La
crisi dimenticata nel paese inesistente
Marzo
2013: i ribelli conquistano Bangui. Ennesimo colpo di stato nella Repubblica Centrafricana.
Ancora la popolazione subisce saccheggi, uccisioni, torture, stupri. Ma la
ribellione ha una connotazione confessionale ed etnica. E vi fanno parte molti
stranieri. Ci sono tutti gli ingredienti per l’infiltrazione della jihad
internazionale. Eppure sembra non interessare i potenti della Terra. Ma come si
è arrivati a questa crisi? E quali sono le prospettive?
«I
ribelli? Loro ti dicono chiaro che questa è una provincia del Ciad». Chi parla è
padre Aurelio Gazzera, missionario a Bozoum, Repubblica Centrafricana1. Carmelitano scalzo della provincia ligure,
lavora nel paese dal 1992 e da dieci anni opera in questa zona a Nord-Ovest.
La Rca è un paese dimenticato, isolato e senza particolari
interessi geo-strategici. Almeno per ora. Ex colonia francese, la sua
collocazione nel cuore del continente le impedisce l’accesso al mare. Vasto il
doppio dell’Italia conta circa 5 milioni di abitanti. Di fatto è diventato uno
stato cuscinetto tra la zona islamica a Nord, Ciad e Sudan, e quella cristiana
a Sud, Congo e Repubblica democratica del Congo. E l’attuale crisi politica e
umanitaria ha messo in evidenza tutta la delicatezza della sua posizione e la
fragilità dello stato.
È sgnificativo come nonostante il paese sia esportatore di
diamanti, oro e petrolio, gli indicatori della Rca sono scesi negli ultimi 30
anni: la speranza di vita è diminuita dal 1985 a oggi (49,8 a 49,1), così
come il reddito medio per abitante (da 909 a 722 Usd). La speranza
scolarizzazione è invece aumentata di un solo anno da 5,8 a 6,8 (Pnud2).
La storia si ripete
Per capire la crisi odiea occorre fare un passo indietro.
Nel 2003 François Bozize aveva annullato, con un colpo di stato,
dieci anni di regime corrotto di Ange-Félix Patassé e si era insediato come
presidente della repubblica, poi confermato alle ue nel 2005 e nel 2011.
Accolto all’epoca come il cambiamento possibile, Bozize ha presto deluso le
aspettative mettendo in piedi una gestione del potere definita «etno-familiare».
Tutti i posti chiave, politici e militari, erano occupati da membri della sua
stretta cerchia famigliare o al più della sua etnia, gbaya (o baya)
della zona di Bossangoa. Un regime parassita e corrotto, che si permetteva però
di trascurare la gestione della sicurezza sul territorio nazionale. L’esercito,
allo sbando, ha lasciato intere parti del paese in mano a gruppi ribelli
nazionali ed esteri già dal 2005. È famoso il caso della Lord Resistence
Army (Lra) di Joseph Kony (cfr. MC giugno 2012), che si è installata
nell’Est della Rca dal 2008, o di gruppi armati ciadiani e sudanesi arrivati
dal Nord. Bozize si è visto costretto a firmare diversi accordi di cessate il
fuoco con fazioni ribelli, soprattutto del Nord-Est, la regione più critica e
fuori controllo (2008, 2011).
Ma è alla fine dell’anno scorso che i più importanti gruppi in
armi, spesso in lotta tra loro, si uniscono in una coalizione eterogenea e
diversificata: la Seleka. Si tratta di Ufdr (Unione delle forze democratiche
per la riunificazione) e Cpjp (Convenzione dei patrioti per la giustizia e la
pace), basati su etnie diverse, ai quali si unisce il Cpsk (Convenzione
patriottica di salvezza del Kodro) costola dissidente del Cpjp e l’Unione delle
forze repubblicane. Numerosi anche i combattenti sudanesi (originari del
Darfur) e ciadiani che si aggregano alla coalizione per approfittare dei
saccheggi. I ranghi della Seleka si gonfiano infine di giovani e minorenni
delle varie città, volontari o reclutati a forza, durante la discesa su Bangui
e nella capitale stessa.
«Ci sono tantissimi sudanesi e ciadiani – continua padre Aurelio –
sono tipi fisicamente diversi, si vede a colpo d’occhio. Non parlano né il sango
(lingua ufficiale e più diffusa, ndr) né il francese, ma solo l’arabo o
l’inglese. Interloquire e dialogare con queste persone è complicato. Altri sono
della zona centrale del paese da cui proviene il sedicente presidente Michel
Djotodia. Anche molti ministri non conoscono le due lingue nazionali». Fatto
grave, secondo molti osservatori, i posti di maggiore responsabilità, i
generali e i colonnelli che controllano le province, sono stranieri.
I «nuovi» ribelli
La Seleka, che si identifica per la prima volta il 10 dicembre
2012, conquista rapidamente diverse città e punta su Bangui. È la Comunità
economica degli stati dell’Africa centrale (Cesac) che interviene con una
mediazione che porta agli accordi di Libreville (Gabon) l’11 gennaio 2013.
I mediatori designati sono Denis Sassou Nguesso, presidente del
Congo, e Idriss Déby Itno del Ciad. Due vecchie volpi, che ottengono un accordo
di cessate il fuoco. Bozize resta al potere, ma deve formare un governo di unità
nazionale e «congelare» l’Assemblea Nazionale (il parlamento) che sarà rieletta
entro 12 mesi. Un comitato di monitoraggio degli accordi sarà messo in piedi.
Bozize, che deve rinunciare formalmente a ricandidarsi, nomina come primo
ministro di transizione Nicolas Tiangaye, avvocato, militante in diverse
istanze dell’opposizione. La Cesac mette a disposizione la Missione di
consolidazione della pace in Centrafrica (Micopax o Fomac), già presente in Rca
dal 2008, con 700 effettivi, per vegliare sulla parte militare dell’accordo,
proteggere gli organi di transizione e il lavoro umanitario.
Ma per la Seleka la fetta di torta è troppo piccola, solo 5
ministri su 33, con i principali in mano al clan Bozize. Il presidente dal
canto suo, afferma: «Je reste le patron» (Sono sempre il capo3). Così i ribelli, decidono di
farla finita e riprendono le ostilità. Il 24 marzo sono a Bangui, sbaragliando
le deboli Forze armate nazionali (Faca) e 400 militari Sud africani inviati in
aiuto a Bozize. La Micopax invece non reagisce. Il presidente fugge, e Michel
Djotodia, leader del Ufdr, si auto proclama capo dello stato. Djotodia, già
funzionario ministeriale durante i regimi di Patassé e Bozize, era stato
nominato da quest’ultimo ambasciatore in Darfur, per poi cadere in disgrazia ed
essere escluso dai giochi di potere.
Seleka controlla rapidamente tutto il paese. L’Unione africana
(Ua) non riconosce il nuovo regime, mentre la Cesac prende atto: convoca due
incontri a Ndjamena (capitale del Ciad), il 3 e il 18 aprile e arriva al
compromesso. Gli accordi di Libreville sono mantenuti validi (pur nella nuova
configurazione a Bangui) e la transizione dovrà durare 18 mesi.
Quindi tocca a Djotodia fare il «suo» governo: «Il 31 di marzo è
stato presentato un nuovo governo di transizione – racconta padre Aurelio – dove
20 ministri su 34 erano musulmani, in un paese dove gli islamici sono al
massimo il 15%. Molti erano della Seleka, tra questi 4-5 parenti stretti del
presidente. Ma i paesi della Cesac non erano molto contenti, e hanno chiesto la
presenza di tutte le parti, sia nei consigli di transizione, sia nel governo.
Così il presidente ha diminuito leggermente il numero dei ministri della Seleka».
Continua il missionario: «Il primo ministro è sempre Tiangaye:
sono obbligati, lui è il peo su cui gira tutto. Seleka dice che è il ministro
del dialogo di Libreville. Anche la Cesac si accontenta per tenere in piedi il
processo di pace. Il primo mese e mezzo gli incontri inteazionali erano
soprattutto con il primo ministro e non con il presidente, non sempre riconosciuto,
poi ha iniziato ad andare in giro pure lui».
Le sfide della transizione
«La transizione prevede disarmo e integrazione dei combattenti.
Questo è un problema, perché non ci sono i soldi nemmeno per l’esercito
regolare, e inserire altri elementi che non hanno nessuna disciplina, lo
indebolirebbe ancora di più. Poi ci sarebbero le elezioni, ma non ci sono
previsioni di date. Le prospettive non sono molto radiose, perché le
opposizioni si sono messe tutte con il vincitore Seleka e sono entrate nel
governo. Posizione questa assunta fin da dicembre».
Padre Aurelio va spesso a Bangui. Per arrivare oggi si passano
molti posti di blocco dei ribelli, dove miliziani improvvisati chiedono qualche
soldo. Dal diario del 4 agosto: «Il viaggio è andato bene, nonostante le 12
barriere che i ribelli hanno messo sulle strade: una media di una ogni 30 km!».
A Bangui è iniziato molto lentamente il disarmo dei ribelli, ma ci
sono poche speranze che funzioni, perché si parla di circa 5.000 unità e quando
si ritirano le armi occorre dar loro qualcosa, riconvertirli, ci vogliono
mezzi, soldi, volontà da tutte le parti. «La comunità internazionale, in
particolare gli stati africani, a inizio maggio avevano promesso un aumento
della forza multinazionale, però dei 2.000 militari previsti pare che siano
arrivati solo 150 carabinieri del Congo. Sono loro che si occupano del disarmo,
in teoria. L’esercito regolare si è disintegrato, non accenna a riprendersi. I
soldati hanno paura, quando ritornano nelle caserme le trovano occupate dai
ribelli che li mettono in prigione o li uccidono».
Dal primo agosto la Micopax cambia nome passando sotto l’egida
della Ua e diventando la Misca (Missione internazionale di sostegno al
Centrafrica). Gli effettivi diventeranno a regime 3.650 di cui 150 civili. La
Misca ha come compiti: protezione dei civili, riportare pace e stabilità,
riforma e ristrutturazione dell’esercito nazionale, ed è composta da uomini di
Camerun, Congo, Gabon e Ciad.
Diritti umani cercansi
Dopo la presa di Bangui, le tante fazioni della Seleka si
scatenano ai quattro angoli del Centrafrica e la popolazione ne paga le
conseguenze. Nella loro avanzata saccheggi, stupri, violenze di ogni genere e
uccisioni sono all’ordine del giorno. Human Rights Watch, Ong di difesa
dei diritti umani, ha pubblicato un rapporto sulla Rca4 a maggio nel quale denuncia: «un
gran numero di assassinii sono stati commessi dalla Seleka a Bangui dopo il
colpo di stato del 24 marzo, […] e altre uccisioni sono state perpetrate dalle
stesse truppe in tutto il paese tra il dicembre 2012 e aprile 2013».
Nel rapporto del segretario generale dell’Onu5 (3 maggio 2013), Ban Ki-moon, è
scritto: «Da quando la Seleka controlla Bangui, centinaia di cadaveri non
identificati sono stati trovati in diversi settori della capitale. Secondo la
Croce Rossa locale, almeno 119 persone sono state uccise […]. Si riporta che
602 feriti sono stati curati negli ospedali di Bangui». E ancora: «L’anarchia
che regna in Rca ha avuto conseguenze disastrose per le donne e le ragazze, e
il flusso di violenze sessuali, come stupri, stupri collettivi e atti di
schiavitù sessuale, sembra inarrestabile».
Intanto nella maggior parte del paese le scuole sono chiuse da
quattro mesi, così come le strutture sanitarie sono prive di farmaci e
disertate dagli operatori. Più in generale i funzionari sono fuggiti all’arrivo
dei ribelli e hanno paura a tornare sul posto di lavoro. Inoltre non ci sono più
i soldi per pagarli. Fonti Onu contano in 206.000 gli sfollati interni (di cui
la metà bambini) e oltre 60.000 i rifugiati nei paesi vicini. Mentre 1,6
milioni di centrafricani hanno bisogno di aiuto di emergenza.
«Qualcosa si muove, iniziano ad arrivare i prefetti nominati dal
governo centrale, nelle 16 prefetture in cui è diviso il paese» ricorda padre
Aurelio, senza troppo ottimismo.
«Questi ribelli, sono sempre in città, ma hanno ridotto abbastanza
le attività, perché ormai hanno razziato quasi tutto. Stanno andando nei
villaggi».
In effetti, mentre a Bangui la situazione sembra normalizzarsi
poco alla volta, violenze e saccheggi continuano nelle campagne. Ancora padre
Aurelio ne è testimone. Il giorno 7 agosto, sulla strada Bozoum – Bassangoa ha
contato almeno 14 villaggi deserti, raccolto testimonianze di esecuzioni
sommarie e saccheggi. Intanto 2.400 sfollati si sono presentati negli stessi
giorni alla missione di Bozoum: «Sono fuggiti da zone a 65-90 km da qui, dopo
che i ribelli hanno ucciso almeno 15 persone, ma temiamo che siano oltre 40. La
questione è che non c’è nessuna autorità a cui rivolgersi per fare giustizia.
Coloro che comandano sono della Seleka, ovvero sono gli stessi che fanno i
saccheggi, quindi c’è poco da sperare. Inoltre, oggi Seleka è una coalizione,
ma i gruppi continuano a dividersi, a moltiplicarsi. È tutto da vedere come si
sviluppa la situazione o come degenera».
Piccole pietre
L’altro grosso problema è che i ribelli si sono messi in tutti i
posti in cui circolano soldi, e tutte le entrate dello stato, come la dogana,
le intercettano loro. I ribelli hanno inoltre commesso razzie di ogni tipo, in
particolare hanno incamerato molte auto.
C’è poi un ruolo accertato dei trafficanti di diamanti nel
finanziamento della ribellione: «Il nipote di Bozize era ministro delle miniere
nel 2008 da un giorno all’altro aveva fatto chiudere le società di
esportazione, per controllare meglio il mercato, danneggiando così i
trafficanti. Il presidente attuale, inoltre, era console a Nyala in Darfour,
Sud Sudan, dove c’è un fiorente mercato nero di diamanti. Un altro canale di
finanziamento è quello di alcuni paesi arabi» ricorda padre Aurelio.
Ambiguo il ruolo giocato dal Ciad nella crisi. Oltre a essere uno
dei principali mediatori negli accordi, il Ciad avrebbe appoggiato la
ribellione. Alcuni leader della Seleka, ai domiciliari a Ndjamena, sono stati
rilasciati poco prima delle operazioni, mentre proprio Idriss Déby, presidente
del Ciad, avrebbe dato l’ok per l’offensiva finale di marzo6, fatto smentito ufficialmente da
Njamena. François Bozize ha invece
dichiarato che dietro alla Seleka c’è proprio il paese confinante.
«È un ruolo importante – ricorda padre
Aurelio -. A Bozoum abbiamo il console del Ciad, e guarda caso qui ci sono
stati pochi problemi. Le voci dicono che la Francia abbia lasciato fare il Ciad
per avere mano libera in Mali. Là ha più interessi». La Francia ha mantenuto un
profilo molto basso, evacuando i propri espatriati tardivamente (quando molti
saccheggi si erano consumati) e mantenendo una forza militare minima, a protezione
di alcuni interessi strategici francesi nella capitale e dell’aeroporto.
Le mosse della Chiesa
La chiesa in Centrafrica è l’istituzione che, dopo lo stato, ha
subìto più danni dai saccheggi dei ribelli. Le missioni e altre opere sono
state sistematicamente prese di mira: «Razziavano macchine, soldi, carburante,
tutto quello che trovavano. Alcune diocesi sono state messe in ginocchio, come
Bambari, Bangassou, Kanga Bandaro, Bossangoa» racconta padre Aurelio.
C’è poi il rischio della connotazione religiosa del potere: «La
Chiesa si è mossa subito, prima di dicembre. È stata creata una piattaforma di
dialogo tra cattolici, protestanti e musulmani. Poi quando le cose sono
scoppiate il lavoro è continuato. Stiamo facendo diversi incontri. La
preoccupazione è evitare che ci sia un ritorno, una vendetta contro gli
islamici. Molti dei musulmani locali non sono d’accordo con questa ribellione.
L’altro motivo è di cercare di alzare la voce, farsi sentire a livello
internazionale, per avere qualche reazione.
Anche i vescovi hanno parlato, ce ne sono alcuni molto coraggiosi
(vedi intervista)».
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, si è
finalmente riunito il 14 agosto sulla crisi in Rca, dichiarando che rappresenta
una grave minaccia per tutta la regione e che occorrono progressi rapidi per la
transizione politica. Intanto, il 18 agosto, Michel Djotodia ha prestato
giuramento sulla «Carta di transizione» (che sostituisce la Costituzione) di
fronte al Parlamento di transizione e ai presidenti di Congo e Ciad.
Padre Aurelio, che di crisi in Centrafrica
ne ha già vissute, dipinge un quadro poco rassicurante: «L’incertezza è
grandissima. Ora c’è una certa calma, ma è molto fragile, non illudiamoci che
sia risolta, può succedere di tutto. Un altro movimento ribelle che scende
sulla capitale, l’ex presidente che ritorna con un gruppo armato, come alcune
voci sostengono7. Non c’è nulla di sicuro. La scuola e la
sanità non funzionano, quindi l’instabilità è grande. Le prospettive, con i
ribelli che bloccano tutte le entrate dello stato, non sono allegre».
Marco Bello
Note
1 – Il nome ufficiale, Repubblica Centrafricana (République Centrafricaine), viene spesso
accorciato in Centrafrica, o Rca in sigla.
2 – Pnud, Human Development Report 2013, Explanatory note on Hdr composite indices,
Central African Republic.
3 – Il 15 marzo 2013, durante i festeggiamenti per i
suoi 10 anni al potere, François Bozize lascia intendere che si ricandiderà, in
contrasto con gli accordi di Libreville.
4 – République
centrafricaine: de nombreuses exactions ont été commises aprés le coup d’état.
Rapporto Hrw, 9 maggio 2013.
5 – Rapport du
Secrétaire général sur la situation en République centrafricaine, Consiglio
di Sicurezza Onu, 3 maggio 2013.
6 – République
centrafricaine: les urgences de la transition, Inteational Crisis Group,
11 giugno 2013.
7 – L’ex presidente Bozize ha fondato il Frocca (Fronte per il ritorno all’ordine
costituzionale in Centrafrica).
La parola a monsignor
Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui
«Serve il consenso, no
al potere che esclude»
La Chiesa cattolica
centrafricana è nel mirino della ribellione. Ma insieme a protestanti e musulmani ha subito
creato una piattaforma di dialogo interreligioso. Per scoprire che le tre
confessioni sono sulla stessa lunghezza d’onda. E allora chi vuole questa
guerra?
Monsignor Dieudonné
Nzapalainga, arcivescovo
di Bangui è un religioso spiritano. Giovane (46 anni), centrafricano e molto
attivo, è stato ordinato vescovo nel luglio 2012. È attualmente presidente
della Conferenza episcopale centrafricana e presidente della Caritas nazionale.
Lo abbiamo contattato telefonicamente.
Monsignor
Dieudonné, ci parli della crisi umanitaria nel paese e nella sua diocesi in
particolare.
La crisi umanitaria è anche dovuta
al fatto che con la guerra molte Ong hanno lasciato il paese. Inoltre la gente
ha abbandonato le città e si è nascosta nella foresta, dove si nutre di radici,
per paura dei ribelli della Seleka. Con le piogge è grave anche la situazione
sanitaria, perché la malaria si sta diffondendo. Non è stato creato un
corridoio umanitario necessario alle poche Ong rimaste a soccorrere la
popolazione. Sulle strade ci sono sempre dei militari della Seleka che
continuano a impedire ai mezzi non governativi di circolare, con posti di
blocco nei quali vengono chiesti dei soldi. Anche le nostre macchine della
Caritas vengono bloccate.
C’è il problema sanitario e quello
educativo: a Damara (città a 80 km da Bangui, ndr) da mesi è chiusa la
scuola. L’ospedale è stato saccheggiato, non ci sono più medicine. Ho parlato
con un medico che non può lavorare. Chi ha bisogno di cure deve andare a
Bangui. Ma il paese è tutto in questa situazione.
Anche l’agricoltura è bloccata. La
crisi politica è iniziata a marzo, quando la gente doveva seminare. La pioggia è
arrivata, gli uomini non potevano andare nei campi perché rischiavano di essere
catturati o uccisi. Senza raccolto la fame arriverà nei prossimi mesi. Le
sementi distribuite da organismi come Caritas e Fao sono state consumate perché
non c’era nulla da mangiare.
A livello
della sicurezza c’è un miglioramento?
La sicurezza è migliorata a
Bangui, dove è gestita dalla forza multinazionale Fomac. Ma le armi sono
dappertutto e alcuni quartieri, come Kina e Km5, sono delle vere polveriere.
Quando si tenterà di disarmarli ci potrà essere un effetto bomba.
Sono questi i sobborghi dove sono
stati reclutati i livelli bassi della Seleka. Gente che vendeva bibite per la
strada e da un giorno all’altro si è trovata con un’uniforme e un fucile
mitragliatore in mano, a scorrazzare sui pick up. E senza alcuna formazione.
Hanno iniziato così a chiedere soldi. Sarà difficile smobilitare queste
persone. Diventano dei banditi.
In provincia invece, sono i
giovani e i ragazzi delle città a essere reclutati dai ribelli, complice il
fatto che le scuole sono chiuse. Qui chiedono 50 franchi (7 cent, ndr) a
ogni ciclista che passa, o alla gente che torna dal campo con il proprio
materiale. C’è un racket quotidiano e capillare, ogni qualvolta ci si sposta,
si va al lavoro. Perché la Seleka non paga questi giovani che si rifanno sulla
popolazione.
Nella Seleka
qual è la componente religiosa o etnica?
Esiste una componente religiosa.
La gente che ha preso il potere sta utilizzando mercenari che vengono dal Ciad
e dal Sudan. Lo abbiamo scritto nella lettera dei vescovi. Li abbiamo
incontrati all’interno del paese e a Bangui. Non parlano né il sango né
il francese, piuttosto inglese e arabo. Poi i tre quarti della Seleka sono
giovani musulmani delle regioni del Nord Est. Abbiamo denunciato che l’ex
presidente Bozize arruolava solo la gente della sua zona, ora sta succedendo lo
stesso. Al potere non sono rappresentati
tutti i gruppi e i popoli della Rca. Inoltre dicono di essere composti al 90% da
musulmani e il restante 10% da cristiani.
Non c’è dogana, polizia né
gendarmeria. Sono i militari della Seleka che fanno tutto.
Lo stato non esiste. Solo a Bangui
c’è una parvenza grazie alla Fomac.
All’interno del paese non ci sono
più funzionari dello stato, né autorità statali (ufficiali), tutti sono fuggiti
in capitale perché venivano perseguitati dalla Seleka con l’accusa di essere
agenti dell’ex presidente.
Lei è stato
recentemente a Roma. Perché a livello internazionale si parla così poco della
Rca?
All’inizio della crisi se ne è parlato,
ma poi è caduto il silenzio. Come vescovi abbiamo scritto una lettera al
presidente (di transizione)1. Il 25 giugno ero a Parigi in una
conferenza stampa affollata. Ho detto che la Repubblica Centroafricana è un
paese che muore a fuoco lento, che se nulla viene fatto diventerà il santuario
dei grandi banditi, dei narco trafficanti, dei gruppi ribelli, di tutti quelli
che vogliono destabilizzare. Sono andato al ministero degli Esteri e alla
presidenza della Repubblica francesi per parlare di Centrafrica per attirare
l’attenzione. Recentemente la ministro francese Yamina Benguigui ha dichiarato
che in settembre metteranno la Rca a livello delle priorità nell’Onu.
La risposta che ho avuto è che il
nostro paese, ogni volta che succede qualcosa, torna al punto di partenza.
Questo scoraggia la comunità internazionale. Quando ne ho parlato a Roma, il
Santo Padre ha citato la Rca all’angelus del 29 giugno. Poi ho incontrato il
cardinale Feando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione
dei Popoli. Per noi è una maniera di uscire dall’isolamento. Sono stato a Roma
in riunione con Caritas Inteationalis, con Fao e con l’ambasciatore francese
presso la Santa Sede, sempre per presentare la situazione e sollecitare un
impegno rapido per il paese. Diverse Caritas già ci aiutano per le questioni di
sanità pubblica e ora vorremmo fare qualcosa per le scuole.
A livello
nazionale cosa fa la Chiesa cattolica per il ritorno alla pace?
Concretamente la Chiesa cattolica
insieme a Chiesa protestante e confessione musulmana ha creato una piattaforma
di dialogo: facciamo delle riunioni nelle quali discutiamo. Ci ritroviamo per
fare l’analisi della situazione dal colpo di stato a oggi. Vogliamo fare delle
raccomandazioni ai principali attori. Utilizzeremo lo strumento Giustizia e
Pace per verificare se le raccomandazioni saranno prese in conto. È una maniera
per noi per spingere i vari settori a ritrovarsi e gettare il seme di una nuova
maniera di vivere insieme.
La Chiesa cattolica, inoltre,
attraverso i suoi elementi, ha chiesto che le scuole siano riaperte. Ci siamo
impegnati, attraverso Jrs (Jesuite refugee service, ndr) un
organismo di Chiesa, ad attivare alcune scuole in zone dove non c’erano.
Attraverso Caritas siamo intervenuti anche per nutrire gli sfollati che
fuggivano dalle zone di conflitto. Abbiamo nutrito medici, malati e rifugiati.
A livello reale e concreto, non solo teorico.
Cosa dicono i
musulmani centrafricani della ribellione?
Lavoriamo con gli alti
responsabili dell’Islam in Centrafrica e sono sulla stessa nostra lunghezza
d’onda. Ma ci sono degli imam che non sposano la stessa filosofia e
dicono cose diverse. L’imam attuale presidente della comunità musulmana è
andato all’interno del paese e ha condannato tutti quelli che rubano e
violentano, dicendo che non sono dei buoni musulmani. Così le autorità attuali,
quando sono entrate a Bangui non lo hanno cercato, ma hanno incontrato altri imam,
proprio perché lui li aveva criticati.
Nella Seleka i musulmani nazionali
sono meno numerosi che gli stranieri e questo disequilibrio pesa molto. Il
presidente della comunità islamica è centrafricano, ama la sua terra e agisce
come patriota, ma penso che se fosse straniero il discorso cambierebbe. Ma
riceve molte pressioni da parte delle autorità e di altri musulmani.
Secondo lei
qual è il cammino per uscire dalla crisi e riportare la Rca alla pace?
Penso che ci voglia una volontà
politica da parte di tutti quelli che fanno i politici: il presidente, gli
oppositori. Occorre che si punti all’interesse nazionale e smettano di cercare
il potere per il potere e di distruggere, prendere la gente in ostaggio.
Decidano di lavorare insieme per questo paese. Non è un solo gruppo che potrà
risolvere, occorre che ci sia davvero un’apertura. È necessaria una conferenza
nazionale in cui tutti possano parlare, perché quello che è successo interessa
tutto il paese. Serve un consenso: cercare delle soluzioni in modo non
unilaterale. Se non si accetta di associare tutti, gli esclusi si faranno un
giorno avanti per conquistare il potere. La soluzione è un albero sotto il
quale tutti parlano, dialogano. Chi ha torto riconoscerà i propri torti, chi ha
fatto degli errori potrà essere punito. Insieme e non con le armi. Si lasciano
le armi e a cuori disarmati sarà l’amore, la frateità, la giustizia, la
correttezza, la coesione. Sono questi i valori che dobbiamo cercare.
Marco Bello
Marco Bello