Santa Bakitha

La santità è una conquista che tutti possono raggiungere,
a essa possono aspirare uomini e donne di ogni razza, popolo e cultura. Questa
volta ci incontriamo con Bakhita, una santa africana originaria del Darfur (Sudan), che, fatta
prigioniera da bambina e venduta come schiava da mercanti senza scrupoli, dopo
incredibili vicissitudini, approda nella famiglia del Console italiano Callisto
Legnani, che dal Sudan la porta in Italia. Nel nostro paese, Bakhita incontra
le Suore Canossiane e, dopo un certo periodo, entra a far parte dell’Istituto,
prendendo i voti nel 1896. Il suo modo di fare, soprattutto la
dolcezza del suo carattere, le attirano in poco tempo la simpatia di tutti
coloro che la circondano.

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Una santa «di colore» diremmo oggi, eppure di santi provenienti dal continente africano ce ne furono parecchi prima di te, non è così?

Il calendario è ricco di santi africani, qualcuno addirittura, come sant'Agostino che, nato a Tagaste (l’attuale Algeria), è considerato uno dei pilastri del pensiero occidentale, grazie alla sua profonda conoscenza teologica e alla sua filosofia che ha segnato non poco tutto il pensiero del bacino del Mediterraneo, dell’Europa..

Hai citato uno dei più grandi Padri della Chiesa, che insieme a Tertulliano, a Cipriano e a tanti altri, ha dato lustro alla Chiesa africana delle origini, ma ce ne sono stati altri?

Molti africani al tempo dell’impero romano prestavano servizio militare nelle varie legioni e alla fine si stabilivano definitivamente dove erano stanziati. Alcuni di loro, pur essendo di colore, sono venerati nelle Chiese del Nord Italia, come san Vittore, san Maurizio, san Zeno di Verona e tanti altri. Pure nel Sud dell’Italia la devozione ai santi provenienti dall’Africa è molto forte, come san Benedetto il Moro, originario della Mauritania, il primo santo negro canonizzato il 24 maggio 1807 da Papa Pio VII, il quale, insieme a santa Rosalia, è patrono di Palermo. Provenienti dall’Africa sono anche san Calogero, sant’Oronzo, sant’Antioco e tantissimi altri. E poi ci sono ben tre papi: Vittore, Milziade e Gelasio. Certo sono dei primi secoli della storia della Chiesa, ma sono il segno tangibile e inequivocabile che le radici cristiane in Africa hanno origini antichissime.

La tua però è una storia di santità un po’ speciale. La tua canonizzazione è avvenuta perché in fondo sei approdata in Italia. Com’è successo?

Nata nel 1869 e cresciuta in un villaggio del Darfur, in Sudan, all’età di sette anni fui rapita da razziatori arabi, che si spingevano all’interno per catturare uomini e donne, giovani, ragazzi e bambini di entrambi i sessi e rivenderli come schiavi. Io, che appartenevo a una famiglia agiata che aveva piantagioni e bestiame, improvvisamente fui strappata dai miei cari e dalla mia terra e mi ritrovai immersa nel dolore e nella sofferenza.

Puoi raccontare la tua odissea come schiava?

Fui subito venduta al mercato degli schiavi e in pochi anni fui sballottata da un padrone all’altro (ben sei) di diversi paesi. Ricordo che il padrone più cattivo fu un generale turco ottomano che mi fece fare un tatuaggio su tutto il corpo e anche delle incisioni che sfigurarono tutta la mia persona, tranne il volto. Per fortuna alla fine questo ufficiale mi vendette.

Dove finisti? Chi ti comprò?

Fui acquistata da un agente consolare italiano, Callisto Legnani, che mi trattò bene; in casa sua per la prima volta ebbi dei vestiti tutti per me e un cibo decente. Era deciso a riportarmi al mio villaggio per ridarmi la libertà. Ma la rivoluzione del Mahdi cambiò completamente i programmi del Console e miei. Si vede che la Provvidenza aveva disposto diversamente.

Rivoluzione del Madhi, cos’è?

Alla fine degli anni 1870, Muhammad Ahmad - un asceta musulmano - iniziò a predicare a Khartum, la capitale, e in altri centri urbani del Sudan, invocando il rinnovamento della «vera fede» (ovviamente quella islamica), la liberazione della terra sudanese e il ritorno alle strutture di governo previste dal Corano. I suoi seguaci raggiunsero un numero ragguardevole e Ahmad si proclamò nel 1881 Mahdi, cioè redentore dell’Islam, che la tradizione islamica vuole debba comparire verso la fine dei tempi per ripristinare il primitivo puro Islam.

Quindi ci fu una guerra?

Sì, inglesi ed egiziani si opposero al Mahdi e ci furono diverse battaglie con esiti incerti, le sorti erano favorevoli ora all’uno ora all’altro fronte, ma questa situazione critica, violenta, piena di odio verso i colonizzatori europei, specialmente gli inglesi, portò il funzionario italiano alla decisione di lasciare Khartum e di ritornare in Italia.

E tu immagino che seguisti la famiglia del Console italiano?

Sì. Decisi di seguire quella che ormai consideravo la mia nuova famiglia, ma il Console mi mandò al servizio di un amico suo, Augusto Michieli, perché facessi da baby-sitter alla figlioletta Alice (Mimmina).

In Italia dove vi stabiliste?

Ci stabilimmo dapprima a Genova, poi nel Veneto, dove i Michieli avevano diverse ville. Io accudivo sempre Alice e passavo con lei molto tempo, seguendola anche nel catechismo che lei frequentava dalle Suore. I Michieli, avendo da curare i propri affari anche in Africa, ritornarono diverse volte in quel continente, con me sempre al seguito. In uno di questi viaggi i coniugi andarono da soli e io rimasi ospite nel catecumenato delle Suore Canossiane a Venezia.

E lì che successe?

Dopo nove mesi la signora Michieli venne a reclamare i suoi diritti su di me. Mi rifiutai di seguirla nuovamente in Africa, al che la signora perse completamente le staffe. Nella diatriba che seguì, intervenne anche l’allora patriarca di Venezia, cardinal Agostini, e il procuratore del Re, il quale mandò a dire alla signora che in Italia non c’era più la schiavitù, io ero una persona libera e potevo prendere la strada che volevo.

Proprio come una persona libera?

Sì. Mi sentivo una persona completamente nuova, diversa, dopo molte vicissitudini e dopo aver provato le sofferenze più terribili, tra cui la schiavitù, ero finalmente una ragazza libera; era il 29 di novembre 1889.

E che facesti allora?

Completai la mia formazione cristiana e il 9 gennaio 1890 ricevetti dal patriarca di Venezia battesimo, cresima e prima comunione. In quell’occasione mi venne dato il nome di Giuseppina Margherita e Fortunata, che è la traduzione italiana del nome arabo Bakhita.

Chissà che giornata meravigliosa fu quella!

È vero. Da schiava negra ignorante diventavo figlia di Dio. Un’esperienza incredibile di libertà interiore, che sono incapace di descrivere, ma che riempiva il mio animo di una grazia e delicatezza che non avevo mai sperimentato. Provavo la gioia di essere una donna libera, amata da Dio e una cristiana che cercava di vivere il Vangelo di Gesù. Avevo un solo dispiacere: non avere nulla da offrire al Signore in cambio di tutti i doni che mi aveva fatto.

Fu in quel periodo che sentisti dentro di te la vocazione di consacrarti totalmente a Gesù?

Devo dire che vivendo e approfondendo il mio cammino di fede, sentivo crescere dentro di me il desiderio di farmi suora e di donarmi totalmente al Signore. Avevo paura a manifestare questi miei sentimenti perché pensavo che il colore della mia pelle fosse un ostacolo insormontabile.

E invece?

Quando manifestai questa mia intenzione, fui accolta a braccia aperte dalle care sorelle dell’Istituto Figlie della Carità fondato da Maddalena di Canossa per aiutare i bambini più poveri e analfabeti a elevarsi culturalmente e spiritualmente mediante l’istruzione scolastica. Dopo tre anni di noviziato, l’8 dicembre 1896 pronunciavo i voti religiosi di povertà, castità e obbedienza. L’allora patriarca di Venezia, il Cardinale Giuseppe Sarto, il futuro Pio X, dopo avermi esaminata e interrogata lungamente, mi incoraggiò nella mia vocazione e mi disse: «Gesù vi vuole. Gesù vi ama; voi amatelo e servitelo sempre così». Dopo i voti venni mandata nella comunità di Schio, Vicenza, dove rimasi per quarantacinque anni e lì svolsi qualsiasi lavoro mi veniva richiesto: lavoravo in cucina, lavavo la biancheria, accudivo la portineria, imparai anche a ricamare.

Dì la verità: ti guadagnasti la stima di tutti per la tua bontà, la tua dolcezza di carattere e la cordialità con la quale accoglievi i poveri e soprattutto i bambini che frequentavano le scuole del vostro Istituto.

I bambini mi chiamavano la «madre moretta», a loro raccontavo tante fiabe della mia terra. La mia storia, il fatto che ero stata venduta come schiava ed ero approdata alla vita religiosa, si sparse in un baleno dappertutto e venni invitata in diverse città italiane a dare testimonianza della mia vita, della mia conversione e della mia vocazione.

Immagino che fu abbastanza pesante questo continuo andare su e giù per l’Italia. A chi veniva ad ascoltarti cosa dicevi?

Un messaggio molto semplice: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio». Con quella consapevolezza che si accresceva di giorno in giorno, io stessa avrei voluto tornare tra la mia gente per far conoscere a tutti il grande amore che Dio ha per noi.

Bakitha rimase in Italia fino alla sua scomparsa. Nel 1943, con la sua comunità, pur nei difficili anni della seconda guerra mondiale, festeggiò i cinquant’anni di vita religiosa. Col passare degli anni, un’artrite deformante e una bronchite asmatica riempirono la sua esistenza di dolori fisici. Pur nella malattia, negli ultimi anni della sua vita, non si lamentava mai; a chi le chiedeva come stava, rispondeva in dialetto veneto: «Come vol el Paròn». Questa frase non esprimeva rassegnazione, era espressione genuina della sua testimonianza di fede, bontà e speranza cristiana. Si spense l’8 febbraio 1947. La sua comunità religiosa e la gente di Schio si strinsero attorno a lei per un ultimo atto di venerazione. Tutti volevano vedere la «madre moretta» prima della sepoltura. La fama della sua santità si diffuse rapidamente a macchia d’olio, dando vita a una devozione popolare e sincera, sia in Italia che in Africa. Giovanni Paolo II l’ha iscritta nell’albo dei santi il 1° ottobre del 2000.

Mario Bandera




Non giochiamo al «cattivo selvaggio»

Gli Yanomami sono un popolo feroce, lo stato-nazione
porta la pace e i nostri tempi sono probabilmente i più pacifici che l’umanità
abbia mai vissuto. Queste, in estrema sintesi, le tesi di tre studiosi che
hanno scatenato le dure reazioni di una parte della comunità scientifica e di
attivisti per i diritti delle popolazioni indigene, che accusano i tre autori
di aver rimandato indietro di cent’anni il dibattito e di mettere in
discussione il diritto alla sopravvivenza di interi popoli, dell’Amazzonia e
non solo.

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I termini del dibattito

Ci risiamo. Napoleon Chagnon, il celeberrimo antropologo statunitense che dagli anni Sessanta studia le popolazioni Yanomami del Venezuela, torna alla carica: all’inizio di quest’anno ha pubblicato un saggio dal titolo Nobili selvaggi: la mia vita tra due tribù pericolose – gli Yanomami e gli Antropologi, che riprende in larga parte le tesi sostenute dallo stesso Chagnon nel suo Yanomami, il popolo feroce del 1968, dove gli indigeni vengono descritti come «scaltri, aggressivi e minacciosi», «feroci», «continuamente in conflitto l’uno con l’altro» e «in uno stato di guerra cronico». Quest’ultima espressione ricorda molto quella usata dal filosofo inglese Thomas Hobbes nel sedicesimo secolo per descrivere la situazione nello stato di natura e per mostrare la necessità della politica (e, in definitiva, dello stato) per rendere possibile una ordinata vita associata nella quale l’uomo non sia più lupo per l’altro uomo.

Proprio su questo punto si realizza il contatto fra il pensiero di Chagnon e quello di Jared Diamond, studioso statunitense autore di Il mondo fino a ieri (2012): dopo aver affermato che le società tradizionali, cioè i popoli come gli Yanomami, i Dani della Papua Occidentale e altri, sono interessanti da studiare per la loro prossimità evolutiva con i nostri antenati, Diamond attinge a piene mani da Chagnon per dimostrare che tali popolazioni sono intrinsecamente violente e consapevoli della misera condizione alla quale la violenza li condanna; tanto che, afferma l’autore, quando i governi coloniali intervengono con la forza a metter fine alle guerre tribali, i membri della tribù riconoscono che c’è un miglioramento della qualità di vita che da soli non sarebbero mai stati capaci di ottenere, poiché senza l’intervento di un governo non sarebbe stato possibile mettere fine alla spirale di vedette che le guerre tribali innescano.

Infine, in Declino della violenza (2011), lo psicologo evoluzionista Steven Pinker sostiene tesi molto simili a quelle di Diamond e si spinge ad affermare che quella che stiamo vivendo è l’epoca più pacifica della storia, un’argomentazione che ha diversi punti in comune con il libro di Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), sebbene Pinker stesso abbia affermato di non spingersi fino a parlare di fine della storia ma di circoscrivere il «miglioramento» alla sfera della tecnologia, del cosmopolitismo e della diffusione delle idee.

Reazioni

Di fronte a queste posizioni dei tre studiosi, numerosi esponenti del mondo accademico e le associazioni di difesa dei diritti delle popolazioni indigene, Survival (www.survival.it) in testa, sono letteralmente insorti. Gli interventi sono stati davvero tanti e una buona panoramica è disponibile su anthropologyreport.com, sito che riunisce i contributi provenienti da blog, riviste e libri di antropologia. In poche parole, le principali critiche riguardano la riproposizione da parte dei tre autori del mito del «cattivo selvaggio», l’utilizzo di una variabile come la violenza, estremamente difficile da misurare e comparare, per definire la «ferocia» dei popoli e, nel caso di Pinker e Diamond, una trattazione non rigorosa dei dati statistici sulla violenza e la guerra.

L’antropologo Greg Laden, in un articolo apparso sulla rivista The Slate lo scorso maggio, afferma che non è mai stato così facile come nelle società occidentali rovinare o distruggere senza alcuno sforzo vite umane, e la guerra è diventata mortale come non lo era mai stata prima.

Al di là della diatriba accademica, le affermazioni dei tre studiosi hanno conseguenze immediate di natura politica. Le associazioni come Survival ribadiscono che le tesi di Chagnon, Pinker e Diamond hanno effetti potenzialmente devastanti sulle società indigene: l’argomentazione del «cattivo selvaggio» che i tre accademici riportano alla ribalta, infatti, è proprio una delle leve su cui hanno fatto forza molti governi per giustificare - in diverse epoche, compresa la nostra - l’uso della forza contro interi popoli.

Infine, i rappresentanti delle comunità indigene stesse hanno detto la loro contro le tre opere. Secondo Davi Kopenawa, storico leader yanomami (vedi anche a pag. 21 di questo stesso numero, ndr), non è certo la violenza intea alle comunità a provocare vittime fra la sua gente: «I nostri veri nemici», ha dichiarato, «sono i cercatori d’oro, gli allevatori e tutti coloro che vogliono impadronirsi della nostra terra». Ancora, a detta di Benny Wenda, leader del popolo Dani della Papua occidentale: «L’Indonesia ha occupato illegalmente il nostro paese nel 1963, ed è allora che sono davvero iniziati i massacri, in tutta la Papua Occidentale. Il governo indonesiano non ci ha salvato da un circolo di violenza, come ha scritto Diamond, al contrario, ha portato una violenza che non avevamo mai nemmeno conosciuto: ha ucciso, violentato e imprigionato il mio popolo, e ha rubato la nostra terra per arricchirsi».

La situazione sul campo e la lettera di Fratel Carlo Zacquini al Papa

I missionari della Consolata lavorano con il popolo Yanomami dell’area di Catrimani (Amazzonia brasiliana) dagli anni Sessanta. La realtà che raccontano si colloca a una distanza siderale rispetto a quella descritta da Chagnon. In un’intervista a Survival dello scorso febbraio, il missionario della Consolata fratel Carlo Zacquini ha dichiarato: «Quelli che ho conosciuto – e ne ho conosciuti molti di Yanomami durante gli anni trascorsi a visitare un gran numero di comunità – non sono così [cioè non sono violenti]. Ci sono sempre tensioni, come ci sono tensioni in ogni famiglia, e in ogni paese, ma questo non è guerra. [...] Vi sono lotte, penso che siano sempre esistite, esistono in tutte le società, e qualche volta qualcuno muore, ma è davvero molto raro. Le lotte sono divenute molto più serie quando sono arrivati i cercatori d’oro e si sono diffuse le armi da fuoco. Ma non è una situazione generale, né costante [...]. Il danno provocato da queste “guerre” è decisamente minore di quello provocato da un raffreddore».

Fratel Carlo racconta, in una sua lettera dello scorso luglio, di aver sfogliato il rapporto stilato nel 1967 dal procuratore Jáder de Figueiredo Correia in seguito alle indagini affidategli dal Ministro dell’Inteo del Brasile, dopo che una commissione parlamentare di inchiesta aveva denunciato gravi irregolarità nel Servizio di Protezione degli Indios (Spi), cioè l’ente che, sulla carta, avrebbe dovuto «proteggere» i popoli indigeni. Anche a una lettura superficiale, la descrizione di alcuni fatti è, a detta di fratel Carlo, così nauseante da non poter essere riportata: i soprusi, i massacri, le violenze che gli indios hanno subito per mano del servizio nato per salvaguardarli sono tali e tanti da non reggere il confronto con le cose già gravissime e atroci che il missionario ha sentito e testimoniato nella sua lunga esperienza di lavoro con gli Yanomami.

Fratel Carlo ha di recente scritto una lettera a papa Francesco in occasione della sua visita in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù: «So che tu non puoi permetterti di passare qualche giorno in un villaggio yanomami come ha fatto il re della Norvegia», scrive fratel Carlo, «ma forse potresti consigliarlo a qualcuno dei discendenti di europei o di persone di altri continenti che hanno popolato questo “grande” paese, il Brasile. [...] Forse, dunque, in quel caso, comincerebbero a capire che le dimostrazioni di ripudio e di rivolta che si ripercuotono sui mezzi di comunicazione, specialmente quelli alternativi, non sono effetto di allucinazioni di alcuni esaltati [...], ma guardano al bene delle popolazioni indigene e a quello del resto dell’umanità [...]. Come può un paese, la cui grandissima maggioranza si dice cristiana, trattare i diritti umani in questo modo?».

Oggi, il tentativo di eliminazione degli Yanomami e di molti altri popoli continua in modo sistematico, si è solo fatto meno brutale e più subdolo. La presenza di popolazioni indigene su territori spesso anche molto ricchi di risorse, in contesti di paesi in forte crescita economica, è tuttora vissuta come un fastidio e un problema da rimuovere. Quasi mai la soluzione del problema passa attraverso la mediazione, la proposta di alternative e il rispetto del diritto di quei popoli a vivere nel loro territorio.

«Non è che vogliamo convincere, né tantomeno costringere, i popoli indigeni a “fare gli indigeni” in eterno», aveva spiegato qualche anno fa fratel Carlo a chi scrive. «Se gli Yanomami, nel corso del tempo, decideranno di cedere il proprio territorio e le proprie tradizioni, questa sarà una scelta che ci rattristerà infinitamente ma non penso che potremo opporci. Ma è proprio questo il punto: la scelta. Credo che il ruolo di noi missionari consista anche nel sostenere questo popolo nel suo tentativo di ottenere gli strumenti, culturali e giuridici, perché possa difendersi e scegliere, per non essere semplicemente spazzato via da chi vuole arricchirsi devastando la sua terra. Tanto più che, come sempre ripete Davi Kopenawa, non ci sono altri mondi, ce n’è solo uno e l’Amazzonia ha un valore inestimabile, e reale, per tutti noi».

Basta, con un semplice esercizio mentale, sostituire nel paragrafo sopra «Yanomami» e «Amazzonia» con il nome del proprio popolo e territorio di appartenenza per capire che non stiamo parlando di qualcosa di così lontano.

Chiara Giovetti

Tre domande a

Francesca Bigoni e Roscoe Stanyon, antropologi che curano un progetto di ricerca sugli Yanomami con l’Università di Firenze e collaborano con padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata a Catrimani (Roraima, Amazzonia brasiliana).

Che cosa ne pensate della ripresa del dibattito sul «cattivo selvaggio»? Si tratta di una riproposizione di temi già noti o c’è effettivamente qualche nuovo elemento.

Forse non è un caso che questo dibattito si riaccenda in un momento drammatico in cui l’esistenza dei popoli indigeni e la salvaguardia dei territori a cui sono legati sono minacciati da ciechi interessi economici e politici. Continuare ad utilizzare i vecchi stereotipi per rappresentarli come popoli «primitivi», violenti e in antitesi al «progresso», e comunicare a vari livelli questa visione distorta è certamente strumentale a questa situazione. Sì, ci sono nuovi elementi e sono tutti in favore dei popoli indigeni, perché ora abbiamo una conoscenza migliore dei valori culturali di cui sono portatori e difensori (dimensione collettiva della loro vita sociale, relazione con l’ambiente, prospettiva spirituale).

L’antropologo Greg Laden scrive che la violenza, il tratto culturale attribuito agli Yanomami e ad altre popolazioni indigene, non è un criterio affidabile perché «è difficile da misurare» e aggiunge, per contro, che è proprio la società occidentale che ha reso la guerra mortale e la vita umana facile da rovinare e distruggere come mai lo erano state prima. Siete d’accordo con questo ribaltamento di prospettiva?

Certamente sì. Per esempio, è ora ben noto che la presunta violenza fra gruppi di Yanomami di cui parla Chagnon, ammesso che i suoi dati siano corretti, si riferisce a una limitata zona geografica e a un momento storico particolare. La sua prospettiva non è stata confermata da studi in altre vaste zone di insediamento degli Yanomami. Per esempio Giovanni Saffirio, missionario della Consolata e antropologo, nella sua lunga esperienza tra gli Yanomami del Catrimani dal 1968 fino alla metà degli anni ’90 ha provato a raccogliere dati, ma i casi di morti per violenza erano così rari che non era possibile neppure fare un confronto statistico. Quindi le generalizzazioni di Chagnon devono essere lette in maniera molto critica. Attualmente gli studi antropologici dimostrano che i comportamenti umani sono, in tutte le popolazioni, altamente flessibili e legati alla situazione particolare in cui ci si viene a trovare. D’altra parte Pinker, per sostenere la sua teoria del «declino della violenza» nella nostra cultura rispetto alle culture tradizionali come quella Yanomami considerate «feroci», utilizza limitati dati di Chagnon e di altri antropologi, confrontandoli con i tassi di omicidio nella società occidentale, ma usa criteri statistici scorretti per sostenere le sue tesi, finendo addirittura con lo sminuire la portata di avvenimenti come lo sganciamento di bombe atomiche nella nostra epoca e numerosi episodi di genocidio di popoli indigeni e non indigeni.

La storia è chiara e ci insegna che le più grandi violenze, sono state quelle con cui la cosiddetta società «civilizzata» ha causato lo sterminio dei popoli nativi in diversi continenti, un fenomeno che sembra ripetersi, magari con forme più sottili e subdole, ancora oggi.

Una domanda più per i cittadini Francesca e Roscoe cheper gli antropologi: perché un italiano, un europeo, un abitante del Nord del mondo dovrebbe interessarsi degli Yanomami e delle popolazioni indigene in genere?

Studi recenti hanno dimostrato chiaramente che nei territori in cui i popoli nativi vengono preservati con la loro cultura e la loro lingua, viene automaticamente protetta la biodiversità; al contrario la perdita delle culture tradizionali e del loro patrimonio linguistico è seguita in breve tempo dalla distruzione dell’ambiente. Se ignoriamo questo semplice fatto prepariamo l’estinzione della nostra stessa specie umana.

Chiara Giovetti
 
Chiara Giovetti




La politica di Dio (che è laico) | Rendete a Cesare – 7

«Non sei lontano dal Regno di Dio» (mc 12,34)

Un esodo al contrario

Il credente che sta nel mondo, sa di doverci stare come tutti gli altri, senza pretendere per sé alcun spazio particolare, alcun privilegio speciale, alcuna legge di favore. Anche se tutte queste cose fossero buone, o addirittura ottime, anche in vista di una migliore organizzazione del mondo, il credente dovrebbe avere in sommo grado il senso della varietà, tanto da rinunciare a ogni forma di privilegio, anche se fosse maggioranza e avesse la forza e i numeri di legiferare la società. Il credente nel Dio Creatore è colui che assume l’ultimo, il piccolo, il debole come «valore» supremo e ne garantisce non solo la sopravvivenza, ma la piena dignità. Anche se una società fosse tutta cristiana e al suo interno vi fosse una sola – soltanto una – persona non cristiana con usi e sistemi diversi, il credente dovrebbe essere il primo a tutelare il diritto di quella singola persona che è minoranza, prima ancora di affermare il diritto di sé come maggioranza. In questo deve essere esclusa qualsiasi forma di «tolleranza» perché il credente in Dio non può tollerare, può solo accogliere in nome di Dio «Padre Nostro». «Tollerare» significa sopportare per necessità ed è per questo che chi tollera è di norma «intollerante» e lo dimostra appena gli è permesso o pensa di poterlo fare.

Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive, come abbiamo visto nella puntata precedente, l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e la sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium, cap. VII [nn. 48-51]). Indole significa che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio che è presente nei regni degli uomini, pur non identificandosi con alcuno di essi. L’obiettivo del servizio «nel» mondo cioè mira a creare le condizioni affinché i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non di schiavi.

Il compito dei cristiani e, a maggior ragione dei vescovi e della gerarchia cattolici, non è tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi da spartire con i politici complici. Al contrario, obiettivo primario e fine supremo della presenza dei cattolici in politica è unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e sia distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo.

La politica prolungamento della creazione

Chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo»; chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto» ed è guidato dallo Spirito di Dio. I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire e ascoltare il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono cristiani o credenti, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e correi di corrotti e corruttori, immorali e amorali, non siamo più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste (19 maggio 2013) ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. Cesare non si cura di Lazzaro e lo abbandona alla pietà dei cani, mentre i figli di Abramo lo accolgono alla loro mensa e lo nutrono. A noi la scelta.

Dio è laico

Una forma concreta di attuazione di questa prospettiva evangelica di separazione integrata senza opposizione tra fede e mondo, si trova in un testo anonimo del sec. II, una lettera indirizzata ad un certo Diogneto, da cui prende nome (vedi i due box qui sotto).

Il cristiano è nel mondo per vocazione e missione; egli è il cultore della relativizzazione e l’assertore dell’Assoluto che è Dio. La Chiesa non può vivere in competizione con il mondo né può pretendere di esercitare il suo dominio sul mondo profano e/o secolarizzato. Essa non è chiamata a trasformare il mondo da profano in mondo cristiano perché rischia di ritornare a quella infausta «cristianità» che tanti mali ha arrecato alla Chiesa e al mondo e tanti ne arreca oggi, in cui il mondo clericale è abbagliato dalla ricchezza, dal compromesso e dall’alleanza con i potenti, pensando che saranno i potenti ad aiutarla a cristianizzare le istituzioni. Il mondo clericale deve rassegnarsi perché il Dio di Gesù Cristo è laico per natura e per essenza e laiche sono le istituzioni del mondo verso il quale la Chiesa ha il dovere e il diritto di osservare alla lettera il comando del Signore: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche» (Lc 9,3), perché solo la povertà e la fragilità dell’inviato può rendere testimonianza credibile al Signore della Storia e rendere visibile il suo volto per farlo apparire credibile attraverso la credibilità del proprio operato e della propria testimonianza, suscitando così il desiderio di Dio e la conseguente conversione.

Politica e carità

La prospettiva posta da Gesù con la questione del tributo a Cesare, è una prospettiva soprannaturale all’interno del criterio d’incarnazione la quale è la logica del chicco di grano che deve cadere in terra e morire se vuole portare frutto (cf Gv 12,24). Il cristiano non lotta per avere uno strapuntino di potere nel mondo, ma lascia ogni potere per assumere in pieno ciò che gli compete e gli appartiene di diritto: la testimonianza del servizio disinteressato. Alla luce di quanto detto, ancora oggi sono valide le parole di Pio XI in un discorso tenuto alla Fuci: la politica è «il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore». Ecco il punto di partenza che è anche il punto di arrivo: per i credenti, per i cristiani che credono in Dio, la politica è «il campo più vasto della carità», cioè dell’amore gratuito che è l’esatto contrario di ogni intrallazzo, compromesso, accordo a favore di pochi e a danno di molti.

[7 – continua con la prossima e ultima puntata]

 

Dalla lettera a Diogneto – 1

V.  1I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati giorniscono come se ricevessero la vita. 17Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio (A Diogneto, V,1-17).

 

Dalla lettera a Diogneto – 2

VI. 1A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. 4L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. 5La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. 8L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. 9Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. 10Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare (A Diogneto, VI,1-10).

 

Paolo Farinella




Per «tutelare Dio»

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 13

Bestemmiare, cambiare credo e diffamare fede, persone o gruppi
religiosi è reato in diversi paesi. Le leggi «antiblasfemia» nascono con
l’intento di difendere la religione, ma nei fatti soffocano la libertà
religiosa. Mentre l’apostasia viene punita in 20 paesi, tutti a maggioranza
musulmana, la blasfemia è punita anche in paesi «insospettabili» come Grecia,
Germania, Danimarca, Italia.

Dal Pakistan all’India alla Turchia alcuni episodi sono saliti
alla ribalta dell’attenzione internazionale. In anni recenti, un gran numero di fatti di cronaca hanno
accentuato l’attenzione dei mass media sulle cosiddette «leggi antiblasfemia»
che in diversi paesi del mondo hanno portato, e portano, alla violazione del
diritto di libertà religiosa. Tali leggi e politiche governative, infatti,
nonostante siano giustificate per lo più dalla volontà di tutelare le fedi
della popolazione, sono invece spesso lo strumento per reprimere i gruppi
religiosi di minoranza, o espressioni «non ortodosse» del credo di maggioranza.
Sono il 47% del totale gli stati e i territori che nel mondo
applicano legislazioni contro la blasfemia1, l’apostasia2 o le varie forme di
diffamazione della religione3 secondo una recente analisi del Pew Research Center’s Forum on
Religion & Public Life
(centro di ricerca statunitense indipendente,
specializzato in tematiche religiose e sociali). Dei 198 paesi presi in esame
durante l’anno 2011 dal Pew forum, 32 avevano specifiche leggi
antiblasfemia, 20 provvedimenti che colpivano l’apostasia e 87 avevano leggi per
contrastare offese verso una religione, inclusi parole o atteggiamenti di
incitamento all’odio contro un gruppo religioso. Per raccogiere i dati e
attuare le analisi, la ricerca ha utilizzato, oltre al lavoro diretto sul
campo, ben 19 fonti facilmente accessibili: dal dipartimento di Stato Usa alle
Nazioni Unite, da Human Rights Watch ad Amnesty Inteational e Inteational Crisis Group.

Le indagini precedenti avevano sottolineato un elemento importante
per quanto riguarda la libertà di credo nei diversi paesi, confermato
nell’ultimo studio: i paesi che hanno nel loro ordinamento leggi contro la
bestemmia, l’apostasia o la diffamazione della religione tendono ad avere
maggiori restrizioni governative e tensioni sociali più forti riguardo al
fenomeno religioso.

Bestemmia
e diffamazione

Lo scorso anno ha fatto scalpore il caso di Rimsha Masih, una
14enne pachistana di religione cristiana arrestata e incarcerata perché
accusata di aver bruciato pagine di un libro propedeutico allo studio del
Corano. Dopo alcuni mesi di prigionia la ragazza è stata liberata perché le
prove erano state costruite dal suo accusatore, il quale, a sua volta
incolpato, è stato recentemente assolto (si veda pag. 8 di questo numero di
Mc
).

Da tempo l’uso strumentale della legge antiblasfemia è diventato
in Pakistan un ostacolo alla convivenza delle comunità religiose. Dal musulmano
Pakistan passiamo all’India, dove Sanal Edamaruku, presidente della Indian
Rationalist Association
, è stato incriminato, sempre nel 2012, per avere
dichiarato che una statua di Gesù particolarmente venerata a Mumbai per le sue
caratteristiche miracolose sarebbe stata un falso.

I due casi, pur essendo di natura simile, sono stati trattati in
modo diverso sul piano giuridico: il primo, infatti, è rientrato nell’ambito
della blasfemia, il secondo in quello della diffamazione della religione. I
casi che riguardano la blasfemia sono presenti soprattutto in paesi musulmani,
quelli riguardanti la diffamazione sono assai più diffusi. In ogni caso, sono
coinvolti in queste politiche di «protezione» della religione anche paesi «insospettabili».
La Grecia, ad esempio, ha una delle legislazioni più rigide, certamente la più
severa in Europa, riguardo la blasfemia. La Cina, paese formalmente guidato da
un’ideologia atea, il comunismo, che controlla in modo pesante le attività
religiose autorizzate, con la versione più aggiornata del Regolamento degli
Affari religiosi del marzo 2005 persegue la discriminazione e l’offesa
religiosa.

Nel 2011, sul totale già citato di 32 paesi che penalizzavano la
blasfemia, la maggior parte si trovava in Medio Oriente e nell’Africa
settentrionale. In 13 dei 20 paesi di quell’area la blasfemia è un crimine.
Nella regione Asia-Pacifico, sono nove su 50 i paesi con leggi analoghe, mentre
in Europa questa legge si ritrova in otto dei 45 paesi del continente (tra cui
anche l’Italia, si veda la tabella in questa pagina, ndr). Per quanto
riguarda l’Africa Subsahariana, sono solo due i paesi che applicano una legge
antiblasfemia: Nigeria e Somalia.

Il
disagio dell’Islam

Pare inevitabile, parlando di «bestemmia» e
di come le istituzioni di diversi paesi nel mondo cercano di contrastarla
attraverso provvedimenti mirati, concentrarsi quasi esclusivamente sull’Islam.
L’attuale influenza di una versione rigorista della dottrina musulmana, quella
wahhabita, elaborata nel medioevo islamico e predominante in Arabia Saudita e
in altri paesi della regione, sta segnando la pratica di fede nell’ecumene
musulmano e anche la vita di chi musulmano non è. Il wahhabismo, forte degli
abbondanti proventi del petrolio, ha incentivato una diaspora missionaria che
ha sostenuto la nascita di infinite scuole coraniche, moschee, centri di
studio, ma anche la diffusione di ideologie di extraterritorialità e
ribellione, e focolai di intransigenza religiosa. Facendo leva su povertà,
frustrazioni e aspirazioni di molte comunità islamiche, dalla Palestina alle
Filippine meridionali, è diventato anche elemento destabilizzatore per molti
paesi a maggioranza musulmana, provocando più vittime tra i correligionari che
non tra i non-musulmani. Un radicalismo che incentiva il senso di inadeguatezza
di ampie comunità islamiche asiatiche attraverso il continuo accento posto
sulla distanza tra i costumi di vita locali e la necessaria fedeltà all’Islam. È
da questo – ovvero dalla percezione di una identità islamica minacciata – che
derivano probabilmente molte delle legislazioni antiblasfemia. Da qui deriva
anche il contrasto continuo all’interno dei grandi paesi musulmani
sull’applicazione della legge coranica (Shari’a): la giurisprudenza
laicista la vorrebbe vincolante per i soli musulmani, gli oltranzisti invece erga
omnes
, ovvero imposta anche alle minoranze. Ulteriori complicazioni
derivano poi dalla presenza di leggi tribali o locali nei diversi ordinamenti.
Alla fine, nella pratica, la legge più
restrittiva s’impone a scapito delle istanze di uguaglianza e, sovente, di
sviluppo.

In carcere il
blasfemo turco

Un caso recente mostra che la legge si applica in modo esteso
anche ai nuovi media. A fine maggio 2013, alla Turchia è toccato condannare per la prima
volta per blasfemia un blogger, un cittadino turco di origini armene, Sevan
Nisanyan, ritenuto colpevole di «avere apertamente denigrato i valori religiosi
di una certa parte della popolazione» e per questo condannato a un anno e 45
giorni di detenzione.

Una condanna estesa dagli iniziali nove mesi chiesti dal pubblico
ministero perché il suo crimine, come segnalato dall’agenzia d’informazione
semi-ufficiale Anadolu, «è stato commesso attraverso un mezzo
d’informazione». Una sentenza che mostra insieme elementi purtroppo noti e
anche di novità, quella decretata in Turchia, paese dalle solide basi laiciste,
iscritte nella sua storia modea prima ancora che nella costituzione del 1982,
ma che sotto il governo islamista di Regep Tayyip Erdogan ha visto una sicura
svolta integralista. Non senza resistenze, intee ed estee al parlamento di
Ankara e anche sotto lo sguardo attento delle diplomazie inteazionali, a
partire da quelle dell’Unione Europea.

In un testo pubblicato sul suo blog lo scorso settembre, Nisanyan
(pubblicista e tra i pionieri delle nuove tendenze dell’industria turistica
turca) aveva parlato delle proteste inteazionali successive all’uscita del
film di produzione hollywoodiana Innocence of Muslims, una pellicola di
basso livello artistico e tecnico e ancor minore successo commerciale, che
metteva in ridicolo la figura del profeta Maometto. Dure poteste, con episodi
di violenza furono il risultato in diversi paesi  musulmani, tra cui Egitto e Libia. Mentre il
premier turco denunciava il film come «islamofobico», la sua popolazione si
limitava a proteste pacifiche e poco partecipate.

«Non è un crimine che chiama all’odio prendersi gioco di alcuni
leader arabi che molti secoli fa proclamarono di essersi messi in contatto con
Dio e ne ottennero, come conseguenza, benefici politici, economici e sessuali.
Si tratta di un caso quasi a livello di scuola matea di quella che noi
chiamiamo libertà di espressione», aveva scritto tra l’altro Nisanyan.

I casi
dell’Islam asiatico

L’Asia meridionale e il Sud-Est asiatico raccolgono la maggioranza
dei musulmani del mondo (il 62%), eppure il loro ruolo nell’Islam è ancora
subordinato ai paesi arabi. Le masse che alimentano ecumenismo e orgoglio
nell’Islam sono lì, in Oriente, ma devono sottostare a regole elaborate sotto
le tende beduine come negli uffici «glacializzati» che si affacciano sul Golfo.

L’Indonesia è il primo paese islamico al mondo con i suoi 250
milioni di abitanti all’87% musulmani; il Pakistan è il secondo con 182 milioni
di credenti; l’India, grande paese induista, è al terzo posto (almeno 140
milioni), all’incirca alla pari con il musulmano Bangladesh. Afghanistan,
Malaysia e Boeo sono altri stati a maggioranza islamica, mentre consistenti
comunità musulmane si trovano in Cina, Thailandia, Malaysia, Myanmar,
Filippine, Vietnam, Cambogia e Sri Lanka.

Tra tutti, il Pakistan si distingue per l’uso più concreto e anche
criticato della legge antiblasfemia. Strumento nato nel 1986 per garantire
all’allora dittatore militare Zia ul-Haq l’appoggio degli islamisti contro gli
oppositori. Gli articoli del codice penale collettivamente indicati come «legge
antiblasfemia» continuano a essere in Pakistan un’arma da usare contro
avversari politici, in faide personali e verso le minoranze. Un’arma a volte
letale che arriva a colpire anche bambini di dieci anni e persone mentalmente
incapaci.

Il governo di Islamabad nega di avere dati disponibili e le altre
fonti sono spesso contraddittorie, ma secondo le ricerche della Commissione
Giustizia e Pace della Conferenza episcopale cattolica pachistana, dal 1986
all’agosto 2009, sono almeno 964 i pachistani finiti sotto processo per
blasfemia: 479 musulmani, 340 ahmadi,
119 cristiani, 14 indù e una decina di fede ignota. Mancano i dati delle
condanne e di quanti stanno scontando la pena, ma sono certamente decine.
Diversi sono stati uccisi in carcere oppure subito dopo la liberazione
decretata dai giudici. Se è vero che a essere stati arrestati e giudicati sono
in misura rilevante musulmani «ortodossi» di appartenenza sunnita o sciita,
spesso critici verso il potere o verso l’estremismo religioso, è pur vero che
le minoranze, compresa «l’eresia» islamica Ahmadi, sono presenti tra gli
accusati in misura superiore. 

Stefano Vecchia
 
Note:

1.
Con blasfemia, o bestemmia, si intendono osservazioni o scritti
considerati sprezzanti, offensivi verso Dio.
2.
Con apostasia si intende l’abbandono di una fede religiosa per un’altra.
Ad esempio l’abbandono dell’Islam per diventare cristiano.
3.
Con diffamazione della religione si intendono la denigrazione o la
critica di un credo religioso.

Stefano Vecchia




Purus: Senza uscita

Ucayali, Purús / costruire una strada nella
foresta?
La possibile costruzione di una strada di
270 chilometri in mezzo alla foresta amazzonica della provincia peruviana di
Purús accende le discussioni e le polemiche. Ospitiamo le opinioni di padre
Miguel Piovesan e di monsignor Francisco González Heández, favorevoli alla
realizzazione dell’opera. 



Puerto Esperanza. Esiste
una zona del Perú – la provincia di Purús – che è geograficamente isolata. Non
si può accedere se non per via aerea. Una via aerea sporadica e incerta. E
anche discriminante dato che pochi privilegiati possono permettersi di
affrontae l’altissimo costo.

L’isolamento geografico ha impedito lo sviluppo degli
abitanti della zona, in maggioranza indigeni (vedere box). L’isolamento
geografico di Purús ha determinato anche un isolamento sociale, mentale,
tecnologico con conseguenze di sfruttamento da parte di «usurpatori» e
conquistatori di tuo. Nel 2004 forze schierate dietro una ecologia finta e
manovrata hanno creato un parco – Parque Nacional Alto Purús – che ha
circondato e rinchiuso la provincia in maniera assurda e vergognosa impedendo
lo sviluppo e la comunicazione di questi gruppi etnici con il resto della
nazione e dell’umanità.

La chiesa cattolica – io sono parroco della parrocchia
di Santa Rosa del Purús a Puerto Esperanza – ha sempre cercato di denunciare
questi soprusi, gli inganni e la diffusione di notizie false come la questione
degli «indios isolati volontariamente» che serve alle Ong multinazionali per
farsi una pubblicità funzionale ai loro scopi.

Fintanto che si presentano come i protettori di queste
popolazioni «in isolamento volontario» hanno sempre molti soci che sostengono
il loro ritornello. Avendo tutti i mezzi di comunicazione a disposizione le Ong
sono riuscite a propagare un’immagine irreale sia degli indigeni che utilizzano
al soldo, che di quelli impegnati a difendere i diritti umani, il progresso e
la dignità di ogni essere vivente.

I vescovi del posto – mons. Larrañeta, mons. Francisco
González Heández, oltre al vicario episcopale padre Ignacio Iraizoz –  hanno sempre sostenuto, senza paura, che
tutti sono figli dello stesso Padre e hanno gli stessi diritti di evoluzione e
accesso a tutte le opportunità. Qui di seguito si può leggere il pensiero di
mons. Francisco González Heández, vicario apostolico di Puerto Maldonado (a
cui la mia parrocchia appartiene). Le sue parole fanno capire, a chi vuole
capire, l’influenza di gruppi e associazioni «mascherati di ecologia».

padre
Miguel Piovesan,
parroco di S. Rosa del Purús, Puerto Esperanza, Purús, Ucayali, Perú

Il Vicario Apostolico di Puerto Maldonado
Risulta triste dover ammettere che la situazione della
vita e delle genti del Purús non è cambiata per niente rispetto alla secolare
prostrazione. Fin dall’epoca del caucciù e prima e dopo e adesso, continuano a
succedersi aggressioni di diversi soggetti contro la vita, la dignità, la
libertà e i diritti dei diversi popoli indigeni che abitano la provincia.

La maggior parte di chi è arrivato nel Purús non è
arrivata per dare, condividere, insegnare, imparare o liberare. Costoro sono
arrivati per usurpare, schiavizzare, scommettere, sfruttare, imporre.

Davanti a questa aggressione poco hanno potuto fare ieri
e poco possono fare oggi, alcuni fratelli indigeni che sono stati privati e si
continuano a privare del diritto ad avere una formazione, delle conoscenze, una
professione che li renda capaci di vedere, giudicare e attuare secondo criteri
propri, indipendenti e liberi. Prima sono stati i signori del caucciù che li
hanno schiavizzati, poi sono venuti altri sfruttatori, oggi a ingannarli sono
gli «assessori», i «tutori ecologici».

Con l’adulazione e varie regalie, i padroni sceglievano
alcuni indigeni perché fossero gli esecutori della schiavitù tra i loro popoli.
Li sceglievano tra i più ambiziosi o crudeli perché agissero con ferocia contro
i loro stessi fratelli. In cambio questi padroni ricevevano un trattamento
particolare e proprietà come se fossero dei colonizzatori.

Oggi, assessori travestiti da ecologisti, sociologi, antropologi,
scelgono tra gli stessi indigeni i rappresentanti di varie Federazioni, li
promuovono a cariche pubbliche e fanno loro credere che la loro consulenza è
assolutamente imprescindibile per proteggere i popoli indigeni dai tanti nemici
(immaginari) che sono pronti ad andare nel Purús (per quale via?) per
sterminarli.

Se i trafficanti del caucciù soddisfacevano la loro
avarizia strappando il lattice all’albero della gomma, se i padroni cercavano
la ricchezza nello sfruttamento della terra, del legno, delle pelli di animali,
oggi gli ecologisti delle «multinazionali ambientaliste» semplicemente si
appropriano delle terre del Purús. Le fanno diventare «i giardini privati del
Primo Mondo», sebbene le chiamino Parchi nazionali, Riserve, Zone intangibili.
Alla fine – e mi riferisco solamente e puramente al Purús – costoro si sono
convertiti nei nuovi «padroni». Loro stabiliscono ciò che si deve e ciò che non
si deve fare nel «loro giardino». Agli indigeni, che sono i padroni naturali,
un giorno diranno che ormai non è possibile né pescare, né cacciare, né far uso
del legno, né camminare come e dove si vuole.

Ad alcuni indigeni daranno una credenziale nominandoli «guardaboschi»
e assegnando loro un piccolo salario la cui quantità sarà molto lontana dal
salario primomondialista che starà ingrossando il conto bancario di ecologisti,
sociologi, antropologi, assessori nelle banche di Pucallpa o meglio di Lima o
di qualsiasi altra città europea o nordamericana.

Mi
spaventa rileggere quello che ho scritto fino adesso, soprattutto pensando ad
altri amici e fratelli, a ecologisti, antropologi, sociologi onesti e
impegnati. Per questo voglio chiarire che tutto quello che dico lo applico alla
provincia del Purús, ingiustamente maltrattata. Là dove il tempo sembra essersi
fermato, dove gli unici a poter vivere sono 
malandrini e truffatori e dove si offre l’unica esperienza di un Parco
giurassico, dove si condanna l’uomo a vivere isolato, impoverito, privato dei
suoi diritti a una educazione vera, a un lavoro degno e retribuito, a una
salute accessibile, ad uno sviluppo che, partendo dalla sua propria cultura,
gli permetta di vivere come un cittadino del Perú e del Mondo in questo terzo
millennio.

È in tutto questo intreccio che si collocano i tristi
avvenimenti che, ancora, succedono nel Purús. Gli «assessori» stanno provocando
– come in altre circostanze – le aggressioni e minacce contro la Chiesa
cattolica, e in particolare contro padre Miguel Piovesan, parroco di Puerto
Esperanza.

Non ci sono dubbi per nessuno, e ancora meno per loro,
che la nostra Chiesa in Purús è una delle poche istituzioni che – senza
protezione alcuna e alla luce del sole – si sta prodigando per reclamare
giustizia e denunciare abusi e corruzione.

Invece del dialogo e del confronto di idee e interessi
che diano soluzioni oneste, trasparenti e dignitose, si ricorre alla
persecuzione sistematica e ingiusta di padre Piovesan, lo si diffama, lo si
minaccia. Si diffondono contro di lui documenti falsi, usciti da assemblee
false e firmate da persone che non hanno partecipato e che poi si indignano
vedendo i propri nomi usati per sostentare un attacco a una persona che,
invece, essi riconoscono e rispettano.

In diverse circostanze, questo Vicariato di Puerto
Maldonado ha ricevuto visite di delegazioni purusine che sollecitavano appoggio
per una connessione fisica del Purús con il Perú. Che colpa si può imputare a
una intera provincia che voglia semplicemente rimanere connessa con lo stato al
quale appartiene? È giusto che per andare al distretto abitato più vicino,
Sepahua (provincia di Atalaya), si debba camminare 22 giorni attraverso la
foresta o 30 giorni per arrivare fino alla strada di Iñapari-Puerto Maldonado?

Di che cosa vivranno gli abitanti del Purús se non
possono beneficiare del loro legno, cacciare i loro animali, pescare i loro
pesci, vendere i loro raccolti? Quale lavoro devono svolgere per ottenere
denaro che permetta loro di alimentarsi con qualcosa di più che manioca e
banane, comperare i vestiti, acquistare il materiale scolastico per dei bambini,
la benzina per il motore della canoa, pagare il proprio documento di identità,
gli studi superiori dei figli, gli occhiali, le scarpe, la radio, le medicine
eccetera? Dove procurarsi il denaro per salire sull’aereo per Pucallpa e
pagarsi vitto e alloggio in città, nel caso ci sia necessità di andarvi per
un’urgenza ospedaliera, un giudizio, un affare qualsiasi?

L’insensibilità
di Wwf e organizzazioni associate davanti al problema umano del Purús potrà
squalificare la sua azione nel resto del mondo? In particolare colpiscono i
metodi mafiosi usati in modo spregiudicato, come la compera di coscienze
stuzzicando gli interessi individuali dei dirigenti indigeni senza alcun
rispetto per l’indigenza della grande maggioranza. Estranei e lontani dalla
inumana situazione indigena, con una presenza sporadica, interessata e
retribuita, questi ecologisti ci feriscono. Davanti al problema costoro
pretendono di convincere la gente del Purús che non sa, non può, non ha bisogno
di niente perché già vive nel Paradiso e tutto quello che c’è fuori di esso è
brutto, è vizio, delinquenza, civilizzazione detestabile. Loro devono
continuare a vivere così, isolati, in riserva, esclusi.

Un paio di manifesti recenti – suppostamente realizzati
dalle comunità indigene – hanno denunciato davanti a tutte le istanze mondiali
la malizia e perversità di un sacerdote cattolico che è il «Satana» del Purús.
Eppure, soltanto voi Wwf-ecologisti avete la possibilità di arrivare nel Purús
in aereo, sempre e ogni volta che sia necessario. Arrivate e vi portate
succulenti stipendi nelle città dove avete le vostre mogli, figli, la vostra
bella casa, la vostra potente automobile. Al contrario di voi, il padre Miguel
va nel Purús e resta là, vivendo le scomodità e le mancanze dei purusini. Non
portando via niente, ma anzi portando là, per condividerlo con gli altri, il
poco o molto che può raccogliere quando si reca in altri paesi. Il padre Miguel
si preoccupa per l’educazione dei giovani, la salute degli ammalati,
l’indigenza degli indigeni, la mancanza di futuro per i giovani e per le donne.
Lo sdegnano le menzogne dei «signori di tuo» che continuano a vivere
magnificamente alle spalle dei soliti poveri o la furbizia e i pochi scrupoli
dei nuovi «capi».

Perché costoro addirittura si impegnano a minacciare di
morte qualcuno che cerca soltanto di affermare il diritto che tutti abbiamo di
vivere dignitosamente? Come osano redigere documenti minacciosi e farli firmare
a chi non sa le conseguenze di tale scemenza? Il padre Miguel non è nemico
degli indigeni; al contrario è voce profetica e fastidiosa contro il potere
abusivo e corrotto, l’ingiustizia istituzionalizzata, gli interessi nascosti,
la bugia, l’inganno, la strumentalizzazione, la paura e la prepotenza.

Per
tutto questo, raccomando con decisione a tutti i credenti, agli uomini e donne
di buona volontà, ai fratelli e sorelle indigeni, alle varie Comunità, che non
lascino solo il padre Miguel in questa lotta. A tutti loro dico: non abbiate
paura, so che vi minacciano, vi licenziano dal lavoro, vi etichettano e vi
impediscono di far uso dei voli «incivili», ma continuando a procedere nella
giusta direzione, alla fine la giustizia divina finirà per darvi qualcosa di
migliore, superando il maltrattamento, la miseria, l’esclusione a cui siete
ancora sottoposti.

mons.
Francisco González Heández,Vicario apostolico di Puerto Maldonado, Perú

   La provincia di Purús          

Localizzazione: la provincia amazzonica di Purús si trova
nel dipartimento peruviano di Ucayali (Pucallpa) e confina a Nord con il
Brasile e a Sud con il dipartimento di Madre de Dios (Puerto Maldonado).

Superficie: 17.847 chilometri quadrati.
Popolazione: 4.000 abitanti, 2.500 dei quali indigeni.
Capoluogo di provincia: Puerto Esperanza.

Popoli indigeni: Cashinahua, Culina, Sharanahua,
Chaninahua, Amahuaca, Mastanahua, Ashaninka, Yine, Piro; i Cashinahua
costituiscono l’etnia più numerosa, gli Amahuaca la meno (con soltanto una
ventina di membri).
Comunità indigene:
44, soltanto 8 con più di 100
componenti.

Economia: gli indigeni vivono di caccia, pesca e
agricoltura di sussistenza; l’unica attività economica rilevante è quella
legata al commercio del legname pregiato (cedro e caoba).

Attrattive: il «Parco nazionale dell’Alto Purús»,
istituito nel 2004, è il più esteso del Perú (www.pnaltopurus.pe).

Collegamenti attuali: voli aerei da Pucallpa, capoluogo
di Ucayali, a Puerto Esperanza (600 chilometri) attuati, due volte a settimana,
da North American Float Plane Service Sac per 140 soles a tratta (il salario
minimo peruviano è di 750 soles); i voli militari costano meno, ma non hanno
una frequenza prefissata. 

      La questione                      

Progetto: è in discussione un progetto di Legge (n.
1035/2011-Cr) per collegare con una strada di 270 km Puerto Esperanza con Iñapari
(vedi mappa); a causa dei territori amazzonici e indigeni che la strada
attraverserebbe, il progetto è fonte di un accesissimo dibattito.

Su posizioni opposte: sono favorevoli al progetto
alcuni politici (capeggiati da Carlos Tubino, congressista di Fuerza Popular,
il partito di Keiko Fujimori) e la Chiesa locale nelle persone di padre
Piovesan e di mons. Francisco González Heández, vicario di Puerto Maldonado;
tra i contrari ci sono: le organizzazioni indigene Feconapu, Fenamad, Aidesep;
le organizzazioni inteazionali Wwf, Global Witness, Survival Inteational e
Survival Italia.

Per comunicarecon gli autori*:

 
• Sito web:  
www.parroquiapurus.org
• Email:  
misionpurus@yahoo.es
 
(*)  La rivista ha
dato spazio alle opinioni di padre Miguel Piovesan e mons. F. G. Heández,
dopo che gli stessi avevano letto e criticato un reportage di Paolo Moiola
(pubblicato in 3 puntate a giugno, luglio, agosto 2012) sul confinante
dipartimento di Madre de Dios. In esso si parlava anche di vie di comunicazione
(Carretera Interoceanica Sur) e della Fenamad, una delle organizzazioni
indigene contrarie al progetto di strada tra Puerto Esperanza e Inãpari.

 

Miguel Piovesan eFrancisco González Heández




RCA: Il cuore (malato) del continente

La
crisi dimenticata nel paese inesistente
Marzo
2013: i ribelli conquistano Bangui. Ennesimo colpo di stato nella Repubblica Centrafricana.
Ancora la popolazione subisce saccheggi, uccisioni, torture, stupri. Ma la
ribellione ha una connotazione confessionale ed etnica. E vi fanno parte molti
stranieri. Ci sono tutti gli ingredienti per l’infiltrazione della jihad
internazionale. Eppure sembra non interessare i potenti della Terra. Ma come si
è arrivati a questa crisi? E quali sono le prospettive?

«I
ribelli? Loro ti dicono chiaro che questa è una provincia del Ciad». Chi parla è
padre Aurelio Gazzera, missionario a Bozoum, Repubblica Centrafricana1. Carmelitano scalzo della provincia ligure,
lavora nel paese dal 1992 e da dieci anni opera in questa zona a Nord-Ovest.

La Rca è un paese dimenticato, isolato e senza particolari
interessi geo-strategici. Almeno per ora. Ex colonia francese, la sua
collocazione nel cuore del continente le impedisce l’accesso al mare. Vasto il
doppio dell’Italia conta circa 5 milioni di abitanti. Di fatto è diventato uno
stato cuscinetto tra la zona islamica a Nord, Ciad e Sudan, e quella cristiana
a Sud, Congo e Repubblica democratica del Congo. E l’attuale crisi politica e
umanitaria ha messo in evidenza tutta la delicatezza della sua posizione e la
fragilità dello stato.

È sgnificativo come nonostante il paese sia esportatore di
diamanti, oro e petrolio, gli indicatori della Rca sono scesi negli ultimi 30
anni: la speranza di vita è diminuita dal 1985 a oggi (49,8 a 49,1), così
come il reddito medio per abitante (da 909 a 722 Usd). La speranza
scolarizzazione
è invece aumentata di un solo anno da 5,8 a 6,8 (Pnud2).

La storia si ripete

Per capire la crisi odiea occorre fare un passo indietro.
Nel 2003 François Bozize aveva annullato, con un colpo di stato,
dieci anni di regime corrotto di Ange-Félix Patassé e si era insediato come
presidente della repubblica, poi confermato alle ue nel 2005 e nel 2011.
Accolto all’epoca come il cambiamento possibile, Bozize ha presto deluso le
aspettative mettendo in piedi una gestione del potere definita «etno-familiare».
Tutti i posti chiave, politici e militari, erano occupati da membri della sua
stretta cerchia famigliare o al più della sua etnia, gbaya (o baya)
della zona di Bossangoa. Un regime parassita e corrotto, che si permetteva però
di trascurare la gestione della sicurezza sul territorio nazionale. L’esercito,
allo sbando, ha lasciato intere parti del paese in mano a gruppi ribelli
nazionali ed esteri già dal 2005. È famoso il caso della Lord Resistence
Army
(Lra) di Joseph Kony (cfr. MC giugno 2012), che si è installata
nell’Est della Rca dal 2008, o di gruppi armati ciadiani e sudanesi arrivati
dal Nord. Bozize si è visto costretto a firmare diversi accordi di cessate il
fuoco con fazioni ribelli, soprattutto del Nord-Est, la regione più critica e
fuori controllo (2008, 2011).

Ma è alla fine dell’anno scorso che i più importanti gruppi in
armi, spesso in lotta tra loro, si uniscono in una coalizione eterogenea e
diversificata: la Seleka. Si tratta di Ufdr (Unione delle forze democratiche
per la riunificazione) e Cpjp (Convenzione dei patrioti per la giustizia e la
pace), basati su etnie diverse, ai quali si unisce il Cpsk (Convenzione
patriottica di salvezza del Kodro) costola dissidente del Cpjp e l’Unione delle
forze repubblicane. Numerosi anche i combattenti sudanesi (originari del
Darfur) e ciadiani che si aggregano alla coalizione per approfittare dei
saccheggi. I ranghi della Seleka si gonfiano infine di giovani e minorenni
delle varie città, volontari o reclutati a forza, durante la discesa su Bangui
e nella capitale stessa.

«Ci sono tantissimi sudanesi e ciadiani – continua padre Aurelio –
sono tipi fisicamente diversi, si vede a colpo d’occhio. Non parlano né il sango
(lingua ufficiale e più diffusa, ndr) né il francese, ma solo l’arabo o
l’inglese. Interloquire e dialogare con queste persone è complicato. Altri sono
della zona centrale del paese da cui proviene il sedicente presidente Michel
Djotodia. Anche molti ministri non conoscono le due lingue nazionali». Fatto
grave, secondo molti osservatori, i posti di maggiore responsabilità, i
generali e i colonnelli che controllano le province, sono stranieri.

I «nuovi» ribelli

La Seleka, che si identifica per la prima volta il 10 dicembre
2012, conquista rapidamente diverse città e punta su Bangui. È la Comunità
economica degli stati dell’Africa centrale (Cesac) che interviene con una
mediazione che porta agli accordi di Libreville (Gabon) l’11 gennaio 2013.

I mediatori designati sono Denis Sassou Nguesso, presidente del
Congo, e Idriss Déby Itno del Ciad. Due vecchie volpi, che ottengono un accordo
di cessate il fuoco. Bozize resta al potere, ma deve formare un governo di unità
nazionale e «congelare» l’Assemblea Nazionale (il parlamento) che sarà rieletta
entro 12 mesi. Un comitato di monitoraggio degli accordi sarà messo in piedi.
Bozize, che deve rinunciare formalmente a ricandidarsi, nomina come primo
ministro di transizione Nicolas Tiangaye, avvocato, militante in diverse
istanze dell’opposizione. La Cesac mette a disposizione la Missione di
consolidazione della pace in Centrafrica (Micopax o Fomac), già presente in Rca
dal 2008, con 700 effettivi, per vegliare sulla parte militare dell’accordo,
proteggere gli organi di transizione e il lavoro umanitario.

Ma per la Seleka la fetta di torta è troppo piccola, solo 5
ministri su 33, con i principali in mano al clan Bozize. Il presidente dal
canto suo, afferma: «Je reste le patron» (Sono sempre il capo3). Così i ribelli, decidono di
farla finita e riprendono le ostilità. Il 24 marzo sono a Bangui, sbaragliando
le deboli Forze armate nazionali (Faca) e 400 militari Sud africani inviati in
aiuto a Bozize. La Micopax invece non reagisce. Il presidente fugge, e Michel
Djotodia, leader del Ufdr, si auto proclama capo dello stato. Djotodia, già
funzionario ministeriale durante i regimi di Patassé e Bozize, era stato
nominato da quest’ultimo ambasciatore in Darfur, per poi cadere in disgrazia ed
essere escluso dai giochi di potere.

Seleka controlla rapidamente tutto il paese. L’Unione africana
(Ua) non riconosce il nuovo regime, mentre la Cesac prende atto: convoca due
incontri a Ndjamena (capitale del Ciad), il 3 e il 18 aprile e arriva al
compromesso. Gli accordi di Libreville sono mantenuti validi (pur nella nuova
configurazione a Bangui) e la transizione dovrà durare 18 mesi.

Quindi tocca a Djotodia fare il «suo» governo: «Il 31 di marzo è
stato presentato un nuovo governo di transizione – racconta padre Aurelio – dove
20 ministri su 34 erano musulmani, in un paese dove gli islamici sono al
massimo il 15%. Molti erano della Seleka, tra questi 4-5 parenti stretti del
presidente. Ma i paesi della Cesac non erano molto contenti, e hanno chiesto la
presenza di tutte le parti, sia nei consigli di transizione, sia nel governo.
Così il presidente ha diminuito leggermente il numero dei ministri della Seleka».

Continua il missionario: «Il primo ministro è sempre Tiangaye:
sono obbligati, lui è il peo su cui gira tutto. Seleka dice che è il ministro
del dialogo di Libreville. Anche la Cesac si accontenta per tenere in piedi il
processo di pace. Il primo mese e mezzo gli incontri inteazionali erano
soprattutto con il primo ministro e non con il presidente, non sempre riconosciuto,
poi ha iniziato ad andare in giro pure lui».

Le sfide della transizione

«La transizione prevede disarmo e integrazione dei combattenti.
Questo è un problema, perché non ci sono i soldi nemmeno per l’esercito
regolare, e inserire altri elementi che non hanno nessuna disciplina, lo
indebolirebbe ancora di più. Poi ci sarebbero le elezioni, ma non ci sono
previsioni di date. Le prospettive non sono molto radiose, perché le
opposizioni si sono messe tutte con il vincitore Seleka e sono entrate nel
governo. Posizione questa assunta fin da dicembre».

Padre Aurelio va spesso a Bangui. Per arrivare oggi si passano
molti posti di blocco dei ribelli, dove miliziani improvvisati chiedono qualche
soldo. Dal diario del 4 agosto: «Il viaggio è andato bene, nonostante le 12
barriere che i ribelli hanno messo sulle strade: una media di una ogni 30 km!».

A Bangui è iniziato molto lentamente il disarmo dei ribelli, ma ci
sono poche speranze che funzioni, perché si parla di circa 5.000 unità e quando
si ritirano le armi occorre dar loro qualcosa, riconvertirli, ci vogliono
mezzi, soldi, volontà da tutte le parti. «La comunità internazionale, in
particolare gli stati africani, a inizio maggio avevano promesso un aumento
della forza multinazionale, però dei 2.000 militari previsti pare che siano
arrivati solo 150 carabinieri del Congo. Sono loro che si occupano del disarmo,
in teoria. L’esercito regolare si è disintegrato, non accenna a riprendersi. I
soldati hanno paura, quando ritornano nelle caserme le trovano occupate dai
ribelli che li mettono in prigione o li uccidono».

Dal primo agosto la Micopax cambia nome passando sotto l’egida
della Ua e diventando la Misca (Missione internazionale di sostegno al
Centrafrica). Gli effettivi diventeranno a regime 3.650 di cui 150 civili. La
Misca ha come compiti: protezione dei civili, riportare pace e stabilità,
riforma e ristrutturazione dell’esercito nazionale, ed è composta da uomini di
Camerun, Congo, Gabon e Ciad.

Diritti umani cercansi

Dopo la presa di Bangui, le tante fazioni della Seleka si
scatenano ai quattro angoli del Centrafrica e la popolazione ne paga le
conseguenze. Nella loro avanzata saccheggi, stupri, violenze di ogni genere e
uccisioni sono all’ordine del giorno. Human Rights Watch, Ong di difesa
dei diritti umani, ha pubblicato un rapporto sulla Rca4 a maggio nel quale denuncia: «un
gran numero di assassinii sono stati commessi dalla Seleka a Bangui dopo il
colpo di stato del 24 marzo, […] e altre uccisioni sono state perpetrate dalle
stesse truppe in tutto il paese tra il dicembre 2012 e aprile 2013».

Nel rapporto del segretario generale dell’Onu5 (3 maggio 2013), Ban Ki-moon, è
scritto: «Da quando la Seleka controlla Bangui, centinaia di cadaveri non
identificati sono stati trovati in diversi settori della capitale. Secondo la
Croce Rossa locale, almeno 119 persone sono state uccise […]. Si riporta che
602 feriti sono stati curati negli ospedali di Bangui». E ancora: «L’anarchia
che regna in Rca ha avuto conseguenze disastrose per le donne e le ragazze, e
il flusso di violenze sessuali, come stupri, stupri collettivi e atti di
schiavitù sessuale, sembra inarrestabile».

Intanto nella maggior parte del paese le scuole sono chiuse da
quattro mesi, così come le strutture sanitarie sono prive di farmaci e
disertate dagli operatori. Più in generale i funzionari sono fuggiti all’arrivo
dei ribelli e hanno paura a tornare sul posto di lavoro. Inoltre non ci sono più
i soldi per pagarli. Fonti Onu contano in 206.000 gli sfollati interni (di cui
la metà bambini) e oltre 60.000 i rifugiati nei paesi vicini. Mentre 1,6
milioni di centrafricani hanno bisogno di aiuto di emergenza.

«Qualcosa si muove, iniziano ad arrivare i prefetti nominati dal
governo centrale, nelle 16 prefetture in cui è diviso il paese» ricorda padre
Aurelio, senza troppo ottimismo.

«Questi ribelli, sono sempre in città, ma hanno ridotto abbastanza
le attività, perché ormai hanno razziato quasi tutto. Stanno andando nei
villaggi».

In effetti, mentre a Bangui la situazione sembra normalizzarsi
poco alla volta, violenze e saccheggi continuano nelle campagne. Ancora padre
Aurelio ne è testimone. Il giorno 7 agosto, sulla strada Bozoum – Bassangoa ha
contato almeno 14 villaggi deserti, raccolto testimonianze di esecuzioni
sommarie e saccheggi. Intanto 2.400 sfollati si sono presentati negli stessi
giorni alla missione di Bozoum: «Sono fuggiti da zone a 65-90 km da qui, dopo
che i ribelli hanno ucciso almeno 15 persone, ma temiamo che siano oltre 40. La
questione è che non c’è nessuna autorità a cui rivolgersi per fare giustizia.
Coloro che comandano sono della Seleka, ovvero sono gli stessi che fanno i
saccheggi, quindi c’è poco da sperare. Inoltre, oggi Seleka è una coalizione,
ma i gruppi continuano a dividersi, a moltiplicarsi. È tutto da vedere come si
sviluppa la situazione o come degenera».

Piccole pietre

L’altro grosso problema è che i ribelli si sono messi in tutti i
posti in cui circolano soldi, e tutte le entrate dello stato, come la dogana,
le intercettano loro. I ribelli hanno inoltre commesso razzie di ogni tipo, in
particolare hanno incamerato molte auto.

C’è poi un ruolo accertato dei trafficanti di diamanti nel
finanziamento della ribellione: «Il nipote di Bozize era ministro delle miniere
nel 2008 da un giorno all’altro aveva fatto chiudere le società di
esportazione, per controllare meglio il mercato, danneggiando così i
trafficanti. Il presidente attuale, inoltre, era console a Nyala in Darfour,
Sud Sudan, dove c’è un fiorente mercato nero di diamanti. Un altro canale di
finanziamento è quello di alcuni paesi arabi» ricorda padre Aurelio.

Ambiguo il ruolo giocato dal Ciad nella crisi. Oltre a essere uno
dei principali mediatori negli accordi, il Ciad avrebbe appoggiato la
ribellione. Alcuni leader della Seleka, ai domiciliari a Ndjamena, sono stati
rilasciati poco prima delle operazioni, mentre proprio Idriss Déby, presidente
del Ciad, avrebbe dato l’ok per l’offensiva finale di marzo6, fatto smentito ufficialmente da
Njamena. François Bozize ha invece 
dichiarato che dietro alla Seleka c’è proprio il paese confinante.

«È un ruolo importante – ricorda padre
Aurelio -. A Bozoum abbiamo il console del Ciad, e guarda caso qui ci sono
stati pochi problemi. Le voci dicono che la Francia abbia lasciato fare il Ciad
per avere mano libera in Mali. Là ha più interessi». La Francia ha mantenuto un
profilo molto basso, evacuando i propri espatriati tardivamente (quando molti
saccheggi si erano consumati) e mantenendo una forza militare minima, a protezione
di alcuni interessi strategici francesi nella capitale e dell’aeroporto.

Le mosse della Chiesa

La chiesa in Centrafrica è l’istituzione che, dopo lo stato, ha
subìto più danni dai saccheggi dei ribelli. Le missioni e altre opere sono
state sistematicamente prese di mira: «Razziavano macchine, soldi, carburante,
tutto quello che trovavano. Alcune diocesi sono state messe in ginocchio, come
Bambari, Bangassou, Kanga Bandaro, Bossangoa» racconta padre Aurelio.

C’è poi il rischio della connotazione religiosa del potere: «La
Chiesa si è mossa subito, prima di dicembre. È stata creata una piattaforma di
dialogo tra cattolici, protestanti e musulmani. Poi quando le cose sono
scoppiate il lavoro è continuato. Stiamo facendo diversi incontri. La
preoccupazione è evitare che ci sia un ritorno, una vendetta contro gli
islamici. Molti dei musulmani locali non sono d’accordo con questa ribellione.
L’altro motivo è di cercare di alzare la voce, farsi sentire a livello
internazionale, per avere qualche reazione.

Anche i vescovi hanno parlato, ce ne sono alcuni molto coraggiosi
(vedi intervista)».

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, si è
finalmente riunito il 14 agosto sulla crisi in Rca, dichiarando che rappresenta
una grave minaccia per tutta la regione e che occorrono progressi rapidi per la
transizione politica. Intanto, il 18 agosto, Michel Djotodia ha prestato
giuramento sulla «Carta di transizione» (che sostituisce la Costituzione) di
fronte al Parlamento di transizione e ai presidenti di Congo e Ciad.

Padre Aurelio, che di crisi in Centrafrica
ne ha già vissute, dipinge un quadro poco rassicurante: «L’incertezza è
grandissima. Ora c’è una certa calma, ma è molto fragile, non illudiamoci che
sia risolta, può succedere di tutto. Un altro movimento ribelle che scende
sulla capitale, l’ex presidente che ritorna con un gruppo armato, come alcune
voci sostengono7. Non c’è nulla di sicuro. La scuola e la
sanità non funzionano, quindi l’instabilità è grande. Le prospettive, con i
ribelli che bloccano tutte le entrate dello stato, non sono allegre».

Marco Bello
 
Note
 

1 – Il nome ufficiale, Repubblica Centrafricana (République Centrafricaine), viene spesso
accorciato in Centrafrica, o Rca in sigla.
2 – Pnud, Human Development Report 2013, Explanatory note on Hdr composite indices,
Central African Republic.
3 – Il 15 marzo 2013, durante i festeggiamenti per i
suoi 10 anni al potere, François Bozize lascia intendere che si ricandiderà, in
contrasto con gli accordi di Libreville.
4 – République
centrafricaine: de nombreuses exactions ont été commises aprés le coup d’état
.
Rapporto Hrw, 9 maggio 2013.
5 – Rapport du
Secrétaire général sur la situation en République centrafricaine
, Consiglio
di Sicurezza Onu, 3 maggio 2013.
6 – République
centrafricaine: les urgences de la transition
, Inteational Crisis Group,
11 giugno 2013.
7 – L’ex presidente Bozize ha fondato il Frocca (Fronte per il ritorno all’ordine
costituzionale in Centrafrica).

 
 

La parola a monsignor
Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui

«Serve il consenso, no
al potere che esclude»

La Chiesa cattolica
centrafricana è nel mirino della ribellione.  Ma insieme a protestanti e musulmani ha subito
creato una piattaforma di dialogo interreligioso. Per scoprire che le tre
confessioni sono sulla stessa lunghezza d’onda. E allora chi vuole questa
guerra?

Monsignor Dieudonné
Nzapalainga, arcivescovo
di Bangui è un religioso spiritano. Giovane (46 anni), centrafricano e molto
attivo, è stato ordinato vescovo nel luglio 2012. È attualmente presidente
della Conferenza episcopale centrafricana e presidente della Caritas nazionale.
Lo abbiamo contattato telefonicamente.

Monsignor
Dieudonné, ci parli della crisi umanitaria nel paese e nella sua diocesi in
particolare.

La crisi umanitaria è anche dovuta
al fatto che con la guerra molte Ong hanno lasciato il paese. Inoltre la gente
ha abbandonato le città e si è nascosta nella foresta, dove si nutre di radici,
per paura dei ribelli della Seleka. Con le piogge è grave anche la situazione
sanitaria, perché la malaria si sta diffondendo. Non è stato creato un
corridoio umanitario necessario alle poche Ong rimaste a soccorrere la
popolazione. Sulle strade ci sono sempre dei militari della Seleka che
continuano a impedire ai mezzi non governativi di circolare, con posti di
blocco nei quali vengono chiesti dei soldi. Anche le nostre macchine della
Caritas vengono bloccate.

C’è il problema sanitario e quello
educativo: a Damara (città a 80 km da Bangui, ndr) da mesi è chiusa la
scuola. L’ospedale è stato saccheggiato, non ci sono più medicine. Ho parlato
con un medico che non può lavorare. Chi ha bisogno di cure deve andare a
Bangui. Ma il paese è tutto in questa situazione.

Anche l’agricoltura è bloccata. La
crisi politica è iniziata a marzo, quando la gente doveva seminare. La pioggia è
arrivata, gli uomini non potevano andare nei campi perché rischiavano di essere
catturati o uccisi. Senza raccolto la fame arriverà nei prossimi mesi. Le
sementi distribuite da organismi come Caritas e Fao sono state consumate perché
non c’era nulla da mangiare.

A livello
della sicurezza c’è un miglioramento?

La sicurezza è migliorata a
Bangui, dove è gestita dalla forza multinazionale Fomac. Ma le armi sono
dappertutto e alcuni quartieri, come Kina e Km5, sono delle vere polveriere.
Quando si tenterà di disarmarli ci potrà essere un effetto bomba.

Sono questi i sobborghi dove sono
stati reclutati i livelli bassi della Seleka. Gente che vendeva bibite per la
strada e da un giorno all’altro si è trovata con un’uniforme e un fucile
mitragliatore in mano, a scorrazzare sui pick up. E senza alcuna formazione.
Hanno iniziato così a chiedere soldi. Sarà difficile smobilitare queste
persone. Diventano dei banditi.

In provincia invece, sono i
giovani e i ragazzi delle città a essere reclutati dai ribelli, complice il
fatto che le scuole sono chiuse. Qui chiedono 50 franchi (7 cent, ndr) a
ogni ciclista che passa, o alla gente che torna dal campo con il proprio
materiale. C’è un racket quotidiano e capillare, ogni qualvolta ci si sposta,
si va al lavoro. Perché la Seleka non paga questi giovani che si rifanno sulla
popolazione.

Nella Seleka
qual è la componente religiosa o etnica?

Esiste una componente religiosa.
La gente che ha preso il potere sta utilizzando mercenari che vengono dal Ciad
e dal Sudan. Lo abbiamo scritto nella lettera dei vescovi. Li abbiamo
incontrati all’interno del paese e a Bangui. Non parlano né il sango
il francese, piuttosto inglese e arabo. Poi i tre quarti della Seleka sono
giovani musulmani delle regioni del Nord Est. Abbiamo denunciato che l’ex
presidente Bozize arruolava solo la gente della sua zona, ora sta succedendo lo
stesso.  Al potere non sono rappresentati
tutti i gruppi e i popoli della Rca. Inoltre dicono di essere composti al 90% da
musulmani e il restante 10% da cristiani.
Non c’è dogana, polizia né
gendarmeria. Sono i militari della Seleka che fanno tutto.
Lo stato non esiste. Solo a Bangui
c’è una parvenza grazie alla Fomac.
All’interno del paese non ci sono
più funzionari dello stato, né autorità statali (ufficiali), tutti sono fuggiti
in capitale perché venivano perseguitati dalla Seleka con l’accusa di essere
agenti dell’ex presidente.

Lei è stato
recentemente a Roma. Perché a livello internazionale si parla così poco della
Rca?

All’inizio della crisi se ne è parlato,
ma poi è caduto il silenzio. Come vescovi abbiamo scritto una lettera al
presidente (di transizione)1
. Il 25 giugno ero a Parigi in una
conferenza stampa affollata. Ho detto che la Repubblica Centroafricana è un
paese che muore a fuoco lento, che se nulla viene fatto diventerà il santuario
dei grandi banditi, dei narco trafficanti, dei gruppi ribelli, di tutti quelli
che vogliono destabilizzare. Sono andato al ministero degli Esteri e alla
presidenza della Repubblica francesi per parlare di Centrafrica per attirare
l’attenzione. Recentemente la ministro francese Yamina Benguigui ha dichiarato
che in settembre metteranno la Rca a livello delle priorità nell’Onu.

La risposta che ho avuto è che il
nostro paese, ogni volta che succede qualcosa, torna al punto di partenza.
Questo scoraggia la comunità internazionale. Quando ne ho parlato a Roma, il
Santo Padre ha citato la Rca all’angelus del 29 giugno. Poi ho incontrato il
cardinale Feando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione
dei Popoli. Per noi è una maniera di uscire dall’isolamento. Sono stato a Roma
in riunione con Caritas Inteationalis, con Fao e con l’ambasciatore francese
presso la Santa Sede, sempre per presentare la situazione e sollecitare un
impegno rapido per il paese. Diverse Caritas già ci aiutano per le questioni di
sanità pubblica e ora vorremmo fare qualcosa per le scuole.

A livello
nazionale cosa fa la Chiesa cattolica per il ritorno alla pace?

Concretamente la Chiesa cattolica
insieme a Chiesa protestante e confessione musulmana ha creato una piattaforma
di dialogo: facciamo delle riunioni nelle quali discutiamo. Ci ritroviamo per
fare l’analisi della situazione dal colpo di stato a oggi. Vogliamo fare delle
raccomandazioni ai principali attori. Utilizzeremo lo strumento Giustizia e
Pace per verificare se le raccomandazioni saranno prese in conto. È una maniera
per noi per spingere i vari settori a ritrovarsi e gettare il seme di una nuova
maniera di vivere insieme.

La Chiesa cattolica, inoltre,
attraverso i suoi elementi, ha chiesto che le scuole siano riaperte. Ci siamo
impegnati, attraverso Jrs (Jesuite refugee service, ndr) un
organismo di Chiesa, ad attivare alcune scuole in zone dove non c’erano.
Attraverso Caritas siamo intervenuti anche per nutrire gli sfollati che
fuggivano dalle zone di conflitto. Abbiamo nutrito medici, malati e rifugiati.
A livello reale e concreto, non solo teorico.

Cosa dicono i
musulmani centrafricani della ribellione?

Lavoriamo con gli alti
responsabili dell’Islam in Centrafrica e sono sulla stessa nostra lunghezza
d’onda. Ma ci sono degli imam che non sposano la stessa filosofia e
dicono cose diverse. L’imam attuale presidente della comunità musulmana è
andato all’interno del paese e ha condannato tutti quelli che rubano e
violentano, dicendo che non sono dei buoni musulmani. Così le autorità attuali,
quando sono entrate a Bangui non lo hanno cercato, ma hanno incontrato altri imam,
proprio perché lui li aveva criticati.

Nella Seleka i musulmani nazionali
sono meno numerosi che gli stranieri e questo disequilibrio pesa molto. Il
presidente della comunità islamica è centrafricano, ama la sua terra e agisce
come patriota, ma penso che se fosse straniero il discorso cambierebbe. Ma
riceve molte pressioni da parte delle autorità e di altri musulmani.

Secondo lei
qual è il cammino per uscire dalla crisi e riportare la Rca alla pace?

Penso che ci voglia una volontà
politica da parte di tutti quelli che fanno i politici: il presidente, gli
oppositori. Occorre che si punti all’interesse nazionale e smettano di cercare
il potere per il potere e di distruggere, prendere la gente in ostaggio.
Decidano di lavorare insieme per questo paese. Non è un solo gruppo che potrà
risolvere, occorre che ci sia davvero un’apertura. È necessaria una conferenza
nazionale in cui tutti possano parlare, perché quello che è successo interessa
tutto il paese. Serve un consenso: cercare delle soluzioni in modo non
unilaterale. Se non si accetta di associare tutti, gli esclusi si faranno un
giorno avanti per conquistare il potere. La soluzione è un albero sotto il
quale tutti parlano, dialogano. Chi ha torto riconoscerà i propri torti, chi ha
fatto degli errori potrà essere punito. Insieme e non con le armi. Si lasciano
le armi e a cuori disarmati sarà l’amore, la frateità, la giustizia, la
correttezza, la coesione. Sono questi i valori che dobbiamo cercare.                                                           

 Marco Bello

Marco Bello




Amazzonia. Il Bianco che si fece Yanomami

Questione indigena / Incontro con fratel Carlo Zacquini

 

In Brasile i diritti dei popoli indigeni sono sotto
attacco. Un attacco molto insidioso perché messo in atto da istituzioni
pubbliche (governo e congresso). In queste pagine fratel Carlo Zacquini, una
vita trascorsa a lottare a fianco degli indigeni, e degli Yanomami in
particolare, racconta cosa sta accadendo e quanto grave sia la situazione.

I numeri sono schiaccianti. Le persone coinvolte sono «soltanto»
novecentomila su una popolazione di 201 milioni. Eppure la questione indigena nel Brasile
della crescita economica e delle proteste di piazza è un tema dirompente. È una
scelta tra la strada dell’omologazione al modello neoliberista e dello sviluppo
fondato sul saccheggio delle risorse naturali e quella della difesa di popoli
indigeni a volte ridotti a pochi individui.

«La situazione è molto grave e io mi sento in
un’angustia indicibile, perché non riesco a sensibilizzare un numero
sufficiente di persone che possano rovesciarla». A parlare così è Carlo Zacquini, missionario della
Consolata, da 48 anni in Brasile. Per motivi di salute fratel Carlo risiede a
Boa Vista, capitale dello stato amazzonico di Roraima, ma per tantissimi anni
ha vissuto nella foresta con gli indigeni.

«Pochi mesi dopo il mio arrivo in Brasile, era il primo
maggio del 1965, alla foce del Rio Apiaù, ebbi la fortuna di incontrare alcuni
indigeni che allora erano chiamati Vaikà. Oggi so che erano Yanomami del
villaggio Yõkositheri. Fu amore a prima vista. In seguito ebbi vari contatti
sempre con lo stesso gruppo, finché, per l’assentarsi del mio collega padre
Giovanni Calleri, ebbi l’occasione di cominciare a vivere tra gli Yanomami del
Rio Catrimani. Poco alla volta, mentre cercavo di sopravvivere in quel luogo,
molte volte senza il minimo necessario, imparai una delle loro lingue e, cominciai
a fare delle ricerche sulla loro cultura». Le attività di fratel Zacquini
furono interrotte nel 1974, dalle opere di una strada genocida – la Perimetral
Norte
o Br-210 – che il governo militare di allora aveva deciso di
costruire per andare dall’Atlantico al Pacifico. «Fu una tragedia che non
dimenticherò mai. Vari villaggi furono decimati da malattie sconosciute agli
Yanomami, portate dagli addetti alla costruzione della strada. Non si saprà mai
quanti morirono. Superata questa fase, ben presto la strada, incompleta, fu
risucchiata dalla foresta.  Nel frattempo
io avevo dovuto abbandonare le mie ricerche e dedicarmi quasi esclusivamente
alla medicina per cercare di salvare la vita almeno a quelli che erano più
vicini a me».

Alla fine è sempre la legge dei bianchi 

Fratel Carlo parla degli indigeni come fossero la sua famiglia. E
certamente lo sono, ieri come oggi, quando essi sono oggetto di attacchi ancora
più vergognosi del passato in quanto provenienti da rappresentanti del
Congresso nazionale (aderenti alla potente Bancada ruralista, la quale spesso
trova appoggio nella Bancada evangelica), intenti a svuotare la portata del
Capitolo VIII («Degli indios») della Costituzione del 1988. «Sono riconosciuti
agli indios – recita l’articolo 231 – la loro organizzazione sociale, i
costumi, le lingue, credenze e tradizioni, e i diritti originari sulle terre
che occupano tradizionalmente, spettando all’Unione la loro demarcazione, la
protezione e il rispetto di tutti i loro beni». I congressisti giocano su un
terreno favorevole. Oggi una parte importante dei brasiliani malsopporta gli
indigeni. «Cosa sono oggi, per il Brasile, questi popoli? La prima impressione è
che loro siano di intralcio. Scomodi. O peggio. Per molti “patrioti” essi sono
un disonore: “Come si può ammettere – dicono – che esistano ancora oggi dei
‘selvaggi’ nel nostro paese che sta primeggiando tra le grandi economie
mondiali?”». Fino al 10 luglio 2013, la presidente Dilma non aveva mai ricevuto
i rappresentanti dei popoli indigeni. Le foto dell’incontro, diffuse dal
Planalto (il palazzo sede della presidenza), non debbono trarre in inganno. I
sorrisi sono di circostanza, buoni per i media e per la piazza che ha bisogno
di messaggi tranquillizzanti. Dietro lo scenario le manovre sono ben diverse.

Dai tempi della dittatura militare il
governo di Dilma è quello che ha demarcato meno terre indigene, ma soprattutto è
quello che sta di fatto erodendo diritti che sembravano acquisiti (anche se
spesso non erano effettivi). La demolizione è sistematica e continua attraverso
ordinanze (portarias), progetti di revisione costituzionale (Pec),
decreti, leggi. Per citare i casi più recenti e clamorosi ricordiamo il Progetto
di legge complementare (Plp) 227/2012 e la Proposta di revisione costituzionale
(Pec) 215/2000. Il progetto 227 – presentato dal latifondista Homero Pereira
(la cui campagna elettorale è stata finanziata da grandi imprese con oltre un
milione di dollari) – vuole regolamentare il comma 6 dell’articolo 231 della
Costituzione. In particolare, esso mira a sottomettere le terre indigene al «rilevante
interesse pubblico dello stato brasiliano» (relevante interesse público da
União
), rendendone in pratica nullo il diritto al possesso e all’uso
esclusivo da parte dei popoli indigeni. Ciò significherebbe giustificare il
latifondo e aprire le porte a strade, condutture, centrali idroelettriche,
ferrovie, miniere, insediamenti umani.

La proposta 215 – presentata dal deputato
Almir Sá e giudicata incostituzionale dai giuristi – vuole invece porre sotto
il controllo del Congresso nazionale (e dunque della Bancada ruralista)
la demarcazione delle terre indigene, finora garantita dalla Costituzione.

«Un piccolo numero di “bianchi” – spiega
fratel Zacquini – si è impossessato di estensioni enormi di terre e domina il
governo nazionale attraverso i “suoi” rappresentanti. L’enorme estensione del
paese, la confusione nelle proprietà fondiarie e il potere economico hanno il
sopravvento sul buon senso e sulla legge. La quale legge, se è favorevole ai
popoli indigeni… la si cambia, come sta accadendo ora. In fin dei conti,
viene detto a mo’ di giustificazione, le leggi vigenti, chi le ha fatte – e
dunque chi le può modificare – non sono gli indigeni…».

«Troppa terra per pochi indigeni»

La Bancada ruralista («Frente parlamentar da agropecuária»),
i suoi potenti sostenitori («Confederação nacional da agricoltura», gruppi
imprenditoriali dell’agrobusiness e delle attività minerarie) e i media più
influenti sostengono che 113 milioni di ettari di territorio brasiliano (13,3%
del totale, dati Isa) in mano ai popoli indigeni sarebbero troppi.

Va detto – tra l’altro – che spesso si tratta di un
possesso teorico. Una parte considerevole delle terre indigene è infatti
soggetta a invasioni costanti e prolungate da parte di vari soggetti:
allevatori di bestiame, minatori, mercanti di legni pregiati, trafficanti di
biodiversità.

«Perché, anche nel caso dei popoli che hanno ottenuto il
riconoscimento delle loro terre, il governo non interviene con prontezza ed
efficienza contro gli invasori? In questo modo si alimenta la mentalità che
invadere terre indigene e distruggervi la natura non rappresenti un crimine.
Incentivati dall’impunità, le invasioni si moltiplicano. Se i contravventori
fossero gli indigeni, molto rapidamente sarebbero azionate le forze dell’ordine
per reprimerli, anche con la violenza».

Il problema è che spesso neppure lo Stato rispetta i
territori indigeni. Avviene, ad esempio, con le megaopere previste dal Programa
de aceleração do crescimento
(«Programma di accelerazione della crescita»,
Pac e Pac-2). Secondo la Fondazione per l’indio (Funai), ben 201 opere del Pac
interessano terre indigene. Le più impattanti sono le centrali idroelettriche,
in particolare Jirau e Santo Antonio sul fiume Madeira (Rondonia), Teles Pires
(Mato Grosso) e São Luiz (Pará) sul fiume Tapajós e la più grande in assoluto,
quella di Belo Monte, sul fiume Xingu (Pará). Opere devastanti per l’ambiente e
per l’esistenza di decine di popoli indigeni, esse testimoniano anche il
mancato rispetto della Convenzione 169 della Organizzazione internazionale del
lavoro (Oil), cui il Brasile aderisce.

Secondo l’articolo 16, «i popoli interessati non devono
essere trasferiti dalle terre che occupano. Qualora in via d’eccezione si
giudichino necessari il trasferimento e il reinsediamento di detti popoli,
questi non potranno avvenire se non col loro consenso liberamente espresso in
piena cognizione di causa». La sua violazione da parte del governo brasiliano è
palese.

«Perché – si chiede giustamente fratel Zacquini -, quando si pensa al “progresso”, non si pensa
quasi mai alle terre dei latifondisti, sovente incolte, ma sempre e soltanto a
quelle indigene?». L’affermazione è fondata su numeri chiari: in Brasile, circa
70mila persone sono proprietarie di 228 milioni di ettari di terre improduttive
(dati Ibge). «Insomma – conclude Carlo -, considerate le dimensioni
continentali del paese, nessuno potrà dire (in buona fede) che, demarcate le
terre indigene, gli altri abitanti non avranno terre per abitare, lavorare e
svolgere ogni possibile attività. E, a parte questo, va sempre ricordato che i
popoli indigeni non devastano natura e territori come invece fanno i “progrediti”
e “colti” non indigeni…».

Il coraggio di schierarsi a fianco degli indigeni

I popoli indigeni sanno difendersi. Dopo il genocidio e
l’etnocidio compiuti nei secoli passati e nel periodo della dittatura militare
(come testimonia il «Rapporto Figueiredo»), essi si sono organizzati. Tuttavia,
la loro condizione di minoranza fa sì che essi debbano essere difesi e aiutati.
Certamente non lo fanno i media brasiliani. «I mezzi di comunicazione – spiega
fratel Carlo – presentano la questione indigena sotto punti di vista
folcloristici o con sensazionalismo. Sovente le questioni sono trattate con
pregiudizi, o nascondendo interessi di agrobusinessmen, latifondisti, ditte di
estrazione mineraria, e altri ancora. C’è insomma una tendenza a camuffare
interessi di pochi, presentandoli come questioni di interesse nazionale, di
sicurezza, di progresso».

In questi ultimi decenni, a fianco dei popoli indigeni
del Brasile si è schierata la chiesa cattolica. Ben prima della fine della
dittatura militare (nel marzo 1985), ben prima delle rivolte di piazza di
giugno e luglio 2013, a lottare per un paese meno ingiusto c’erano due suoi
organismi: il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista
missionário
, Cimi, fondato nel 1972) e la Commissione pastorale della terra
(Comissão pastoral da terra, Cpt, nata nel 1975).

«Nel passato – ammette fratel Carlo – la chiesa
cattolica ha causato grandi danni alle popolazioni indigene dell’America. Da
quando io sono qui tuttavia, e sono ormai quasi 50 anni, la Conferenza
episcopale brasiliana (Cnbb), è stata sempre a fianco dei popoli indigeni, ha
dato appoggio ai missionari che si sono dedicati a questa causa con nuove forme
di approccio, dovendo lottare controcorrente. Non conosco nessuna altra entità che
abbia offerto tanti individui totalmente dedicati alla causa indigena come la
chiesa cattolica, in questo mezzo secolo. Il modus operandi è cambiato
gradualmente e gli stessi indigeni riconoscono la grande importanza della
chiesa nelle loro conquiste. La chiesa è stata la prima a dare la parola agli
indigeni, ad aiutarli a organizzarsi, a incentivarli, a difenderli, anche con
avvocati generosi e competenti». Parallelamente sono sorte anche varie Ong
(inteazionali e brasiliane) che, il più delle volte, avevano la
collaborazione o l’appoggio della chiesa. Merita di essere citato il lavoro di Survival
e, per lo stato di Roraima, quello svolto dall’omonimo comitato (Co.Ro.).

I bianchi e la corsa al saccheggio

A Roraima, dove fratel Zacquini vive, ci sono la Terra
indigena degli Yanomami e la Terra Raposa Serra do Sol (di vari popoli: Makuxí,
Vapichana, Ingarikó e altri). Ma il riconoscimento non ha cancellato i
problemi. Una parte della Terra Yanomami è occupata clandestinamente da oltre
20 anni, mentre per Raposa sono state introdotte numerose restrizioni (Petição
3388 e Portaria 303).

«Sono decine – ricorda il missionario – le proposte di
legge presentate da congressisti, vari di Roraima (come Paulo Cesar Quartiero,
Romero Jucá, Almir Sá, Edio Lopes), per togliere o ridurre i diritti dei popoli
indigeni. Le nubi sembrano annunciare un uragano che si abbatterà senza
misericordia sui diritti dei popoli autoctoni».

Carlo Zacquini ha visto crescere e
affermarsi come leader degli Yanomami Davi Kopenawa, sciamano. Tra loro c’è una
grande stima e amicizia. «Appena tornato dall’incontro con la presidente Dilma,
Davi mi ha detto sconsolato: “Le persone che hanno il potere in questa terra
non sono dei nostri; sono degli estranei, vengono da un altro mondo”. Voleva in
questo modo dirmi che non riesce a capirli, che essi pensano solo ai
soldi…  Lui e molti altri indigeni sono
indignati per il modo in cui noi bianchi trattiamo non soltanto gli esseri
umani, ma anche la terra, l’acqua, l’aria. La natura insomma».

Sopra e sotto i territori indigeni ci sono
ricchezze naturali che fanno gola e davanti ad esse in tanti sono disposti a
tutto. Come testimonia un progetto di legge – presentato dal senatore Romero
Jucá – che vuole aprire allo sfruttamento dei minerali in terra indigena (mineração
em Terras indígenas, Projeto de Lei
nº 1610/96). Fratel Carlo non riesce a
farsene una ragione: «È necessario sfruttare queste risorse? La distruzione
dell’ambiente non causa più danni di quanto le risorse possano essere di aiuto?
Se poi si riconosce onestamente che queste risorse sono necessarie, non si
dovrebbe dare priorità allo stesso tipo di risorsa esistente in terre non
indigene? Da ultimo, in caso di sfruttamento di terre indigene, il minimo che
si dovrebbe fare sarebbe di dibattere la questione con i diretti interessati ed
elaborare con loro programmi e attività non estemporanee, per preparare la
popolazione e farla partecipe degli eventuali benefici».

Niente di tutto questo avviene: ai popoli
indigeni rimangono soltanto problemi e distruzioni. «La corsa al saccheggio
delle risorse naturali non rinnovabili – chiosa fratel Zacquini – non porta
nessun paese al vero progresso. Normalmente serve solo per arricchire qualcuno,
lasciando il debito da pagare alle future generazioni».

Parole sacrosante ma inascoltate in un
Brasile entrato negli ingranaggi perversi di una crescita economica insensata
che sta calpestando l’ambiente e l’esistenza o la stessa sopravvivenza dei suoi
popoli indigeni.

Paolo
Moiola

 
La cronologia

1910 Nasce il Servizio di protezione degli indigeni («Serviço
de Proteção aos Índios», Spi).
1967 Il ministro dell’Inteo brasiliano commissiona al
procuratore generale Jader de Figueiredo Correia un’indagine sulla condizione
indigena in Brasile. Il rapporto diventa la prova storica del genocidio
perpetrato ai danni degli indigeni.
1967 Lo Spi viene sostituito dalla Fondazione nazionale
per l’indio («Fundação Nacional do Índio», Funai).
1973 Viene promulgato lo Statuto dell’indio («Estatuto do
Índio», legge 6.001).
1988 Viene promulgata la nuova Costituzione brasiliana.
In essa il Capitolo VIII è dedicato ai
popoli indigeni. Il cuore è l’articolo 231.
2002 Il 19 giugno viene finalmente ratificata dal
parlamento brasiliano la Convenzione 169 dell’Oil sui popoli indigeni.
2007 Il presidente Lula vara il «Programa de Aceleração
do Crescimento» (Pac), che diverrà presto una grande minaccia per le terre
indigene.
2012
– Marzo. La Oil denuncia il Brasile per aver violato
l’Accordo 169 non consultando gli indigeni del Rio Xingú, per i lavori della
megacentrale di Belo Monte.
– Ottobre. Viene promulgato il nuovo Codice forestale
(«novo Código Florestal»), un grosso regalo ai latifondisti e all’agrobusiness,
nonostante alcuni veti posti dalla presidente Dilma Rousseff.
– Novembre. Il deputato (e latifondista) Homero Alves
Pereira presenta il Plp 227 per regolamentare in senso anti-indigeno il comma 6
dell’articolo 231 della Costituzione federale.
2013
– Maggio. La ministra Gleisi Hoffmann (Casa Civil)
chiede al ministero della Giustizia di sospendere gli studi della Funai sulla
demarcazione delle terre indigene nel Paraná. La presidente incontra la
senatrice Kátia Abreu, leader degli imprenditori agricoli.
– Maggio/giugno. Arriva alla Camera la Proposta di
revisione costituzionale (Pec) 215/2000 in chiave antindigena.
– 10 luglio. La presidente incontra i rappresentanti dei
popoli indigeni.
– 23-25 agosto. Ad Ater do Chao (Santarém, Pará), si
svolge l’incontro dei «popoli indigeni resistenti».
– 30 settembre – 5 ottobre. L’associazione dei popoli
indigeni del Brasile (Apib) prevede mobilitazioni contro i ripetuti attacchi ai
diritti indigeni.

(pa.mo.)

I numeri
• 305 popoli indigeni (alcuni composti da poche persone),
dei quali 37 in isolamento volontario
• 896.917 indigeni,così distribuiti:
         324.834 in città
         572.083 in aree rurali

• 433.363 delle 896.917 persone indigene vivono
nell’Amazzonia legale (9 stati: Acre, Amapá, Amazonas, Pará, Rondônia, Roraima,
Tocantins e parte di Mato Grosso e Maranhão)

• 847 terre indigene (a diversi livelli di
riconoscimento*)
• Estensioni delle terre:
851.196.500 ettari totali Brasile
112.983.625 ettari terre indigene
228.500.000 ettari privati incolti

• 54 indigeni assassinati in media ogni anno.
Durante il governo Cardoso vennero assassinati 167
indigeni, 20,8 per anno; durante il governo Lula gli indigeni assassinati
furono 452, con una media annuale di 56,5; nei primi due anni di governo
Rousseff, i morti sono stati 108.

(*) Iter di riconoscimento delle terre indigene:
i
dentificazione (Funai), demarcazione, omologazione (con decreto
presidenziale), registrazione fondiaria.

 Fonti: Censimento Ibge 2010, Cimi, Cpt, Isa, Funai.
Gli Yanomami
Numero – 36.000 persone.

Territorio – Brasile (Roraima: 21.000) e Venezuela
(Alto Orinoco: 15.000).

Cronologia

1900 – Primi contatti conosciuti tra uomini bianchi e
indigeni yanomami.
1965 – I missionari della Consolata fondano una
missione sul fiume Catrimani.
1973 – Il regime militare brasiliano inizia la
costruzione della strada Perimetral Norte o Br-210. L’opera ha un impatto
devastante sulle comunità yanomami.

1978 – Nasce la Commissione pro-Yanomami (Ccpy).
1986 – Migliaia di cercatori d’oro (garimpeiros)
invadono le terre yanomami, provocando disastri.
1992 – Viene omologata la riserva indigena yanomami.
2008 – Il 5 maggio un commando di uomini bianchi
spara a 10 indigeni. Il mandante sarebbe il fazendeiro locale Paulo César
Quartiero, che nel 2011 sarà eletto deputato.
2010 – Ancora problemi con i minatori illegali,
stimati in circa 3.000.
2013 – Davi Kopenawa, sciamano (xapuri), da anni
leader riconosciuto degli Yanomami, incontra la presidente Dilma Rousseff.
Siti consigliati:


www.cimi.org.br
•  www.cptnacional.org.br

www.adital.com.br


www.survival.it
• 
http://pib.socioambiental.org
(dell’Instituto Socioambiental, Isa)

Siti Yanomami:


www.hutukara.org

www.proyanomami.org.br

www.giemmegi.org (del Comitato Roraima Onlus)

Videointervista:

Dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, intervistato
(agosto 2013) sulla tematica indigena e sul Brasile. La videointervista è
visibile sul sito della rivista e su You Tube.

Paolo Moiola




’Īsā e Mohammed (nella Siria in guerra)

Padre Paolo Dall’Oglio

Questa conversazione con padre (abuna)
Paolo Dall’Oglio – avvenuta prima della sua sparizione in Siria (a fine luglio)
– è incentrata sul dialogo tra la Chiesa cattolica e l’Islam. Fondatore della
comunità monastica di Deir Mar Musa, allontanato dal paese mediorientale nel
giugno 2012, il gesuita è noto per la sua posizione nettamente contraria al regime
di Assad. Lo raccontiamo attraverso alcuni suoi scritti, mentre a oggi
(settembre 2013) di lui non si hanno ancora notizie certe.

Padre Paolo Dall’Oglio, gesuita, classe 1954, è stato
rapito in Siria da un gruppo islamista a fine luglio. Su di lui sono girate le
voci più disparate, finanche quella della sua morte. Dall’Oglio – conosciuto
per aver fondato, nel 1991, la comunità monastica Deir Mar Musa, nel deserto
roccioso della Siria, a 90 chilometri da Damasco – si era dovuto allontanare
dal paese nel giugno 2012. Le autorità ecclesiastiche avevano preso questa
decisione dopo che il governo di Assad l’aveva minacciato di espulsione per le
sue posizioni rispetto alla guerra civile siriana.

Qualche mese fa avevamo raggiunto Abuna
(«Padre», in arabo, lingua che lui parla fluentemente) Paolo, come viene
chiamato in Medio Oriente, a Suleymania, nel Kurdistan iracheno, dove era
ospite di una comunità cristiana. La chiacchierata si era incentrata sul suo
percorso spirituale e religioso. Ne è uscito il quadro di una persona senza
compromessi, disposto a mettersi in gioco per una causa davvero grande: il
dialogo islamo-cristiano, tra i seguaci di Mohammed e quelli di ’Īsā (che è il nome di Gesù
tra i musulmani).

Abuna
Paolo, quando e dove è arrivata la vocazione?

Era il 12 maggio 1974. Una data storica,
perché è stato il giorno del referendum sul divorzio in Italia, alla cui
campagna io avevo partecipato. Mi trovavo a Roma, a casa di un amico: la
chiamata è arrivata in modo molto intimo, essenziale, collegata all’universalità
del vangelo. A ciò è seguito un percorso molto profondo, fatto di esercizi
spirituali, noviziato, e nel frattempo di un progressivo avvicinamento al mondo
musulmano, che mi ha incuriosito da subito. Sono diventato gesuita nel 1975,
poco tempo dopo ho fatto i primi viaggi studio, in particolare a Beirut, dove
ho imparato l’arabo.

Che impatto ha avuto con la religione
musulmana?

«Il mio percorso sta tutto nel racconto di un fatto: nel
1978 mi trovavo di passaggio a Bosra, città della Siria, diretto verso
l’Egitto, che volevo conoscere. La sera, entrai nel cortile della moschea, dove
mi vennero incontro due giovani, a cui dissi di essere sporco, e che volevo
esprimere il mio rispetto per la moschea, la casa di Dio, facendo le abluzioni.
Mi diedero una brocca d’acqua e mi indicarono i bagni. Quando tornai, giunta
l’ora della preghiera della sera, la moschea si riempì di uomini e bambini, e
fui invitato a unirmi. Sentii allora una forte attrazione, ma anche il dovere
di non ingannare i miei ospiti. Come avrebbero potuto capire quello che io già
sentivo come una duplice appartenenza? Il mio andare incontro al mondo
musulmano ha origine anche negli esercizi spirituali ignaziani, che seguono la
promessa del Signore a non nascondersi, ad andare in cerca del dialogo con
l’altro. Poi c’è il grande insegnamento del Concilio Vaticano II,
l’inculturazione della fede e la necessità di aprirsi all’ecumenismo.

Quali sono i modelli che segue nel suo
approccio con l’Islam?

Tutti i teologi orientalisti sono di grande
importanza, uno su tutti è Louis Massignon, la cui opera mi guida fin
dall’inizio, così come quella dei suoi allievi. Io come altri, appartengo alla
terza generazione, quella che più di tutte, nonostante il fallimento dello
stesso Concilio Vaticano II, vuole ricominciare da lì per fomentare il dialogo
islamo-cristiano.

In che fase si trova ora l’Islam, agli occhi di
un missionario cristiano?

È in continua evoluzione, con una società
che cerca in vari modi un’emancipazione che spesso risulta contraddittoria,
perché da un lato è fertile, dall’altro è fonte di sofferenze. Non è facile per
un cristiano avvicinarsi all’Islam, ma come prima cosa bisogna togliersi dalla
testa l’idea che si possa disprezzare perché differente: capita invece di
scoprire, con il tempo, cose molto belle, e quando entri in relazioni significative
ci rimani tutta la vita, come sta accadendo a me. È chiaro che a volte le cose
non vanno come dovrebbero, vedi la tragica guerra civile in Siria, oggi in
preda a una crisi tremenda dalla quale io sono dovuto venire via mio malgrado.
Nel rapporto con il mondo musulmano, la chiave sta nell’incontro e nell’evento
sacramentale della relazione, un fatto pentecostale che ci trasforma tutti, ci
rende fratelli. Tre fratelli, allargando il tema ovvero comprendendo gli ebrei.
Massignon dedicava le tre grandi preghiere giornaliere di Abramo a ciascuno di
essi: una per Isacco, simbolo del mondo ebraico, una per Ismaele, ovvero
l’Islam, la terza per Sodoma, la città inospitale in cui Gesù ha portato il suo
messaggio.

Il monastero di Deir Mar Musa, durante la guerra
civile in corso, ha perso la sua guida, il suo fondatore. L’esperienza cosa le
ha lasciato?

Un’enorme spinta a credere nel dialogo. Al monastero
sono arrivati negli anni per devozione cristiani locali (in Siria prima della
guerra erano l’8% del totale, ndr) di diversi riti: cattolici,
ortodossi, protestanti, armeni, di rito greco, siriaco, maronita.

Inoltre c’è la popolazione musulmana, che
visita il monastero come atto culturale, turistico e spirituale. Un monastero
cristiano in un ambiente musulmano tradizionale è un luogo religioso
riconosciuto. Infine Deir Mar Musa riceveva anche il turismo internazionale,
culturale e ambientale, ed era sede di convegni nazionali, meta di giovani che
venivano a studiare l’arabo. Stiamo parlando di tante, tantissime persone. Un
anno abbiamo contato i bicchieri di plastica utilizzati: erano 50mila. Poi ci
hanno criticato per i bicchieri, che sono stati via via sostituiti con quelli
di coccio… l’aspetto importante era la rete che si è venuta creando, e il fatto
che si scambiassero idee e esperienze di vita persone provenienti da tutto il
mondo e di tutte le fedi.

Come vede l’arrivo di papa Francesco?

Parto dalla scelta del suo predecessore,
Benedetto XVI: un atto di forte coraggio, la testimonianza di un grande signore
che a un certo punto decide di farsi da parte per il bene della Chiesa,
stimolandola a migliorarsi. L’ho accompagnato nelle mie preghiere e merita
molta gratitudine, perché in questo modo porta freschezza all’ambiente,
tagliando le gambe a una sorta di “corte” che avrebbe danneggiato tutto il
sistema. Ora con l’avvento di Mario Bergoglio, l’auspicio è che si riporti il
potere alla sinodalità della Chiesa, ovvero che lui si metta a capo di un
collegio che con responsabilità porti avanti relazioni positive con le altre
confessioni, in particolare si ponga con un’attitudine positiva verso il mondo
musulmano.

Cosa risponde a chi in Italia, politici ma non
solo, rifiuta l’offrire spazi per luoghi di culto a persone di fede musulmana
argomentando che «là non ci fanno costruire le chiese»?

Che è una frase falsa frutto di un luogo
comune: esistono chiese in tutto il mondo musulmano, eccetto l’Arabia Saudita
dove non sono presenti in modo istituzionale. La regola è quindi che le chiese
ci sono, quello che mi scandalizza quando vengo in Italia è vedere moschee
assolutamente non degne delle città in cui sono. Io dico questo: con moschee da
scantinato si fanno musulmani da scantinato, più arrabbiati e meno inseriti nel
contesto in cui vivono.

Quanto torna in Italia cosa nota del nostro
paese?

Ci sono tante reti di persone che si danno
da fare, ma in generale vedo una società narcisista, sempre più chiusa su sé
stessa, in cui tutto è un prodotto da supermercato e il sacro perde il proprio
valore. Invece non bisogna lasciarsi andare nonostante i tempi difficili di
crisi, e ripartire proprio dalle differenze viste come ricchezze, cominciando
con il riconoscimento dell’alterità come parte integrante e non oppositiva del
proprio mondo.

Lasciamo il discorso sul dialogo interreligioso
e ci dica qualcosa sulla sua Siria…

Oggi sono tutti divisi: da una parte chi non
vuole più l’attuale regime, soprattutto giovani che chiedono più libertà.
Dall’altra chi non vuole il cambiamento, perché è sicuro che il dopo sarà
peggio o perché ragiona con logiche patriottiche, contro il complotto
internazionale.

Lei vede questo complotto?

No, ma vedo che nella violenza attuale pesa
in modo sconvolgente l’immobilismo delle forze inteazionali. Come si fa a
lasciare sprofondare questo paese senza fare nulla? Obama non fa seguire fatti
alle parole per non mettere in crisi la sua rielezione? C’è poi da considerare
un altro fattore oggi all’apparenza fuori controllo: chi finanzia e decide le
azioni terroristiche? La verità è che oggi la Siria è il ring di pugilato del
mondo: Iran contro Turchia, Sunniti contro Sciiti, Nato contro Russia. E
l’arbitro, l’Onu, che rimane impotente a causa del diritto di veto.

Come uscire dalla grave situazione attuale?

Io ho due proposte concrete per
riappacificare la Siria dalle divisioni. Una: inviare nelle strade siriane
almeno 50mila corpi civili e nonviolenti inteazionali, che si interpongano
tra le parti in conflitto, soprattutto ora che violenza e armi sembrano essere
l’unica risposta. Queste figure ci sono, e vanno impiegate con un ruolo
riconosciuto da tutti i belligeranti, per ridare ai siriani il loro diritto
all’autodeterminazione. L’altra idea è quella di creare, fin da subito,
laboratori, punti di incontro tra i milioni di siriani all’estero per
convincerli a trovare una soluzione comune e smetterla di darsi addosso. Se
loro recuperano il dialogo, poi anche in patria potranno farlo.

Non è tardi per il dialogo, viste anche le
atrocità commesse dal regime?

Le torture sono abominevoli, ma ricordiamoci che non è
niente di nuovo. Fino a poco fa era la stessa Cia, l’intelligence statunitense,
a sponsorizzare i paesi arabi che ne facevano uso contro l’integralismo
islamico. Comunque, la possibilità di risolvere il conflitto con il dialogo c’è
ancora: lo testimoniano le centinaia di giovani che mi fermano per strada
dicendomi che loro rifiutano la logica della guerra civile. Nonostante le
vessazioni, nel paese sono migliaia quelli che non vogliono imbracciare le
armi. Il problema è che con il passare dei giorni sono sempre meno, soprattutto
se nessuno dà loro segni di speranza.

Daniele
Biella

Date
1954 – Nasce a Roma.
1975 – Entra nella Compagnia di Gesù.
1991 – Fonda nel deserto siriano la comunità monastica di
Deir Mar Musa.
2012 – È costretto a lasciare la Siria a causa delle sue
posizioni sulla guerra civile.
2013 – luglio – Rientrato in Siria, scompare, probabilmente rapito.
2013 – agosto – Dalla Siria giungono notizie contraddittorie
sulla sua sorte.
2013 – settembre – Esce il suo ultimo lavoro, Collera e
luce. Un prete nella rivoluzione siriana, Emi, Bologna.
 
I libri di padre Dall’Oglio

Collera e luce, un prete nella rivoluzione siriana,
Edizioni Emi, Bologna, settembre 2013.
La sete di Ismaele. Siria, diario monastico
islamo-cristiano
, Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano 2011.
Innamorato dell’Islam, credente in Gesù, Edizioni Jaca
Book, Milano 2011.
Speranza nell’Islam, Casa editrice Marietti, 1992.

 
L’inutilità della storia

Kosovo (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia
(2011), Siria (2013?). La storia non insegna nulla, soprattutto a chi non ha
interesse a imparare. Nell’era dell’iperinformazione prevale sempre e comunque
la disinformazione.

Mentre la galassia dei ribelli siriani è in evidente difficoltà,
Assad viene accusato di aver usato armi chimiche, in quartieri periferici di
Damasco (21 agosto). «L’utilizzo delle bombe chimiche è tutto da provare. Se
sono state utilizzate, non è certo chi le abbia gettate» (mons. Giuseppe
Nazaro).

Ieri erano Bush, Blair e Aznar. Oggi sono Obama, Cameron e
Hollande. Dicono che occorre intervenire per porre fine ai massacri del regime
di Damasco. Papa Francesco twitta: «Mai più la guerra!» (2 settembre). «Quando
si utilizzano le vittime per giustificare una guerra non lo si fa per amore
delle vittime ma per amore dei propri affari e dei propri interessi» (don
Renato Sacco). Come storia insegna.

Paolo Moiola

    Il Medio Oriente e la Siria secondo padre Paolo
Dall’Oglio                      

«Perché sono contro Assad»

In Siria i cristiani sono divisi in due schieramenti:
quelli che difendono il presidente Assad e quelli che stanno con i ribelli. In
questa lunghissima lettera pubblica – da noi ampiamente stralciata e riassunta
– padre Dall’Oglio spiega le sue posizioni sul Medio Oriente e perché si è
schierato con i ribelli anti-Assad. Considerazioni poi sviluppate in «Collera e
luce», il suo ultimo lavoro, dove tra l’altro scrive: «La mia coscienza
cristiana è chiaramente lacerata».

Cari amici
della Siria, si è molto
insistito sul fatto che avrei profittato per i miei comodi della situazione
siriana, del regime siriano, e che ora darei prova di poca gratitudine tradendo
innanzitutto i cristiani siriani, mi limiterò ad una serie di considerazioni in
ordine cronologico per render conto dell’evoluzione della mia posizione.

1973 Ho visitato la Siria degli Assad una prima volta nel 1973, appena
prima della Guerra di ottobre (il conflitto tra Israele e la coalizione
composta da Siria ed Egitto, ndr). Ne riportai l’impressione di un
popolo sottomesso ad una macchina di propaganda nazionalista possente
mobilitata al massimo in senso anti israeliano. I paesi arabi subivano
l’occupazione di vasti territori da parte di Israele, c’era la Guerra fredda.
Per tanti motivi ero solidale, come lo sono oggi, con le sofferenze del popolo
palestinese e degli arabi in generale. Ma quell’attitudine di manipolazione
totalitaria dell’informazione già mi ripugnava. Sapevo che si trattava di una
dittatura e non nutrivo illusioni sul rispetto dei diritti dell’uomo in quel
paese.

1978 Ero a Beirut durante il terribile assedio dei quartieri cristiani di
Achrafiye da parte dell’esercito siriano (la guerra civile libanese era
scoppiata nel 1975 e la Siria ne prese subito parte, ndr). Il regime
siriano si è comportato da padrone senza scrupoli sfruttando il Libano in tutti
i modi e nascondendosi dietro una serie di maschere ideologiche venute poi
meno, le une dopo le altre, di fronte all’eroica resistenza del popolo libanese
democratico.

1980/’81 Ero a Damasco per lo studio dell’arabo, delle Chiese orientali e
dell’Islam. Venni in contatto e a conoscenza dei metodi di sistematica tortura
repressiva utilizzati dal regime. Se volevo restare nel paese dovevo
assoggettarmi come tutti. Ma non ero obbligato ad assoggettarmi in coscienza.
Moltissimi cristiani già lasciavano allora il paese visto il perdurare della
situazione di incertezza nella società locale e nella regione. Alcuni erano pro
regime, altri contro, ma tutti cercavano di partire per il futuro dei loro figli.
Bisogna ricordare che allora la solidarietà del regime con il mondo sovietico
era evidente, anche riguardo alle libertà democratiche criticate come borghesi
e asservite alle logiche neo imperialiste. Io cercai sempre di avere buoni
rapporti con lo stato  – anche se
sottomesso al regime dittatoriale – in quanto proprietà dei cittadini. Ero per
la legittima lotta di liberazione contro l’occupante israeliano, ma evitavo
sistematicamente di cedere ai toni della propaganda di regime.

1982 In quell’anno ero studente di
teologia a Roma quando avvenne il terribile massacro della popolazione civile
di Hama (città della Siria centrale a grande maggioranza sunnita, ndr)
durante l’insurrezione dei Fratelli musulmani. Ne soffrii tanto da ammalarmi.
Non se ne poteva parlare pubblicamente altrimenti mi scordavo la possibilità di
rientrare in Siria dove mi sentivo chiamato a servire l’armonia
islamo-cristiana. Tuttavia ero perfettamente cosciente che un continuo,
silenzioso massacro avveniva nelle carceri, nei lagher, nei gulag siriani. Ne
avevo ricevuto in diverse occasioni delle testimonianze dirette e sapevo che
molti cristiani, anche tra le autorità ecclesiastiche, si erano abituati a
questo stato di cose come naturale e necessario rendendosene a volte
direttamente complici. Questo mi addolorava profondamente e vi vedevo un
rischio pesantissimo per il futuro della Chiesa in Siria. La stessa cosa
avveniva d’altronde in Iraq e in Egitto.

In questo
spirito, con questi sentimenti contrastanti, eppure con molta speranza ed
entusiasmo, ho vissuto nella Siria degli Assad per più di trent’anni. A causa
dell’ampio impatto internazionale del mio impegno di restauro, di accoglienza e
di dialogo al Monastero di Mar Musa, godetti indubbiamente di uno spazio di
parola e di una libertà di opinione incomparabilmente più largo dei normali
cittadini, obbligati a portare fin dalla più tenera infanzia il cervello
all’ammasso della manipolazione di regime. Fui presto oggetto di critiche aspre
e di accuse ingiuste proprio perché la mia libertà di parola sembrava
impossibile ai più, anche se era sempre limitatissima e molto auto controllata
se paragonata alla situazione, per esempio, europea. Era un gioco in fondo
leale: io offrivo un volto che illustrava inteazionalmente l’apertura e il
pluralismo almeno programmatico del potere siriano e loro accettavano ch’io mi
comportassi come se la democrazia, seppur non perfetta, fosse già almeno in
fieri
.

Ho lavorato continuativamente nella prospettiva del successo dei
negoziati di pace nella visione di un Medio Oriente riconciliato nella
giustizia. Ho sempre dichiarato che l’islamismo politico è una grande realtà
regionale e che non è immaginabile che si debba rinunciare alla democrazia, ai
diritti civili e all’autodeterminazione dei popoli per continuare a sopprimere
il programma islamista, sia esso salafita o dei Fratelli musulmani o di gruppi
più o meno moderati. Si tratta di un soggetto politico plurale non aggirabile
ma tuttavia esposto ad evoluzione, spesso rapida. Per questo ho sempre curato
la relazione coi leader naturali, scelti e seguiti dalla piazza e dal popolo
delle moschee dei musulmani siriani, rifiutandomi di appiattirmi sulle autorità
approvate e nominate dal regime.

1991 In quell’anno la Siria partecipò
alla coalizione contro l’Iraq di Saddam che aveva invaso il Kuwait. Trovai
giusto in quell’occasione che si salvassero i curdi dall’attacco di Saddam e
proteggendoli con una no fly zone. Rimasi poi scandalizzato
profondamente quando gli sciiti iracheni furono cinicamente abbandonati alla
repressione del dittatore di Baghdad, e così pure i libanesi abbandonati allo
strapotere siriano.

È evidente che la guerra è raramente una soluzione e comunque è una
soluzione cattiva e claudicante. Tuttavia, con l’insegnamento tradizionale
della Chiesa dichiaro, nonostante i rischi di equivoci stridenti e di ipocrisie
criminali, la legittimità della guerra giusta, il diritto alla difesa
armata, il dovere di proteggere i paesi e le popolazioni vittime di aggressioni
violente intee e o estee. Nonostante questo incoraggio e mi impegno per la
pratica e il successo delle azioni nonviolente. Penso alla non-violenza attiva,
politica, come ad una trascendenza dei conflitti. Non è essa sempre
un’alternativa praticabile di per sé, ma essa è sempre necessaria. Molto più di
un correttivo integrativo, prima durante e dopo i conflitti armati, la
non-violenza dialoga, testimonia, critica, assiste, apre vie di
riconciliazione. Va oltre!

2000 Quando il dottor Bashar el-Assad, figlio del presidente Hafez, prese il
potere, si riaccesero le speranze per un cambiamento democratico incruento che
potesse riconciliare la società siriana profondamente divisa e sofferente
dietro la facciata delle realizzazioni gloriose del regime. Anche la visita del
Papa nel 2001 aveva la valenza di un segno di speranza, benché l’anno
precedente la visita a Gerusalemme era stato l’ultimo momento di calma prima
dell’inizio della seconda tragica intifada palestinese. La breve Primavera di
Damasco fu soffocata da una repressione il più dolce possibile per evitare di
perdere quel credito che la società aveva accordato a Bashar, per non perdere
speranza nel futuro.

2003 In quell’anno mi opposi con un
digiuno pubblico all’invasione dell’Iraq da parte delle armate del presidente
Bush. D’altronde ero sempre stato fortemente critico delle crudeli e inutili
sanzioni economiche.

La crisi
irachena fu gestita dalla Siria come occasione di un gioco d’azzardo che
mostrava il desiderio di affermarsi come potenza regionale, in combutta con
l’Iran.

Da tutto il contesto, e da molte prove, era chiaro che lo stato
israeliano aveva già fatto la scelta di gestire il regime degli Assad come un
male minore, un’ipotesi tattica favorevole. In fondo per Israele la mancanza
d’unità dei suoi nemici restava la vera priorità, unita alle necessarie
operazioni chirurgiche per evitare l’acquisizione dell’arma nucleare con
operazioni puntuali e limitate, in Iraq e poi in Siria e forse presto in Iran.
Anche la concorrenza tra musulmani sciiti e sunniti nell’uso della retorica
anti israeliana più rozza consentiva a Israele di dichiarare l’intenzione
genocidaria degli arabi e dei musulmani giustificando così il muro,
l’espansione delle colonie e le pratiche di discriminazione sistematiche.

2005/’06/’09 Il 2005 è l’anno in cui molti nodi
vengono al pettine con l’assassinio del premier libanese Hariri. La Siria deve
fare la schiena d’asino per evitare l’intervento occidentale ed è costretta a
evacuare il Libano. Un’altra occasione d’oro per Bashar el-Assad di esautorare
la vecchia guardia e iniziare un cammino di riforme a marce forzate verso la
democrazia è persa miseramente e la speranza dei siriani si restringe. Certo
nel 2006, la guerra tra Israele e Hezbollah fa della coppia Bashar – Nasrallah
gli eroi della riscossa arabo- islamica. Molti musulmani sunniti optano per i
paladini anti-israeliani. Perfino i Fratelli musulmani sarebbero disposti a
riconciliarsi col regime che riuscirà addirittura nell’intento, lungo gli anni
successivi, di diventare un partner privilegiato della Turchia neo-islamica,
allontanandola dalla vecchia alleanza militare con Israele. Questa situazione
matura ulteriormente con la guerra di Gaza del 2009.

Lungo tutto
il decennio la mia azione si è giocata nel provare e riprovare a favorire la
riforma democratica cercando di salvare ciò che era salvabile della liceità
della posizione anti-imperialista della Siria di fronte alla grossolanità delle
attitudini dell’America di Bush e delle destre israeliane al potere. Io
insistevo sulla necessità di essere morali e coerenti: avanzare nella
prosecuzione del lavoro di inchiesta e giudizio sui crimini, specie in Libano,
nei quali il regime siriano era (è) coinvolto. Si è fatto invece il contrario:
si è rinunciato ad andare fino in fondo sul piano giudiziario, mentre si è
riammessa la Siria degli Assad nel cerchio della rispettabilità internazionale.
Così il regime si è convinto che la forza bruta è il vero motore della storia e
che la democrazia è una buffonata di facciata.

2010/’11 Dal 2010 la decisione di regime è presa: l’attività di dialogo è
vietata, le conferenze sono impossibili, il turismo ipercontrollato. Alla fine
il mio permesso di residenza è ritirato. Resto in Siria senza documenti di
residenza e quindi non posso più viaggiare. Ma intanto la Primavera araba è
iniziata. Si spera ancora che Bashar, magari con l’aiuto della bella e
sensibile consorte, possa mettersi alla testa di una riforma radicale del suo
paese. Nulla da fare, da marzo 2011 è chiaro che la scelta della repressione
incondizionata è la scelta strategica. Tutto il resto, quanto a dialogo e
riforme cosmetiche, non è altro che prender tempo per evitare l’intervento
internazionale e fumo negli occhi dell’opinione pubblica. La versione ufficiale
è pronta: non c’è nessuna rivoluzione, ma solo l’azione dei terroristi
islamisti radicali finanziati dal grande complotto internazionale (Israele,
Usa, la Francia, vassalli europei, massoni, ebrei, sauditi, Qatar, al Qayda, i
Fratelli musulmani, tutti insieme appassionatamente) per distruggere il paese,
la Siria, avanguardia della resistenza anti imperialista e anti radicalismo
musulmano. Le autorità cristiane, le suore e i frati, sono mobilitati per dare
credibilità alla versione di regime e lo fanno con entusiasmo e con l’aiuto
attivo di centri di manipolazione mercenaria dell’informazione come il famoso Réseau
Voltaire
(il cui corrispondente italiano è: www.voltairenet.org, ndr).

2011 Per due volte scrivo ai massimi rappresentanti della Chiesa cattolica,
spiegando che la guerra civile è già iniziata sul territorio siriano e che
occorre attivare una iniziativa internazionale per uscire dalla
contrapposizione Russia versus Nato e Iran versus arabi sunniti e
turchi. Fino a oggi la Chiesa non si è pronunciata sul diritto dei siriani (di
tutti i siriani, anche gli esiliati lungo i terribili ultimi quarant’anni)
all’autodeterminazione e a una democrazia diversa da una pagliacciata di
regime; e paesi che la Chiesa può incoraggiare ad agire mostrano una
insensibilità impressionante!

2013 Posso assicurare che sono meno isolato tra i cristiani siriani di ciò
che si può immaginare. La mia voce però è una delle poche note che si siano
levate a dire che noi cristiani non possiamo rimanere col regime torturatore e
oppressore e neppure possiamo restare neutrali. La storia è a un punto di non
ritorno. Noi da che parte stiamo?

Paolo
Dall’Oglio

Daniele Biella




Bellesi: Un uomo fatto Parola

Padre Benedetto Bellesi: l’uomo,
il missionario, il giornalista

Piccole «dediche» a un missionario schivo e dalla risata
coinvolgente, innamorato della Parola di Dio e della verità. Abbiamo sentito il
bisogno di dedicare queste pagine al nostro fratello, amico e collega padre
Benedetto Bellesi, chiamato alla casa del Padre lo scorso 3 luglio. Per l’uomo
e per il missionario che ha donato 26 lunghi anni a servizio della Parola nella
stampa missionaria, è il minimo che possiamo fare.

Maestro di «cucina redazionale»
di Ugo Pozzoli

Carissimo Benedetto,
soltanto poche ore fa mi è arrivato un sms da Torino in cui era scritto che
mancava veramente poco al grande passo. Ho realizzato in quel momento, caro
Benedetto, che su questa terra non ci saremmo più rivisti. Adesso, che ne ho
avuto purtroppo la conferma, sono sicuro che nel momento in cui ho letto il
messaggio avevi già iniziato il cammino di rientro verso la casa del Padre,
l’ultimo grande viaggio, per il quale ti sei preparato a lungo e con una
meticolosità che non avevi mai messo nelle tante occasioni in cui, per lavoro,
ti era toccato fare la valigia e partire.

Ho
una grande pena nel cuore, perché ti sto scrivendo da un posto in cui avevamo
combinato di venire insieme. Ti ricordi? Subito dopo la mia elezione a
Consigliere, sapendo che mi sarei occupato anche della missione nel continente
asiatico, mi avevi detto: «Il giorno che andrai in Mongolia dimmelo, che ti
vengo a portare la borsa». Al che ti avevo risposto che di sicuro avrei dovuto
portarla io a te, dato che soltanto in apparecchi fotografici avremmo avuto
bisogno di un mulo da soma.

Purtroppo
questa carogna di una malattia ti ha portato via troppo presto, dandoti appena
il tempo di finire il tuo ultimo «Dossier» per Missioni Consolata,
proprio sull’evangelizzazione della Chiesa in Mongolia.

Stamattina
abbiamo pregato per te con p. Giorgio, sr. Lucia e sr. Gertrude, i tre
missionari che lavorano ad Arvaiheer, immersi in mezzo alla steppa mongola, a
poca distanza dall’inizio del grande deserto del Gobi. Ti abbiamo ricordato
nella Messa, proprio all’ora in cui mettevi l’ultimo bollo sul tuo passaporto,
quello per il Paradiso.

Ciao
Benedetto, ti saluto di qui, da lontano. Non ci potrò essere al tuo funerale,
ma so che da lassù mi capirai e non te ne avrai a male. Mi manca pure un
bicchiere di quello buono con cui farti un brindisi, come i tanti condivisi
dopo le vittorie (e anche le sconfitte) della nostra amata Juventus. Ti dico grazie con tutto il cuore per averti
conosciuto e per avermi fatto conoscere quell’anima buona e sensibile che
tendevi a nascondere dietro a una scorza da orso marsicano. Ti dico grazie per
avermi insegnato il mestiere di giornalista missionario e averlo fatto con
quello spirito socratico che tende a fare emergere e valorizzare quelle
conoscenze che, inconsapevolmente, l’altra persona già possiede. Sei sempre
stato quello che di noi scriveva meglio di tutti, con quell’italiano pulito,
ricco e semplice allo stesso tempo, un vero maestro di quella che in gergo noi
chiamiamo «cucina redazionale», ovvero, colui che fa il «lavoro sporco» di
sistemare gli articoli altrui per renderli belli e presentabili. L’hai fatto
sovente anche con me. Le ultime meditazioni spirituali che hai condiviso con il
sottoscritto erano sul Libro dell’Apocalisse, che racconta una fine che non è
la fine; ti mando allora idealmente una cartolina da questo paese dove sembra
che all’orizzonte la terra si attacchi al cielo in una linea perfetta, come se
fosse un’anticipazione dei cieli nuovi e della terra nuova che troverai al tuo
arrivo. Fai un buon ritorno a casa,

Ugo da Arvaiheer (Mongolia),
3 luglio 2013


«Capo mio»


di Francesco Beardi

Carissimo «capo mio», ricordi? Ti
ho sempre chiamato così: «Capo mio». E tu mi rispondevi con le stesse parole.

Io
ero «capo», perché direttore della rivista, però riconoscevo in te una
autorevolezza culturale e missionaria indiscutibile. Un’autorevolezza anche
linguistica, giacché eri laureato in Lettere classiche alla Cattolica di
Milano. Davvero «capo mio».

Entrasti
nella redazione di «Missioni Consolata» nel 1987, dopo che l’anno precedente ci
eravamo incontrati in Sudafrica, dove tu operavi e… mi cucinasti persino una
gustosa spaghettata ai funghi da te raccolti.

Di
tanto in tanto rievocavi le parole che ti dissi alla stazione di Porta Nuova a
Torino, quando venni a prelevarti per entrare nella redazione della rivista, e
cioè: «Se anche tu te ne andrai dalla redazione, ce ne andremo in due: tu ed
io!». Invece lavorammo insieme per 15 anni, senza alcun screzio. Eppure eravamo
molto diversi: tu, roccioso, metodico, anche burbero; io, più morbido, talvolta
improvvisatore, poco amante delle regole.

Ci
concedevamo delle sane risate: la tua era una lunga e possente cascata di
scrosci fragorosi e accattivanti.

Un
altro punto su cui collimavamo al 100 per cento era rappresentato
dall’espressione: «Nella vita temi specialmente chi si reputa un genio, mentre è
solo un rompiscatole!».

Capo
mio, eri pure tifoso della Juventus, mentre io ero estraneo a ogni cultura
pallonara. Tuttavia, dopo qualche stagione, mi ritrovai a tifare Juve, solidale
e «ammagliato» dal… «capo mio».

Tu,
roccioso di carattere, trascorrevi le giornate appoggiandoti continuamente e
senza riserve sulla «roccia» della Parola di Vita. Fu una fede che ti accompagnò
e sorresse sempre, specialmente i giorni oscuri, dolorosi e interminabili del
cancro. La passione per la «Parola» ti spinse a Nazareth, a Gerico, a
Gerusalemme e dintorni, dove camminasti come pellegrino per diversi mesi e a più
riprese. La Parola ti consentì di dettare meditazioni profonde e toccanti. Come
dimenticare, ad esempio, un tuo quaresimale sul Libro di Giona? Il fascino
della Parola di Dio contagiò pure «Missioni Consolata». Infatti la rubrica
biblica mensile della rivista «Così sta scritto», curata da don Paolo
Farinella, fu merito tuo.

Fosti
redattore e direttore di «Missioni Consolata», come nessun altro. Alcuni numeri
speciali monografici della rivista vennero poi ristampati anche come libri. «Allah
akbar», ad esempio, interamente dedicato all’Islam.

Capo
mio, Benedetto! Un capo tosto, convinto e sereno. Ora, mentre passeggi in
compagnia di tanti amici attraverso le galassie luminose del Paradiso, facci
ancora sentire la tua possente risata. Sarà una garanzia che la nostra povera
preghiera è stata accolta dal Padre celeste. Vero, che continuerai a ridere,
capo mio?

p. Francesco Beardi,
missionario in Tanzania

 

L’orso
gentile

di
Paolo Moiola

Incontrai padre Benedetto per la
prima volta nel giugno del 1994. Padre Francesco Beardi, allora direttore
della rivista, mi aveva convocato a Torino per capire se la mia collaborazione
giornalistica (iniziata nel 1989) potesse diventare più stabile. Il direttore
chiamò padre Bellesi per presentarci. Lui mi strinse la mano, disse poche
parole e toò nel suo ufficio. Mi colpì la sua voce, forte e chiara, ma anche
il suo aspetto con la faccia tonda e un fisico ben piantato a terra. Senza
capie esattamente i motivi, provai però una sorta d’immediato timore
reverenziale, che non sarebbe mai sparito completamente. Come dimostra la
circostanza che, nei suoi confronti, io sempre utilizzai il «lei».

Nella
vecchia redazione il suo ufficio confinava con il mio. E non era una fortuna!
Perché padre Bellesi fumava e fumava forte. L’aria appestata dalla nicotina
superava porte e muri, insinuandosi per ogni dove. Fumò per molti anni finché
non venne l’aut aut (probabilmente tardivo) dei medici.

Quando padre Beardi lasciò la rivista (dicembre 2002),
padre Bellesi fu nominato direttore. Si aprì allora una stagione in cui, come
redattori stabili, eravamo soltanto noi due. Non fu un periodo facile perché,
per far uscire la rivista, si dovevano fare i salti mortali. E l’attualità non
aiutava. Erano infatti i tempi della guerra in Iraq. Dopo mesi di preparativi,
nel marzo 2003 George W. Bush aveva ordinato l’attacco al paese mediorientale. Missioni
Consolata
si schierò – ancora una volta – contro la guerra in maniera
chiara e argomentata. Arrivarono moltissime lettere (via posta e dunque più
impegnative – non fosse altro per i tempi necessari a scriverle e spedirle –
rispetto alle attuali email), di plauso e di critica. Queste ultime erano
particolarmente dure e con toni accusatori, a volte insultanti. Padre Bellesi
non perse mai la testa, non scelse mai la strada facile di dare ragione a tutti
per non scontentare alcuno. Nelle Lettere dava spazio a tutti,
rispondendo in maniera meditata ma senza accondiscendenza, anche a rischio di
perdere un abbonato (la minaccia di gran lunga più diffusa). Poi, quando
arrivavano lettere elogiative, le pubblicava con soddisfazione ma senza enfasi,
anzi quasi con pudore: «La vostra rivista entra mensilmente in casa mia e mi
rinfranca nello squallore giornalistico che ci circonda. Davanti
all’aggressione cui siete sottoposti, vi domando di resistere forti delle
vostre idee».

Sì,
furono tempi duri ma anche densi di soddisfazioni, come testimonia il grande
successo dei numeri monografici (alcuni dei quali – tra cui La guerra, le
guerre e Il prezzo del mercato – divennero altrettanti libri
editi dalla Emi).

Padre
Bellesi aveva le sue letture (laiche) preferite. Ogni venerdì, all’arrivo della
posta, l’Espresso doveva andare direttamente sulla sua scrivania. Lo leggeva
per intero e poi lo riponeva nella sala delle riviste. Ricordo questo per dire
che era molto aperto, certamente anche in campo politico.

Ecco,
questo era padre Bellesi: una persona all’apparenza burbera ma, sotto la
scorza, buona; ferma nelle sue idee, ma accogliente e comprensiva. Un «orso
gentile» che mi mancherà.

Paolo Moiola
 

Il prete in
clergyman

di Giacomo
Mazzotti

Ero da poco entrato in seminario,
a Bevera: un bimbetto sprovveduto, 12 anni, arrivato dalla campagna e con la voglia
di diventare missionario. Fu lì, sotto il porticato, che lo incontrai per la
prima volta e fu per me un piccolo shock: un prete alto, giovane, con
rari capelli, una grossa valigia in mano ma, soprattutto… in clergyman!
Il primo pensiero che mi frullò in testa fu: «Un protestante tra noi!». Non ero
ancora abituato a vedere gente in quella tenuta e quell’incontro mi scombussolò
non poco. Salutai timidamente e venni poi a sapere che quel «prete protestante»
sarebbe stato il nostro futuro professore di lettere: padre Benedetto Bellesi,
appunto! E il suo abbigliamento era dovuto al fatto che rientrava da un breve
soggiorno in Inghilterra dove, da tempo, le sottane dei preti non erano più di
moda.

Lo
apprezzavamo molto, perché ci sapeva davvero fare. Riusciva a trasmetterci la
sua vasta cultura con brio ed eleganza. Rivedo ancora nei temi d’italiano, in
margine a qualche mia frase particolarmente… brillante, la sua benevola e
ironica annotazione: «Ma è farina del tuo sacco?». Poi non ci incontrammo più
mentre proseguiva il mio viaggio verso il sacerdozio e la missione. Me lo
ritrovai, inaspettatamente, a Wamba (nell’allora Zaire), dove da qualche anno
stavo assaporando la prima esperienza africana: l’inseparabile macchina
fotografica, il bloc-notes per gli appunti e la sua cordiale curiosità
nell’inseguirci nei vari posti, con domande e osservazioni. Era già entrato
nella redazione di «Missioni Consolata» e seppi che, ogni anno, programmava un
viaggio nei vari paesi per documentarsi sul campo. Frutto di questi giri per il
mondo, i suoi «pezzi» coloriti e godibili alla lettura.

Gennaio 1990: il sole pallido di Torino non riusciva
proprio a rallegrarmi il cuore, mentre pensavo con nostalgia a quello caldo e
luminoso dell’Africa che, poco più di un mese prima, avevo lasciato. Ero stato
destinato a lavorare per le nostre riviste e fu proprio in redazione che
ritrovai padre Benedetto, assieme al direttore, padre Francesco Beardi. Con
un’esplosione di gioia (forse perché mi aspettavano da tempo) accolsero il
novellino che arrivava fresco fresco per mettersi alla loro scuola.

Ricordo che si cominciava allora a usare i primi
computer (enormi, ingombranti) e fu proprio padre Benedetto ad accompagnare i
passi incerti di chi, fino ad allora, aveva vissuto in foresta, senza telefoni,
né corrente elettrica, né giornali; se ne intendeva un po’ più di noi tutti e
fu grazie a lui che l’informatica trasformò rapidamente il nostro sistema di
lavoro, rendendo le riviste più attraenti e modee.

Gli anni scivolavano veloci, numerosi; ero felice di
trovarmi in compagnia di Francesco e Benedetto: progetti, nuove idee, ricerche,
viaggi, preoccupazioni per i costi sempre in crescita, incontri di redazione…
Ognuno di noi con il suo stile, le sue «specialità». Lui, padre Benedetto,
aveva soprattutto la passione della storia, le biografie dei grandi missionari,
i reportages dai vari paesi, le interviste… il tutto sempre curato con
eleganza e precisione. I suoi articoli erano sempre apprezzati, letti con gusto
e anche ricercati, come i famosi «Numeri speciali», che il suo contributo
rendeva davvero preziosi.

Lasciai
gli amici della redazione nel 2005 per
l’amato Congo. Avevo rivisto padre Benedetto poco più di un anno fa. Era già
segnato dal male, ma sempre tenacemente attaccato alla sua rivista, al suo
lavoro, alle sue ricerche. Mi aveva fatto dono di un po’ di materiale biblico,
pazientemente raccolto negli anni e che conservava, con ordine, nel computer.

Un
gesto che mi rivelò ancora di più come lui non fosse soltanto un brillante
giornalista, ma anche un predicatore sapiente, una persona attenta ai problemi
del nostro tempo, un missionario felice della sua vocazione, pur severo nella
fedeltà ad essa, vissuta senza leggerezze, né sconti.

Ho
imparato molto da lui: non solo a usare il computer o a scrivere articoli, ma
soprattutto a servire la missione con competenza, serietà e gusto di fare le
cose bene. Lui ci è riuscito e ce ne ha dato l’esempio.

 
Giacomo Mazzotti
 

Un «dabar»
del nostro tempo

di
Paolo Farinella, prete

Ho conosciuto padre
Benedetto Bellesi nel mese di novembre del 2004. Al mio rientro da Gerusalemme,
Paolo Moiola mi contattò per chiedermi se fossi interessato a collaborare con
la rivista. Mi mise in contatto con il direttore, padre Benedetto Bellesi, il
quale fu contento di avere una rubrica specificamente «biblica». Decidemmo di
cominciare con il numero di febbraio dell’anno 2005. Il titolo della rubrica «Così
sta scritto» fu suggerito da Paolo Moiola e fu accettato sia da me che da padre
Benedetto, il quale mi lasciò piena libertà di parola e di scrittura.

Nella prima puntata, la numero «0» del febbraio 2005, che
fungeva da introduzione alla rubrica, concludevo con queste parole: «Spetta a
ciascuno di noi, “oggi”, decidere di essere «dabàr», parola/fatto che
resta scritto nella carne dell’umanità. Parola e sigillo di verità». Alla
notizia della morte di padre Benedetto, queste parole mi
tornarono alla mente e oggi penso di poterle applicare all’intera vita di padre
Benedetto per come l’ho conosciuto. L’ho visto l’ultima volta il 18 maggio
2013, un mese prima che salpasse per il suo esodo verso la terra promessa della
Gerusalemme celeste. Il volto era scaificato e si vedevano i segni del
compimento perché ormai il frutto «Benedetto» aveva raggiunto la sua piena
maturità.

Nel ritorno a Genova, insieme alla dott.ssa Maria Cristina
Pantone, si rifletteva sulla sua serenità e pacificazione: ci aveva raccontato
la sua malattia come se stesse parlando di una sorella o di una persona cara.
Era già immerso nel cuore di Dio e io sono convinto che lo sapesse, ma non
voleva dare preoccupazioni agli altri. Sono felice di averlo aiutato a trovare
la via per il suo lungo soggiorno a Gerusalemme, di cui mi fu sempre grato e
riconoscente e sono certo che da quel viaggio nella città del destino di Dio e
dell’uomo, egli ritoò con in bocca e nel cuore le parole di Simeone il
profeta: «Ora puoi lasciare, Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la
tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,29-30).

Dopo
avere servito il Regno di Dio in missione per tutta la sua vita, sostò al pozzo
di Giacobbe per bere l’acqua della vita e mangiare il pane di Elia per
prepararsi all’esodo più importante della sua vita, dopo avere attraversato il
deserto della malattia e della consumazione del corpo con il fuoco
dell’immolazione. Il Signore ha visitato il suo cuore e ha voluto consolarlo
facendolo «abitare» per sei mesi nella Città santa, quasi una predilezione
prima del rapimento sul carro di fuoco, come il profeta Elia.

Sì!
Padre Bellesi fu un «dabàr» che in ebraico significa contemporaneamente «parola»
e «fatto/evento». Fu parola perché parlò e scrisse dal pulpito della rivista MC
che sentiva come sua creatura e che curava con amore e passione; fu anche
fatto/evento perché parlò con la sua vita trasparente e il suo comportamento
che non contraddisse mai la parola che scriveva. La sua amicizia è stata per me
preziosa e lodo Dio per la sua vita e la sua morte, ma anche perché mi ha
ritenuto degno di essere suo amico.

Non
piango la morte di un giusto che è sempre una grazia per chi crede, ma lodo il
Signore che ha liberato padre Benedetto dalla sofferenza legata al tempo e allo
spazio, per trasfigurarlo nell’immagine perfetta del «Lògos» che egli
servì per tutta la vita. Dio è più credibile perché padre Benedetto l’ha reso
più visibile e sperimentabile con la sua vita, con la sua parola. Parola e
vita, cioè «dabàr». Grazie, padre Benedetto per chi sei stato, per come
sei stato e per continuare a essere per noi che ti abbiamo conosciuto e amato
benedizione, memoriale senza fine del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e
di Gesù Cristo. Ora che sei andato avanti, non dimenticare di preparare il
posto anche per noi, accanto a te nella Gloria di Dio Padre e Figlio e Spirito
Santo. 

Paolo Farinella

Direttore al servizio


di Marco Bello

La tristezza ci coglie questa mattina (3
luglio 2013). Ce l’aspettavamo, ma nel cuore c’era ancora la speranza che padre
Bellesi sarebbe tornato a solcare con passo fermo il corridoio della redazione.
Perdiamo un pilastro della rivista, per il suo italiano pulito, ma anche per il
grande lavoro in termini di quantità, oltre che di qualità. Mi ricordo quando è
stato nostro direttore, ruolo che non gli piaceva troppo e che immagino accettò
per spirito di servizio. Non dimenticherò mai il suo atteggiamento di
difesa dei «suoi» redattori. Lo avevo conosciuto nei primi anni ‘90 quando ho
iniziato la collaborazione come esterno e il nostro terreno d’incontro furono
subito le macchine fotografiche. Anche lui «canonista» convinto, ci
consigliavamo a vicenda le ultime autofocus uscite. Lo abbiamo visto cambiare
fisicamente in questi ultimi mesi, ma il suo spirito era sempre lo stesso. Si
crea un grande «buco» in redazione, che sarà difficile colmare. E poi a chi
regalerò i francobolli adesso?

 
Marco Bello

______________________________________
Una vita essenziale

Nato a Montegranaro (Fermo) il 12 ottobre 1937, figlio di
Pasquale e Maulo Maria, a 21 anni (1958) emette la prima professione religiosa
come Missionario della Consolata. Ordinato sacerdote nel 1963, dall’ottobre
1964 al 1972 insegna nel seminario minore di Bevera di Castello Brianza, mentre
studia all’Università Cattolica di Milano dove si laurea in Lettere nel 1971.
Il 1973 è dedicato allo studio dell’inglese a Londra. Nel ’74 completa i suoi
studi in Sudafrica per qualificarsi all’insegnamento nel mondo inglese. Rimane
in Sudafrica fino al 1986: vice parroco di Ermelo, parroco a Piet Retief e poi
responsabile del Centro Pastorale di Damesfontein, dopo l’anno sabbatico di
approfondimento pastorale al Gaba Institute presso Eldoret in Kenya nel 1983.

Il primo luglio 1986 è ufficialmente destinato a lavorare
nella rivista a Torino, dove, liberatosi dagli impegni in Sudafrica, arriva
all’inizio del 1987 per dare il cambio all’attuale direttore in partenza allora
per il Kenya via Inghilterra per l’inglese. Il suo primo lavoro è completare la
serie dei quaranta numeri di «Missione come», la mini enciclopedia missionaria
della rivista Amico. Redattore e anche direttore per un breve periodo, durante
il suo servizio alla rivista visita il mondo consolatino in lungo e in largo.
Forse l’unico posto dove non va è l’Asia, soprattutto la Mongolia, dove sogna
tanto di andare. è stato inoltre autore e curatore di numerosi saggi.

Colpito da un tumore al maxillo facciale, è operato con successo
una prima volta nel 2007, tornando al suo posto di lavoro come se niente fosse,
o quasi. Tra settembre 2009 e giugno 2010 realizza il suo desiderio di vivere
un anno in Terra Santa totalmente dedicato agli studi biblici che tanto ama.
Rientrato in redazione, accolto a braccia aperte, nel luglio 2012 ha una
ricaduta del tumore da cui non si è più ripreso nonostante i massicci
interventi. Cosciente della sua condizione fa di tutto per non farla pesare.
Continua a lavorare come sempre fino a quel 18 giugno, quando una grave
emorragia lo costringe in ospedale da cui esce alle prime ore del 3 luglio
passando per la «porta stretta» che conduce in cielo. Ora il suo corpo riposa
nel suo paese nativo.

Gigi Anataloni
 

a cura di Gigi Anataloni




N.E.3 – Sulle tracce del «sogno di Dio»

Qualche
suggerimento operativo

Alcuni spunti, non esaustivi e solo accennati, per
continuare a riflettere/pensare insieme sulla missione – nuova evangelizzazione
in Europa oggi.

Pellegrini
«con» Gesù in Europa

«La domanda fondamentale di ogni uomo è: come si
realizza questo diventare uomo? Come si impara l’arte di vivere? Qual è la
strada della felicità? Evangelizzare vuol dire: mostrare questa strada,
insegnare l’arte di vivere. Gesù dice all’inizio della sua vita pubblica: “Sono
venuto per evangelizzare i poveri” (Lc 4,18); questo vuol dire: io ho la
risposta alla vostra domanda fondamentale; io vi mostro la strada della vita,
la strada alla felicità, anzi: io sono questa strada, il Vangelo, la buona
notizia in persona» (La Nuova Evangelizzazione, Joseph Ratzinger,
10/12/2000).

Prima di tutto va ricordata una cosa fondamentale per
ripensare la missione in Europa: occorre ripartire da Cristo. «Non ci
seduce certo, scrive Giovanni Paolo II, la prospettiva ingenua che, di fronte
alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non
una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci
infonde: io sono con voi! Non si tratta, allora, di inventare un “nuovo
programma”. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e
dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso,
da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e
trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste.
È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se
del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione
efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio» (Novo
Millennio Ineunte
, 29).

Occorre dunque ritornare alla scuola di Gesù itinerante
per le strade della Palestina.

I Vangeli documentano con chiarezza che Gesù portava il
gruppo in missione. La comunità dei discepoli è itinerante come il
Maestro. Gesù e i discepoli sono costantemente davanti alla folla. È stando con
Gesù che si comprende la necessità dell’andare: perché andare, dove e per quale
annuncio. Ma è andando che si sta veramente in compagnia di Gesù: la sua vita,
infatti, è itinerante, senza fissa dimora. Non si tratta di una tecnica
pedagogica secondaria, ma di una questione d’identità: se la comunità non va in
missione, se non sta sempre davanti alla folla, mostra di non aver capito (e
accolto) l’evento di Gesù e non si fa più segno nel mondo di quell’evento. Il
sale non è più sale.

Un altro luogo privilegiato per l’incontro con Gesù è
la strada
: quella in cui incontra Zaccheo, e i lebbrosi, e il cieco, quella
che percorre insegnando e guarendo, quella che lo conduce a Gerusalemme dove si
compiranno i suoi giorni. Gesù sa cos’è la strada. Ha cominciato a muoversi
prima ancora di nascere, nel grembo della madre. E se non ha «una pietra dove
posare il capo», non gli è mai mancata una strada dove camminare. Gesù è un
pellegrino, un viaggiatore, come il samaritano. Ha la strada nel sangue. è sulla strada che incontra la gente, che
guarisce, che si commuove, che predica e prega e sfama la folla.

«(Gesù) non sceglie di portare il suo insegnamento
innanzitutto e soprattutto nei luoghi di culto o nei luoghi della cultura, né
in quelli della politica o in quelli del mercato. Sceglie prioritariamente la
strada: il traffico della strada, dove la sorpresa è sempre di casa. Non si può
scegliere chi incontrare né da chi lasciarsi incontrare. Non puoi nasconderti
sulla strada; sei esposto ed esponi gli altri al tuo sguardo. Vi è una presenza
(quasi) nuda di noi stessi. Una presenza precaria, ma – è questo il punto – già
aperta, disponibile all’altro, allo sconosciuto, allo straniero, incontrando il
quale e lasciandosi incontrare dal quale possiamo forse cogliere quello
sconosciuto che abita in noi e divenire perciò più coscienti di noi stessi» (A.
Matteo, Nel nome del Dio sconosciuto. La provocazione di Gesù a credenti e
non credenti
, Edizioni Messaggero, Padova 2011, p.25-26).

La
missione «di strada» di Gesù

La missione di Gesù è stata una missione popolare tra la
gente e per la gente. La dedizione di Gesù per la gente è lo specchio luminoso
dell’amore di Dio per tutti: malati, peccatori, stranieri, gente disorientata
come pecore senza pastore. Tutta la miseria del popolo si dispiega davanti a
Gesù. È a questo popolo che Egli annuncia – con le parole e le guarigioni – il
Regno.

L’atteggiamento di Gesù verso la gente nasce da una sua
profonda «compassione» (cioè da un amore profondo, preoccupato, partecipativo e
quasi materno che tende a dare/suscitare la vita) e manifesta la sua totale
dedizione.

Il «come» Gesù ha vissuto
concretamente l’amore è il modello chiaro per chi vuole seguirlo sulla strada
dell’annuncio della buona notizia del Regno.

Innanzitutto Gesù si è «spogliato» per entrare in dialogo con le
persone: nella pratica dell’incontro interpersonale egli ha vissuto la
dimensione dialogica, sempre accompagnata dalla dimensione di auto-svuotamento,
di condiscendenza. Gesù non ha mai consegnato a chi incontrava una verità astratta
o generica, ma ha instaurato con le persone una relazione umana, che diventava
per l’interlocutore un tempo favorevole e decisivo per orientare il senso della
vita. Il suo comunicare «in situazione» era preceduto da un cammino di
abbassamento, di condiscendenza, che rinnovava quel cammino di kenosis
(auto-svuotamento) da lui percorso per passare dalla forma di Dio alla forma di
uomo come noi (cfr. Fil 2,6-7).

Un’altra caratteristica dell’annuncio del Regno
praticato da Gesù era la sua capacita di accoglienza. Gesù sapeva
incontrare veramente tutti: in primo luogo i poveri, i primi clienti di diritto
del Vangelo; poi i ricchi come Zaccheo (cfr. Lc 19,1-10) e Giuseppe di Arimatea
(cfr. Mc 15,42 43 e par.; Gv 19,38); gli stranieri come il centurione (cfr. Mt
8,5-13; Lc 7,1-10) e la donna siro-fenicia (cfr. Mc 7,24-30; Mt 15,21-28); gli
uomini giusti come Natanaele (cfr. Gv 1,45-51), o i peccatori pubblici e le
prostitute presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola (cfr.
Mc 2,15-17 e par.; Mt 21,31; Lc 7,34.36-50; 15,1).

Com’era possibile questo? Perché Gesù era capace di non nutrire prevenzioni,
sapeva creare uno spazio di fiducia e di libertà in cui l’altro potesse entrare
senza provare paura e senza sentirsi giudicato. Gesù creava uno spazio
accogliente tra se stesso e colui con il quale entrava in dialogo; faceva
questo mettendosi innanzitutto in ascolto dell’altro in quanto persona come
lui, in quanto membro dell’umanità dotato di un volto, di una storia e di un
nome precisi, e cercando dunque di percepire cosa gli stava a cuore, qual era
il suo bisogno.

Ha saputo vedere:

• un uomo dove gli altri vedevano
un pubblico peccatore (cfr. Lc 5,29-30);
• una donna dove gli altri vedevano
una prostituta (cfr. Lc 7,36-50);
• la salvezza all’opera dove gli
altri vedevano solo vizio e peccato (cfr. Lc 19,1-10).

È in questo modo che Gesù ha vissuto la sua intera
esistenza come capolavoro d’amore, e così ha compiuto pienamente la volontà di
Dio, è stato «l’uomo secondo il cuore di Dio».

Il
senso umano della sequela di Gesù

Si tratta oggi di dare carne al comandamento
dell’amore
così come Gesù ce lo ha indicato e mostrato, comprenderlo in
modo rinnovato, adoperandosi per far emergere quella che si potrebbe definire
una «grammatica umana dell’amore». E questo insieme a una riscoperta della prossimità:
le due istanze sono strettamente interrelate e vanno di pari passo.

Allora «chi ha spirito missionario sente l’ardore di
Cristo per le anime e ama la Chiesa come Cristo. Il missionario è spinto dallo
zelo per le anime, che si ispira alla carità stessa di Cristo, fatta di
attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità, interessamento
ai problemi della gente» (Rm 89).

Noi siamo chiamati in Europa a imparare il linguaggio
degli uomini di questo tempo. O, forse, prima del linguaggio, dobbiamo anche
imparare l’alfabeto col quale balbettare le parole del cuore e della simpatia,
prima che della ragione, delle regole e proibizioni.

Questo perché l’evangelizzazione non batta sentirneri
aridi, ma sappia respirare a pieni polmoni il vissuto degli uomini, nostri
fratelli e sorelle, perché l’evangelo non sia ridotto alla sola dimensione
morale o legale, perché la spiritualità cristiana non sia declinata in
opposizione alla realtà umana e materiale.

Occorre recuperare il senso umano, umanissimo, della
sequela di Cristo, la quale non è riducibile al rispetto di norme, a un
affannarsi a tempo pieno, a un’attività pastorale frenetica, ma esige la
gratuità dell’amore. Questo perché, attraverso di noi e la nostra
testimonianza, il Vangelo non diventi sale scipito, ma conservi il suo sapore,
non opacizzi la luce, ma continui a illuminare.

Qui e non altrove va visto il fondamento dell’evangelizzazione:
in questa narrazione dell’amore che è stato Gesù, morto per gli uomini tutti e
risorto in forza dell’amore vissuto all’estremo. Evangelizzare non è
anzitutto portare una dottrina, comunicare della verità: è raccontare Gesù
Cristo
come colui che ha evangelizzato «Dio» – ha, cioè, reso Dio
una buona notizia – e ha evangelizzato l’uomo vivendo egli stesso nella
storia e nella condizione umana, e rivelando a ciascuno la sua autentica natura
di «salvato».

Questo è il contributo specifico del missionario – pellegrino nel suo cammino in compagnia degli uomini:
vivere, rendendola visibile e tangibile questa prassi missionaria di Gesù. In
questo modo saprà rispondere al grido, spesso in forma di gemito, che
percepiamo venire dall’Europa oggi: «Vogliamo vedere Gesù!» (Gv 12,21), come i
pagani chiesero ai discepoli in occasione della sua ultima pasqua a
Gerusalemme.

Questo è il contributo di ogni cristiano, perché la nuova evangelizzazione non è un «affare»
esclusivo degli uomini e donne di Chiesa, ma è la missione di ogni battezzato
che ha incontrato Gesù nella sua vita. Come i primi cristiani che, cacciati
fuori da Gerusalemme dalla persecuzione «andavano per il paese e diffondevano
la Parola di Dio» (At 8,4) e liberi da schemi e tradizioni, animati dallo Spirito,
seppero evangelizzare in modi nuovi e creativi (come ad Antiochia, dove per la
prima volta il Vangelo fu annunciato specificamente ai non ebrei. Vedi At
11,19-21).

Imparare
a sognare

Si tratta allora di imparare di nuovo a «sognare» per
intravedere una nuova visione/immaginazione evangelica che si traduca in azione
e significhi una nuova operatività missionaria, entro il contesto, a un tempo
plurale e globale, dell’Europa di oggi.

Per questo prima di tutto occorre superare
l’autoreferenzialità
, cioè, il ripiegamento su noi stessi, sui nostri
limiti, paure e debolezze. Basta piangerci addosso, pensare che tutto dipenda
da noi. Dobbiamo sollevare lo sguardo e lasciarci guidare dal sogno di Dio per
l’umanità e in particolare per questo nostro Continente. Abbiamo bisogno del
coraggio di sognare con Dio.

Secondo, dobbiamo ricordarci che è un cammino
graduale
da portare con pazienza, perseveranza e umiltà. Esige tempo,
riflessione, dialogo, voglia e passione per annunciare Cristo, anche oggi, in
questa Europa, da ritenersi vera e propria terra di missione a tutti gli
effetti.

In terzo luogo, capire che far/essere nuova
evangelizzazione non è mai una rottura con il passato, ma si colloca
nella logica del piano di Salvezza che celebriamo nella Liturgia attraverso
l’Eucarestia. Siamo in un cammino che è allo stesso tempo «continuità e
cambiamento, fedeltà al passato e coraggio di affrontare il futuro, costanza e
contingenza, tradizione e trasformazione». La memoria del passato vissuta nel
presente attraverso la celebrazione dell’Eucarestia e l’ascolto della Parola,
ci dà la forza di «dar ragione della nostra speranza» (1Pt 3,15) in questo oggi
orientato al futuro.

Quarto, la nuova visione non deve essere pensata e
progettata come semplice prolungamento (e magari miglioramento) del presente,
ma deve essere aperta all’irruzione di elementi sorprendenti, inattesi,
che determinano un sostanziale mutamento qualitativo. Sotto il segno della
pienezza, dell’impossibile divenuto possibile, e non semplicemente della
ripetitività, delle previsioni rispettate.

Questo è il grande balzo che siamo chiamati a compiere,
l’altra riva a cui tendere, la Gerusalemme a cui ritornare, correndo, pieni di
gioia, dopo l’incontro con il Risorto sulla strada di Emmaus.

Insomma, per concludere, si tratta di imparare a
contemplare l’oltre verso cui l’evangelizzazione in Europa deve protendersi.
Animati dalla certezza che il punto al quale noi siamo giunti, nelle realtà e
nei contesti in cui operiamo in Europa, non può essere considerato come il
modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse cose, ma il semplice punto
di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a livello geografico che
contenutistico.

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BIBLIOGRAFIA

La bibliografia su questo argomento è immensa. Oltre ai
documenti e libri già menzionati nel dossier, segnaliamo qui solo alcuni dei più
recenti.

Zolli F. (a cura di), Essere Missione Oggi, EMI, 2012
AA.VV., La nuova Evangelizzazione, in Credere Oggi, 191 – 5/12, Edizioni Messaggero Padova,
2012
Bianchi E., Nuovi Stili di Evangelizzazione, San Paolo,
2012
Caramazza G., Dio Pensa Positivo,Fondamenti e prospettive della Missione “ai popoli”, EMI, 2012
Meddi L., La parrocchia cambia parroco, una risorsa per
la pastorale
, Cittadella, 2012
Meddi L., Dotolo C., Evangelizzare la vita cristiana, Cittadella, 2012
Albanese G., Missione XL, per un Vangelo senza confini, Edizioni Messaggero
Padova, 2012
Maggioni B., Nuova Evangelizzazione, forza e bellezza
della Parola
, Edizioni Messaggero Padova, 2012
Casale G., Guai a me se non annuncio il Vangelo, Meridiana, 2012
Barreda J-A., Europa e Nuova Evangelizzazione, UUP, 2012
Colzani G., Pensare la Missione, UUP, 2012
Enchiridion della Nuova Evangelizzazione, Editrice
Vaticana, 2012
Sieveich M., La Missione Cristiana, Queriniana, 2012
Aranda A., Una “nuova” Evangelizzazione. Che fare? Come
fare?
, Ares, 2012
Kasper W., Augustin G., La sfida della nuova
evangelizzazione. Impulsi per la rivitalizzazione della fede
, Queriniana, 2012
 
L’AUTORE

Antonio Rovelli, missionario della Consolata nativo
della Brianza. Studi a Londra, prete nel 1984, missionario in Uganda dal 1988
al 1996, economo di Casa Madre a Torino fino al 2000, responsabile
dell’animazione missionaria fino al 2008, fondatore della «Scuola per
l’alternativa», è ora responsabile dell’ufficio cooperazione di Missioni
Consolata Onlus, segretario nazionale del Suam (Segretariato Unitario di
Animazione Missionaria
) e vice direttore dell’ufficio della pastorale migranti
della diocesi di Torino.

Coordinamento editoriale
Gigi Anataloni, direttore di MC
 

Antonio Rovelli