, negli ultimi 25 anni, il 90% dei luoghi sacri islamici sono
stati distrutti. I prigionieri politici sono oltre 30 mila, la gente inizia ad
essere insoddisfatta anche delle politiche della monarchia che risulta sempre
più una pedina degli Usa nella regione.

Il salafismo è la risposta che
queste monarchie oscurantiste e retrograde danno. Facciamo attenzione perché
stanno tentando di diffondere in diverse regioni del mondo l’azione di questo
pensiero: Turchia, Qatar e Arabia Saudita stanno cercando di impiantare reti
salafite anche in Europa e in zone remote del globo, come in alcune aree della
Cina.

Obiettivamente però credo che pure
Arabia Saudita e Qatar avranno una loro data di scadenza e, dopo aver svolto il
proprio compito, verranno riciclati dagli stessi alleati occidentali. Si veda
il comportamento del Qatar: compra di quà e di là nel mondo, credendo così di
ipotecare per sé una sorta di stabilità, ma si sbaglia di grosso. Come accadde
a Gheddafi, quando i suoi averi all’estero faranno abbastanza gola, si troverà
un bel pretesto per attaccarlo e toglierglieli. La scusa potrebbe essere quello
stesso salafismo che oggi il Qatar sostiene in Siria».

L’Iran non ha la bomba nucleare, ma
le attività di arricchimento dell’uranio a scopi pacifici proseguono. Possiamo
definire il Paese, «potenza nucleare»?

«Nel periodo della guerra fredda, “potenza
nucleare” si diceva di una nazione che possedeva la bomba.

L’Iran non possiede la bomba e
sbaglierebbe di grosso a possederla. Per questo la Guida suprema della nazione,
l’Ayatollah Khamenei, ha persino emesso un editto religioso, una Fatwa,
che proibisce la fabbricazione di armi nucleari.L’Iran sa benissimo di potersi
difendere senza bisogno di armi nucleari. Il nucleare è visto soltanto come
un’opportunità per produrre energia elettrica in abbondanza e dare inizio a un
grande progresso economico e industriale.

Con la sua giovane popolazione di
77 milioni di persone, il paese mira a raggiungere il benessere generalizzato
nei prossimi anni. Oggi sfrutta al minimo tantissime opportunità e potenzialità
economiche esistenti al suo interno. Un territorio immenso dove si continuano a
costruire con un ritmo frenetico dighe, edifici, dove vengono inaugurati
progetti di ampliamento, industrie, fabbriche. La vera “potenza nucleare”
dell’Iran è la vitalità, il livello di cultura e la forza di un popolo che sta
attraversando passo dopo passo la via del progresso. L’Iran oggi è ancora
dipendente dal suo petrolio, ma anche solo usando il suo turismo – è tra i
paesi dove si trovano il maggior numero di reperti storici del Patrimonio
culturale mondiale -, potrebbe ottenere guadagni ingenti.

Pochi infine sanno che con
l’allentamento delle sanzioni l’Iran potrebbe svolgere il ruolo di hub aereo
della regione e crocevia del trasporto di passeggeri e merci. È anche il
tragitto ideale per far passare gli idrocarburi del Mar Caspio e portarli fino
ai mari del Golfo Persico.

A mio avviso, l’Iran diventerà uno
dei paesi maggiormente industrializzati, una delle potenze della regione e
probabilmente del mondo. Gli americani e gli israeliani questo lo sanno e non
vogliono che accada».

I cristiani cattolici hanno un nuovo
Papa, che ha scelto un nome ricco di significati positivi: Francesco. Francesco
d’Assisi è amato per la sua semplicità, la vicinanza agli ultimi e l’amicizia
con il Sultano musulmano. Cosa ne pensa?

«Nel Corano, nel versetto 82 della
sura Al Maeda (o della Tavola Imbandita, la quinta del Corano) si legge questo
consiglio rivolto da Dio ai musulmani: “… e troverai che i più prossimi
all’amore per i credenti sono coloro che dicono: “In verità siamo nazareni”,
perché tra loro ci sono uomini dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna
superbia”.

Il fatto che i cristiani siano
potenziali amici e alleati dei musulmani, è una verità risaputa. Quando
Mohammad, il profeta dell’Islam, era un bambino e accompagnava lo zio in un
viaggio, venne riconosciuto dal monaco cristiano Bahìra a Basra4 che vide in lui i segni citati da Gesù per il profeta
che sarebbe venuto in futuro. Ci sono tanti altri tratti della storia che
potrebbero testimoniare la vicinanza tra Islam e Cristianesimo. Secondo
l’Islam, almeno, tutti i profeti della tradizione ebraica e cristiana, più
altri presentati dal Corano, sono messaggeri di un unico Dio e hanno invitato
tutti a un’unica religione.

Nel mondo di oggi, Papa Francesco
(o qualsiasi altro uomo di religione, veramente amante della pace) può fare
molto per la nostra Terra. Il mondo è così pieno di ingiustizia, corruzione e
male che basta solo fare qualche passo in avanti per poter dare vita a grandi
cambiamenti. Io posso solo sperare che il nuovo Papa si adoperi per la pace e
prego Dio affinché possa guidare al meglio i fedeli cattolici in un mondo che
pare ancora riservarci troppe guerre e ingiustizie». •

Note:

(1) 
Davood Abbasi, Usa/Iran: ecco la guerra che Obama ha scatenato
(italian.irib.ir/analisi/commenti/item/122913).
(2) 
Si veda: Angela Lano, Dossier primavere arabe, Missioni Consolata,
gennaio 2013, reperibile sul nuovo sito web della rivista.
(3) 
Samuel Huntington (1927-2008), politologo statunitense, famoso
soprattutto per la sua tesi sullo «scontro di civiltà».
(4) Gabriel Mandel Khan, Dizionari
delle Religioni
, Islam, Electa, p.26.

 
       1979-2013 – Un  embargo lungo 34 anni                                                       

Contro l’Iran sono in vigore
sanzioni economiche, commerciali, scientifiche e militari. Sono state imposte
dal governo degli Stati Uniti o, sotto la sua pressione, dalla comunità
internazionale attraverso il Consiglio di sicurezza dell’Onu.  Comprendono, tra le altre cose, un embargo
nei rapporti commerciali con gli Usa e un divieto di vendere aerei o pezzi di
ricambio all’aviazione iraniana. Nel 1979, dopo un tentativo di golpe statunitense
per rimettere al potere lo shah Reza Pahlavi, un gruppo di studenti islamici
occupò l’ambasciata Usa a Teheran, tenendo sotto sequestro lo staff
diplomatico. L’allora presidente Jimmy Carter emise un ordine che prevedeva il
congelamento di circa 12 miliardi di dollari di beni iraniani (depositi
bancari, oro e altro), 10 dei quali sono ancora in mano agli Usa.

Nel 1984 le sanzioni aumentarono
dopo l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq (settembre 1980 – agosto 1988),
prevedendo il divieto di vendita di armi, e dei prestiti bancari da parte delle
istituzioni finanziarie inteazionali. Nel 1987, il presidente Usa Ronald
Reagan emise un decreto che proibiva attività di import-export con l’Iran per
qualsiasi tipo di prodotto o servizio .

Durante il governo del presidente
iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani (un conservatore centrista aperto al libero
mercato interno e un moderato a livello di relazioni inteazionali, favorevole
alla distensione dei rapporti con gli Usa e l’Occidente) le sanzioni furono
durissime: nel 1995, il presidente Bill Clinton emise un ordine che proibiva,
prima, le transazioni con le industrie petrolifere iraniane, poi ogni tipo di
scambio commerciale. In quell’anno ebbero dunque termine le relazioni di affari
tra Usa e Iran. Nel 1996, il Congresso Usa approvò l’Atto delle sanzioni contro
Iran e Libia (Ilsa) in base al quale le compagnie petrolifere straniere che
investissero in Iran oltre i 20 milioni di dollari sarebbero state soggette a
penalità, tra le quali il rifiuto del credito da parte di istituzioni
finanziare statunitensi e dell’assistenza bancaria per l’import-export.

Quando fu eletto il presidente
riformista Mohammad Khatami, Clinton alleggerì le sanzioni, ma nel 2001 l’Ilsa
fu rinnovato e ratificato dal presidente George Bush.

Il presidente Mahmoud Ahmadinejad,
eletto nel 2005, riprese l’arricchimento dell’uranio, sospeso in base a un
accordo con Francia, Germania e Gran Bretagna. Da allora gli Usa spingono perché
le Nazioni Unite sanzionino l’Iran sul suo programma nucleare.

Tra il 2006 e il 2010, il Consiglio
di sicurezza dell’Onu adottò le risoluzioni 1737, 1747, 1893, 1929 che
impongono nuove sanzioni o l’inasprimento di quelle già in atto, per punire il
programma nucleare iraniano.

Nel luglio del 2010, il presidente
Barack Obama ratificò il «Comprehensive Iran Sanctions, Accountability and
Divestment Act»: tali restrizioni comprendono la cancellazione
dell’autorizzazione per l’importazione di articoli di origine iraniana
(tappeti, pistacchi, caviale, eccetera).

Un discorso a parte meritano le
sanzioni in campo bancario. Le istituzioni finanziarie iraniane hanno il
divieto di accedere direttamente al sistema finanziario statunitense. Sanzioni
vennero imposte nel 2006 alla Bank Saderat Iran in quanto accusata di aver
trasferito fondi al movimento di resistenza libanese Hezbollah. Nel novembre
del 2007, altre banche iraniane entrarono nel mirino dell’embargo Usa. Vennero
inserite nella lista speciale dell’Ofac (Office of Foreign Assets Control), che
riguarda nazioni o entità a cui è negato l’accesso al sistema finanziario
statunitense.

Le restrizioni bancarie hanno
costretto cittadini e piccoli imprenditori iraniani a rivolgersi al mercato
hawala*, per bypassare l’embargo e portare avanti le proprie transazioni
economiche e finanziare. •

(*) Si tratta di
un sistema alternativo e informale di trasferimento della valuta basato su un
network di brokers. È diffuso in Africa, India e Medio Oriente.

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Angela Lano




2. Iran: Sunniti  e Sciiti

Tabella sintetica di paragone tra Sunniti e Sciiti

SUNNITI

Profeta
– Muhammad
(nome completo: Abu- l-Qasim Muhammad ibn ʿAbd Allah ibn ʿAbd al-Muttalib al-Hashimi) nacque
a Mecca intorno al 570 d.C. e morì a Medina nel 632. Era parte del clan
hashimita della potente tribù araba dei Quraysh. Fu il Profeta e il fondatore
della religione musulmana, secondo la tradizione islamica, incaricato da Dio
(Allah), attraverso l’angelo Gabriele (Jibril), di diffondere la sua Parola (il
Corano) tra gli Arabi, allora politeisti.

Nascita
sunniti
– È la corrente che si formò dopo la morte del
profeta Muhammad tra coloro che appoggiarono la nomina a califfo (khalifa,
vicario, successore) di Abu Bakr, uno dei primi compagni, convertiti all’Islam
e uno dei suoceri di Muhammad (era il padre di ‘Aisha, la giovane e battagliera
sposa). I sunniti sono i seguaci della sunna (pratica, tradizione)
secondo quanto raccontato dai compagni del Profeta (sahaba) negli ahadith
(hadith, al singolare), detti e fatti di Muhammad. Essi si considerano
il ramo ortodosso dell’Islam.

Diffusione
– La maggior
parte dei musulmani sono sunniti. Circa l’80% del totale.

Tradizione
– I sunniti,
chiamati anche Ahl al-Sunna, credono che la sunna del Profeta –
di cui sono parte, insieme al Corano, la collezione di ahadith – debba
essere seguita come esempio da tutti i musulmani. Gli ahadith, decine di
migliaia, riportati da amici e compagni della prima ora, furono scelti da
ricercatori e storici dei secoli XI e XII, sulla base di criteri di affidabilità
in una isnad (catena di trasmissione) che doveva arrivare, a ritroso,
fino a Muhammad. I sunniti accettano solo detti riferiti esclusivamente dal
Profeta e non dei suoi discendenti.

Clero
– Non c’è un
vero e proprio clero. Chiunque, preparato islamicamente, può essere un imam,
cioè colui che guida la preghiera, il culto, o essere chiamato shaykh.
Il mondo arabo sunnita brulica di shuyukh (plurale di shaykh),
perché è sufficiente essere benestante, o anziano, o avere un ruolo di
visibilità e responsabilità in gruppi, associazioni, comunità, o nella società,
per ottenere tale titolo onorifico, in segno di rispetto o deferenza. Sono
invece i saggi, gli studiosi (‘ulema’, mufti, mullah) che dominano il
discorso religioso con le loro prediche, in particolare su internet o in
televisione.

Imam
– È colui che
guida la preghiera, cioè colui che sta davanti ai fedeli e conduce il culto; e
i quattro fondatori delle scuole giuridiche. Il titolo imam era usato
parallelamente a quello di Khalifa.

Testi
sacri
– Sono il
Corano e gli ahadith.

Religione
e politica
– Secondo i
sunniti stato e religione non sono separabili.

Scuole
di giurisprudenza
– I sunniti
prevedono scuole (madhhab, strada, cammino) di giurisprudenza (fiqh),
che seguono le linee di quattro grandi pensatori: malikita, shafi’ita,
hanbalita
e hanafita. Tali scuole giuridiche si formarono entro il
XII secolo: il sunnismo segue un pensiero fermo a quella epoca, con alcune
riforme apportate nei secoli successivi, fino al riformismo islamico
dell’Ottocento-Novecento, quello che portò poi alla formazione del neosalafismo
e del fondamentalismo in generale. Nell’elaborazione delle leggi del diritto
islamico i sunniti praticano il taqlid, inteso come accettazione,
imitazione, emulazione.

Celebrante
– Il
predicatore, khatib, sta in piedi su un pulpito, minbar.

Moschee  – Sono costruzioni semplici e austere. A parte quelle del
passato di architettura arabo-islamica o ottomana.

Pilastri
del culto – Per i sunniti
sono 5: 1) la testimonianza di fede, al-shahada; 2) la preghiera
rituale, al-salah; 3) l’elemosina canonica, al-zakah; 4) il
digiuno durante il mese di Ramadan, sawm o siyam; 5) il
pellegrinaggio a Mecca almeno una volta nella vita, hajj.

Professione
di fede (shahada)
– Si ripete la
formula: «Testimonio che non c’è divinità se non Iddio, e Muhammad è il suo
Profeta». Questa frase è ripetuta anche durante il richiamo alla preghiera, l’adhan.

Atteggiamento
nella preghiera
– I credenti
eseguono le preghiere con le mani congiunte all’altezza del diaframma, e su un
tappeto. Stanno l’uno vicino all’altro, e alla fine del ciclo di orazioni,
girano il capo a destra e poi a sinistra.

Donne
–  Il ruolo delle donne e quello
degli uomini, sia nelle società sciite sia in quelle sunnite, differisce in
molti aspetti, e dipende da stato a stato. Alcuni studiosi prevedono lo jihad
al-Nikah
(un «matrimonio temporaneo per il jihad»): tale pratica
legittima la partecipazione femminile al jihad attraverso il proprio
corpo offerto ai jihadisti impegnati nelle guerre contro i nemici. (In
realtà, a fronte di qualche decina di ragazze che si offrono volontarie,
sperando nella ricompensa del paradiso, tale pratica è usata per legittimare
decine di migliaia di stupri commessi – ad esempio – ai danni di bambine e
ragazzine siriane sia in Siria che nei vari campi profughi).

Velo
islamico
–  L’uso del velo per le donne
musulmane è obbligatorio sia nel mondo sunnita sia nel mondo sciita, in base ai
versetti di due sure del Corano (XXXIII, 59 e XXIV, 31).

Feste
– I sunniti
celebrano solo due feste: Eid al-Fitr, che segna la fine del mese di
digiuno, Ramadan, e la Eid al-Adha, festa del sacrificio, alla fine del
pellegrinaggio (hajj) a Mecca.

Cibi
e bevande
– È vietata la
carne di maiale, così come il consumo di alcolici. •

SCIITI

Profeta
– Nessuna
differenza con i sunniti sulla figura di Muhammad.

Nascita
sciiti
– Da shiʿa, shi‘at ‘Ali, «partito di ‘Ali», cugino e
genero di Muhammad. Si costituì, secondo la tradizione sciita, nel giorno di Ghadir
Khum
, quando Muhammad alzò la mano di ‘Ali mostrando che lui sarebbe stato
il suo successore (khalifa) nella direzione della comunità islamica, umma.
Gli sciiti credono che il califfato spettasse a ‘Ali e che gli fu ingiustamente
sottratto con la nomina di altri tre successori, prima di lui – Abu Bakr, ‘Omar
e ‘Uthman – che loro non riconoscono. Costituiscono il secondo gruppo
dell’Islam.

Diffusione
– Il
10-15% dei musulmani è costituito da
sciiti delle diverse correnti (duodecimana, la principale, e poi ismaelita,
zaidita). Lo sciismo (si veda la cartina) è diffuso in Iran (la
maggioranza della popolazione), Iraq (un terzo della popolazione musulmana),
Pakistan (20%), Arabia Saudita (15%), Bahrein (70%), Libano (27%), Azerbaigian
(85%), Yemen (50%), Siria, Turchia, e in altre parti del mondo, compreso
l’Occidente.

Tradizione
– Sono chiamati
Ahl al-Bayt, la gente della Casa. Anche loro seguono gli ahadith,
ma accettano anche detti di discendenti del Profeta.

Clero
– Ha un clero
organizzato, preparato in università specifiche di scienze islamiche o nelle hawza
(scuole teologiche). Per diventare shaykh c’è bisogno di una cerimonia,
mentre, per salire nella gerarchia, il credente deve continuare a studiare, fino
a diventare mullah e poi ayatollah. Nello sciismo l’ayatollah
(ayatu-l-Lah, segno di Dio) è considerato il più alto dignitario del
clero. È un titolo conferito a coloro che hanno ottenuto meriti, sia per
proclamazione che per nomina da parte di un altro ayatollah. Per
diventare ayatollah, oltre agli studi specifici e una grande conoscenza
della religione, il fedele deve essere un discendente diretto di Muhammad.

Imam
– L’imam
è colui che deve guidare la religione in assenza del Profeta. Per i Duodecimani
sono 12 gli imam, tutti discendenti di Muhammad, e dotati di
infallibilità. Il 12° imam è l’imam occulto, il Mahdi. Quello
dell’imamato è un concetto-chiave che distingue sciiti da sunniti.

Testi sacri – Come i sunniti, con un’estensione
per gli ahadith.

Religione
e politica
– Gli sciiti hanno una tradizione di
indipendenza dei leader religiosi rispetto a quelli politici. Tuttavia, lo
stato è soggetto al clero, il quale monitora e decide se un governante è degno
di governare e se rispetta le linee guida islamiche.

Scuole
di giurisprudenza
–  La maddhab sciita è la jafarita,
ma ce ne sono molte altre, e ogni credente segue le scuole che ritiene meglio,
senza imposizioni preordinate. Lo sciismo non accetta l’imitazione di giuristi
morti, ma segue quelli in vita. Inoltre, i saggi/studiosi sciiti di scienze
religiose divergono dai loro colleghi sunniti perché danno molto più peso
all’esercizio della ragione e dell’intelletto. Per esempio, al posto del qiyas
(una delle fonti del diritto musulmano, usul al-fiqh, che si basa sul
principio di analogia per induzione, analizzando casi simili), gli sciiti usano
lo ‘aql o ijtihad, «raziocinio individuale». Rappresenta lo sforzo di
riflessione che gli ‘ulema’ (scienziati, studiosi di scienze islamiche)
o i mufti (accademici islamici cui è riconosciuta la capacità di
interpretare la legge, la shari‘a) intraprendono per interpretare le
fonti della legge (usul al-fiqh) e formare opinioni legali qualificate,
dando regole al fedele e informandolo sulla liceità o meno di un’azione.

Celebrante
– Il
predicatore sta in piedi di fronte alla comunità.

Moschee
– Le moschee
sciite sono decorate finemente, esteticamente accoglienti e attraenti. Si
confronti una qualsiasi moschea dell’Arabia Saudita con quelle di Teheran o
Isfahan, capolavori di bellezza e arte.

Pilastri
del culto
– Nello sciismo
duodecimano ci sono 10 pilastri, chiamati «ausiliari della fede» (furuʿ al-din): 1) al-salah (in
persiano, namaz); 2) sawm; 3) al-zakah (2,5% della
ricchezza; non prevede donazioni in denaro, ma in oro, grano, animali,
prodotti); 4) khums, una tassa annuale del 20% circa del reddito da
donare agli imam e ai bisognosi; 5) hajj; 6) jihad, la lotta
sulla via di Dio (ce ne sono di molte tipologie); 7) amr-bil-Marouf,
incoraggiare, prendere parte a ciò che è buono; 8) nahi anil munkar,
rigettare, proibire ciò che è male; 9) tawalla, esprimere l’amore per il
bene (per gli amici di Dio, i suoi Profeti, coloro che desiderano e sostengono
la giustizia, la verità); 10) tabarra, esprimere odio e rifiuto per il
male (verso i nemici di Dio, dei Profeti e dell’Umanità, e verso gli
oppressori).

Professione
di fede (shahada)
– Gli sciiti
aggiungono «e ‘Ali ibn Abi Talib è amico di Dio».

Atteggiamento
nella preghiera
– Gli sciiti
pregano con le mani in parallelo rispetto al corpo, davanti alle cosce. La
preghiera è realizzata con l’ausilio di una pietra (turbah) su cui va a
posarsi la fronte, nella genuflessione sopra il tappeto. Essa termina
pronunciando tre volte il takbirAllahu akbar», Dio è il più
grande).

Donne
– Per gli
sciiti, due donne sono considerate come modello per tutte, e hanno un ruolo
particolarmente importante: Fatima Zahra (figlia del profeta Muhammad, moglie
di ‘Ali e madre di Hasan e Hussayn) e Zaynab, la figlia di ‘Ali e Fatima. Nel
mondo sciita è permesso il mut‘a: matrimonio a tempo tra un uomo e una
donna non sposata. Il matrimonio, siglato attraverso un contratto e il
pagamento di una somma di denaro a compensazione, può durare da qualche ora a
anni. In realtà si tratta di un’istituzione pre-islamica, condannata dagli ayatollah
iraniani e avversata dal sunnismo che la considera al pari della prostituzione.
Il mut‘a viene riconosciuto come una sorta di salvacondotto legale per i
rapporti sessuali non finalizzati alla procreazione (prevista all’interno del
matrimonio permanente).

Velo
islamico
–  Cambia soltanto il nome e la
tipologia. Ad esempio, in Iran è diffuso lo chador, un manto che copre
tutto il corpo.

Feste
–  Gli sciiti festeggiano anche: Mawild,
l’anniversario della nascita del Profeta, della figlia Fatima e di tutti e 12
gli imam; l’Eid al-Ghadir, per ricordare la nomina di ‘Ali come
successore di Muhammad; la morte di tutti gli imam, e in particolare Ashura,
in cui viene ricordato il martirio di Hussayn a Karbala. Quaranta giorni dopo Ashura
c’è la festa di ‘Arba‘iyn, a ricordo della visita dei suoi familiari al
sepolcro.

Cibi
e bevande
– Non ci sono
differenze con il sunnismo. •

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Angela Lano




1. Iran: L’ayatollah e il presidente

L’enigma Iran (dopo le elezioni di giugno). La teocrazia sciita: una lettura
alternativa.


di Angela Lano, orientalista

I «cattivi» hanno un nuovo leader

«Sono
felice che finalmente il sole della razionalità e della moderazione
torni a brillare in Iran», così ha esordito, sorridendo, il neopresidente della
Repubblica islamica dell’Iran, esprimendo il desiderio che l’Occidente assuma
verso il suo paese un atteggiamento diverso dal recente passato, «basato sul
reciproco rispetto e sull’equità».

Dal 15 giugno lo «Stato canaglia» (secondo la
definizione Usa) ha dunque il suo nuovo 
presidente, il settimo (l’11° se contiamo i tre ad interim): è il
clerico sciita Hassan Rohani, colto, poliglotta, conservatore moderato ma
aperto a nuove relazioni con l’Occidente. È stato eletto al primo mandato,
diversamente da come molti si aspettavano, con la maggioranza assoluta dei
voti, raccolti sia tra i sostenitori della linea riformista sia tra i
conservatori.

L’esclusione, da parte della Guida suprema ’Ali
Khamenei, della candidatura, tra le altre, dell’ex presidente Ali Akbar Hashemi
Rafsanjani, una figura carismatica (ancorché controversa) che avrebbe
probabilmente attratto molte preferenze, ha favorito l’unico rappresentante dei
moderati.

Lo slogan di Rohani è stato: «Moderazione, razionalità e
acume» ed evidentemente è risultato vincente rispetto a quello di altri
candidati, conservatori e piuttosto popolari, come il sindaco di Teheran,
Mohammad Baqer Qalibaf, o l’ex ministro degli Esteri, Ali Akbar Velayati.

L’embargo, e i suoi drammatici effetti sulla vita
economica e sociale del paese, e il boicottaggio internazionale, le sanzioni,
la propaganda occidentale, che descrive l’Iran come una nazione di folli,
saranno tra le questioni principali che il nuovo leader dovrà affrontare, in
quanto centrali per gran parte della popolazione. Nel frattempo, egli ha già
incassato i commenti positivi della Casa Bianca, e soprattutto dichiarazioni di
disponibilità a «impegnarsi con il nuovo governo iraniano per trovare una
soluzione diplomatica sul fronte del nucleare». Anche dall’Europa non sono
mancati commenti favorevoli e di apertura.

Una
società vivace e dinamica

La vittoria di Rohani è stata salutata con entusiasmo
dai sostenitori delle linee riformista e moderata, che vedevano in Khatami,
Karrubi, Rafsanjani, Mussavi dei leader che avrebbero potuto garantire al paese
un’apertura verso la comunità internazionale e un allentamento del controllo
esercitato dal clero, che – per una parte della società iraniana – rappresenta
un motivo di tensione sociale e malcontento.

Gli iraniani non sono, infatti, una massa monolitica e
uniforme, orientata in modo unidirezionale. Si possono trovare tante idee
diverse, sentimenti, bisogni, storie e speranze. Le giovani generazioni, colte,
poliglotte, vogliono poter viaggiare per il mondo, lavorare e fare carriera, e
anche divertirsi. Diversi di loro contestano le rigidità morali e religiose del
regime e vorrebbero più concessioni e più aperture, soprattutto in tema di
relazioni interpersonali, tempo libero, e di comunicazione virtuale  – internet e i social network, che –
dopo la rivolta del 2009 (scatenatasi dopo la rielezione del presidente
Ahmadinejad) – hanno subito un giro di vite, con censure, filtri e controlli.

«In Iran – ci spiega Ali Reza, ricercatore
italo-iraniano di studi geopolitici -, le università sono il luogo prediletto
della militanza, e il clima, al contrario di quello che si pensa, è molto
dinamico. Proprio qualche tempo fa ho potuto constatare come negli atenei vi è
una vivacità politica dei giovani, simile a quella che c’era in Italia negli
anni ‘60 e ‘80. Nelle università iraniane e negli ambienti della militanza
giovanile c’è veramente di tutto. Senza ombra di dubbio l’ambiente più libero
per il dibattito politico in Iran è l’università. Ricordo, addirittura, che
qualche anno fa fu organizzato un concerto di un gruppo heavy-metal nell’auditorium
dell’Università di Teheran. Il tutto ovviamente era illegale, ma si fece
ugualmente. Mi faceva sorridere molto l’immagine dell’imam Khomeini e della
Guida attuale, ayatollah Khamenei, che sovrastava l’ingresso
all’auditorium, con i metallari che lepassavano sotto. Anche questo è l’Iran,
un paese strano. Per ciò che riguarda la libertà religiosa devo dire che in
Iran, in base alla Costituzione, oltre all’Islam (anche sunnita), sono
ufficialmente riconosciute le comunità cristiane, ebraiche e zoroastriane. A
Teheran vi sono diverse chiese. Questo paese, senza ombra di dubbio, non è
retto da un sistema liberaldemocratico, ma il fatto che lo stato sia islamico
non vuol dire per forza che viga un regime talebano».

«Perché vi facciamo paura?»

Quella iraniana è una società accogliente e cordiale,
con un alto livello scolastico, orgogliosa della propria antica civiltà.
L’immagine che si ha viaggiando per il paese, fermandosi a chiacchierare con la
gente, visitando le sue vestigia storiche, e scoprendo la sua millenaria
cultura, è ben diversa da quella dipinta da molti media italiani e occidentali
in generale, e dal film premio Oscar Argo, una produzione politica
hollywoodiana di mera propaganda, che ritrae gli iraniani come dei pazzoidi
barbuti, violenti e pericolosi.

Le domande più frequenti che essi rivolgono a turisti,
amici e giornalisti stranieri sono: «Perché vi facciamo paura?», «Perché ci
odiate?», «Perché ci avete messi sotto embargo?», «Perché pensate che abbiamo
intenzioni belliche nei vostri confronti?».

Vogliono capire, nel modo curioso e simpatico che li
contraddistingue, le ragioni di tanto livore e sfiducia nei loro confronti.
Ragioni a cui non è affatto estranea la controversa «questione nucleare», molto
enfatizzata negli Usa e in Israele e seguita a ruota dall’Europa, e che il
nuovo presidente dovrà affrontare.

Il nucleare, Israele e il mondo 

Spiega bene le cause dei timori occidentali Giorgio
Frankel, storico ebreo torinese (morto l’anno scorso), nel suo interessante
libro L’Iran e la bomba: «Il profilo comportamentale di un futuro Iran
nucleare proposto dai media afferma che l’Iran è irrazionale e fanatico, votato
alla distruzione di Israele e alla conquista del mondo, immune da quella
fondamentale logica della deterrenza che anche durante la Guerra fredda ha
assicurato uno stabile equilibrio nucleare a livello globale, e quindi disposto
a subire devastanti contrattacchi nucleari pur di poter lanciare le sue
(future) armi atomiche contro i suoi avversari. (…) Alcune delle
caratteristiche che quel profilo attribuisce all’Iran, come per esempio
l’irrazionalità, la politica estera dominata dal fanatismo ideologico e
l’espansionismo potrebbero essere semplicemente non vere. L’esperienza storica
suggerisce, infatti, che il regime iraniano si muova razionalmente, conduca una
politica estera cauta e pragmatica e non persegua mire espansionistiche».

L’Iran ha deciso di arricchire l’uranio al 20 per cento
per fini civili, per far funzionare, ad esempio, il Tehran Research Reactor
che produce sostanze mediche per i malati. Sia gli Usa e Israele sia l’Europa
hanno spesso accusato il Paese di perseguire la ricerca nucleare per fini
bellici, nonostante le ripetute smentite di Teheran, che ha ricordato che, in
quanto firmatario del Trattato di non proliferazione (Tnp) e membro dell’Inteational
Atomic Energy Agency
(Iaea), è nel diritto di sviluppare tecnologia
nucleare per scopi pacifici.

Il braccio di ferro tra le richieste occidentali,
pilotate dagli Stati Uniti e Israele, e le rivendicazioni del governo iraniano
hanno portato più volte crisi tali da far intravedere alle porte una svolta
militare, con navi da guerra posizionate nel Golfo Persico, sia da parte
americana sia da parte iraniana.

Dal canto loro, sia il regime di Tel Aviv sia i falchi
del Congresso Usa continuano a spingere verso il conflitto, ma senza convincere
per il momento del tutto né Washington né la comunità internazionale.

La guerra intraislamica e la Siria

L’attuale guerra civile in Siria, oltre a voler
abbattere l’ormai difficilmente difendibile (dal punto di vista etico-morale)
regime di Bashar el-Assad, si inserisce nel contesto dei conflitti regionali
volti a indebolire l’Iran e il movimento sciita libanese Hezbollah, alleati di
Damasco, e a destabilizzare i grandi interessi russi e cinesi in Medio Oriente.

Il caos creato dalla guerra civile intra-islamica (fitna,
disaccordo, disputa, fino alla guerra) tra sunniti e sciiti, avversari storici
dai tempi della lotta per la successione (khilafa) del profeta Muhammad
(dal 632 d.C. in poi), risulta funzionale alla nuova spartizione
statunitense-europea del Mediterraneo e Medio Oriente.

Il conflitto interno al mondo islamico sta prendendo
sempre più forza e radicalità, grazie ai continui appelli al jihad
(sforzo interiore sulla via del Bene, e anche, come in questo caso, lotta
militare) contro gli alawiti (setta sciita) al potere in Siria, definiti
kuffar (miscredenti) e rafidi (rinnegati), da parte di
telepredicatori salafiti piuttosto popolari tra le comunità islamiche nei paesi
arabi e anche in Europa.

Leggendo qua e là nei siti arabi o su Fb i tanti appelli
e commenti che istigano al conflitto settario si comprende bene la dimensione
della tragedia in corso e la morte di ogni forma di ragione: giovani e adulti
musulmani sunniti, di origini o convertiti, nel XXI secolo hanno ripreso le
armi (anche solo verbali) per la nuova guerra contro gli «eretici», e a nulla
valgono i discorsi dei loro fratelli più informati o semplicemente più
razionali, che tentano di far capire loro la trappola politica in cui sono
cascati.

Un conflitto di natura geo-politica si è dunque
trasformato in guerra di religione, grazie al ruolo e al sostegno economico e
mediatico-dottrinale di Qatar e Arabia Saudita, stretti alleati di Stati Uniti,
Israele ed Europa.

«Il crollo dell’Urss – aggiunge Ali Reza – non ha
modificato l’obiettivo vero degli Usa nel continente eurasiatico, ovvero
l’accerchiamento geopolitico della Russia (e della Cina). In un contesto del
genere l’Iran ha un ruolo importante, in quanto se la Repubblica islamica si
alleasse con la Russia, gli Usa non riuscirebbero a completare l’accerchiamento
di Mosca da sud, in Medio Oriente, dopo che il crollo del blocco sovietico ha
proiettato la Nato a ovest dei confini russi. Le sanzioni all’Iran promosse
dall’Occidente, quindi, non sono nate, come ufficialmente viene detto, per
evitare che il paese mediorientale arrivi alla bomba atomica (esse infatti
vigevano anche prima che si sapesse del programma nucleare), ma solanto per
creare problemi all’economia iraniana, fomentando il caos sociale nella
speranza di una sommossa popolare».

In questo momento storico, dunque, il progetto americano
di destabilizzazione del Vicino e Medio Oriente è appoggiato, in vario modo e
con consapevolezze diverse, da quel mondo sunnita fondamentalista per cui un «nemico»
esterno è meglio di un «eretico» interno.

Con l’uso della ragione

Tra sunniti e sciiti ci sono basi comuni che poggiano su
Corano e hadith (i detti e fatti del profeta Muhammad) e sviluppi
teologici e giuridici diversi, alcuni quasi contrapposti: oltre alla
fondamentale divergenza sull’imamato (vedi box), esiste anche un
differente peso dato all’esercizio della ragione e dell’intelletto. Gli sciiti,
infatti, usano lo ‘aql o ijtihad, «raziocinio individuale» al posto del qiyas
(una delle fonti del diritto musulmano, usul al-fiqh) che si basa sul
principio di analogia per induzione (cioè l’analisi di casi simili nella
produzione di  leggi), utilizzato dai
sunniti. Dal secolo X, sono prevalentemente gli sciiti a far riferimento allo ijtihad,
mentre i sunniti praticano il taqlid, o accettazione, imitazione, e
principio dell’emulazione.

Se per gli sciiti l’uso del ragionamento individuale, e
la ricerca continua che ne deriva, è causa-effetto di maggiore apertura mentale
e vivacità culturale rispetto ai sunniti (e ai fondamentalisti in particolare),
il vilayat-e faqih  (la tutela dei
giuristi), cioè l’autorità di dirigere e governare nella prosecuzione della «vilayat
degli infallibili Imam» (a sua volta continuazione di quella del profeta Muhammad),
va a istituire le linee costitutive della teocrazia.

Per lo sciismo, infatti, a guidare e governare la società
deve essere un conoscitore dell’Islam, che sarà un Infallibile. Se costui non
dovesse essere presente, saranno gli scienziati, giuristi, islamici a svolgere
tale ruolo. Dovere fondamentale del governo è quello di farsi veicolo e tutore
degli ideali e delle leggi divine.

La teocrazia iraniana

La forma di governo iraniana è oggetto di incomprensioni
e speculazioni, e paragoni con i sistemi politici occidentali. Tuttavia, va
sottolineato che i parallelismi non funzionano, in quanto bisogna tenere conto
di una peculiarità: l’Iran è una teocrazia basata su un sistema elettorale
universale democratico. La religione e il clero detengono il vero potere. Nella
Repubblica islamica lo stato e i suoi funzionari sono sottoposti al potere
religioso: la Costituzione, infatti, prevede un sistema misto di democrazia e
teocrazia. Quest’ultima si basa su un concetto giuridico sciita duodecimano (la
forma di sciismo al potere in Iran), il sopracitato vilayat-e faqih,
ripreso da Ruhollah Khomeini dopo la Rivoluzione islamica del 1979 che scacciò
il regime dello shah Reza Palhavi.

Secondo questo concetto, i giuristi sono gli unici
governanti giusti, in quanto «Dio ha ordinato un governo islamico». Solo gli
esperti in studi religiosi e nella giurisprudenza islamica «possono garantire e
preservare l’ordine islamico e prevenire di deviare dal giusto sentirnero
dell’islam» («Islam and Revolution, Writigns and Declarations of Imam
Khomeini
»).

In base a tali criteri, dunque, anche il presidente
della Repubblica è subordinato all’ordine religioso e alla linea politica
intea ed estera dettata dai Guardiani della rivoluzione, gli ayatollah.

Di per sé, il «piano religioso» non preclude né lo
sviluppo economico né quello scientifico e culturale, e la storia degli antichi
Imperi islamici (ommayyadi, abbassidi, i regni fatimidi, la dinastia Ottomana,
tanto per fare un esempio) lo ha dimostrato, attraverso l’importante e vasto
bagaglio scientifico-filosofico-tecnologico-urbanistico passato all’Europa
Medioevale dal mondo arabo-musulmano.

Nonostante l’embargo

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, l’Iran è la
17ª potenza economica del mondo, e, in base al piano strategico di Tehran
denominato «Iran 2035», nel prossimo ventennio dovrebbe far parte delle prime
sette potenze economiche del mondo. Ci spiega ancora Ali Reza: «Nonostante il
pesante embargo economico e le difficoltà, le statistiche dimostrano che
nell’ultimo ventennio la giustizia sociale è aumentata, così come il benessere
generale. Negli anni ‘80 in Iran c’era un’automobile ogni 27 persone, oggi
invece un’automobile ogni 7. Sull’isolamento politico e diplomatico dell’Iran
bisogna dire che, in primo luogo, la Repubblica islamica è a capo del Movimento
dei paese non allineati, ovvero un gruppo di 120 nazioni. È un paese membro
osservatore del Trattato di Shanghai per la Cooperazione, alleanza eurasiatica
che riunisce Russia, Cina, India e altri paesi di questo agglomerato imponente
di nazioni che vanno dalla Bielorussia all’Estremo Oriente. Entro il 2050
questi paesi, nel loro complesso, produrranno circa la metà del Pil (prodotto
interno lordo), reale e nominale, del mondo intero».

Per lo «Stato canaglia» si profila dunque un presente e
un futuro pieni di sfide che la sua popolazione sembra voler affrontare, e
vincere.•

 
       Hassan Rohani, il presidente                                                                   

Chi è il settimo presidente della Repubblica islamica
dell’Iran? Certamente un ortodosso, ma moderatamente progressista.

A seguito delle elezioni del 14 giugno 2013 Hassan Rohani,
64 anni, è diventato il 7° (11° se si contano gli interim) presidente della
Repubblica islamica dell’Iran. Rohani ha conquistato già al primo tuo il 50,7 per cento
dei voti (18,6 milioni), precedendo il sindaco di Teheran Mohammad Baqer
Qalibaf. Rohani è nato a Sorkheh, nella provincia di Semnan, il 13 novembre del
1948, da una famiglia religiosa. Nel 1972 si è laureato in Legge all’Università
di Teheran, e successivamente ha ottenuto un Master e un PhD alla Glasgow
Caledonian University. Rappresenta il leader della Rivoluzione islamica,
l’ayatollah  Seyyed Ali Khamenei (si veda
box) al Consiglio supremo della sicurezza nazionale. In gioventù aveva preso
parte alle lotte politiche contro lo Shah. Dopo la Rivoluzione islamica del
1979, Rohani fu eletto al Parlamento per cinque mandati consecutivi, fino al
2000, e ricoprì cariche importanti: vice-presidente del Majlis (Consiglio) e
capo dei Comitati di difesa e politica estera. Durante la guerra con l’Iraq
(1980-1988) fu comandante dell’aviazione militare iraniana. Rohani parla
fluentemente inglese, arabo e persiano. Ha scritto oltre un centinaio di libri
e articoli. È stato negoziatore nucleare iraniano negli anni 2003-2005. Nella
campagna elettorale Rohani ha rappresentato riformisti e i moderati; l’altro
candidato riformista, Mohammed Reza Aref, si era ritirato su invito dell’ex
presidente Mohammad Khatami. Rohani ha attratto i voti non solo di quella parte
del paese schierata con riformisti e moderati, ma anche dei cittadini stanchi
degli effetti dell’embargo e dell’isolamento diplomatico del paese. Dei sei
candidati, Rohani era considerato l’unico moderatamente progressista, intenzionato
a liberare i prigionieri politici e a riallacciare i legami con l’Occidente. •

 
       Ayatollah Khamenei, la Guida suprema                                                   

Sopra il presidente della Repubblica c’è il leader
della Rivoluzione islamica. Perché sopra la politica c’è la religione. Questa è
la teocrazia iraniana.

Il leader della Rivoluzione dell’Iran (vali-e faghih-e iran o anche rahbar-e enghelab) è la maggiore autorità
politica e religiosa del paese. Il ruolo fu istituito dalla Costituzione
iraniana in accordo con la Guida dei giuristi islamici, a seguito della
Rivoluzione del 1979, e dal giugno del 1989 è ricoperto dall’ayatollah ‘Ali
Khamenei, che succedette a Ruhollah Khomeini. Il leader supremo è più potente
del presidente della Repubblica. Egli nomina i dirigenti di diversi importanti
incarichi nazionali – militari, governativi, della magistratura, dei mezzi
pubblici di informazione -, orienta la politica estera della nazione e decide
della pace e della guerra. Decide la lista dei nomi dei candidati per le
elezioni del potere esecutivo e legislativo sia a livello nazionale sia locale,
così come nomina 6 dei 12 membri del «Consiglio dei guardiani», una sorta di
Corte suprema, che giudica la costituzionalità delle leggi approvate dal
Parlamento. Il suo potere non può essere messo in discussione, in base al
principio del velayat-e-faqih che
stabilisce la supremazia della religione sulla politica, dell’ambito spirituale
rispetto alle questioni materiali. La Costituzione richiede che il Leader della
Rivoluzione conosca la giurisprudenza islamica, sia giusto e compassionevole,
goda della stima della popolazione. Nella sua storia, la Repubblica islamica
d’Iran ha avuto due Guide supreme: Ruhollah Khomeini e Sayyed Ali Khamenei.

Ayatollah (āyat
Allāh
, segno di Allah). È un titolo onorifico dato agli esponenti di grado
elevato del clero sciita. Si tratta di esperti in giurisprudenza, scienza e
filosofia islamiche. Essi insegnano in hawza,
scuole o seminari islamici. Sotto gli ayatollah ci sono gli hujjat al-Islām (in persiano, hojjatol-eslam, prova o autorità
dell’Islam). Khatami, Rafsanjani e l’attuale presidente Rohani, tra i più noti,
sono hojjatol-eslam.

Gran ayatollah o ayatollah uzma.  È un titolo
garantito a pochi ayatollah, particolarmente seguiti dai fedeli e i cui scritti
sono presi come guida. Un Gran ayatollah è infatti un marja’al-taqlīd, cioè un giurista-teologo dello sciismo duodecimano
che gode di grande autorevolezza nell’esegesi dei testi sacri e che i fedeli
devono imitare.

Le ayatollah. L’Islam sciita contempla
l’esistenza di donne ayatollah, e – anche se in numero ridotto – sono
considerate al pari dei loro colleghi maschi. Sono le mujtahideh. •

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Angela Lano