N.E.2 – Dove la religione diventa irrilevante

Scenari in Europa


Alcune note molto sintetiche per capire la realtà
europea attraversata da profondi cambiamenti di carattere culturale e religioso
dalle conseguenze inedite sulla vita della Chiesa. La religione cristiana non
solo deve competere con le altre religioni, ma è sempre più ridotta alla
dimensione privata, perdendo ogni rilevanza nella vita sociale. Senza una vera
comprensione di questi fenomeni ogni impegno di «nuova evangelizzazione» resta
astratto, non incide nella realtà e rischia di riciclare vecchi schemi e metodi
di annuncio dando loro nomi nuovi, politicamente corretti, che però lasciano
tutto come prima. Sarebbe solo un’operazione di chirurgia estetica, non di vera
evangelizzazione.
Tempo di crisi

Il Sinodo ha identificato come destinatarie privilegiate
della nuova evangelizzazione le chiese di antica cristianità (soprattutto
europee). Questo interpella direttamente noi tutti, cristiani, preti, religiosi
e missionari che, proprio in virtù della nostra vocazione battesimale siamo i
primi annunciatori della Buona Notizia proprio in questa nostra Europa. È
un’occasione buona per riflettere sull’evangelizzazione e accennare alcuni
cambiamenti soprattutto di carattere culturale e religioso, che hanno investito
le nostre nazioni.

Forse, guardandoci intorno, contandoci – diminuiscono i
sacerdoti e le persone impegnate nella vita consacrata, si chiudono o vendono
le chiese e, pur avendo un gran numero di battezzati, chi frequenta e pratica
si ritrova ormai ridotto a una minoranza sempre più emarginata -, aumenta il senso
di smarrimento e di pochezza. E questo ci inquieta. La stessa esperienza di «spiazzamento»
dovremmo provarla nei confronti di un’Europa tanto complessa, plurale e
globale, dove l’accelerazione ha reso il cambiamento non più un moto
temporaneo, ma il vero «il modo di essere» della realtà. Sì, l’Europa sta
cambiando, e se non cerchiamo di capire, continuerà a cambiare anche senza di
noi.

Questa situazione è «un tempo di crisi». Dobbiamo
essee convinti: Dio ci sta parlando proprio oggi, in questo tempo. Cogliere quest’ora
(kairos, tempo della salvezza, tempo di Dio) e rispondervi diventa
quindi essenziale per disceere cosa Dio ci sta chiedendo oggi in
questo nostro continente come persone e comunità evangelizzante.

La crisi è vitale, cioè essenziale per crescere e può
svolgere un importante ruolo educativo: ci fa uscire dal consueto, dal
rassicurante e dal ripetitivo, ci obbliga a prendere coscienza della realtà e a
uscire dalle illusioni, ci obbliga a una lettura sincera e, se necessario,
impietosa di noi stessi e delle scelte finora fatte e priorità che ci eravamo
dati. Dipende molto da come viviamo e gestiamo la crisi.

Ecco alcune caratteristiche del cambiamento e della
crisi in cui viviamo.

Pluralizzazione
dei riferimenti culturali

Oggi in Europa è in atto una tendenza che potremmo
definire come «pluralizzazione progressiva dei riferimenti culturali», che si
articola in vari sotto fenomeni, che è il caso di menzionare, quanto meno nelle
loro definizioni di base.

Il primo è la secolarizzazione che non significa
automaticamente ateismo o incredulità. Alcuni studiosi la definiscono come «il
processo per mezzo del quale il pensiero, la pratica e le istituzioni religiose
perdono significanza sociale». Altri studiosi sostengono che «la
secolarizzazione non spinge via la religione dalla società modea, ma
piuttosto incoraggia un tipo di religione che non possiede alcuna funzione
importante per l’intera società».

Il secondo è il processo di privatizzazione che
accompagna e allo stesso tempo è potenziato dalla secolarizzazione. Mentre
prima l’incredulità era un affare privato, adesso lo diventa la fede, ormai
relegata nell’ambito del tempo libero, da esso limitata e in esso soffocata da
altre priorità.

Terzo aspetto è quello della pluralizzazione delle
offerte
a disposizione: il mercato offre sempre maggiori possibilità di
scelta e di cambiamento. Questo produce anche modi diversi di vivere la
religione e le culture, con appartenenze sempre più deboli, possibilità di
cambiare idea, prodotti, consumi e costumi.

Un ultimo aspetto merita di essere considerato, anche se
non frequentemente collegato ai fenomeni già citati: quella che qualcuno ha
chiamato rivoluzione mobiletica (G. Pollini, Rivoluzione mobiletica e
differenziazione delle relazioni sociali: alcune considerazioni preliminari,

in rivista di Sociologia Urbana e Rurale, v. XVIII, n. 49, 1996, p.
27-43 ), ovvero il fatto che tutto oggi si sposta molto di più e molto più in
fretta: informazioni, denaro, merci, idee, e soprattutto uomini e donne. Le
migrazioni, dunque, che ampiamente contribuiscono ad accelerare e a potenziare
ulteriormente i fenomeni citati.

Migrazioni e cambiamenti

La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in
Europa non è solo un fatto quantitativo, di numeri che possono impressionare e
preoccupare. La presenza di popolazioni immigrate, con diverso background
storico, culturale, religioso e sociale, di fatto, ha prodotto «un’Europa
plurale» molto diversa da quella che abbiamo conosciuto fino ad ora. Di fatto
l’immigrazione produce anche un cambiamento qualitativo. Infatti la
presenza di immigrati non è culturalmente né religiosamente neutra. Gli
immigrati non arrivano «nudi»: portano con sé, nel loro bagaglio, anche visioni
del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali,
immagini e simboli.

Segnali
di un ritorno della domanda religiosa

In controtendenza con il secolarismo, il tracciato
culturale dei nostri giorni vede aumentare la ricerca di senso con l’aiuto
della religione. Si tratta però di una religione essenzialmente autoreferenziale,
sul modello del bricolage, come una strategia fai da te del benessere
individuale, senza investimento nel cammino con gli altri e senza rilievo
sociale. Anche i riti e le pratiche cristiane non vengono rifiutati, ma sono
utilizzati come un repertorio di simboli e di gesti per ritrovare la pace, la
serenità interiore, l’armonia personale, il bisogno di spiritualità. Insomma si
è aperto un grande supermarket del religioso accessibile a tutti anche grazie
all’internet e alla televisione.

Così, nell’attuale panorama religioso, specialmente
europeo, i sociologi della religione parlano di una religiosità basata sull’appartenere
senza credere
e, d’altra parte, su un credere senza appartenere:
all’immagine tipica del praticante fedele e legato alla sua parrocchia succede
quella del «viandante / pellegrino» la cui religiosità è caratterizzata dalla
ricerca delle esperienze più disparate per rispondere ai suoi bisogni di
sicurezza e affetto e avere un orientamento sicuro per la sua vita. [Ovviamente
questo ha poco a che fare con l’immagine del pellegrino presentata dalla Lettera
a Diogneto
che riportiamo a pag. 34, ndr.].


Indifferenza

Dobbiamo fare i conti poi con l’indifferentismo della
maggior parte degli uomini delle nostre società post–cristiane. L’indifferenza
religiosa pone la Chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza
e inutilità. È una sorta di indifferenza generalizzata di chi è deluso
dalla politica e dalle ideologie, di ex-credenti frustrati nella loro attesa di
rinnovamento ecclesiale. Costoro, nella migliore delle ipotesi, si trasformano
in «cristiani a intermittenza», che vivono la pratica cristiana non seguendo il
ritmo tradizionale scandito dalle domeniche e dalle feste liturgiche,
rincorrendo invece eventi occasionali segnati da grandi numeri ed emozioni
(beatificazioni, raduni di movimenti, grandi feste, giornate mondiali) o
marcati da accadimenti sociali tradizionali (funerali, matrimoni), e
privilegiando luoghi come i santuari e le più famose mete di pellegrinaggio a
scapito della partecipazione alla vita della propria chiesa locale
parrocchiale.

La
de-cristianizzazione

Sfida intea, e di non poco conto, può essere
considerata la scristianizzazione o de-cristianizzazione o paganesimo in
Europa. Sembra che il cristianesimo sia sconfitto nell’ambito della vita
quotidiana d’Occidente. L’abbandono della fede è un fatto visibile, che va
oltre il calo della pratica religiosa. Il distacco delle nuove generazioni
dalla Chiesa e dalla sua dottrina è evidente, e le conseguenze di questo
fenomeno non sono prevedibili. Vi è una diffusa dissociazione tra pratica
religiosa e vissuto quotidiano.

Come la Roma antica, l’Europa modea sembra simile a un
pantheon, a un grande «tempio» in cui tutte le «divinità» sono presenti,
o in cui ogni «valore» ha il suo posto e la sua nicchia.

Ne consegue una sorta di «apostasia tranquilla» (di
fatto non si è più cristiani) e il disorientamento da parte della maggioranza
degli europei, in modo particolare tra gli adolescenti e i giovani.

I
Giovani

Di tutto questo clima, soffrono in modo particolare i
giovani. È praticamente impossibile definire in modo univoco e statico la
condizione giovanile europea. Comunque possiamo dire che, in una cultura
pluralista e ambivalente, «politeista» e neutra, i giovani da un lato cercano
appassionatamente autenticità, affetto, rapporti personali, grandezza
d’orizzonti, dall’altro sono fondamentalmente soli, «feriti» dal benessere,
delusi dalle ideologie, confusi dal disorientamento etico. Con un futuro,
soprattutto lavorativo, estremamente incerto.

Nell’Europa culturalmente e religiosamente complessa e
priva di precisi punti di riferimento, il modello antropologico prevalente
sembra esser quello dell’«uomo senza vocazione». «Giovani con un’identità
incompiuta e debole con la conseguente indecisione cronica di fronte alla
scelta vocazionale. Molti giovani non hanno neppure la “grammatica elementare”
dell’esistenza, sono dei nomadi: circolano senza fermarsi a livello geografico,
affettivo, culturale, religioso, essi “tentano”! In mezzo alla grande quantità
e diversità delle informazioni, ma con povertà di formazione, appaiono
dispersi, con poche referenze e pochi referenti. Per questo hanno paura del
loro avvenire, hanno ansia davanti a impegni definitivi e si interrogano circa
il loro essere. Se da una parte cercano autonomia e indipendenza a ogni costo,
dall’altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti dall’ambiente
socioculturale e a cercare la gratificazione immediata dei sensi: di ciò che “mi
va”, di ciò che “mi fa sentire bene” in un mondo affettivo fatto su misura»
(Pontificia opera per le vocazioni ecclesiastiche, documento finale del
Congresso «Nuove Vocazioni per una nuove Europa», Roma maggio 1997, n. 1.c).

Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco o
nel dramma della vita, quasi dimissionari nei confronti d’essa, smarriti lungo
sentirneri interrotti e appiattiti sui livelli minimi della tensione vitale.
Senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che, al più, sarà una
fotocopia del presente.

Nuove
divisioni nella Società

La società oggi si divide su questioni diverse da quelle
del passato. Tramontate le classi (almeno nelle interpretazioni ideologiche
diffuse e nel discorso intellettuale e mediatico: un po’ meno nella realtà…),
oggi ci si divide, sempre più spesso, su fattori di inclusione ed esclusione,
spesso molto materiali (spese, interessi, costi e benefici, tasse, servizi,
ecc.), ma altrettanto spesso ammantati di giustificazioni etniche, razziali,
culturali o pseudo-culturali.

La diversità, anzi l’alterità diventa un problema o
addirittura una colpa in sé. Il che significa che anche gli attori sociali
(inclusi quelli religiosi) si dividono sempre più, non solo e non tanto gli uni
dagli altri, ma al proprio interno: tra dialoganti e non dialoganti, tra aperti
al cambiamento e chiusi a esso, tra coloro che sono disposti a mettersi in
discussione, e/o a mettere in discussione la società, e coloro che non ci
pensano nemmeno, anche a dispetto dei fatti, dei cambiamenti già avvenuti, di
cui non si vuole tenere conto. Tra coloro che sono dunque disposti a misurarsi
e a confrontarsi con la diversità e l’alterità, e dunque aperti al dialogo, e
coloro che ne negano le basi stesse. Con tutte le forme intermedie che possiamo
immaginare.

La diffusione della paura nelle nostre società,
la sua strumentalizzazione politica, il suo grosso mercato anche economico,
sono un segno chiaro che un pezzo significativo della società rifiuta, per
definizione, qualunque apertura, per non dire qualunque incontro. Per strada,
in condominio o in negozio, agli incroci, ovunque telecamere che registrano i
nostri passi e i nostri passaggi. Soggetti pubblici e privati ci spiano e
filmano tutti, dappertutto: davanti agli sportelli bancari, nei supermercati,
nei giardini pubblici, nei parcheggi sotterranei e all’aperto, senza sollevare
grandi timori fra i cittadini, anzi.

Fortress Europe

Questo bisogno di sicurezza si amplifica fino al
respingimento e spesso rifiuto di accogliere gli immigrati sul suolo
dell’Europa. La firma dell’accordo di Schengen nel 1995 compie due operazioni:
abolisce i controlli alle frontiere intee e sposta i controlli alle frontiere
estee. Resta quindi nitida l’immagine di una Fortezza Europa impermeabile
dall’esterno, soprattutto dal continente africano.

«Un giorno a Lampedusa e a Zuwarah (città della costa
libica), a Evros (confine Grecia e Turchia) e a Samos [isola della Grecia], a
Las Palmas [Gran Canarie] e a Motril [città dell’Andalusia] saranno eretti dei
sacrari con i nomi delle vittime di questi anni di repressione della libertà di
movimento. E ai nostri nipoti non potremo neanche dire che non lo sapevamo. Dal
1988 sono morte lungo le frontiere dell’Europa almeno 18.673 persone. Di cui
2.352 soltanto nel corso del 2011. Il dato è aggiornato al 10 novembre 2012» (http://fortresseurope.blogspot.it/).

Povertà

In Europa oggi dilaga anche la povertà, che attanaglia
milioni di famiglie. Sui 120 milioni di persone che sono esposte al rischio di povertà
o di esclusione sociale circa 40 milioni versano in uno stato di grave
indigenza. Ben 25,4 milioni sono bambini. Per loro il rischio di povertà
o di esclusione sociale è molto più alto del resto della popolazione (27%
rispetto al 23% della popolazione nel suo complesso). Questo fenomeno li espone
a una deprivazione materiale che va al di là della malnutrizione. Ad esempio,
5,7 milioni di bambini non possono permettersi indumenti nuovi e 4,7 milioni di
bambini non possiedono neppure un paio di scarpe. Chi le ha deve accontentarsi
il più delle volte di scarpe spaiate e non hanno certo un paio di scarpe per il
brutto tempo. I bambini che soffrono di deprivazione materiale producono
risultati scolastici scadenti, soffrono di una salute precaria e non riescono
poi a realizzare le loro piene potenzialità una volta divenuti adulti.

Una forma particolarmente grave di deprivazione
materiale è la condizione di senzatetto, fenomeno la cui entità è
difficile da quantificare. Le stime di cui si dispone indicano però che in
Europa nel 2009/2010 vi erano 4,1 milioni di senzatetto. Il numero dei
senzatetto è aumentato di recente a causa dell’impatto sociale della crisi
economica e finanziaria e dell’aumento della disoccupazione. Cosa ancor più
preoccupante, a essere senzatetto sono famiglie con bambini, giovani e
migranti.

Esclusione
sociale

Un tempo eravamo abituati ad applicare il termine «esclusi»
a gruppi e società lontani da noi. Tuttavia, gli esclusi, oggi, sono dei
nostri. L’esclusione sociale è un fenomeno relativamente nuovo per la sua
radicalità e il suo carattere massivo. Oggi, essere sfruttato è un privilegio,
perché uno soffre in quanto è parte del sistema. L’escluso è semplicemente
ignorato;
né la sua vita né la sua morte toccano il sistema: è un essere da
rigettare o da eliminare. Il sistema non investe nella salute o nell’educazione
degli esclusi, perché si tratta di un investimento non redditizio; gli esclusi
non hanno un ruolo nello sviluppo o nel progresso. Gli esclusi sono
non-desiderati. Gli esclusi, gli assenti, si trovano, ogni giorno di più, nella
situazione di occupare il margine, come quello della pagina. Ma bisogna
ricordare che il margine forma parte della pagina; e che, conseguentemente,
l’esclusione è un’inclusione nel margine stesso. L’escluso viene collocato al
suo posto, gioca il suo ruolo, e occupa una posizione che indirettamente esalta
il valore del lavoro agli occhi di tutti gli altri. Egli è il cattivo esempio.
L’esclusione lo costringe a restare chiuso fuori, nella periferia dell’umano,
nei margini. L’escluso si trova rinchiuso in una periferia della geografia
urbana e sociale, abbandonato nei suburbi, messo fra parentesi.

La
frantumazionedei legami sociali

Zygmunt Bauman, un sociologo e filosofo polacco, in
apertura del suo libro intitolato «L’amore liquido», descrive il carattere
fluido della nostra società, con la sua assenza totale di «consistenza», di
stabilità, e il carattere effimero, incapace di durata, non solo delle nostre «cose»,
ma anche (e soprattutto) delle nostre relazioni, dei nostri «legami» che sempre
più rapidamente si «sciolgono» (si liquefanno, nel senso letterale del
termine). È la metafora del consumismo esasperato che basa la sua sopravvivenza
sul «usa e getta». Questo comportamento, purtroppo, si estende ai rapporti
interpersonali, all’amicizia, ai legami familiari. Tutto è a breve durata, deve
produrre un soddisfacimento immediato e poi, si getta, per cercare emozioni
altrove e con qualcun altro.

Lo stesso autore qualche anno fa ha scritto un libro dal
titolo significativo, tradotto in italiano come se esprimesse un desiderio: «Voglia
di comunità» (Laterza, 2001). In realtà il titolo originale in inglese, suona
molto di più come un allarme: «Missing community» (Mancando comunità –
comunità mancante
).

Il
proliferare dei «nonluoghi»

Nel 2009 il sociologo francese, Marc Augé, ha pubblicato
una nuova edizione di un suo libro molto significativo dal titolo «Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodeità» (Eleutera editrice, Milano
1993, nuova edizione 2009).

Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai
luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non
essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi le strutture
necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni: autostrade,
svincoli, aeroporti, stazioni, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali,
eccetera. Sono spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza
entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di
accelerare le operazioni quotidiane o per accedere a un cambiamento (reale o
simbolico).

I nonluoghi sono altamente rappresentativi della nostra
epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel
campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un
individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi
abita. Insomma sono quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e
frequentati.

Morte del prossimo

Ed è così che la prossimità è messa a repentaglio e
svanisce. «Il prossimo è morto, ma un certo prossimo più di altri». Questa
frase riassume bene il messaggio che lancia lo psicanalista Luigi Zoja nel suo
libro «La morte del prossimo» (Einaudi, 2009). Perché si è distanti dal vicino
e vicini al lontano.

Nelle società globalizzate il vicino è un nemico
potenziale. E gli amici sul web sono lontani. Le distanze che la
globalizzazione ha reso meno evidenti, favoriscono i rapporti tra persone
lontanissime e sembrano penalizzare invece quelli che intercorrono fra chi vive
nella stessa città, nella stessa via, nella medesima casa. «Dopo la morte di
Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale
dell’uomo – scrive –. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano
senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo
Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino.
È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma
anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i
morti causa turbamento».

Epoca
delle passioni tristi

Due attenti studiosi parigini, Miguel Benasayag
filosofo, e Gérard Schmit psichiatra, docente all’università di Reims, hanno
scritto un libro: «L’epoca delle passioni tristi» (Feltrinelli, 2004). La loro
tesi è che la crisi che viviamo è «storica», cioè esistenziale, caratterizzata
da un cambiamento di segno del futuro: dal «futuro-promessa» al «futuro-minaccia».

Quando non è una promessa, il futuro non retroagisce sul
presente motivando impegno, applicazione, entusiasmo, slancio, prospettiva, ma
fa implodere ogni iniziativa in quella domanda inevasa che inutilmente chiede: «A
che scopo?», «perché?». Siamo quindi al nichilismo, che più di un secolo
fa Nietzsche aveva profetizzato come atmosfera del futuro, così definendolo: «Nichilismo:
manca il fine, manca la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo?
Che i valori supremi perdono ogni valore».

Ora, che i valori si svalutino non è un gran problema.
La storia registra le sue scansioni proprio grazie al crollo di certi valori e
all’affermazione di altri. Ma quel che oggi si registra è che, dopo il collasso
dei valori della tradizione, non se ne intravedono altri, per cui ci troviamo
appiattiti su un «eterno presente» che, non offrendo prospettive credibili, va
vissuto in tutta la sua intensità (tutto e subito) quando se ne ha la forza, o
in tutta la sua insignificanza quando la demotivazione, come un tarlo, ha fatto
breccia nell’anima.

Un messaggio che Giovanni Paolo II ha espresso molto
bene quando ammoniva le chiese dell’Europa «Spesso tentate da un offuscamento
della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono
proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano
disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questi
stati d’animo. Numerosi sono i segnali preoccupanti che, all’inizio del terzo
millennio, agitano l’orizzonte del continente europeo, il quale, pur nel pieno
possesso di immensi segni di fede e testimonianza e nel quadro di una
convivenza indubbiamente più libera e più unita, sente tutto il logoramento che
la storia antica e recente ha prodotto nelle fibre più profonde dei suoi
popoli, generando spesso delusione» (Esortazione Post-Sinodale Ecclesia in
Europa
, 28/06/2003, n.7).

Antonio Rovelli




N.E.1 – L’indifferenza e il Vangelo Spunti per una «Nuova Evangelizzazione» in Europa

Il Sinodo della Nuova Evangelizzazione


[Nuova Evangelizzazione] Cos’è?

 




L’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi,
che si è tenuta dal 7 al 28 ottobre 2012, ha avuto per tema «La nuova
evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». Questo tema è
dibattuto da diverso tempo dentro la Chiesa, ma è diventato di scottante
attualità in questi ultimi anni soprattutto nel mondo Occidentale segnato da
consumismo e secolarizzazione.

Gli
insegnamenti del Magistero

I documenti preparatori al Sinodo dell’ottobre 2012
hanno sottolineato l’urgenza di trovarsi insieme per valutare come la «Chiesa
viv[a] oggi la sua originaria vocazione evangelizzatrice, a fronte delle sfide
con cui è chiamata a misurarsi, per evitare il rischio della dispersione e
della frammentazione» (Instrumentum Laboris [IL] 4).

Indirettamente, questa urgenza evidenzia la presa
di coscienza che oggi la Chiesa è chiamata ad affrontare la sfida della nuova
evangelizzazione nella consapevolezza che le trasformazioni non soltanto
interessano il mondo e la cultura, ma toccano la Chiesa stessa nelle sue
comunità, nelle sue azioni e nella sua identità (cf. IL 16). Inoltre manifesta
la volontà di rilancio del fervore della fede e della testimonianza dei
cristiani e delle loro comunità. Affinché la Chiesa «moltiplichi il coraggio e
le energie a favore di una nuova evangelizzazione che porti a riscoprire la
gioia di credere, e aiuti a ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Non
si tratta di immaginare soltanto qualcosa di nuovo o di lanciare iniziative
inedite per la diffusione del Vangelo, ma di vivere la fede in una dimensione
di annuncio di Dio: “La missione […] rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e
l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si
rafforza donandola!” (Redentoris Missio [RM] 3)» (IL 9).

Sulla scia del Concilio, papa Paolo VI osservava
con lungimiranza che l’impegno dell’evangelizzazione andava rilanciato con
forza e grande urgenza, e, fedele all’insegnamento conciliare, aggiungeva che
l’azione evangelizzatrice della Chiesa «deve cercare costantemente i mezzi e il
linguaggio adeguati per proporre o riproporre […] la rivelazione di Dio e la
fede in Gesù Cristo» (Evangelii Nuntiandi [EN] 56).

Papa Giovanni Paolo II, che fece di questo
impegno uno dei cardini del suo vasto magistero, ha sintetizzato nel concetto
di nuova evangelizzazione il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare
nelle regioni di antica cristianizzazione. Tale programma riguarda direttamente
la sua relazione con l’esterno, ma presuppone, prima di tutto, un costante
rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da
evangelizzata a evangelizzatrice. Basta richiamare alcune sue parole: «Interi
paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto
mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono
ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal
continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si
tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto primo mondo,
nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose
situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta “come
se Dio non esistesse”. […] In altre regioni o nazioni, invece, si conservano
tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma
questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto
di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la
diffusione delle sette. Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la
crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni
una forza di autentica libertà. Certamente urge dovunque rifare il tessuto
cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto
cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in
queste nazioni» (Christifideles laici 34).

Creando il nuovo «Pontificio Consiglio per la promozione
della nuova evangelizzazione», così Papa Benedetto XVI precisa il
contenuto del termine «nuova evangelizzazione»: «Facendomi dunque carico della
preoccupazione dei miei venerati predecessori, ritengo opportuno offrire delle
risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza
dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio
missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione. […] La diversità
delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova
evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula
uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò
di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente
cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova
generosa apertura al dono della grazia. Infatti, non possiamo dimenticare che
il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all’opera gratuita dello
Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il
cuore di coloro che ascoltano. Per proclamare in modo fecondo la Parola del
Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio» (Ubicumque
et semper
, 21/09/2010).

Nel frattempo, sulla scia della Redemptoris missio
(al numero 33) era intervenuta a precisare il senso del concetto di nuova
evangelizzazione anche la Congregazione per la Dottrina della Fede: «In
senso proprio c’è la missio ad gentes verso coloro che non conoscono
Cristo. In senso lato, si parla di “evangelizzazione” per l’aspetto ordinario
della pastorale, e di “nuova evangelizzazione” verso coloro che non seguono più
la prassi cristiana» (Nota dottrinale su alcuni aspetti della evangelizzazione,
3/12/2007, n. 12).

Una
sintesi

Dai vari pronunciamenti del Magistero e dai documenti
preparatori al Sinodo emerge che la nuova evangelizzazione consiste
nell’immaginare situazioni, luoghi di vita, azioni pastorali che permettano
alla gente di uscire dal «deserto interiore»
, immagine usata da Papa
Benedetto XVI per raffigurare la condizione umana attuale prigioniera di un
mondo che ha espulso la questione di Dio dal proprio orizzonte. Avere il
coraggio di riportare la domanda su Dio dentro questo mondo; avere il coraggio
di ridare qualità e motivazioni alla fede di molti delle nostre Chiese di
antica fondazione
, questo è il compito specifico della nuova
evangelizzazione.

Il compito della nuova evangelizzazione non può essere
ridotto a un semplice esercizio di aggioamento di alcune pratiche pastorali,
ma richiede una comprensione molto seria e profonda delle cause che hanno
portato l’Occidente cristiano a trovarsi in una simile situazione.

Quindi il termine «nuova evangelizzazione» richiama
l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio
, soprattutto per coloro
che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della
secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in paesi di tradizione
cristiana.

La nuova evangelizzazione è da considerarsi anzitutto
come un’esigenza, poi come un’operazione di discernimento e infine come uno
stimolo alla Chiesa di oggi.

Cosa
s’intende per Nuova Evangelizzazione

Che cos’è la «nuova evangelizzazione»? Il Beato Papa
Giovanni Paolo II nel primo discorso che avrebbe dato notorietà e risonanza a
questo termine, rivolgendosi ai Vescovi del continente latinoamericano, così la
definiva: «La commemorazione del mezzo millennio di evangelizzazione
[dell’America Latina, ndr.] avrà il suo pieno significato se sarà un impegno
vostro come Vescovi, assieme al vostro Presbiterio e ai vostri fedeli; impegno
non certo di rievangelizzazione, bensì di una nuova evangelizzazione. Nuova nel
suo ardore, nei suoi metodi, nelle sue espressioni» (Giovanni Paolo II, Discorso
all’Assemblea del Celam, Port-au-Prince
, 9/03/1983, n.3).

La nuova evangelizzazione è «la capacità da parte della
Chiesa di vivere in modo rinnovato la propria esperienza comunitaria di fede e
di annuncio dentro le nuove situazioni culturali che si sono create in questi
ultimi decenni» (IL 47).

Non si tratta di un nuovo modello di azione pastorale,
che si sostituisce semplicemente ad altre forme di azione (la prima
evangelizzazione, la cura pastorale), quanto piuttosto di un processo di
rilancio della missione fondamentale della Chiesa
. Quest’ultima,
interrogandosi sul modo di vivere l’evangelizzazione oggi, non esclude di
verificare se stessa e la qualità dell’evangelizzazione delle sue comunità. La
nuova evangelizzazione impegna tutti i soggetti ecclesiali (singoli,
comunità, parrocchie, diocesi, Conferenze Episcopali, movimenti, gruppi e altre
realtà ecclesiali, religiosi e persone consacrate) a una verifica della vita
ecclesiale e dell’azione pastorale, e richiede un lento ma efficace lavoro di
revisione del modo di essere Chiesa tra la gente, affinché le comunità
cristiane diventino veri centri di irradiazione e di testimonianza
dell’esperienza cristiana, sentinelle capaci di ascoltare le persone e i loro
bisogni.

La nuova evangelizzazione è il nome dato a questo
rilancio spirituale, a questo avvio di un movimento di conversione che la
Chiesa chiede a se stessa, a tutte le sue comunità, a tutti i suoi battezzati

I
Destinatari

Dai vari documenti e dai pronunciamenti del Magistero si
ricava che lo spazio geografico entro cui si sviluppa la nuova
evangelizzazione, senza essere esclusivo, riguarda primariamente l’Occidente
cristiano. Così pure i destinatari della nuova evangelizzazione appaiono
sufficientemente identificati: si tratta di quei battezzati che nelle nostre
comunità vivono una nuova situazione esistenziale e culturale, dentro la quale
di fatto è compromessa la loro fede e la loro testimonianza.

È chiaro che la nuova evangelizzazione assume
l’Occidente come luogo di «esempio tipico», piuttosto che come obiettivo unico.
Perché l’urgenza della nuova evangelizzazione non può essere ridotta a
situazioni che riguardino esclusivamente l’Europa e il Nord America.

Come afferma Papa Benedetto XVI, «anche in Africa, le
situazioni che richiedono una nuova presentazione del Vangelo, non sono rare. […]
La nuova evangelizzazione è un compito urgente per i cristiani in Africa, perché
anch’essi devono rianimare il loro entusiasmo di appartenere alla Chiesa. Sotto
l’ispirazione dello Spirito del Signore risorto, essi sono chiamati a vivere, a
livello personale, familiare e sociale, la Buona Novella e ad annunciarla con
rinnovato zelo alle persone vicine e lontane, impiegando per la sua diffusione
i nuovi metodi che la Provvidenza divina mette a nostra disposizione» (Africarne
Munus
nn. 165.171).

Il
«che cosa»

In che cosa consiste allora? Perché chiamarla «nuova»? «Non
amo questo aggettivo “nuova”. Sempre la Chiesa ha evangelizzato; se non lo
avesse fatto, non sarebbe più stata la Chiesa di Cristo! Il termine “evangelizzazione”,
poi, contiene già la novità della “buona notizia”; in questo senso
l’espressione “nuova evangelizzazione” è un pleonasma» (Enzo Bianchi).

Naturalmente la novità non intacca il contenuto del
messaggio evangelico che è immutabile. «Nuova evangelizzazione non significa un
“nuovo Vangelo”, perché “Gesù Cristo è lo stesso ieri oggi e sempre” (Eb 13,8)»
(IL 164). Per questo, il Vangelo deve essere predicato in piena fedeltà e
purezza, così come è stato custodito e trasmesso dalla tradizione della Chiesa.
Evangelizzare significa annunciare una persona, che è Cristo. Infatti, «non
c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il
regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non siano proclamati» (En
22). «Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve
annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno
quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani» (IL 165).

È un dato storico da tutti ammesso che i primi cristiani
erano vivacemente missionari, convinti di dover portare al mondo una notizia
attesa. Questa vivacità nasceva prima di tutto dall’esperienza del loro
personale incontro con Gesù Cristo più che dalla lettura delle molte emergenze
(fame, schiavitù, oppressione politica …) in cui gli uomini del tempo
vivevano. L’urgenza e l’universalità della missione nasce dall’interno, dalla
propria esperienza dell’incontro con Gesù Cristo. I primi cristiani sono
diventati missionari perché hanno fatto un incontro che ha cambiato la loro
vita.

La
novità è Cristo

L’evangelizzazione è sempre l’annuncio della novità di
Gesù Cristo. È questa l’anima profonda di ogni nuova evangelizzazione, che non
voglia essere puramente retorica, o subito vecchia. Quindi parlare di nuova
evangelizzazione significa parlare di una novità che non tocca soltanto il
metodo, ma il Vangelo stesso. Perché oggi il Vangelo deve misurarsi con urgenze
mai incontrate e rispondere a domande inedite. Nuova evangelizzazione è
mostrare che il Vangelo sa rispondere ai problemi della post-modeità.

È un punto importante: non è solo una questione di
adattamento, di forma o di strategia, come purtroppo molti sembrano pensare, ma
di «comprensione» (rispondere alla domanda «cosa significa/mi dice il Vangelo
oggi?»). Le domande che la storia pone in ogni epoca al Vangelo non sono mai, o
quasi mai, semplici occasioni che offrano il destro per un restyling per
adattare il messaggio di sempre ai tempi, alle culture e ai linguaggi di oggi,
ma provvidenziali spiragli che possono aiutare a intravedere contenuti inediti
per fare emergere la sua «perenne» novità anche nell’oggi. Il Vangelo è
quello di sempre, ma nuovo deve essere il modo di comprenderlo, non soltanto il
modo di ridirlo.

In
ascolto della Parola

Chiarito questo, se è vero che l’evangelizzazione è
rivolta a tutti, e nessuno può essee escluso perché la missione della Chiesa,
per volontà del Signore, è universale (cf. Mt 28,19-20; Mc 16,15; Lc 24,47; At
1,8), è altrettanto vero che essa deve essere evangelizzazione continua
della Chiesa
, intendendo tale genitivo in primo luogo come genitivo
oggettivo
(la Chiesa è evangelizzata, ha bisogno cioè di ridirsi il Vangelo
per comprenderlo in modo nuovo) e solo in seconda istanza come genitivo
soggettivo
(ossia la Chiesa evangelizza gli uomini). Non si possono
dimenticare, al riguardo, le parole profetiche scritte da Paolo VI quasi
quarant’anni fa, nella sua splendida esortazione apostolica Evangelii
nuntiandi
: «Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se
stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata,
comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che
deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore.
[…] Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere
evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunciare il
Vangelo» (En 15).

La missione evangelizzatrice della Chiesa consiste nel
farsi eco della Parola perché ogni uomo possa ascoltarla come rivolta a sé,
come Parola salvifica, e lasciarsi illuminare da essa. Nello stesso tempo la
chiesa, se vuole veramente essere annunciatrice di questa Parola, deve in primo
luogo dedicare tutte le sue energie ad ascoltare la Parola stessa, sapendo che «la
fede nasce dall’ascolto» (Rm 10,17), deve essere e sentirsi «affidata al
Signore e alla Parola della sua grazia» (At 20,32): solo un’ecclesia audiens
(che ascolta) può anche essere un’ecclesia docens (che insegna), perché la
Parola che la Chiesa annuncia e testimonia non è sua ma di Dio. È Dio che parla
nell’evangelizzatore. Se Dio parla il profeta non può tacere (Is 7,3; Ger 1,4;
18,18; Ez 1,3). Il profeta non parla di Dio, lascia parlare Dio; egli parla
dopo aver ricevuto la Parola di Dio,

Antonio Rovelli


Le sorprese di Dio

«La novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci
sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire,
a programmare, a progettare la nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre
sicurezze, i nostri gusti. E questo avviene anche con Dio. Spesso lo seguiamo,
lo accogliamo, ma fino ad un certo punto; ci è difficile abbandonarci a Lui con
piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito santo l’anima, la guida della
nostra vita, in tutte le scelte; abbiamo paura che Dio ci faccia percorrere
strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso limitato, chiuso,
egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la storia della salvezza,
quando Dio si rivela porta novità – Dio porta sempre novità -, trasforma e
chiede di fidarsi totalmente di Lui: Noè costruisce un’arca deriso da tutti e
si salva; Abramo lascia la sua terra con in mano solo una promessa; Mosè
affronta la potenza del faraone e guida il popolo verso la libertà; gli
Apostoli, timorosi e chiusi nel cenacolo, escono con coraggio per annunciare il
Vangelo. Non è la novità per la novità, la ricerca del nuovo per superare la
noia, come avviene spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta nella
nostra vita è ciò che veramente ci realizza, ciò che ci dona la vera gioia, la
vera serenità, perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene. Domandiamoci
oggi: siamo aperti alle “sorprese di Dio”? O ci chiudiamo, con paura, alla
novità dello Spirito santo? Siamo coraggiosi per andare per le nuove strade che
la novità di Dio ci offre o ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che
hanno perso la capacità di accoglienza? Ci farà bene farci queste domande
durante tutta la giornata» (Francesco, omelia di Pentecoste 2013).

Antonio Rovelli




Sulle strade dell’uomo

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«Andando annunciate» (Mt 10,7) ha detto Gesù ai suoi discepoli. Due verbi essenziali e dinamici. Andare: è movimento, passaggio, esodo, direzione. Annunciare: è comunicare... anche con le parole, è testimoniare con i fatti, è realizzare con le azioni, è relazionarsi e interagire con chi si incontra, con i compagni di viaggio. Andare è spezzare la solitudine e uscire da sé; annunciare è creare comunione e relazioni nuove. Andare è sconfiggere l’intimismo, la paura degli altri, la diffidenza che fa innalzare barriere. Annunciare è costruire ponti, creare legami, abbattere i muri di silenzio e ignoranza. Andare accorcia le distanze; annunciare colora il mondo di vita.

Ricordo una storia raccolta da un missionario in terra d’Africa. La sintetizzo. Un padre manda i suoi due figli a scoprire il mondo con una raccomandazione: «Andando lasciate segni del vostro passaggio». I due partono. Il primo si affanna a marchiare tronchi e rocce, a far cumuli di pietre. Il secondo non muove un dito godendosi il paesaggio e la sera, arrivati in un villaggio, saluta, chiacchiera, beve, fa festa e conosce tutti. Così per giorni. Toati dal padre raccontano tutto, e questi si mette subito in strada per ripercorrere il cammino coi figli. Il primo lo invita a notare i suoi inconfondibili segni biasimando la pigrizia del fratello. Il pigro è accolto ogni sera con grande festa ovunque si fermino a dormire: invitato a cenare nelle famiglie con i suoi compagni, si trova anche una sposa (da cui avrà tanti bei figli «cioccolatini») con la benedizione del padre.

Lascio a voi indovinare chi ha davvero capito la raccomandazione iniziale.

Ci sono dunque due modi di «lasciare segni» viaggiando nel mondo.

C’è chi va in giro per i propri interessi e lascia segni di distruzione, indifferenza, sfruttamento e orgoglio. Questi vanno in cerca dei luoghi migliori per fare affari, dei paradisi fiscali per frodare il fisco, delle aree ricche di risorse naturali ancora intoccate, dei campi adatti per coltivazioni estensive per il biodiesel, dei paesi dove la manodopera locale si può ancora sfruttare, dei focolai di guerra per vendere sempre più armi. Purché si possano fare soldi, leciti o illeciti, si arriva ovunque: traffico di persone, prostituzione, gioco d’azzardo, sfruttamento di risorse, affossamento di rifiuti pericolosi, costruzioni di enormi bacini idroelettrici, acquisizione di grandi estensioni di terre, libere o meno... e chi più ne ha più ne metta. Anche certo turismo rientra in questa categoria: vado dove ho voglia, spendo bene i miei soldi e mi diverto, faccio esperienze uniche in «isole felici», prendo tutto quello che posso senza lasciarmi coinvolgere più di tanto dalle situazioni locali. Importante è aver belle foto da mostrare agli amici.

C’è chi invece viaggia seguendo il filo rosso dell’amore e della gratuità. Si va per conoscere e condividere, per costruire e guarire, per abbattere barriere e gettare ponti. Si va per giornire delle meraviglie che Dio opera nel cuore degli uomini, per portare amore dove c’è odio, pace dove impera la violenza. Si va per scoprire le tracce di Dio nel volto degli uomini, per rinnovare i legami profondi che uniscono tutta la famiglia umana, per condividere la buona notizia che Dio in Gesù ama gli uomini, ogni uomo, con preferenza per i piccoli, i poveri, gli oppressi.

Troppo idealista il secondo approccio? Forse. Ma certo ci sono moltissime persone nel mondo che pagano di persona per questo, senza avee un tornaconto personale. Mentre scrivo è appena stato liberato Domenico Quirico, giornalista amante della verità, dopo 150 giorni di prigionia in Siria, anche se non si sa ancora niente di padre Paolo Dall’Oglio in missione di pace e riconciliazione (vedi l’articolo a pag. 16). Papa Francesco è uno di questi viaggiatori che esce da sé, dal ruolo e dalle formalità per farsi incontro agli altri, per farsi carico dei drammi di ogni persona, per gridare che la guerra non è mai una soluzione (come sta facendo in questi giorni - speriamo ascoltato - per la Siria). E con lui tanti altri viaggiatori di pace e di amore, fanti sconosciuti e umili, missionari e volontari, religiosi e semplici cristiani, che si spendono per lasciare tracce d’amore sulle strade dell’uomo: segni indelebili nel cuore di ciascuno. Lo possiamo essere anche noi, io e te.


Gigi Anataloni




Cari Missionari

Chávez
«profeta e martire»?

Su
Missioni Consolata del giugno 2013 a pag. 20 un sacerdote di Caracas definisce
Hugo Chávez «Profeta e martire». Da tempo non mi meraviglio più di nulla, ma di
fronte a questa affermazione si resta senza fiato. Il nostro dittatore
italiano, non paragonabile ai suoi due colleghi degli anni ’30, era stato
definito più modestamente «L’uomo della Provvidenza». Da Libero del 13
marzo scorso (che ovviamente non è Vangelo) apprendo che l’ex deputato di
opposizione Wilmer Azuaje, attribuisce alla famiglia Chávez le proprietà di
45.000 ettari di terreno (30 anni fa possedevano solo tre ettari).

Il
quotidiano spagnolo Abc (anche quello non è Vangelo) stima in due
miliardi di dollari il valore totale della fortuna accumulata dal Caudillo,
di cui, oltre ai terreni citati, in conti all’estero almeno 200 milioni di
dollari; il conto in banca della madre del presidente sarebbe di 163 milioni.
La famiglia Chávez possiede inoltre 10 Suv Hummer, 17 ville e altro
ancora. Non è una novità, è sempre stato così; anche personaggi storici ben più
importanti di Hugo Chávez tipo Napoleone Bonaparte, hanno privilegiato il
proprio interesse privato. Durante il saccheggio francese del nostro paese,
Napoleone inondava il Tesoro di Parigi di enormi somme, merci e opere d’arte,
non prima di aver trattenuto un «buon pizzo» per sé e la sua numerosa famiglia.

Vi
allego un piccolo articolo di Panorama (del 5/6/2013, pag. 36), dove si informa
che nel Venezuela del dopo Chávez, manca la carta igienica e il vino per le
messe, grazie alla politica economica del defunto presidente. Noterete il
sarcasmo di un titolo: Habemus papel.

Concludo:
penso che, come tutti i caudillos della storia, il presidente Chávez si
sia arricchito alla grande, e che abbia gestito l’economia del suo paese peggio
dei nostri governi italiani; qui, almeno per ora, si trova ancora la carta
igienica…

Ricchini Gianpietro
12/06/2013, lettera da Brescia

Grazie di quanto ci
scrive. È vero che l’articolo da noi pubblicato è troppo elogiativo e poco
critico nei confronti di Hugo Chávez. Personalmente avrei desiderato un’analisi
che fosse attenta anche ai limiti e alle contraddizioni di quell’esperienza.
Certo, quella di Chávez è una figura che ha suscitato grandi passioni e
opinioni molto contrastanti.

Perché ho pubblicato
quell’articolo? Per rispetto al mio giornalista che ama quel paese e i suoi
sogni (che invece per altri sono incubi). Perché Chávez ha avuto anche
intuizioni giuste e il coraggio di tentare di emanciparsi da un vicino
invadente (che – ricordo – ha finanziato abbondantemente la diffusione in
America Latina delle sette evangeliche in funzione anticattolica per difendere
i suoi interessi economici). Perché ha tolto i proventi del petrolio dal
controllo dell’oligarchia e delle multinazionali per condividerli col suo
popolo (lo bollano come populista per questo). Certo non è stato immune da
corruzione e clientelismo, da arroganza e da atteggiamenti messianici e di auto-incensazione;
e forse ha anche premiato più l’adulazione che il merito: aspetti questi che
lasciano molte perplessità. Toeremo ancora sul Venezuela, una nazione che
amiamo e dove siamo presenti come missionari della Consolata. Il tempo ci darà
la possibilità di analisi più oggettive e ragionate.

Carità? Per
carità!

Sono
fra Silvestro, un francescano che ha vissuto 12 anni in Est Africa, Uganda e
Tanzania, e sono stato anche in Kenya e a Gibuti. Scrivo per ringraziare Chiara
Giovetti dell’articolo «Carità? Per carità» (MC, giugno 2013).

Preciso
subito che non ho ancora letto il libro L’industria della carità. Ho letto
invece La carità che uccide di Dambisa Moyo. L’ho letto appena uscito e mi
ha colpito per come l’ho sentito vicino al mio modo di vedere certi metodi di
aiutare la «nostra amata» Africa. Cito un esempio per tutti tra quelli che la
signora Moyo fa per spiegare come alcuni interventi portano l’Africa a essere
più povera. Racconta di certe persone di buona volontà che un giorno regalarono
centinaia e centinaia di zanzariere. Quando arrivarono fu festa e la gente era
contenta perché effettivamente i casi di malaria diminuivano, ma col passare
degli anni le reti si rompevano e lasciavano passare le zanzare malariche.
Quelle zanzariere erano finite, ma non c’era nessuno per ripararle o fae di
nuove perché i piccoli artigiani che le fabbricavano localmente avevano dovuto
chiudere per fallimento: nessuno aveva avuto più bisogno delle loro zanzariere.
E così è ritornata la malaria ancora più forte.

Una
mia ulteriore riflessione riguarda anche la bontà con cui tanti missionari e
(non) hanno costruito pozzi d’acqua. Banalizzando, ma purtroppo la faccenda è
serissima, mi vien da dire che in alcune zone sono più i pozzi che i villaggi,
ma guarda caso tanti di questi non funzionano più. Attoo al mio villaggio,
nel Sud dell’Uganda, ne contavo cinque o sei fuori uso. Perché non
funzionavano? Ma semplicemente perché anche i pozzi hanno bisogno di
manutenzione e chiamare i tecnici, anche locali, dalla capitale (esempio
concreto del mio villaggio distante 350km dalla capitale) veniva a costare
troppo rispetto alle possibilità del villaggio. Non importa se poi le persone
dello stesso villaggio trovassero sempre i soldi per bere birra, tradizionale e
non, nei bar locali.

Altra
piccola riflessione. Mi ha colpito, appena rientrato in Italia nel 2005,
sentire Tony Blair affermare che solo il 20% di quanto raccolto a favore del
Sud del mondo va davvero della povera gente a cui dovrebbe essere destinato.
Poi si sa bene che anche gran parte di quel 20 % va nelle mani di chi già sta
bene, magari politici o faccendieri locali. Certo che vedere viaggiare il
personale delle varie organizzazioni umanitarie con macchinoni che non
finiscono più e sapere che vivono in posti lussuosi che in Occidente non
potrebbero permettersi con tanto di servitù, e che il loro salario mensile è
superiore a… Beh, lasciamo perdere.

Grazie
ancora

Fra Silvestro Arosio o.f.m.
10/06/2013, via email

Il problema che Chiara
ha cercato di focalizzare nel suo articolo è molto vasto. E non nuovo: ricordo
che alla fine degli anni Settanta lessi un libro che criticava i progetti inutili delle organizzazioni umanitarie portando esempi concreti di sprechi e cattivo sviluppo.

Credo che come
missionari abbiamo visto progetti bellissimi che hanno cambiato la vita di
villaggi e regioni, altri che sono stati inutili come cattedrali nel deserto e
altri ancora che hanno dimostrato gran cuore e poca testa. Solo pochi giorni fa
sono stato perplesso di fronte alla pubblicità inserita in un importante
settimanale che invitava all’adozione a distanza. Già altre volte ho provato a
verificare in rete le attività di alcune di queste agenzie di adozione e la mia
impressione è stata quella di trovarmi di fronte a qualcosa di molto vago e
fumoso.

Mi permetto di
aggiungere due cose. La prima è l’invito ad essere critici con quelle agenzie
che fanno pubblicità molto costose o che addirittura vi telefonano e mandano i
loro agenti a raccogliere soldi di casa in casa (o cose simili). Un po’ di
pubblicità è certo necessaria: corretta, dignitosa e rispettosa; ma quando usa
lo stesso stile del telemercato e della vendita porta a porta, c’è qualcosa che
non quadra. Sono davvero interessati al bene dei bambini che dicono di aiutare
o alla loro sopravvivenza come organizzazione?

La seconda è una parola
– – neppure troppo seria, però, visti i limiti della mia esperienza – in favore
della servitù. È vero che ci sono degli operatori di Ong o agenzie
inteazionali che vivono in case di lusso (in rapporto allo standard di vita
locale) circondati da servitù: cuoco, colf, babysitter, giardiniere, portinaio,
guardia, autista o simili. Questo può scandalizzare, soprattutto se si ha
l’occasione di sentire le chiacchiere di chi se ne vanta durante gli incontri
tra espatriati. In realtà è uno degli aspetti positivi della presenza dei
cooperanti: creano lavoro in una realtà dove spesso la disoccupazione è piaga
endemica. Ho conosciuto volontari o membri di organizzazioni inteazionali che
di proposito avevano anche più personale del necessario proprio per dare lavoro
ai locali o non dover lasciare a casa persone già impiegate dai loro
predecesssori.

Donne albanesi

Ho letto l’articolo sulla realtà delle donne albanesi ed
essendo io albanese devo dire che non ce la faccio più. Cosa faccio? Sono in
Italia da diversi anni, qua ho le mie amiche, la scuola… poi too a casa e la
vita immaginaria che mi costruisco «nelle poche ore di libertà» crolla, la
speranza di avere un giorno una vita normale… Diverse volte ho sperato che
questo fosse solo un brutto incubo ma poi i fatti mi risvegliano da questo «sogno».
Io non avrò mai un finale a lieto fine anche se lo vorrei con tutto il cuore,
per me e le mie sorelle.

Klodiana
01/06/2013, via email

L’articolo apparso sul
numero di marzo 2013
, raccontava del sogno di ritornare a casa di donne e
famiglie albanesi provenienti dalla Macedonia: un «lieto fine» che è nei
desideri di tutti gli emigranti. Risparmiare abbastanza per rientrare nel
proprio paese a testa alta e ricominciare una vita nuova, liberando i propri
figli dalla necessità di una dura emigrazione è stato il sogno che ha dato la
forza a milioni di emigranti di sopportare difficoltà e sofferenze indicibili. È
anche il sogno della nostra lettrice. Le case vuote di tanti nostri villaggi
nel Sud d’Italia ci dicono che è un sogno difficile da realizzare, ma noi con
tutto il cuore facciamo il tifo per Klodiana e per tutti gli uomini e donne che
come lei sono stati costretti ad abbandonare il proprio paese.

Sprechi alimentari

Nella
speranza di fare cosa gradita, vorrei condividere con voi questo mio scritto
che ho pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno dell’11 giugno 2013.
Con molti complimenti per il loro lavoro.

Giorgio Nebbia.

Cultura
dello scarto

Il 5 giugno scorso il Papa Francesco ha preso
l’occasione della quarantunesima «Giornata della Terra» per parlare di ambiente
e di sprechi e lo ha fatto con parole che non ascoltavamo da molto tempo.
Nell’udienza generale (il testo integrale si trova nel sito www.vatican.va) ha
ricordato che la donna e l’uomo sono stati posti nel Giardino perché lo
coltivassero e custodissero, come si legge nel secondo capitolo del libro della
Genesi, e ci ha invitati a chiederci che cosa significa coltivare e custodire:
trarre dalle risorse del pianeta i beni necessari, con responsabilità, per
trasformare il mondo in modo che sia abitabile per tutti, parole che già Paolo
VI aveva usato nell’enciclica «Populorum progressio» del 1967.

Papa Francesco ha detto che non è possibile custodire la
Terra se, non solo le sue risorse, ma addirittura le donne e gli uomini «sono
sacrificati agli idoli del profitto e del consumo», alla «cultura dello scarto».
Le ricchezze della creazione non sono di una persona, o di una impresa
economica, o di un singolo paese, ma sono «doni gratuiti di cui avere cura»,
destinati ad alleviare soprattutto «la povertà, i bisogni, i drammi di tante
persone». Il dramma più grave consiste nel fatto che un miliardo di persone
manca di cibo sufficiente, in ogni parte di un mondo dominato dallo scarto,
dallo spreco e dalla distruzione di alimenti. «Il consumismo, ha detto il Papa,
ci ha indotti ad abituarci al superfluo e allo spreco quotidiano di cibo.
Ricordiamo, però, che il cibo che si butta via è come se venisse rubato dalla
mensa di chi è povero».

Finalmente parole dure, da una autorità ascoltata da
cristiani e non cristiani, credenti e non credenti, che sintetizzano la fonte
dei guasti ecologici: la violenza contro le risorse naturali è violenza contro
gli altri esseri umani, contro il prossimo vicino, contro il prossimo lontano
nello spazio e contro il prossimo del futuro che erediterà un mondo impoverito
per colpa degli sprechi di oggi, dei paesi ricchi e egoisti.

Il
ciclo dello spreco

L’ecologia spiega bene l’origine della fame di troppi
esseri umani: gli alimenti umani diventano disponibili attraverso un complesso
e lungo ciclo che comincia dai raccolti di vegetali: patate, cereali, piante
contenenti oli e grassi. Dei vegetali di partenza solo una parte, meno della
metà, diventa disponibile sotto forma di alimenti e di questi una parte va
perduta, per le cattive condizioni di conservazione e di trasporti dai campi e
dalle fabbriche ai mercati.

Una parte delle vere e proprie sostanze nutritive viene
destinata alla zootecnia che «fabbrica» alimenti animali ricchi di proteine
pregiate con forti perdite: occorrono circa 10 chili di vegetali per ottenere
un chilo di carne; il resto va perduto come escrementi, come gas della
respirazione degli animali da allevamento e come scarti della macellazione. Nei
paesi industriali gli alimenti vegetali e animali, prima di arrivare sulla
nostra tavola o nel nostro frigorifero, passano attraverso una lunga catena che
comprende il trasporto attraverso i continenti o gli oceani, poi attraverso
processi industriali di conservazione, trasformazione, inscatolamento, ciascuno
con rilevanti perdite di sostanze nutritive che diventano scarti da smaltire
come rifiuti.

Poi gli alimenti passano attraverso il sistema della
distribuzione, anch’esso caratterizzato da sprechi, si pensi alle merci
invendute o deteriorate o che superano i limiti di scadenza, che diventano
anch’esse scarti e rifiuti. Alla fine le sostanze nutritive, stimabili in un
quarto di quelle che la natura aveva prodotto, arrivano a casa nostra o ai
ristoranti e anche qui si hanno altri scarti e sprechi: in media, nel mondo,
100 chili per persona all’anno. Indagini della FAO, l’organizzazione delle
Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, indicano in 1,3 miliardi di
tonnellate all’anno il peso degli alimenti complessivamente sprecati, un terzo
di quelli disponibili, circa un decimo delle sostanze nutritive, caloriche e
proteiche, che la natura aveva prodotto con i suoi cicli ecologici.

Lo spreco alimentare è accompagnato da spreco di acqua,
quella che l’intero ciclo del cibo richiede per l’irrigazione e per i processi
di trasformazione: l’agricoltura infatti assorbe circa 10.000 miliardi di metri
cubi di acqua all’anno, una quantità enorme se si pensa che l’acqua dolce
disponibile nel ciclo naturale ammonta a 40.000 miliardi di metri cubi
all’anno. Non solo; l’enorme massa di scarti e rifiuti agricoli e alimentari si
trasforma nei gas anidride carbonica e metano che sono responsabili del
continuo, inarrestabile peggioramento del clima. Una grande battaglia
scientifica e culturale per comportamenti rispettosi «del prossimo», per
diminuire gli sprechi alimentari, assicurerebbe acqua e cibo a chi ne è privo.
La chimica e la microbiologia applicate agli scarti alimentari consentirebbe di
ricavae sostanze adatte per altri usi umani, con minori inquinamenti e minore
richiesta di risorse naturali scarse: una ingegneria e merceologia della carità
al servizio dell’uomo.

Nuova
visione

La
salvezza, insomma, va cercata in un «serio impegno di contrastare la cultura
dello spreco e dello scarto», di «andare incontro ai bisogni dei più poveri»,
di «promuovere una cultura della solidarietà». «Ecologia umana ed ecologia
ambientale camminano insieme». Sono le parole del Papa che è anche un chimico.

Giorgio Nebbia
11/06/2013, via email

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risponde il Direttore




Cirillo e Metodio apostoli degli Slavi

Cirillo
e Metodio, fratelli greci, nativi di Tessalonica, fin dall’inizio della loro
vocazione, entrarono in stretti rapporti culturali e spirituali con la Chiesa
di Costantinopoli. Entrambi scelsero la vita religiosa al servizio della
missione. Su richiesta del principe di Moravia, Roscislaw, all’Imperatore e al
Patriarca di Costantinopoli, furono inviati a evangelizzare i popoli slavi che
abitavano la penisola balcanica e le terre percorse dal Danubio. Per rispondere
al loro impegno missionario tra gli slavi inventarono un nuovo alfabeto e
tradussero nella lingua locale brani del Vangelo e libri a scopo liturgico e
catechetico, gettando così le basi di tutta la letteratura nelle lingue di quei
popoli. Giovanni Paolo II, nel 1980, con la lettera apostolica Egregiae virtutis, li ha proclamati
compatroni d’Europa associandoli così a san Benedetto da Norcia, per la loro
gigantesca opera culturale ed evangelizzatrice, svolta in condizioni molto
difficili in un secolo piuttosto oscuro. Essi sono considerati patroni di tutti
i popoli slavi.

Di fronte a due giganti della
missione come voi, uno si sente piccolo piccolo; anzi, di fronte al vostro
impegno missionario, qualunque cosa pensiamo di aver fatto sembra veramente
poca cosa.

Cirillo
e Metodio:
Siamo noi a sentirci imbarazzati, perché
sembra che chissà quali grandi opere abbiamo compiuto. In realtà, tutto ciò che
abbiamo fatto è opera della Spirito Santo che, attraverso di noi e dei nostri
discepoli, ha operato meraviglie in quei popoli che vivevano alla periferia
dell’impero bizantino.

Voi siete di origine e cultura
greca, parlateci un po’ della vostra famiglia.

Cirillo
e Metodio:
Siamo nati e cresciuti a Tessalonica
(l’attuale Salonicco) in una famiglia della nobiltà bizantina. Nostro padre era
comandante di una squadra navale della flotta dell’impero bizantino. Nella
nostra numerosa famiglia (eravamo 11 tra fratelli e sorelle) si è sempre
vissuto un forte anelito culturale, unito alla solida spiritualità che i nostri
genitori ci hanno trasmesso.

Come tutti i fratelli, immagino
che i vostri caratteri non fossero proprio uguali, o sbaglio?

Metodio:
Io presi il carattere di mio padre e anche le sue doti. Come figlio di un
ammiraglio dell’impero bizantino, anch’io ero piuttosto avveduto nelle scelte
che si dovevano fare e avevo una ferrea volontà nel portare avanti i compiti
che mi venivano assegnati. Per queste mie caratteristiche mi venne affidato per
un periodo di tempo il governo di una colonia slava in Macedonia.

Cirillo:
Alla inconcludente vita politica di Costantinopoli (non per nulla i
ragionamenti arzigogolati si chiamano «bizantinismi») preferivo la quiete dello
studio e le tranquille giornate a corte, dove fui per qualche tempo anche
paggio dell’imperatore. Ultimati gli studi alla scuola di Fozio, detto «il
Grande», intrapresi la carriera d’insegnante.

Uno amministratore, l’altro
professore di scuola, in realtà la vostra carriera non si è sviluppata secondo
le linee che tutti si aspettavano da voi in famiglia.

Cirillo
e Metodio
: Infatti ambedue, avvertendo dentro di noi
la chiamata al sacerdozio, ci mettemmo a disposizione per l’attività
missionaria.

Si può dire che la vostra
vocazione sia legata alla vostra città di origine e all’ambiente in cui siete
vissuti?

Metodio:
Certamente. Il fatto di crescere in un ambiente profondamente segnato dalla
fede in Cristo in una città come Tessalonica, dove erano presenti diverse
comunità con lingue e culture differenti, ci portava a pensare di annunciare il
Vangelo a gente che non apparteneva alla cultura greca e che parlava una lingua
diversa.

Cirillo:
In realtà fui battezzato col nome di Costantino e quando mi trasferii,
nell’842, a Costantinopoli per perfezionarmi negli studi di teologia e
filosofia, nella mia sete di cultura approfondii studi di astronomia,
geometria, retorica e musica. Per un certo periodo feci un’esperienza di vita
monacale, dove mi cambiarono il nome, imponendomi quello di Cirillo (che vuol
dire «consacrato al Signore») con cui sono conosciuto nella Chiesa e da cui
prende nome addirittura l’alfabeto che ho inventato, il Cirillico.

In un contesto linguistico così articolato
e variegato, penso che per voi non sia stato difficile imparare nuove lingue.

Metodio:
Certamente vivendo in una città multiculturale, oltre al greco e al latino, si
imparavano frasi delle diverse lingue delle comunità che vivevano a Tessalonica.
Ognuno sapeva più o meno qualcosa della lingua dell’altro.

Cirillo:
Oltre al greco e al latino, parlavo correttamente siriaco, arabo, ebraico e
alcuni dialetti slavi che risuonavano nella nostra città. Questo ci aiutò molto
quando iniziammo la nostra missione con gente che parlava lingue diverse.

Così completati gli studi e
ordinati preti, eravate pronti per iniziare la vostra meravigliosa avventura
missionaria tra i nuovi popoli.

Cirillo
e Metodio:
La prima missione evangelizzatrice fu in
Pannonia (l’attuale Ungheria, con la sua magnifica puszta [steppa], ai
nostri tempi molto più estesa di quanto potete immaginare). Mentre, nell’anno
862, il re Roscislaw della Grande Moravia chiese all’imperatore di Bisanzio
l’invio di missionari per rafforzare l’autonomia del proprio stato,
sottraendolo così alla dipendenza dal clero germanico, che corrispondeva di
fatto a una dipendenza politica e culturale dallo stato Franco. Fu in questa
occasione che si dispiegò completamente la nostra missione fra i popoli slavi.

Quale fu la più grande difficoltà
incontrata?

Cirillo
e Metodio:
Sicuramente la lingua, pur parlando diversi
idiomi non riuscivamo a intenderci con i nativi, perché quei popoli, avendo una
coltura prevalentemente orale non conoscevano la scrittura. Ovviamente c’erano
alcuni che sapevano leggere il greco e il latino, ma mai la lingua locale era
stata fissata nella scrittura.

Perché inventaste un alfabeto del
tutto nuovo?

Cirillo
e Metodio:
Per andare incontro alla sensibilità delle
popolazioni che si aprivano al Vangelo. Creammo una scrittura basata sul
dialetto slavo meridionale parlato nei dintorni di Salonicco. Questo alfabeto
(gli studiosi lo classificano come glagolitico antico) venne usato per la prima
volta in Moravia verso la fine del IX secolo, e vedendo che esso attecchiva con
sorprendente rapidità – perché evitava i caratteri latini, sottraendo questi
popoli all’influenza dei Franchi, popoli del Nord Europa che erano già venuti a
contatto con la grande cultura dell’impero romano, e lasciava da parte
l’alfabeto greco, egemonico nell’impero bizantino – decidemmo di applicarlo in
altre zone toccate dalla nostra azione missionaria.

Voi eravate stati inviati a
evangelizzare come esponenti della Chiesa di Costantinopoli, ma a Roma come si
seguiva il vostro lavoro?

Cirillo
e Metodio:
Noi svolgemmo il nostro impegno missionario
in unione sia con la Chiesa di Costantinopoli, dalla quale eravamo stati
mandati, sia con la Sede Romana di Pietro, dalla quale fummo confermati nella
originalità della nostra azione, in questo modo si manifestava visibilmente
l’unità della Chiesa, che durante il periodo della nostra vita e della nostra
attività, non era ancora stata colpita dalla sciagura della divisione tra
l’Oriente e l’Occidente.

Se non sbaglio veniste anche in
Italia?

Cirillo
e Metodio:
A Roma fummo accolti con onore dal papa
Adriano II e dalla Chiesa romana; ci diedero l’approvazione e l’appoggio per
tutta la nostra opera apostolica e anche il permesso di celebrare la liturgia
nella lingua slava, cosa non ben vista in certi ambienti «tradizionalisti». C’è
sempre qualcuno che pensa solo a criticare! La storia dell’umanità come della
Chiesa è piena di «ottusi», ai nostri tempi come ai vostri!

Pensate che oggi ci sia bisogno di
missionari, non dico capaci di inventare alfabeti nuovi, ma che sappiano
inculturarsi sempre di più tra i diversi popoli, come avete saputo fare voi con
i popoli slavi?

Cirillo
e Metodio:
Certamente. La missione evangelizzatrice
della Chiesa ha bisogno di gente decisa, che non arretri di fronte a nessuna
difficoltà, pronta a scegliere strade sempre più innovative per conquistare i
popoli a Cristo. In fondo la Missio ad gentes sarà sempre un compito
specifico dei discepoli di Cristo; guai a voi se vi limitate a chiudervi in
recinti più o meno sacri.

Cirillo
concluse a Roma la sua vita il 14 febbraio 869 e fu sepolto nella Chiesa di san
Clemente, mentre Metodio fu consacrato arcivescovo dell’antica sede di Sirmio e
fu rimandato dal Papa in Moravia per continuarvi la sua provvidenziale opera
apostolica, proseguita con zelo e coraggio insieme ai suoi discepoli e in mezzo
al suo popolo sino al termine della sua vita (6 aprile 885). Dopo la loro morte
i loro discepoli vennero osteggiati con ogni mezzo da più parti, specialmente
in ambito ecclesiale, per la tenacia con cui portavano avanti la loro opera di
evangelizzazione e la loro azione liturgica e culturale con l’uso del loro
alfabeto, da tutti ormai chiamato «cirillico» in onore di chi lo aveva ideato.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

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Mario Bandera




Latte materno (1)

Mi è capitato di sentire affermare da qualcuna
delle mie allieve, durante una lezione di anatomia e fisiologia della mammella,
che se avessero avuto un figlio non avrebbero mai voluto allattarlo.
Incuriosita, ne ho chiesto il motivo, che per lo più è risultato essere di
carattere estetico: la paura di perdere la linea. In alcuni casi ho invece
constatato qualche opposizione di tipo psicologico. In verità, allattare un
figlio al seno non solo è naturale, ma è il modo normale di nutrire un neonato
per un appartenente alla classe dei mammiferi, quale è l’essere umano. Eppure
l’idea dell’allattamento al seno non è così universalmente accettata. Del resto
basta dare un’occhiata alle riviste o alle trasmissioni in cui si parla di
qualche stella o stellina dello spettacolo appena diventata mamma, per
osservare che la donna in questione, a poca distanza dal parto, ha in genere
miracolosamente riacquistato un fisico da modella, viene fotografata a spasso
con il bebè, quasi mai però
nell’atteggiamento di allattarlo al seno. Anche alle bambine viene inculcata
l’idea che l’allattamento del neonato è qualcosa che passa attraverso un
biberon. Si pensi a tutti quei bambolotti-neonato muniti di corredino e
immancabile biberon con finto latte a scomparsa, per simulae lo svuotamento.
Per non parlare delle pubblicità di tettarelle, poppatorni di ogni forma,
scaldabiberon e di tutto quanto serve per l’allattamento artificiale, che fino
a qualche anno fa potevamo vedere ovunque. Da qualche tempo questa pubblicità
in Italia è quasi scomparsa, perché, nel 2011, è stata emanata una norma1 che vieta di pubblicizzare qualsiasi sostitutivo del
latte materno adatto all’utilizzo al di sotto dei 6 mesi d’età, limita la
pubblicità del latte di proseguimento o di altri alimenti per lattanti e prevede
sanzioni per le violazioni. La norma fa seguito ad altri due decreti
ministeriali del 2005 e del 2009, che avevano avvicinato la normativa italiana2, senza però prevedere sanzioni per le violazioni, a
quella degli altri paesi, aderenti al «Codice internazionale sulla
commercializzazione dei sostituti del latte materno». Quest’ultimo fu approvato
nel 1981 dall’Assemblea mondiale della salute (Ams) e in seguito fu
aggiornato con alcune risoluzioni. Tale codice venne fatto proprio dall’Unicef,
per cui spesso se ne parla come del Codice Oms/Unicef. Lo scopo del Codice è
quello di proteggere l’allattamento al seno dalla concorrenza dei sostituti del
latte materno e dall’enorme giro d’affari delle multinazionali produttrici sia
dei latti in formula e degli alimenti per l’infanzia, che degli oggetti in uso
per l’allattamento artificiale. Nonostante a tale codice abbiano formalmente
aderito anche le multinazionali suddette (e anzi abbiano partecipato
attivamente con i loro rappresentanti alla sua stesura, in modo da difendere il
più possibile il loro giro d’affari), e nonostante molti paesi aderenti abbiano
legiferato in maniera più o meno aderente a esso, il marketing del latte
artificiale e di tutto ciò che l’accompagna è sicuramente uno dei fattori che
contribuisce a mantenere i tassi di allattamento al seno inferiori a quelli
raccomandati dall’Oms. Secondo quest’ultima, l’allattamento al seno dovrebbe
essere esclusivo per i primi sei mesi di vita (a richiesta del bebé e senza
orari prefissati), dopodiché è raccomandato che venga protratto fino a due
anni, contemporaneamente all’assunzione di alimentazione complementare. La
realtà dei fatti è invece ben diversa e con conseguenze spesso tragiche,
soprattutto nei paesi del Sud del mondo, dove le tecniche di marketing
delle multinazionali produttrici di latti in formula, Nestlè in testa, sono
particolarmente aggressive e consistono solitamente in iniziali foiture
gratuite di tali latti ai presidi ospedalieri, che li distribuiscono alle
neomamme per indue la dipendenza.

Secondo l’Oms e l’Unicef, nei paesi a basso
reddito ogni anno muore circa un milione e mezzo di bambini per non essere
stati allattati al seno. L’alimentazione artificiale dei neonati infatti
comporta due tipi di problemi. Innanzitutto l’alto costo dei latti in formula
non può essere sostenuto dalle madri, che – dopo avere provato il latte in
omaggio – si ritrovano ad avere perso il proprio (la mancata suzione al seno
riduce progressivamente la montata lattea fino ad azzerarla) e ad essere
costrette a proseguire con l’allattamento artificiale. L’unica soluzione
trovata da queste madri per fare fronte alla spesa ingente è quella di diluire
il latte fino a compromettee il valore nutritivo, quindi il neonato diventa
progressivamente denutrito, con possibili danni neurologici e rischio di morte.
L’altro grave problema è rappresentato dalla carenza di igiene nella pulizia
dei biberon, oppure dall’uso di acqua contaminata per la diluizione del latte,
fattori che possono scatenare gravissime infezioni gastrointestinali, spesso
letali. A queste si possono aggiungere altrettanto gravi infezioni respiratorie
e otiti, per il mancato sviluppo del sistema immunitario poiché il latte in
formula, a differenza di quello materno, non apporta anticorpi. I vari tipi di
latte artificiale, per quanto reclamizzati come umanizzati, mateizzati, ecc.,
non potranno mai essere nemmeno lontanamente paragonabili al latte materno, che
è una sostanza viva, derivante direttamente dal sangue ed è altamente «specie-specifico»
(quindi diverso da specie a specie di mammiferi). Nel latte materno si trovano
numerosi componenti presenti in bassa concentrazione, che non sono strettamente
correlati all’aumento ponderale del bambino, ma al corretto e normale sviluppo
del suo apparato digerente, di quello immunitario e del sistema nervoso. Solo
il latte umano contiene elementi specie-specifici che sono necessari al momento
della nascita per la normale colonizzazione batterica del tratto
gastro-intestinale del neonato (come l’immunoglobulina A secretoria o SIgA, la
lattornalbumina ed oltre 100 tipi di oligosaccaridi). Vi sono poi elementi che
promuovono la maturazione dell’apparato digerente e ne riducono la permeabilità
(nucleotidi, oligosaccaridi, fattori di crescita e la lattoferrina). Inoltre la
SIgA, la lattoferrina, la lattornalbumina e gli oligosaccaridi – insieme con il
lisozima, gli acidi grassi ed i leucociti – combattono le infezioni e le
infiammazioni. Infine i nucleotidi, i fattori di crescita, la SIgA e gli ormoni
favoriscono e modulano lo sviluppo del sistema immunitario del bambino.
Inoltre, il «colostro», cioè la prima secrezione mammaria prodotta nei primi
due giorni di puerperio in quantità variabile tra 70 e 200 cc. e con
composizione nettamente diversa da quella del latte, è di fondamentale
importanza per il neonato perché la sua composizione facilita notevolmente il
passaggio dalla nutrizione placentare a quella attraverso l’intestino. Esso
inoltre contiene enzimi capaci di iniziare la digestione delle proteine, dei
grassi e degli zuccheri, oltre a discrete quantità di anticorpi e di vitamina
A, B6 e C ed ha un maggiore contenuto di proteine e minore di zuccheri e di
grassi rispetto al latte (nel quale si trasformerà successivamente). In realtà,
l’allattamento al seno è vantaggioso tanto per il bambino, che per la mamma.
Tra i vantaggi per il bimbo ci sono: una migliore conformazione della bocca;
una minore probabilità di contrarre gastroenteriti (o di contrae di minore
gravità); protezione da infezioni come polmoniti, otiti, infezioni urinarie e
da Haemophilus influenzae; una minore probabilità di sviluppare
allergie; un miglioramento della vista e dello sviluppo psicomotorio; un
miglioramento dello sviluppo intestinale con minore rischio di occlusioni; una
protezione da malattie croniche, come il diabete di tipo 1, la cistite
ulcerativa ed il morbo di Crohn; una minore probabilità di ammalarsi di diabete
di tipo 2 e di obesità nell’adolescenza o nella vita adulta. Per quanto
riguarda la mamma i vantaggi sono: ripresa dal parto, con ritorno dell’utero
alla conformazione e alle dimensioni normali, più rapida; riduzione delle
perdite ematiche e corretto bilanciamento del ferro; prolungamento del periodo
di infertilità dopo il parto; recupero del peso-forma dopo la gravidanza;
riduzione del rischio di cancro alla mammella prima della menopausa e di cancro
all’ovaio; riduzione del rischio di osternoporosi. Inoltre il latte artificiale
può essere contaminato anche prima di aprire la confezione, è costoso e non è
mai a «chilometri zero». Esattamente il contrario del latte materno. Un altro
aspetto importantissimo dell’allattamento al seno è la sua capacità di favorire
al meglio il rapporto madre-figlio e di rispondere alle esigenze affettive del
bambino. È quindi evidente quanto sia importante promuovere l’allattamento al
seno e quanto sia importante l’istituzione delle «banche del latte», presso gli
ospedali, in modo che possano essere nutriti con latte umano anche quei bambini
le cui madri non possono allattare. In natura peraltro la percentuale di donne
che, dopo il parto, non producono per nulla latte è bassissima e si attesta
intorno all’1%, per lo più per insufficienza delle ghiandole mammarie o per
problemi tiroidei non curati. È altrettanto evidente che il consumo di latte
artificiale dovrebbe essere molto inferiore a livello mondiale rispetto a
quello effettivo e che il numero delle mamme che effettuano con successo
l’allattamento al seno – almeno per il periodo minimo indicato dall’Oms (6
mesi) – dovrebbe essere molto più elevato.

In Italia, secondo un’indagine Istat del
2004-2005 le donne che avevano allattato i figli al seno nei cinque anni
precedenti la pubblicazione dell’indagine erano state l‘81,1% delle neomamme.
La durata media del periodo di allattamento era salita da 6,2 mesi nel
1999-2000 a 7,3 mesi al momento della pubblicazione. Il 64,5% delle donne
aveva, per un certo periodo, allattato al seno in modo esclusivo o
predominante. L’Italia insulare è quella con il minore numero di donne che
allattano (74,2%) e quella in cui lo fanno per minore tempo (solo il 26,6%
aveva allattato per più di 6 mesi). Nel Nord Est si rilevano le quote più
elevate di mamme che allattano (86,1%) e che lo fanno per 7 mesi o più (36,8%).
Tra i maggiori ostacoli all’allattamento al seno c’è un’eccessiva
medicalizzazione del parto e dei primi giorni dopo la nascita del piccolo, che
non sempre viene attaccato al seno subito dopo la nascita. Inoltre c’è
l’aumento numerico dei parti cesarei. Risultano invece essere di grande aiuto
per un buon esito dell’allattamento al seno i corsi di preparazione al parto,
così come anche i pediatri. Per promuovere l’allattamento al seno, nel 1992 è
stato lanciato a livello internazionale dall’Oms e dall’Unicef il progetto Baby
friendly hospital iniziative
, recepito da alcune regioni italiane, per
attuare l’osservanza del Codice nei reparti ospedalieri.

Ancora prima della stesura del Codice sulla
commercializzazione dei sostituti del latte materno era già attiva l’Ibfan (Inteational
Baby Food Action Network
), cioè la «Rete internazionale di azione per
l’alimentazione infantile», per il controllo delle attività di mercato delle
principali compagnie produttrici di sostituti del latte materno (di biberon,
tettarelle, ecc.). Dal 1981 tale rete si è impegnata in un attento controllo
delle violazioni del Codice, anche grazie alle segnalazioni dei singoli
cittadini, pubblicando periodicamente rapporti dal titolo «Il Codice violato»,
la cui stesura è possibile grazie all’attività di Ibfan Italia
(www.ibfanitalia.org), un’associazione di volontariato costituita ufficialmente
nel 2005, ma già operante in modo informale dalla metà degli anni ’90. Le
strategie di mercato messe in atto dai produttori, che a parole rispettano il
Codice, ma lo violano continuamente, sono molteplici. Alle compagnie
produttrici è proibito contattare direttamente le neomamme in ospedale (anche
se in passato, soprattutto nei paesi più poveri, è capitato che qualche loro
operatore si sia intrufolato in ospedale, travestito da infermiere, per
avvicinare più facilmente le mamme). Esse aggirano l’ostacolo donando ad ogni
puerpera una valigetta contenente campioni di tisane (ma non di latte in
polvere, poiché questa pratica è proibita in Italia) e di prodotti per l’igiene
del piccolo, riviste per genitori piene di pubblicità, libri ricchi di consigli
e ricette per lo svezzamento, ma che di solito presentano al fondo svariate
pagine pubblicitarie, qualche pannolino, un succhiotto, talvolta un diario su
cui annotare tutti gli eventi della giornata del piccolo. Tra le prede più
ambite dai produttori ci sono gli operatori sanitari, perché è chiaro che un
tipo di latte consigliato da un medico, da un’ostetrica o il cui nome sia
scritto (come prodotto consigliato al momento del bisogno) nel libretto della
salute del bambino che viene consegnato ai genitori al momento della dimissione
dall’ospedale vale ben più di tante pubblicità su riviste o in televisione.
Oltre a fornire gli operatori sanitari di gadget di ogni tipo (penne,
ricettari, calendari, blocchetti per appunti, materiale illustrativo, ecc.)
recanti il logo del produttore, spesso le aziende produttrici sponsorizzano
convegni, pagano iscrizioni ai congressi e permanenze in lussuosi alberghi in
amene località turistiche, per pediatri ed altri specialisti del settore. Come
minimo ci si deve aspettare che le prescrizioni ed i consigli degli specialisti
alle neomamme siano oltremodo favorevoli per tali aziende. Poiché la legge
italiana proibisce la pubblicità del latte in formula per neonati, cioè del
tipo 1, una strategia utilizzata dai produttori è quella di vendere i latti di
proseguimento con la stessa confezione del tipo 1 (cambiandone magari solo il
colore), in modo da fae comunque pubblicità (rischiando però di generare
pericolose confusioni in un acquirente distratto). I tipi di latte artificiale
variano infatti per composizione: i latti a mezza crema, per i primi 3 mesi
contengono 10-12 gr. di grassi per 100 gr. di polvere, mentre quelli interi, da
usare dopo il terzo mese, contengono 16-28 gr. di grassi. Altra strategia di
mercato è quella di evidenziare in etichetta che il latte in questione è
addizionato di prebiotici, probiotici, acidi grassi omega3, vitamine, ecc.,
magnificandone le capacità di favorire lo sviluppo cerebrale, di migliorare la
vista e quant’altro. Tali caratteristiche sono naturalmente presenti e con
molto altro ancora nel latte materno, che fa molto di più, ma questo non è
detto dalla pubblicità, anche se 
attualmente sulle confezioni deve essere scritto che, laddove è
possibile, è da preferirsi l’allattamento al seno. C’è inoltre un nutrito
mercato di prodotti per aumentare la quantità di latte materno e migliorae la
qualità. Apparentemente si tratta di prodotti favorevoli all’allattamento al
seno, ma in realtà insinuano nella mamma il dubbio che il suo latte non sia più
in grado di nutrire al meglio il bambino, inducendola a passare più o meno
rapidamente al latte artificiale. Le violazioni al Codice si rilevano molto
spesso anche nei punti vendita, dove facilmente si trovano sconti, promozioni,
regali omaggio per i vari tipi di latte, oltre che su biberon e tettarelle.
Quando tali promozioni riguardano il latte di tipo 1 non solo è violato il
Codice, ma anche la legge italiana3. Il decreto in questione proibisce la pubblicità e la promozione
del latte per lattanti, cioè il tipo 1 e ne vieta l’offerta di campioni o
qualsiasi altro espediente promozionale, che possa indurre a passare
dall’allattamento al seno a quello artificiale. In realtà spesso gli sconti e
le promozioni riguardano proprio questo tipo di latte. Nel caso capitasse di
osservare queste e altre infrazioni è possibile e doveroso fare una
segnalazione all’Ibfan, oppure ai Nas («Nucleo antisofisticazioni e sanità» dei
carabinieri).

Il mestiere del genitore è il più difficile
del mondo dato che i bimbi nascono senza il libretto d’istruzioni.
Un’informazione alternativa al battage pubblicitario è fondamentale per
i genitori, i quali innanzitutto non dovrebbero mai dimenticare che la natura
ci ha ampiamente foiti di quanto serve per allevare i nostri piccoli e sono
rari i casi in cui non sia possibile farvi ricorso.

Rosanna Novara Topino

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Rosanna Novara Topino




Cent’anni di Etiopia: dalle macchine Singer all’informatica,

La Missione nell’Etiopia di ieri e di oggi.

La presenza dei missionari della Consolata in un paese
tutt’altro che semplice.

La missione nell’Etiopia di ieri

«Con
santa letizia e sensi di viva gratitudine verso la S. Sede comunichiamo ai
nostri lettori un’importante notizia. La S.C. di Propaganda ha, con recente
decisione, creato una nuova prefettura Apostolica intitolata del Kaffa
meridionale, e l’ha affidata per l’evangelizzazione ai missionari del nostro
Istituto». Era il 1913, esattamente cento anni fa, quando sul numero di marzo
di La Consolata – come allora si chiamava la nostra rivista – veniva
dato l’annuncio dell’assegnazione ai missionari della Consolata della
prefettura del Kaffa in Etiopia, un territorio vasto «più che l’Italia
settentrionale (di cui) non è possibile dare notizie complete, essendo il
medesimo ancora in gran parte inesplorato». Ai missionari era affidato il
compito di portare avanti il lavoro cominciato nel 1846 dal cappuccino
monsignor Guglielmo Massaia, che fu però cacciato dall’Etiopia nel 1872.

Monsignor
Gaudenzio Barlassina, futuro superiore generale dell’Istituto Missioni
Consolata, partì nel dicembre del 1914 da Genova alla volta di Mombasa, per
entrare ad Addis Abeba due anni dopo, la sera di Natale del 1916 «travestito da
mercante, cavalcando un mulo» (vedi l’articolo Ieri e sempre di B.
Bellesi e G. Mazzotti su MC 02/2001). A rendere difficile l’entrata in Etiopia
dei missionari erano i delicati equilibri diplomatici interni e inteazionali
e la resistenza alla penetrazione di altre confessioni da parte del clero copto,
dal cui appoggio politico i regnanti etiopi non potevano prescindere.

I
primi passi della missione in Etiopia furono all’insegna della prudenza:
dall’incontro con Ras Tafari, il futuro Haile Selassie, all’epoca reggente –
mentre imperatrice era Zauditù, una delle figlie del precedente imperatore
Menelik II, – Monsignor Barlassina comprese che un permesso dato dal principe a
missionari cattolici avrebbe provocato una levata di scudi da parte del vescovo
copto che il reggente non poteva permettersi di affrontare. Barlassina decise
perciò di «travestire» la missione da impresa commerciale. Con la
collaborazione di Felice Gullino, un torinese che aveva stabilito ad Addis
Abeba un laboratorio di ebanisteria, fu creata una società che fra il 1917 e il
1918 aprì due negozi a Ghimbi e Billo, avamposti nel territorio della nuova
prefettura. Si aggiunsero poi laboratori di sartoria e, nel 1919, la
rappresentanza commerciale per le macchine da cucire Singer. Dopo il viaggio di
perlustrazione del Kaffa effettuato da Barlassina fra il gennaio e l’aprile del
1919 (e descritto nel libro di E. Borra, La carovana di Blass e in
quello di G. Tebaldi, L’ultimo carovaniere, entrambi editi da EMI), il
prefetto si fece un’idea precisa del territorio della sua prefettura e programmò
l’espansione delle missioni con l’apertura di nuove stazioni. Nel 1924
arrivarono sei suore della Consolata, autorizzate a stabilirsi nel paese come
infermiere. Questo evento rappresentò di fatto il primo passo verso l’uscita
dalla clandestinità per i missionari: «Le suore non si potevano nascondere» –
scrive padre Giovanni Crippa nel libro
I missionari della Consolata in Etiopia (Edizioni Missioni Consolata
1998), sul quale si basa questa ricostruzione. «La prudenza aveva imposto ai
missionari botteghe da mercanti e abiti civili. Le grandi sottane delle suore e
i loro crocifissi difficilmente potevano passare per un tipico costume europeo».

Agli
ambulatori – prima ad Addis Abeba e poi nel Kaffa – si affiancarono,
lentamente, le scuole, mentre più timidi e nascosti, sebbene non inesistenti,
rimanevano la ricerca di cattolici occulti e il sorgere di vocazioni fra gli
etiopi. Quando, nel 1933, Barlassina fu eletto superiore generale dei
missionari della Consolata e rientrò in Italia, la missione nella prefettura
del Kaffa poteva dirsi consolidata e godeva di una buona libertà d’azione. Il
conflitto italo–etiope portò poi nel 1935 all’espulsione dei missionari che
cominciarono a tornare in Etiopia l’anno successivo con l’occupazione fascista
in veste di cappellani militari. La parola d’ordine era «rientrare al più
presto», riporta ancora Crippa, ma l’essere al seguito di una potenza europea
affamata di colonie e accecata dal mito dell’impero rese la missione funzionale
al sistema coloniale e l’azione missionaria ne fu stravolta. Nel 1942, in
seguito alla vittoria delle truppe britanniche su quelle italiane, i missionari
vennero di nuovo espulsi dal paese.

Si
dovette attendere quasi un trentennio perché i missionari della Consolata
potessero fare ritorno in Etiopia: nel 1970 padre Giovanni De Marchi ottenne il
visto per l’entrata nel paese ma si presentò come membro dei Fatima Fathers,
per evitare di richiamare alla memoria le passate esperienze degli anni
Quaranta. Inizialmente i missionari si stabilirono nel vicariato apostolico di
Harar e solo nel 1980 assunsero la nuova prefettura di Meki dove, nel giro di
tre anni, furono messe in funzione quattro parrocchie con le relative attività
di promozione umana, cioè scuole matee, elementari, professionali, dispensari,
centri di assistenza ai bambini disabili e ai non vedenti (vedi l’articolo di
B. Bellesi su MC 05/2003, I grandi missionari: Padre Giovanni De Marchi).
Gli anni Settanta furono anche quelli dell’arrivo dei missionari della
Consolata a Gambo dove nel 1980, su richiesta delle autorità etiopi, si iniziò
ad adibire una parte del già esistente lebbrosario a ospedale generale.

Anche
oggi, a cent’anni dall’assegnazione del Kaffa all’Istituto, l’Etiopia continua
a essere un paese nel quale l’entrata e la permanenza sono tutt’altro che
scontate. Fino a poco tempo fa, riferiscono i padri attivi in Etiopia, la
Chiesa Cattolica aveva lo status di resident charity (istituzione
benefica residente) e i missionari erano autorizzati a operare in quanto membri
di tale istituzione e con incarichi specifici, determinati e a termine. Oggi,
sebbene sia di recente cambiata la legislazione, il principio sembra essere
rimasto lo stesso: la presenza nel paese è vincolata alla realizzazione di
progetti di carattere sociale e cioè nell’ambito dell’istruzione, della sanità,
della formazione.

Uno sguardo sull’Etiopia di oggi

Per
accorgersi che l’Etiopia è un paese peculiare che mal si adatta a essere
sommariamente etichettato come africano non occorre essere antropologi o
storici: basta ascoltare gli etiopi. Il loro senso di unicità, la distanza
culturale, religiosa e storica che li separa dagli altri popoli che con essi
condividono il continente sono, a loro dire, evidenti. «Pochi altri popoli
possono vantare radici così antiche», spiegava a chi scrive un adolescente
incontrato durante una visita in Etiopia nel 2009, «e probabilmente anche il
fatto di non essere mai stati colonizzati ci rende diversi dagli altri».

Che
la presenza dello stato sia più capillare e la resistenza all’occidentalizzazione
sia più decisa risulta chiaro anche a un primo sguardo alle vie di Addis Abeba:
i grandi centri commerciali e gli enormi cartelloni che pubblicizzano bibite o
capi d’abbigliamento sportivo così frequenti in molte metropoli africane sono completamente
assenti nella capitale etiope. Al loro posto ci sono piuttosto piccoli
supermercati che vendono prevalentemente prodotti locali o di importazione
cinese e poster celebrativi dell’autorità, come quello che negli anni
del governo di Meles Zenawi (morto esattamente un anno fa) ritraeva il primo
ministro con il braccio proteso in avanti come ad indicare la via verso un più
roseo futuro a un gruppo di bambini sorridenti. Sull’immagine campeggiava la
scritta «Un leader africano impegnato per la democrazia, pace e lo sviluppo» (vedi
foto qui sotto
).

Ma,
al di là dei simboli e delle generalizzazioni, l’Etiopia occupa davvero una
posizione particolare nel panorama del continente: sede dell’Unione Africana e
della Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite, il paese è
letteralmente inondato di programmi (e fondi) delle agenzie inteazionali.
Secondo i dati Ocse, l’Etiopia è il paese africano che riceve più aiuti
pubblici allo sviluppo dopo la Repubblica Democratica del Congo, con un totale
nel 2011 pari a oltre tre miliardi e mezzo di dollari. E, se gli Stati Uniti «corteggiano»
l’Etiopia – che Washington ritiene cruciale dal punto di vista geopolitico e
strategico – a suon di aiuti allo sviluppo, la Cina dal canto suo controbatte
con la strategia che sta applicando in tutto il continente, quella degli
investimenti massicci. Solo per citare il più recente, il Financial Times
riporta che Huajian – un’azienda cinese che produce scarpe da donna per brands
come Tommy Hilfiger, Guess, Naturalizer, Clarks e che ha già una
fabbrica vicino a Addis Abeba dove lavorano seicento persone – si è ora
impegnata a investire insieme alla China Development Bank due miliardi
di dollari nei prossimi dieci anni per creare una zona di produzione in Etiopia
che dovrebbe arrivare a impiegare circa centomila persone.

Con
tassi di crescita a volte anche a due cifre, l’Etiopia si trova oggi sospesa
fra la povertà oggettiva dei suoi ottanta milioni di abitanti e una politica
ambiziosa per il futuro. Il più recente e clamoroso episodio che testimonia
questa ambizione è il progetto di costruzione della «grande diga della
Rinascita» sul Nilo Azzurro, iniziativa che ha scatenato le ire dell’Egitto –
dove la maggior parte della popolazione vive nella striscia di terra bagnata dal
fiume – al punto da spingere il presidente Mohamed Morsi a dichiarare che gli
egiziani «difenderanno con il sangue ogni goccia del Nilo». Le dichiarazioni di
Morsi sono state subito ridimensionate, ma la tensione resta palpabile.
L’Etiopia, che ha affidato all’italiana Salini la realizzazione
dell’opera monumentale, ha scommesso il tutto per tutto su questa diga. Di
fronte al rifiuto da parte delle agenzie inteazionali di finanziare il
progetto in mancanza dell’assenso dei paesi rivieraschi, l’Etiopia ha deciso di
realizzae autonomamente la costruzione, che costerà circa cinque miliardi di
dollari, esortando la popolazione ad acquistare obbligazioni.

I
tempi della clandestinità di padre Barlassina sono ormai lontani; ma, oggi come
allora, la voglia di affermazione e di rivalsa del paese hanno certamente un
ruolo non secondario nel fare dell’Etiopia un luogo dove occorre sempre
chiedere permesso.

Chiara Giovetti

       Gambo, informatizzare l’ospedale                                                    

Uno dei progetti che in questo momento Mco sta sostenendo è quello
dell’informatizzazione dell’ospedale di Gambo. Dato il suo grande bacino
d’utenza – sulla carta sarebbe di circa centomila persone, ma la provenienza
dei pazienti suggerisce che quella servita sia un’area molto più ampia –
l’ospedale deve gestire una quantità notevole di pazienti e quindi di
informazioni, documenti, cartelle cliniche. Attualmente la registrazione dei
pazienti avviene in modo manuale su supporto cartaceo, ma questo metodo genera
problemi per l’identificazione univoca del paziente, la conservazione dati, la
comprensione grafica, la completa e corretta compilazione dei documenti e crea
difficoltà di cornordinamento fra i reparti dell’ospedale, il laboratorio, la
farmacia e l’amministrazione. Può succedere, cioè, che il paziente smarrisca documenti
come le prescrizioni mediche o che il personale impieghi ore nella ricerca
delle cartelle dei pazienti, a volte accatastate anche sul pavimento (vedi
foto). Con il progetto di informatizzazione si vorrebbe dunque procedere
all’acquisto di macchine e server, all’installazione dei programmi di gestione
e alla formazione del personale per l’utilizzo del sistema. I benefici
derivanti dalla realizzazione di questo progetto saranno un minor rischio di
perdita di informazioni relative al paziente e alla terapia e un alleggerimento
del carico di lavoro, oggi davvero pesante, per il personale dell’ospedale. (Chi.Gio.)

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Chiara Giovetti




l’Italia religiosa tra disinteresse e sospetto

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 12
A fine maggio, diversi studiosi riuniti a Camaldoli (Arezzo)
hanno riflettuto sull’assenza in Italia di un quadro legislativo chiaro
riguardante la libertà di religione, e per formulare proposte da offrire al
parlamento. Molte le valutazioni sulla situazione odiea: il disinteresse
della politica porta conseguenze negative sulla convivenza civile nella nostra
Italia sempre più multiculturale e multireligiosa, la marginalità del tema
religioso porta alla mimetizzazione di gruppi e movimenti e alla scissione
dell’identità religiosa dall’identità civile. È necessario creare una nuova
sensibilità che porti a nuovi strumenti legislativi inclusivi e promotori di
dialogo
.

L’Italia ha
una legislazione inadeguata in materia di libertà religiose, nonostante un
programma costituzionale attento e, per certi aspetti, esauriente.

L’interpretazione del dettato costituzionale
è controversa: non tanto sul generale valore della libertà, sulla valutazione
che la religiosità sia un comportamento umano costituzionalmente apprezzato e
protetto, quanto sul sistema di attuazione della protezione. Secondo alcuni,
l’opera delle istituzioni civili sarebbe limitata dall’incompetenza statale in
materia religiosa, e fondata sul riconoscimento di una competenza quasi
esclusiva delle organizzazioni della religiosità collettiva (le confessioni
religiose). Secondo altri, l’attuazione delle libertà religiose sarebbe oggetto
di un’ampia e diretta competenza dell’autorità civile, fatta salva l’autonomia
delle dette organizzazioni. È principalmente da questo divario dottrinale e
politico, che investe i fondamenti del nostro metodo democratico, che si
produce una situazione di stallo istituzionale a causa della quale non si
riesce a emanare una legge generale. Vi sono forze che non vogliono una tale
legge e altre che ne auspicano l’emanazione. Molti, in entrambi i fronti,
dubitano che la nostra civiltà democratica attuale sia capace di porre rimedio
anche ai guasti unanimemente riconosciuti della situazione.

La Carta di Camaldoli

Partendo da queste considerazioni, la
rivista «Quadei di diritto e politica ecclesiastica», edita da Il Mulino, ha
riunito a Camaldoli (Ar) diversi docenti italiani di diritto ecclesiastico e
canonico. Dall’incontro è nata l’idea di costituire un gruppo di lavoro in
grado di elaborare una proposta da trasmettere al parlamento per favorire la
redazione di una legge organica sulla libertà religiosa nel nostro paese.

La politica, tra  disinteresse e
sospetto

Le politiche conceenti la libertà
religiosa e di coscienza nel contesto italiano soffrono di un problema di
relazione tra centro e periferia: le istituzioni e il legislatore faticano a
comprendere la trasformazione sociale e si perdono in tecnicismi normativi che
si scontrano con le varie dimensioni decisionali: regolamenti regionali,
amministrazioni locali, leggi statali e sovranazionali. In tal senso il fatto
che l’art. 117 della Costituzione attribuisca al governo centrale la competenza
esclusiva in materia di rapporti fra stato e confessioni religiose non comporta
che le questioni di politica ecclesiastica occupino un ruolo rilevante
nell’agenda dell’esecutivo. Infatti, fatte le dovute eccezioni, la prassi
politica e amministrativa testimonia che sui temi della libertà religiosa e di
coscienza domina un sostanziale disinteresse. Lo dimostrano i programmi
strategici delle diverse forze partitiche, per le quali il tema della libertà
religiosa è un «non problema», e la laicità, osserva il professor Nicola
Colaianni (già giudice della Corte suprema di Cassazione fino al 2003,
professore di Diritto ecclesiastico, italiano e comparato, nell’Università di
Bari), un mero «orpello con cui infiorettare i punti programmatici sui diritti».

La verità è che la classe dirigente si
occupa del problema della libertà religiosa solo quando alcuni fatti acquistano
rilievo sul piano politico nazionale, com’è avvenuto, ad esempio, con i casi
Lautsi (l’esposizione dei crocifissi nei luoghi pubblici, ndr) e
Englaro. Fuori da queste circostanze non si può negare che i nodi problematici
sollevati dai comportamenti di natura religiosa, o motivati da ragioni di
coscienza, rimangano marginali nel dibattito politico, e di limitato interesse
per la pubblica amministrazione. Non è una provocazione affermare che esiste un
diffuso sospetto verso il pensiero religioso e un generale analfabetismo
storico-teologico. Quest’ultimo emblematicamente rappresentato sia
dall’esclusione dell’insegnamento della teologia nelle università pubbliche
(avallata nel 1873 dalla stessa Chiesa cattolica), sia dalla marginalità, nel
panorama culturale ed editoriale italiano, di quella parte del lavoro
filosofico-politico – pensiamo ad autori come Rensi, Capitini o De Giorgis –
attenta a disvelare l’attualità e la forza del pensiero religioso nel
superamento della frattura fra fede e modeità.

Ciò che viene meno

Le conseguenze pratiche di tutto ciò sono
molteplici: innanzitutto la scarsa attenzione e sensibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso, in contrasto con quanto richiesto nel 2007
dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) con le Guidelines
di Toledo [Art. 19: Tutti hanno
diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma,
individuale o associata, di fae propaganda e di esercitae in privato o in
pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. /
Art. 20. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una
associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni
legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità
giuridica e ogni forma di attività]. in materia d’insegnamento delle religioni nelle scuole
pubbliche, e, ancor più, dal libro bianco sul dialogo interculturale, Vivere
insieme in pari dignità
, e dalla Raccomandazione n. 12 del Consiglio
d’Europa sulla Dimensione delle religioni e delle convinzioni non religiose
nell’educazione interculturale
rivolta, nel 2008, ai ministri
dell’educazione dei quarantasette paesi membri. Ma soprattutto ciò che è più rilevante
è che la marginalità del dibattito sulla libertà religiosa ha portato a
ritenere secondario il problema della realizzazione di un maturo pluralismo
religioso. Come evidenzia il professor Carlo Cardia (docente di Diritto
Ecclesiastico all’Università degli Studi di Roma 3, avvocato, giurista ed
editorialista di Avvenire): «È nel conflitto e nel cortocircuito tra
intransigenza cattolica e correnti laiciste che sta la radice di una chiusura
provinciale che in Italia condiziona le relazioni ecclesiastiche» e,
aggiungeremmo, influisce negativamente su un potenziale dibattito costruttivo
in materia, e su un progetto di politica ecclesiastica innovativo e di ampio
respiro.

L’identità separata dal diritto di credo?

La perifericità del religioso nel dibattito
politico-istituzionale italiano emerge anche sotto altre forme. Innanzitutto
nella tendenza sempre più accentuata del governo a separare i temi sensibili
connessi all’identità e all’appartenenza etnico-religiosa dalla sfera del
diritto alla libertà di credo, come dimostra, ad esempio, il parere formulato
dal comitato per l’Islam italiano in materia di burqa e del niqab.
Quest’ultimo invita il legislatore a «deconfessionalizzare» la questione del
velo integrale, disgiungendola dall’esercizio del diritto di libertà religiosa.
D’altronde lo stesso Consiglio di stato, nella decisione del 15 aprile 2008, ha
assunto in materia una posizione neutrale, riconducendo l’uso del velo
integrale a pratiche innanzitutto etnico-culturali.

È senza dubbio ascrivibile alla medesima
debole sensibilità ai temi della libertà religiosa il complesso problema del «mimetismo»
cui ricorrono non poche organizzazioni, tra cui quelle musulmane, al fine di
ottenere il riconoscimento di alcuni diritti riconducibili alla sfera degli
art. 19 e 20 della Costituzione1. Nascondere le finalità religiose e di culto per vedere
crescere le probabilità di successo delle proprie attese testimonia la
marginalità sul piano dell’argomentazione politica, del diritto alla libertà
religiosa.

L’Italia religiosa in mutamento

La Carta di Milano 2013, redatta dal Forum delle
religioni
di Milano in occasione dei 1700 anni dell’Editto di Costantino,
ha evidenziato che l’Italia religiosa sta profondamente cambiando, e non si
tratta solo della ricorrente immagine, che tanto timore suscita in una parte
dell’opinione pubblica e della classe dirigente, di un Islam minaccioso, o
dell’ambigua presenza di nuovi movimenti religiosi. Il cambiamento sta
coinvolgendo lo stesso cattolicesimo, «vero basso continuo» della storia
nazionale italiana, osserva Enzo Pace, ordinario di sociologia presso la Facoltà
di Scienze Politiche dell’Università di Padova, studioso e autore di molti
saggi sul fondamentalismo. La communio fidelium (comunione dei fedeli),
nell’interesse della quale fu confermato a Villa Madama nel 1984 il patto di
collaborazione (concordato) tra stato italiano e Chiesa precedentemente siglato
nel febbraio del 1929, sta profondamente mutando. Essa sta subendo
contaminazioni del tutto inedite e inattese, inimmaginabili nella prima metà
degli anni Ottanta: cattolici africani, asiatici, latinoamericani si sono
stabiliti nel nostro paese a seguito delle migrazioni transcontinentali. Essi
cominciano a popolare le parrocchie a fianco dei circa duemila parroci non
italiani che hanno nel frattempo coperto i vuoti lasciati dalla crisi di
vocazioni e dall’invecchiamento del clero nostrano.

Il processo di cambiamento che si sta
velocemente e inesorabilmente attuando sta dunque modificando radicalmente il
paesaggio religioso italiano, da sempre caratterizzato da un’accentuata
monocultura confessionale.

Nuova sensibilità e nuovi strumenti cercasi

Tutto ciò richiede, oltre a una nuova
sensibilità culturale, un rapido adeguamento degli strumenti normativi. Questo
significa che le istituzioni della repubblica hanno l’onere di rivedere le
ragioni del diritto confrontandole con quelle dell’etica sociale; ridefinire il
confine fra ciò che è negoziabile e ciò che non lo è, perché contrario ai
diritti fondamentali della persona; ridefinire ciò che può essere incluso e ciò
che deve essere escluso dal sistema di relazioni sociali; trasformare
l’estraneità in solidarietà gestendo il complesso e difficile rapporto tra la
società multietnica e i valori fondamentali della nostra carta costituzionale.

L’atteggiamento assunto negli ultimi
trent’anni dalle istituzioni centrali della Repubblica italiana nei confronti
del crescente pluralismo religioso è stato improntato a una situazione di paura
sociale. Pur in maniera disomogenea e spesso contraddittoria, gli enti locali e
le regioni sono stati spesso obbligati dai fatti a optare per soluzioni
innovative e coraggiose sul piano delle politiche di integrazione e di dialogo.
L’amministrazione centrale dello stato, e ancor più il legislatore, invece,
hanno preferito perseguire strategie attendiste, nel timore di doversi esporre
dinanzi alle istanze, spesso più che legittime, provenienti dalla società
civile e dalle rappresentanze di alcune minoranze confessionali. In tutti
questi casi, come evidenzia il professor Alessandro Ferrari, docente di diritto
canonico ed ecclesiastico all’Università degli studi dell’Insubria, esperto in «intesa
tra stato e religioni» (in particolare l’Islam), lo stato, anziché fornire alle
nuove religioni un diritto e procedure certe con cui misurarsi, ha preferito
optare per «la via meno impegnativa e più aleatoria e dall’incerto valore
giuridico di tentare di subordinare il godimento dei profili più positivi del
diritto di libertà religiosa alla loro adesione a carte di impegno o carte di
valori predisposte dalle pubbliche amministrazioni, e costituenti una
reinterpretazione e una riscrittura selettiva dei principi e dei valori già
espressi dalla Costituzione».

Solo il tempo lo dirà

Basti pensare all’uso che è stato fatto
della Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione del 2007:
da strumento di inclusione si è trasformata in mezzo funzionale all’esclusione
preventiva delle realtà religiose percepite come scomode e distanti dal sentire
comune. Ancora, non è forse vero che i pareri della Consulta giovanile per il
pluralismo religioso e culturale, del Comitato per l’Islam italiano o della
Conferenza permanente per il pluralismo religioso sono principalmente serviti a
legittimare decisioni già assunte da tempo dal potere politico, senza che di
fatto i veri nodi del pluralismo religioso venissero risolti?

Le nuove intese sottoscritte nel febbraio
2013 per regolare i rapporti tra stato italiano e l’Unione induista italiana e
l’Unione buddista italiana (Ubi), di grande rilievo simbolico perché le prime
che lo stato italiano approva con confessioni non cristiane – a eccezione degli
accordi con le Comunità ebraiche nel 1989 -, arricchiscono il pluralismo
religioso. Tuttavia, non si può negare che siano stati scelti gli interlocutori
meno ostici.

In un futuro non lontano lo stato italiano
sarà così coraggioso da adottare anche nei confronti delle comunità religiose
più problematiche, come quella musulmana, la stessa procedura innovativa? Un
organo così strategico come il Dipartimento per le libertà civili e
l’immigrazione del ministero dell’Inteo sarà disposto a collaborare
fattivamente, e non soltanto con formali patrocini, su progetti coinvolgenti le
questioni politicamente più delicate e sensibili del pluralismo religioso e
dell’integrazione? Solo il tempo aiuterà a dare una risposta a questi
interrogativi da cui dipende buona parte del destino della libertà religiosa in
Italia.

Luca Rolandi

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Luca Rolandi




La Politica del cristiano | Rendete a Cesare – 6

«Perché il mondo sia salvato per mezzo di lui…» (Gv 3,17)

«Non prego perché tu li tolga dal mondo» (Gv 17,15)

Cattolici finti e politica evangelica

Ogni volta che tra i cattolici, e oggi tra chiunque, si accenna a «politica» o, peggio ancora, ai «politici», ci si trova di fronte a un senso di ribrezzo e di nausea, perché «politica» è diventata sinonimo di corruzione, di sporcizia, di malaffare, e nel caso più benevolo di furbizia. Il merito principale è dei politici professionisti che si professano cattolici, ma i cui comportamenti e le cui scelte sono sistematicamente in contraddizione con la loro asserita appartenenza religiosa. Essi non hanno scelto di servire il loro popolo in nome di una superiore carità che ha come obiettivo il «bene comune», al contrario, essi si servono del loro stato di credenti per approfittare dei benefici ideologici e materiali che la loro condizione di eletti offre loro senza che essi facciano alcuna fatica. La cronaca è piena di questi cultori di «sistemi di peccato» che trafficano tra il diavolo e l’acqua santa con noncuranza e senza problemi di coscienza: la maggior parte degli inquisiti, dei condannati con sentenze di tribunali sono cattolici dichiarati. Cattolici che si vantano di essere tali e non perdono occasione di mettersi in mostra come praticanti e osservanti religiosi, che addirittura fanno parte di associazioni e movimenti religiosi «impegnati», qualcuno anche con «voti» espliciti, e che al tempo stesso militano alacremente in partiti dove la corruzione scorre con dovizia, sostengono governi che legiferano a favore di mafiosi e delinquenti, votano contro gli arresti di camorristi, rubano direttamente e sostengono sistemi perversi, dove l’economia è a favore dei più forti e potenti e a danno dei più poveri e indifesi.

Per un cristiano, «la Politica» dovrebbe essere il prolungamento del Vangelo, l’ambito e l’obiettivo della propria azione di testimone del Regno, perché è strettamente legata all’Eucaristia, dove il Pane indiviso è «spezzato» sull’altare che convoca tutti i popoli della terra per realizzare la profezia del «sentiero di Isaia» (cf Is 2,1-5). Tutte le volte che il credente celebra l’Eucaristia, prima di partecipare la comunione al Pane, si ferma e guardando negli occhi chi gli sta vicino, di fronte e dietro, proclama «Padre Nostro», dove l’aggettivo possessivo «nostro» diventa o profezia o condanna. La teologia che il «Padre Nostro» esprime, infatti, riguarda l’orizzonte della ecclesialità, perché Gesù non ci ha insegnato a pregare dicendo «Padre Mio», ma sempre e solo «Padre Nostro», forma inclusiva dei singoli individui, senza esclusione di alcuno. La paternità di Dio, infatti, per definizione è reale solo se include la fraternità, senza condizione. Anzi, la fraternità totale è segno e sacramento della presenza della paternità di Dio, altrimenti questa può essere un’illusione. Don Lorenzo Milani traduceva tutto questo principio in una affermazione lapidaria di altissima pedagogia: «Politica è sortirne tutti insieme. Sortirne da soli è l’avarizia» (Lettera ad una professoressa, Lef Firenze 1966, 14). Il Cristianesimo è per sua natura «assemblea», cioè il contrario di individualismo; è progetto d’insieme, che è il contrario dell’interesse privato; è convenire insieme, che è il contrario di vagare da soli.

Celebrare l’Eucaristia è dunque l’atto più politico e rivoluzionario del credente sulla terra perché da un lato esprime la missione senza confini propria della proclamazione della Parola e dall’altro enuncia la profezia dei segni del pane e del vino che non sono «dati» per essere mangiati in santa pace, ma perché a chi li mangia diano il vigore e la forza di spezzarsi e distribuirsi a loro volta con la stessa volontà e libertà del Signore Gesù. «Mangiare» insieme è la prima forma di religiosità basilare e in tutte le religioni, il cibo ha una valenza sovrumana perché accomuna il cielo e la terra e in terra convoca i diversi per farne un «solo corpo e un solo Spirito» (Preg. eucar. II). I cristiani dovrebbero amare «la Politica» e custodirla dai predatori che per tornaconto e interesse personale o di gruppo la scempiano e la deturpano in modo inverecondo. «La Politica» per il credente è l’azione santificatrice dello Spirito del Risorto che fa emergere l’identità di figli di Dio che converte alla condivisione. Politica è pregare agendo e agire pregando. Tra i cattolici, solo chi ha un altissimo senso di Dio e della propria insufficienza, solo chi ha sperimentato l’incontro con il Signore, solo chi è immerso nello Spirito missionario del risorto dovrebbe e potrebbe spingersi a operare in politica, come sacramento visibile della Presenza di Dio che pone la sua tenda in mezzo al mondo di ogni tempo e cultura.

Gesù politico-servo

Gesù fu un grande politico perché non guardò mai al suo interesse, ma ad esso antepose sempre il benessere materiale e spirituale delle folle che lo cercavano. Gesù esercita in sommo grado la politica come servizio e disponibilità verso i bisogni della povera gente, come sfamare gli affamati, guarire i malati, consolare i dubbiosi, prendersi cura dei piccoli e dei deboli. Nello stesso tempo, egli prende le distanze dai potenti che fanno della politica lo strumento della loro sete di onnipotenza per avere sempre più potere per i propri interessi. In tutto il Vangelo, Gesù opera prevalentemente lontano dalle grandi città, specialmente se sono centri di potere e predilige i villaggi, anche non ebrei, ma abitati da pagani, ai quali offre lo stesso servizio e gli stessi segni che opera per i Giudei. è il criterio della «Politica generale», quella che non fa preferenze, ma guarda all’umanità nella sua globalità di creatura del Padre.

Le beatitudini nella versione di Luca sono una chiara e inequivocabile «scelta preferenziale per i poveri» (cf Lc 6,20-26). Gesù non è il Messia adattabile a tutte le stagioni o l’uomo per tutti: egli esige non solo la conversione interiore, come atteggiamento morale personale, ma impone l’obbligo di una scelta radicale, come fa con l’uomo ricco, al quale impone di «vendere» le ricchezze per diventare suo discepolo. Sappiamo com’è andata a finire e sappiamo anche perché: «Aveva molte ricchezze» (Mc 10,21-22).

Gesù non prende mai le difese dei ricchi e quando li incontra li obbliga a prendere coscienza del valore sociale e comunitario dei loro beni (ricco epulone, Zaccheo, uomo ricco, ecc.). Nessuna ricchezza è individuale perché la creazione non può mai essere privata, avendo ricevuto fin dalle origini una destinazione universale. Gesù si differenzia sempre da chi esercita il potere con i quali non cerca mai il conflitto diretto e se può opera in periferia, mai a Cesarea, sede del governatore romano. Affronta però il conflitto, quando è inevitabile. In questo modo egli afferma la sua prospettiva che non è mai confusione di ruoli o di competenze.

La prova che la distinzione tra la «regalità» di Gesù e il «potere» di qualsiasi Cesare non è questione di aree d’influenza o di gestione di leggi, ma di prospettive e quindi, in conseguenza, di logiche che comportano decisioni, scelte, valutazioni, discernimento, sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17 di Giovanni, dove  Gesù stesso equipara  i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

«Essere nel mondo» significa vivere la stessa sorte di tutti gli esseri viventi, partecipare all’esistenza dell’umanità. Null’altro. Infatti, essere cristiani o credenti non implica diritti particolari o privilegi o «statuti» diversi da quelli di chiunque altro. L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo, inteso come complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini o un disincarnarsi dall’umano, ma il rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia, della prevaricazione, del potere basato sulla forza o, peggio ancora, del potere che nasce dalla corruzione e che genera corruzione. Dove c’è corruttela, infatti, c’è lo spirito del mondo che è opposizione al mondo di Dio. I cristiani non sono speciali, ma vivono in modo speciale perché stare nel mondo è un servizio che nasce dal senso della giustizia animato dall’agàpē e nello stesso tempo portano nel mondo «un metodo» di presenza e di «utilizzo» che esprime la gratuità di Dio che si rapporta con tutti e chiama tutti al suo convito. Se, sul piano della mistica, si ostenta fino all’esasperazione l’immagine del cristiano, «alter Christus», occorre che la stessa immagine diventi visibile sul piano delle scelte economiche, sociali, quando tocca interessi diretti e impone scelte che esigono separazione da metodi e sistemi che nulla hanno a che vedere con Cristo.

La politica come credibilità di Dio

Un credente che evade le tasse, che non svolge con competenza e impegno il proprio lavoro, che approfitta delle proprie conoscenze per prevaricare sugli altri, che usa la religione per avere contatti «importanti» o leggi o denaro o qualsiasi altro vantaggio per sé e la propria istituzione, tradisce il Regno di Dio e allontana la città degli uomini dal volto divino di Dio perché solo con la propria non coerenza rende visibile l’incredibilità di Dio. Questo, infatti, è il compito della religione: rendere credibile Dio, che non si vede, attraverso le azioni, le scelte, le parole (pensieri, parole, opere e omissioni) di chi dice di credere. La persona religiosa è una persona condannata a essere coerente fino allo spasimo perché ogni suo gesto, ogni suo respiro testimonia Dio o lo nega.

«Nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (Conc. Ecum. Vatic. II, Gaudium et Spes, n. 19).

C’è mondo e mondo

In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

a) Il mondo geografico, ambiente materiale, il contenitore dove l’umanità vive.
b) Il mondo come genere umano considerato nel suo complesso, senza alcuna qualificazione.
c) Il mondo dell’incredulità o delle tenebre: coloro che combattono Dio e lo negano «a prescindere».
d) Il mondo della fede o della luce: coloro che avendo visto la «Gloria di Dio» nel Figlio, lo rendono ancora più visibile nella loro vita e nel loro operato.

I primi due significati sono abbastanza neutri, mentre gli ultimi due acquistano una valenza morale e teologica alternative, anzi contrapposte. Non possono coesistere, anche se possono convivere nel mondo come ambiente o come umanità. La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo … non sono del mondo» perché il valore semantico della parola «mondo» è molteplice: il primo indica il mondo come creazione, come «luogo» della vita; il secondo, invece, indica il mondo come condizione di vita, come prospettiva di esistenza e quindi di scelte morali. Con questa espressione, Gesù intende affermare la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. La Chiesa non può gestire potere mondano perché è destinata a scomparire, una volta instaurato il Regnum Dei. «Nel», ma non «del» mondo: è il rapporto tra lo stato in luogo e l’appartenenza interiore. Se Gesù è/sta «nel mondo», è una creatura che ha in comune con tutte le creature l’esistenza, la ricerca, la fatica, la riuscita, il fallimento, la condivisione, il conflitto, tutto ciò che fa umanità, nel bene e nel male. Questo esige la coscienza che il mondo è sinonimo di diversità: uomo/donna; ricco/povero; giusto/ingiusto; credente/non credente; religioso/indifferente; osservante/non osservante. Stare «nel mondo» vuol dire acquisire questi binomi e assumerli nella propria vita, come condizione esistenziale «previa». «Nel mondo» deve prevalere quello che unisce, cioè l’umanità e la fragilità, su quello che può differenziare come, ad es., essere credente o non credente.

 [6 – continua]

Tasse

L’esempio delle tasse è devastante. Si è diffusa la mentalità che siccome la tassazione è alta, in un certo senso, sarebbe «morale» autodetassarsi, cioè evadere, come ha addirittura incitato a fare un presidente del consiglio dei ministri in campagna elettorale per guadagnare qualche voto in più (Il Corriere della Sera, 17-02-2004). Nessuna reazione da parte del mondo cattolico a questo invito che guardava con benevolenza agli evasori costringendo gli onesti a pagare sempre di più. Chi sta al governo dovrebbe educare al senso dello stato e della partecipazione come condivisione dei servizi per lo sviluppo della personalità, la tutela della famiglia, il progresso ordinato e congruo della comunità. Quando manca il senso di Dio, è fortemente carente anche l’etica dello stato. Si ha un bel dire di essere cristiani o d’ispirarsi alla dottrina sociale della Chiesa, ma se si evadono le tasse, ci si mette fuori dall’amore di Dio, che s’incarna nell’amore del prossimo, e dal diritto di pretendere dallo stato servizi essenziali (sanità, scuola, assistenza, trasporti, pensioni, ecc.).

Chi non paga le tasse, non solo costringe chi le paga onestamente a pagarne sempre di più, ma non ne ha nemmeno lui stesso un beneficio diretto, in quanto alla fine deve pagare di più i servizi che lo stato non può erogare per mancanza di fondi. Pagare le tasse è condivisione evangelica oltre che dovere civile di altissima responsabilità. Per questo bisogna mandare al governo persone oneste che garantiscano non i privilegi in nome della religione, ma che amministrino con grande senso di responsabilità il denaro di tutti, verso il quale dovrebbero, se credenti, avere lo stesso rispetto che hanno per il Corpo di Cristo perché sono chiamati a servire e curare i corpi e gli spiriti di coloro con i quali Cristo si è identificato in tutti i tempi (cf Mt 25, 31-46). Il mondo del diritto e della trasparenza, dell’onestà e della condivisione è il mondo proprio dei credenti che devono anche farlo diventare il mondo proprio della politica e dello stato.

Paolo Farinella




Un sorriso per la vita

Il diritto
alla salute per tutti è ancora lontano.
In alcuni
paesi sono ancora molto diffusi il «labbro leporino» e altre patologie
collegate. Le strutture locali hanno ancora difficoltà a risolverlo. Così è
nata un’associazione di volontari che operano i bambini e formano personale sanitario
locale. Li abbiamo seguiti in una loro missione.

Cotonou. Il risveglio è stato doloroso, il digiuno un po’
pesante e le due notti nel reparto dell’ospedale non proprio piacevoli, ma è
con un sorriso raggiante che la piccola Mael ora cammina, la mano stretta a
quella della sua mamma, Juanita, lungo il viale in terra battuta che conduce al
cancello d’uscita del Centro ospedaliero universitario (Chu) di Cotonou, la
capitale del Benin. Nel parcheggio gremito di motorini, uno dei mezzi di
trasporto più usati in questa metropoli di oltre un milione di abitanti, Mael
sale sullo scornoter che la riporterà a casa, fasciata e legata dietro la schiena
della madre. Ancora qualche giorno di dieta semi liquida, una cicatrice nel
palato che velocemente si riassorbirà, e l’incubo vissuto nei suoi primi
quattro anni di vita sarà per sempre dimenticato. D’ora in poi Mael potrà
mangiare e bere senza rischiare il soffocamento a ogni pasto e con un po’ di
pratica recuperare il ritardo accumulato per giocare e imparare insieme ai
bambini della sua età. E forse, essendo ancora giovane, potrà correggere quel
timbro nasale che segna a vita le persone affette da palatoschisi, ossia
l’apertura del palato.

Mael fa parte dei 62 bambini beninesi operati
gratuitamente per correggere la palatoschisi, la labioschisi (il cosiddetto «labbro
leporino») o labiopalatoschisi (apertura del palato, del labbro e in alcuni
casi della gengiva) dai medici volontari dell’Ong italiana Emergenza Sorrisi
durante una missione svolta in Benin dal 21 al 31 maggio scorso. Grazie alla
cooperazione del ministero della Sanità del Benin e a un’organizzazione non
governativa locale, La Resurrection, si è potuto dar vita alla terza
missione del genere in questo piccolo paese dell’Africa occidentale, parte
dell’antico regno del Dahomey.

Una sinergia ormai rodata che ha condotto a un nuovo
successo di questo fruttuoso esempio di cooperazione Nord-Sud, nel quale entra
anche una componente di formazione del personale locale e di prevenzione.

Un gruppo affiatato

Nell’interpretazione di questo spartito ognuno ha eseguito il
proprio ruolo in uno spirito di reciproco rispetto e di adattamento a
situazioni nuove e per certi versi estreme.

Un’avventura, è bene sottolinearlo, in cui ognuno ha fatto un
dono: chirurghi, anestesisti, infermieri, pediatri italiani disposti a lavorare
gratuitamente sfruttando periodi di ferie in un ambiente spartano e lontano
dagli standard a cui sono abituati in Italia; medici e assistenti locali, che
hanno sconvolto gli ordinari ritmi di lavoro per adeguarsi alle richieste del team;
il ministero della Sanità, che ha accettato il ricovero gratuito dei
beneficiari e dei loro parenti; le madri beninesi, che hanno affidato i propri
figli a questi dottori bianchi e sconosciuti; l’Ong La Resurrection, che
ha attraversato il paese in lungo e in largo per sensibilizzare le popolazioni
sul problema della labiopalatoschisi, spiegare che vi si può rimediare, almeno
in parte, annunciare l’arrivo della missione e la possibilità di beneficiae.

«Solo grazie a questo patto di fiducia e di supporto si è potuti
arrivare al successo di questa missione, che speriamo, in futuro, potrà
coinvolgere sempre meno medici italiani e sempre più medici locali» sottolinea
Francesca Pacelli, cornordinatrice delle missioni inteazionali di Emergenza
Sorrisi
. Il team che ha operato in Benin, composto da 10 medici
altamente qualificati, ha potuto assistere, ognuno nella propria
specializzazione, il personale locale insegnando i passi da compiere secondo
gli standard inteazionali.

Se la labiopalatoschisi è diventata rara nei paesi ricchi, resta
molto diffusa nel Sud del mondo, dove carenze alimentari e vitaminiche unite a
infrastrutture poco sviluppate, all’assenza di medici sufficientemente
qualificati e a fattori socio-culturali non consentono di trovare una risposta
adeguata al problema.

«Il nostro obiettivo è non solo di operare bambini affetti da
questa patologia, ma di mettere in atto delle misure per poter prevenire la
comparsa di questa e altre malformazioni con una campagna di prevenzione di
massa, tesa alla somministrazione, per esempio, di acido folico, la cui carenza
è dimostrata essere uno dei fattori principali nel meccanismo di insorgenza
della patologia labiopalatoschisi», spiega il capo missione, Mario Altacera,
specialista in chirurgia plastica e maxillo-facciale ad Acquaviva delle Fonti
(Ba).

Nelle aree remote del Benin – come in altre zone dell’Africa
– la povertà, l’analfabetismo e antiche
credenze costituiscono ancora un ostacolo alla cura di alcune malformazioni. C’è
chi non si fida della medicina portata dall’Occidente e crede che un intervento
chirurgico causerà la morte del proprio figlio. Chi ritiene invece che l’arrivo
di un neonato malformato sia una sciagura voluta dal cielo o da un sortilegio
che non si può cambiare. Chi ancora, nella peggiore delle ipotesi, non riesce
ad accettare un erede malformato, la vergogna e la discriminazione, e si
macchia anche di infanticidio.

Per i 62 bimbi e ragazzi operati la vergogna e l’esclusione fanno
ormai parte del passato e la testimonianza che porteranno nei propri villaggi,
nei propri quartieri, aiuterà a sfatare antichi miti e riserve.

Pierre, 22 anni, uno dei pazienti più grandi con diverse
operazioni alle spalle e altre malformazioni, ha corretto un’apertura del
labbro superiore, ma avrebbe bisogno di altre cure per tornare ad avere un
volto «normale». Tuttavia l’affetto di cui è stato circondato durante il suo
soggiorno in ospedale, sempre in compagnia di parenti e amici, gli hanno ridato
forza e entusiasmo. Per l’ultimo controllo due giorni dopo l’operazione si
presenta indossando la maglia del Barcellona, la sua squadra di calcio
preferita. Si fa dare uno sguardo dal chirurgo: è tutto a posto. Non vede l’ora
di raggiungere i suoi compagni sul campo e di giocare una nuova partita.

Un’esperienza importante

Anche i medici italiani tornano a casa con un bagaglio di
soddisfazione, di gioia e di emozione senza paragoni. «Si porta tutto nel cuore
per sempre. Sono emozioni che non si possono descrivere, solo chi le vive può
capire come ci si sente» dice Jolanda Barile, infermiera, al ritorno dalla sua
terza missione dopo quelle compiute in Indonesia e in Gabon.

Tra i volontari di questo viaggio in Benin, qualcuno partiva per
la decima o undicesima volta, e tutto sommato la situazione trovata a Cotonou è
stata piuttosto tranquilla rispetto ad altre esperienze trascorse in Bangladesh
sul Brahmaputra, nella Repubblica Democratica del Congo, in Iraq o in alcune
aree dell’Etiopia. Per qualcuno invece è stata una prima assoluta o quasi: «L’anno
scorso ero partito per una missione umanitaria, con un’altra organizzazione, in
Mozambico – racconta Ivan Alonge, infermiere -. Operavamo in una clinica
privata, con dotazioni molto simili a quelle che si trovano in Italia, in
ottime condizioni. Mi ero fatto una falsa idea di quello che realmente si vive
in Africa».

Il reclutamento di medici e infermieri disposti a partire in
missione per Emergenza Sorrisi si fa in base a candidature ricevute, ma
anche e soprattutto attraverso volontari già noti all’organizzazione, che
introducono collaboratori di fiducia, diventandone «tutori» durante la
missione.

L’Ong è nata cinque anni fa con il nome di Smile Train Italia
– affiliata all’organizzazione statunitense Smile Train – e dal primo
gennaio scorso ha cambiato denominazione sociale per poter ampliare il raggio
delle proprie attività. «Dopo anni di interventi in paesi come Iraq,
Afghanistan, Kurdistan, Indonesia, Bangladesh, Benin, Gabon, Congo e migliaia
di visite, ci siamo resi conto che non potevamo più evitare di occuparci anche
di bambini e pazienti con gravi conseguenze derivanti da ustioni, traumi,
tumori, ma ai quali non siamo stati finora in grado di dare una risposta»
spiega Fabio Massimo Abenavoli, presidente di Emergenza Sorrisi. Saranno
dunque questi un nuovo impegno e una nuova sfida, che si spera verrà
assecondata dai donatori. «La crisi economica che ha colpito il mondo intero
non ha ridotto lo spirito e i valori di solidarietà che spingono tutte le
nostre azioni – dice ancora Abenavoli -. Se sembrano prevalere egoismo e
individualismo, nella realtà dei fatti le azioni concrete di sostegno al
bisognoso esistono e sono forti, ma nella maggior parte dei casi «dimenticate»
per far posto al gossip e al pessimismo. Noi possiamo garantire una
cosa: a tutte le realtà che ci sostengono promettiamo che il nostro impegno
verrà ripagato nell’unica moneta universale e resistente a qualsiasi crisi: il
recupero del sorriso dei nostri bambini!».

Céline Camoin


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Céline Camoin