S2 – «Mio figlio… mai in quella classe!»

La scuola interculturale.


Sono 760 mila (su 9 milioni in totale) gli studenti non
italiani nelle nostre scuole. Una classe multietnica può offrire grandi
opportunità grazie agli stimoli derivanti dalle diversità culturali e alle
opportunità che produce un ambiente plurilinguistico. Occorre però saperlo
spiegare alle famiglie per evitare rifiuti quasi sempre immotivati.

«L’insegnamento in una prospettiva
interculturale richiede di assumere la diversità come paradigma dell’identità
stessa della scuola, occasione privilegiata di apertura a tutte le differenze»,
così scrivevano nel 2007 il ministero dell’Istruzione e l’Osservatorio
nazionale per l’integrazione degli stranieri. Partendo da questa riflessione e
considerando che, secondo i dati ufficiali pubblicati dal ministero
dell’Istruzione per l’anno scolastico 2011/2012, gli studenti stranieri
raggiungono la soglia di 755.939 (su un totale di 9 milioni), oggi in che
misura si sta lavorando sull’aspetto dell’inclusione interculturale?

Alcune notizie di cronaca ci
raccontano ancora di genitori che, davanti a una classe con un numero di
stranieri troppo elevato, ritirano i figli o chiedono il loro spostamento in
un’altra sezione.

I
nuovi italiani e la soglia del 30%

Per fare chiarezza sull’entità
della questione, chiediamo a Concetta Mascali, dirigente scolastico per il
secondo anno alla scuola primaria Michele Lessona di Torino, con un precedente
incarico come referente per l’intercultura presso l’Ufficio scolastico
regionale, di raccontarci la sua esperienza. L’Istituto Michele Lessona è
situato nella zona di Porta Palazzo, da sempre luogo di prima immigrazione del
capoluogo piemontese e bacino privilegiato di stranieri residenti. Oggi la
scuola primaria Michele Lessona accoglie allievi con provenienze da circa 30
paesi: Romania, Marocco, Cina, Africa Centrale, India, Sri Lanka, Filippine,
Albania, stati latinoamericani etc. «Recentemente una coppia di genitori, la
cui figlia è in classe con 14 stranieri, ha sollevato la problematica
chiedendone il trasferimento in un’altra sezione. In questi casi è fondamentale
motivare alla famiglia il lavoro svolto per la formazione delle classi che
avviene secondo criteri di equi-eterogeneità e non di nazionalità. In questo
senso manca ancora molta informazione e approfondimento: non ha più senso
parlare di “stranieri” quando il 60% degli studenti di provenienza non italiana
sono di seconda generazione e hanno frequentato asilo nido e scuola
dell’infanzia da noi, arrivando alla primaria con gli stessi prerequisiti degli
italiani. Questi allievi sono a tutti gli effetti concittadini italiani e non
rallentano affatto l’andamento didattico della classe, anzi ne rafforzano la
vivacità intellettiva grazie all’enorme potenziale del plurilinguismo. Quando
ci sono delle sacche di disagio nell’alfabetizzazione è verosimile che ne siano
accomunati sia gli studenti di origine italiana che quelli di altre nazionalità.
Se le informazioni vengono trasmesse in misura coerente e chiara alle famiglie,
spesso si trova un punto d’accordo e si diventa complici nel percorso educativo».

Ovviamente non è tutto rosa e fiori
e Concetta Mascali ci informa che le maggiori problematiche riguardano gli
ingressi degli studenti stranieri in corso d’anno. In tali occasioni, che si
verificano spesso nell’Istituto Lessona, occorrerebbe essere attrezzati con
corsi di italiano come seconda lingua, spesso impraticabili per mancanza di
risorse economiche e di personale docente. E per quanto riguarda l’attuazione
della famosa legge della Gelmini sul tetto del 30% di alunni stranieri in
classe, cosa è accaduto e sta accadendo dentro la scuola? «La legge del 30%
desta più paura di quanto dovrebbe. Questo strumento è indicativo ed esistono
linee guida e sfumature delle varie circolari che vanno calibrate e affidate al
buon senso del singolo circolo didattico. La circolare 2 spiega, per esempio,
che c’è differenza tra chi è nato in Italia e chi è appena arrivato e fa una
chiara distinzione tra chi appartiene a lingue neolatine o meno. Ciò che conta è
saper utilizzare gli strumenti al fine dell’integrazione e non dell’esclusione.
Parlare di stranieri induce in errore, abbiamo bisogno di parole nuove per
sfatare un immaginario collettivo che si nutre ancora della paura del diverso».

Disorientamento e disturbi

Reinventare un vocabolario che non
includa il termine «pregiudizio» è un compito arduo ma fattibile. Cresce il
numero degli insegnanti che, nonostante le poche risorse economiche, riescono a
gestire didatticamente e umanamente l’ accoglienza di studenti non italiani. A
pensarla come Concetta Mascali è anche la maestra Sabrina Ottaviano, 16 anni di
esperienza alla Scuola primaria Berta – succursale del Circolo didattico
Salgari – che ribadisce la ricchezza del plurilinguismo e della diversità
culturale. «Un bambino straniero che ha frequentato la scuola dell’infanzia da
noi, si pone nell’identica situazione di partenza di un nostro connazionale. I
problemi si verificano quando arriva uno scolaro “non parlante” e le risorse
economiche attuali non sono sufficienti a coprire le ore di alfabetizzazione
dello stesso. Di norma, però, questi sono casi sporadici e vengono gestiti con
una cura e un impegno estremi da parte di tutto il corpo docente».

Per cambiare gli stereotipi occorre
riformulare i messaggi mediatici. Non più stranieri e italiani ma compagni di
scuola. Insomma, bambini del 2013 con tutte le peculiarità che il vivere in
questa nostra «sclerotica» società comporta.

Chi sono, dunque, i nuovi bambini? «Nel
corso degli anni sono cambiate le situazioni familiari: sempre più separazioni
e famiglie allargate. Questo ha comportato un disorientamento del bambino,
obbligato ad adattarsi a più contesti familiari. È venuto così a mancare
quell’equilibrio che dotava l’allievo di una maggiore serenità. Va poi segnalata
una perdita di autorevolezza della figura patea che manca o risulta poco
incisiva, provocando disturbi comportamentali difficilmente gestibili. Per
quanto riguarda la didattica si avverte invece un peggioramento nella
comprensione del testo e un impoverimento lessicale dei bambini. Rispetto a
qualche anno fa, hanno più difficoltà nell’introiettare le esperienze e
nell’estearle, arricchendo i propri racconti. Sono più irriverenti di un
tempo ma anche creativamente spontanei e con un grande senso della complicità e
della giustizia».

Disturbi dell’attenzione e della
comprensione vanno sicuramente ricercati nella gestione del tempo-scuola. Ritmi
aziendalisti e non a misura di bambino. Per gli alunni, immersi in questo
proliferare di «rumore», dove rimane il tempo per il dialogo e per
l’arricchimento della persona?

La
psicoterapeuta Rosa Napolitano, specializzata in psicoterapia familiare e
sistemica e socia dell’associazione torinese «Il Melo», ha una sua opinione in
merito: «La capacità di espressione orale dei bambini passa attraverso
l’alfabetizzazione delle emozioni. I bambini di oggi non conoscono e non sanno
rapportarsi con i tempi vuoti della loro esistenza. Alfabetizzarli alle
emozioni, promuovendo percorsi laboratoriali nelle scuole, favorisce il loro
dialogo con sé stessi e con gli altri. Coinvolgere il bambino nella lettura
della sua emotività, significa farlo uscire dal racconto sterile su “quante
cose si sono fatte” e introdurlo nella sfera del suo io, fondamentale perché si
conosce e sappia instaurare un rapporto dialogico più autentico e profondo con
il mondo circostante».

Scuola e società :
l’insegnante di oggi è un perdente?

Per raccontare la scuola occorre
avee fatta esperienza, contestualizzata, introiettata, vissuta da
protagonisti e non solo da spettatori. Karim Metref, educatore, scrittore e
giornalista di origine algerina, ha insegnato educazione artistica in una
piccola comunità rurale dell’Algeria e ha successivamente sperimentato, come
formatore, la nostra scuola. Gli chiediamo uno spaccato su questi due mondi.

«Ho insegnato in Algeria per circa
10 anni, dal 1989 alla fine degli anni ’90. In quell’epoca il maestro era
abilitato quasi interamente all’educazione del figlio; la famiglia poneva una
fiducia completa in quella missione che non riguardava solo la trasmissione del
sapere ma anche la capacità di stare al mondo e di destreggiarsi abilmente
nelle relazioni e in società. Quando sono arrivato in Italia, tramite i
movimenti per la pace, mi sono specializzato come educatore e animatore
interculturale nelle scuole. Sotto l’accezione di “educazione alla pace” si
situano molti insegnamenti che vanno dal lavoro sull’ascolto, di se stessi e
degli altri intorno a noi, alle attività che educano a un atteggiamento più
cornoperativo e non competitivo, di dialogo e non di scontro. In questa veste
sono entrato nelle scuole italiane e ho avuto modo di osservare una realtà
complessa che rispecchia lo status della nostra società. Se, nelle zone rurali
dell’Algeria, il rapporto con le famiglie era delegante e rispettoso al tempo
stesso, qui si è assistito via via a uno scivolamento dei ruoli e una presa di
posizione delle famiglie nei confronti della scuola. Se il modello riproposto
dai media è quello dell’uomo vincente in quanto “abbiente”, è ovvio che
l’insegnante non può che perdere in partenza tutto il suo appeal. La
società dell’avere ha scalzato quella dell’essere e la scuola non è altro che
l’immagine riflessa di tutto ciò che esiste all’esterno. Sia in Italia che
nelle zone urbane dell’Algeria, la scuola è il simulacro della vita reale con
tutti i suoi meccanismi competitivi e discutibili, a partire dalle valutazioni
che si basano sul risultato finale e non tanto sul percorso fatto».

In Lettere dalla Kirghisia,
un libro di Silvano Agosti, si ritrae un prototipo di scuola ideale: palestra
di crescita dove non esiste il giudizio fine a se stesso ma la considerazione
dell’individuo sulla base della sua intelligenza (di qualsiasi genere essa
sia), della sua umanità, sensibilità e delle sue esperienze autentiche. Una
scuola senza etichette, delle persone e basta.

Quale scuola sogna Karim Metref per
il futuro? «La scuola deve essere di inclusione. “Di inclusione” vuol dire che
si sforza di includere tutti. Senza rinchiudere i figli degli stranieri in una
specie di ghetto detto della multi o dell’intercultura».

«La scuola è la scuola di tutti. Il
suo obiettivo primario deve essere educare la persona a stare nella società, a
migliorare il proprio livello culturale e sociale. Deve riprendere a giocare
quel ruolo di ascensore sociale per il quale è stata pensata. Per far ciò deve
dare di più a chi ha di meno e meno a chi ha di più. “Non c’è nulla che sia più
ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali” diceva Lorenzo Milani nella sua
Lettera ai giudici. Chi è socialmente svantaggiato deve essere
compensato dalla scuola. Chi ha difficoltà di apprendimento deve essere
aiutato. Questo aldilà delle origini o delle appartenenze culturali».

Gabriella Mancini


La scuola dell’Ufficio pastorale migranti, a Torino


A lezione da suor Lidia

Usciamo
dalle aule della scuola tradizionale per calarci in quelle particolari della
scuola di lingua italiana, per adulti di ogni nazionalità ed età, tenuta
dall’Ufficio pastorale migranti (Upm). Arriviamo alla sede di Torino nel cuore
della mattinata. La vitalità e il fermento caratterizzano questo luogo fuori
dall’ordinario, denso di un’atmosfera cosmopolita e piena di umanità. Da un
lato la scuola offre accoglienza agli immigrati e dall’altro si occupa di
insegnare l’italiano come strumento di integrazione nella società di arrivo.
L’istituto è suddiviso in tre sezioni e alterna gli insegnamenti al mattino e
al pomeriggio per tutti i giorni della settimana, considerando i pre-requisiti
dei singoli iscritti e formando così delle classi specifiche per ogni necessità.
Una volta alfabetizzati, gli allievi possono iscriversi nei Ctp (Centri
territoriali permanenti) per conseguire il diploma di scuola secondaria di
primo grado (licenza  media) e iniziare
percorsi di professionalizzazione. Secondo i dati statistici (Dossier 2012
Upm Arcidiocesi di Torino
), il totale degli iscritti era 1.031, di cui il
29% relativo ai richiedenti asilo. La provenienze maggiori riguardano l’Africa
settentrionale, quella sub-sahariana, l’America centrale/meridionale e l’Europa
Orientale .

 In questo
microcosmo incontriamo suor Lidia, responsabile della scuola di italiano. Suor
Lidia, sorella delle Figlie di Maria Ausiliatrice (conosciute come missionarie
salesiane), ha  vissuto 24 anni in
Tunisia, lavorando e insegnando in una scuola con 600 alunni musulmani. Nel
2010 è tornata in Italia e ha  iniziato
la sua missione all’interno dell’Upm. È una piccola-grande donna che, con fare
dolce e deciso al tempo stesso, ci regala qualche fotografia di ciò che accade
in questa scuola «altra»: «Qui, ogni anno la scuola cambia aspetto. Il bacino
di utenza è sempre diverso a seconda delle situazioni politiche delle
differenti nazionalità. In questo periodo abbiamo molti rifugiati dal Pakistan,
dall’Afghanistan e dalla Turchia. Rispetto agli anni passati, si avverte
inoltre una femminilizzazione dell’istruzione. Le dinamiche sono differenti da
quelle della scuola “classica”: attraverso l’insegnamento della lingua italiana
ci si prende cura della persona, la si orienta a livello pratico, cercando di aiutarla
a districarsi nelle tante difficoltà che comporta una nuova vita. Molti di loro
non hanno un’abitazione e passano la notte nei dormitori pubblici, arrivando
qui al mattino non solo per “apprendere”, ma anche per ricevere calore. Il
rapporto con gli insegnanti, che svolgono un servizio volontario, non rientra
nei canoni di quello istituzionale. I docenti si pongono con rispetto e spirito
di adattamento nei confronti degli studenti e questi ultimi riconoscono in loro
il senso dell’atto gratuito e ne sono profondamente grati. Si crea spesso una
rete di collaborazione e amicizia». In questa scuola «oltre la scuola», quanto
interviene la fede e la spiritualità nel processo di maturazione di ogni
singola persona? «Per i volontari credenti la spiritualità è la molla
fondamentale che rompe le barriere tra noi e gli altri. Per quelli laici
interviene invece spesso un senso di giustizia che li fa muovere in nome
dell’integrazione. Lo studio della lingua italiana diventa  strumento per imparare a rispettare le altre
culture e religioni. In questa palestra di vita, gli  studenti 
imparano in fretta che la loro libertà finisce dove inizia quella di un
altro e tutto ciò mette in atto un meccanismo di crescita profonda. Come
sosteneva Don Bosco, la prevenzione è alla base della nostra missione. Una
missione che passa dall’apprendimento ma mira all’integrità della persona, alla
trasmissione della fiducia, della condivisione e della reciprocità. La cura è
l’esatto opposto dell’indifferenza ed è quello che cerchiamo di trasmettere ai
nostri allievi, nel rispetto delle personali religioni di cui facilitiamo la
pratica indirizzandoli nei luoghi di culto giusti». 

Suor Lidia ci accompagna nelle aule dell’Ufficio
pastorale migranti. Lavagne e penne rosse non mancano, ma qui quello che fa la
differenza sono le storie di ogni persona, il cammino che c’è alle spalle di
ognuna di loro e il sogno che la fa andare avanti. In questo paradigma
inconsueto, gli insegnanti non impartiscono solo lezioni ma devono saper
vestire i panni degli educatori, degli amici e degli psicologi. In una sfida
che supera le barriere della nazionalità.

Gabriella Mancini
 

Gabriella Mancini




Scuola 1 – Dov’’è finita la penna rossa?

Italia / Breve viaggio nella nostra scuola


Senza scuola non c’è futuro.

Tutti parlano (giustamente) dell’importanza della scuola. Ma
che sta succedendo nella realtà? Perché in Italia tutti i soggetti coinvolti in
prima persona – gli insegnanti, i ragazzi, i genitori – si lamentano?

Ore
7,30 del mattino, suona la sveglia e Marco (nome di finzione), 8 anni, inizia
la sua nuova giornata. I ritmi sono serrati perché il tempo è sempre troppo
poco. A scuola ci si arriva rigorosamente in automobile, senza parcheggiare.
Una sosta in doppia fila e un bacio di corsa. Questa immagine non corrisponde a
quella (fasulla) del Mulino Bianco, ma è l’ordinarietà di quasi tutte le
famiglie italiane. Il tempo pieno della scuola primaria si dilata e, a fronte
delle multi-esigenze lavorative dei genitori, raggiunge le 10 ore quotidiane.
Il rientro a casa è alle 17, se va bene, oppure dopo le 19,00 se a riempire il
pomeriggio dei bambini è una delle tante attività di intrattenimento. Sebbene
il tempo pieno della scuola primaria rimanga una conquista fondamentale per
garantire ai genitori la possibilità di lavorare, questa dilatazione del
tempo-scuola crea stress e stanchezza nei bambini di oggi. Tutto il contrario
di ciò che accade nel film-documentario di Pascal Plisson, Vado a scuola,
in cui quattro diversi bambini in quattro paesi del mondo compiono
quotidianamente chilometri per poter accedere all’istruzione. Figure vere e
poetiche al tempo stesso che regalano agli spettatori il senso della fatica e
dell’educazione come forma di riscatto sociale. L’immagine di un cammino lungo,
ma pieno di significato.

Che
strada sta intraprendendo la scuola in Italia? I media ci raccontano di
un’istituzione con molti problemi. Tra i tanti, ricordiamo: i pochi
investimenti, i risultati insufficienti degli apprendimenti, la cospicua
burocratizzazione, le nuove direttive e
l’inclusione dei 760.000 studenti di cittadinanza non italiana con tutte
le varie conseguenze sulla gestione multiculturale.

Nel marasma tecnico e gestionale c’è un aspetto epocale
che necessita di una lente di ingrandimento: la scuola sembra essersi svuotata
di senso. Don Ermis Segatti, docente di Storia del cristianesimo e di Teologie
extraeuropee presso la Facoltà teologica di Torino, ritiene che la scuola abbia
perso la propria «appetibilità». «Il senso più profondo della scuola – spiega
Segatti – si accompagna al sacrificio. In una società che ha trasformato
l’istruzione in un fenomeno accessibile a tutti e ha reso “universalizzata” la
cultura, l’effetto di ricaduta si ha nel depotenziamento e nella perdita di
appetibilità della stessa. Il macroscopico errore pedagogico e culturale è
quello di chiedere alla scuola di riempire un sempre maggiore vuoto
esistenziale. Nasce in questo modo il mondo effimero dell’intrattenimento il ludus
mundi
tra le mura della scuola, che si veste così di quel fittizio da cui
andrebbe invece sgravata».

Entrare «dentro la scuola» e capie l’evoluzione e il
futuro che intende riprogettare, significa anche fare una disamina sulla nostra
società attuale. Con le parole di Virginio Pevato, 20 anni di esperienza come
docente e altrettanti come direttore di Scuola dell’infanzia: «La scuola
rispecchia una società in crisi di valori. Non ci sono pensieri  forti capaci di trasmettere sicurezza e i
modelli esportati  dai mass media sono
caratterizzati dall’apparire e non dall’essere. La famiglia, prima agenzia formativa,
ha mutato le sue caratteristiche assumendo contorni sempre più fragili: la
figura patea si è indebolita e le nuove forme di famiglia allargata hanno
potenziato un graduale disorientamento dei giovani. Ne consegue
un’inarrestabile perdita di credibilità nei valori dell’educazione».

In una sorta di liquefazione identitaria dei ruoli,
anche l’autorevolezza dei docenti è venuta meno, alla mercè di famiglie sempre
più pretenziose e al contempo deleganti. Ma come, e perché, si è giunti a
questo quadro antropologico? 

Se il sistema scolastico attuale rispecchia la nostra
società capitalista e fa dei nostri ragazzi tanti meri consumatori, come si può
mettere in campo una «rivoluzione» che miri a formare persone libere e
pensanti, come sosteneva Don Milani? 

Ricostruire il senso dell’istruzione in una società del «non
senso» appare un’impresa titanica, eppure c’è una schiera di professionisti
dell’educazione per cui vale ancora l’aforisma di Eleanor Roosevelt: «Il futuro
appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni». Per
rispondere a qualche domanda, siamo andati a incontrarli.

Gabriella Mancini

Un bambino, un insegnante,
un libro, una penna
possono cambiare il mondo. […]


Non mi importa di dovermi
sedere sul pavimento a scuola.


Tutto ciò che voglio è istruzione.
E non ho paura
di nessuno.

Malala Yousafzai, 16 anni, candidata


al Premio Nobel per la Pace 2013.

 

LE QUESTIONI

• Quale «educazione» sta trasmettendo la nostra scuola?
• Come si può tradurre in realtà la lezione di Don Milani e
formare persone libere e pensanti?
• Quando e perché la figura del docente è diventata meno
autorevole?
• Come mai in Italia non viene compresa l’enorme portata del
multiculturalismo e del plurilinguismo?
 

Gabriella Mancini




Cari Missionari

Avorio e Religiosità

Se è vero che ciò che accade nella Chiesa particolare
riguarda la Chiesa universale, dopo aver letto (M.C. n.10/2013, p.8) che
è stata la Chiesa filippina a convocare la Conferenza asiatica per la Nuova
Evangelizzazione, mi piacerebbe domandare al Primate S. E. Mons. Luis Antonio
Tagle, arcivescovo di Manila nonché cardinale elettore nel Conclave che ha
scelto Papa Francesco, se le scelte compiute dal nuovo pontefice per quanto
riguarda addobbi, decorazioni, suppellettili sono destinate a restare, in Asia,
lettera morta, oppure stimoleranno anche i cattolici dell’Estremo

Oriente, a cominciare da quelli delle Filippine, a
intraprendere un cammino di rinnovamento all’insegna della sobrietà, della
frugalità, della ragionevolezza.

Sono rimasto molto male, leggendo un non certo tenero ma
documentatissimo dossier del National Geographic (cfr. N. Geographic Italia Ottobre 2012), che «in
Asia la domanda di avorio è cresciuta», che «l’avorio sequestrato è ben poca
cosa rispetto a quello che arriva a destinazione», che nella cattolicissima
Manila «i principali clienti sono i preti», che «i principali fornitori sono
filippini musulmani che hanno legami con l’Africa o musulmani malesi», che «nell’isola
di Cebu il legame tra avorio e religione è così stretto che la parola garing
= avorio, significa anche statua sacra…», che «il Vaticano non ha mai firmato
la Cites – Convenzione internazionale
sulle specie in pericolo – dunque non è tenuto a rispettare il
bando del commercio dell’avorio», che persino i cattolici filippini
appartenenti ai ceti meno abbienti considerano il possesso di santi bambini
d’avorio, madonne d’avorio, crocifissi con Cristo d’avorio fondamentali per la
fede, per la preghiera, per la vita cristiana. Vorrei chiedere ancora a Mons.
Tagle: di quanti garing hanno ancora bisogno le chiese e le case
filippine? Se l’avorio è così importante per la liturgia e il culto, che
succederà alla cristianità delle Filippine quando di elefanti asiatici con le
zanne non ne sarà rimasto neppure uno e gli unici elefanti africani
sopravvissuti saranno quelli degli zoo e dei circhi?

Come fanno i vescovi, i preti e i laici filippini a non
sentire alcun senso di colpa quando apprendono di massacri di elefanti […]?
Come si fa a non capire che bisogna rivedere anche il rapporto con gli oggetti
di culto – e, segnatamente, quelli in avorio – se si vogliono salvaguardare i
diritti delle future generazioni. Invece di ambire al possesso di altri garing,
non sarebbe meglio accontentarsi di quelli che già si posseggono? Non sarebbe
più ragionevole e più cristiano riconoscere che sono già tanti?

Grazie
per l’attenzione.

Francesco Rondina
Fano, 19/10/2013

Caro Francesco,
poiché lo spazio è tiranno, ho dovuto tagliare parte della lettera, mantenendo
le questioni essenziali. Concordo con buona parte delle sue osservazioni e mi
auguro che lo stile di papa Francesco abbia un influsso positivo sul problema
da lei posto. Mi permetto però di sottolineare alcuni punti.

1. La relazione tra il fatto che il Vaticano non abbia firmato il
Cites e il «consumo» d’avorio dei filippini non è logica. La firma della
convenzione da parte dello stato del Vaticano avrebbe un peso esclusivamente
morale e non legale sui filippini. Più rilevante per loro è la firma della
convenzione da parte delle Filippine. Tocca infatti alle Filippine
regolamentare il commercio dell’avorio nel proprio territorio, non al Vaticano.
L’associazione del Vaticano (stato) con la Chiesa Cattolica, è un abbinamento
che va molto a orecchio, che può suonare bene per la stampa popolare, ma non
regge all’analisi obiettiva dei fatti.

2. Anche stabilire un rapporto di necessità
tra statue d’avorio e liturgia cattolica è arbitrario. Non è la religione
cattolica che ha creato il bisogno dei garing, anche se essa ha
accettato una tradizione culturale comune a quasi tutte le culture orientali
che da millenni fanno uso dell’avorio nella produzione di oggetti religiosi,
forse proprio per la qualità intrinseca del materiale stesso: raro, prezioso e «puro».
Che oggi si possa e si debba invitare i cattolici delle Filippine a un uso più
cosciente e ragionato di tali oggetti, è indubbio. Che ci sia un nesso tra la
forte richiesta di questi oggetti e lo sterminio degli elefanti, è un fatto che
non contesto. Ma le statue d’avorio non sono proprie né necessarie al culto
cattolico. Sono frutto di una religiosità popolare che si radica in una cultura
che esisteva ben prima dell’evangelizzazione di quelle isole nel XIV secolo.

Due euro per il mare

Leggendo il pregevole articolo di Paolo Bertezzolo (M.C.
n.11/2013, p.68-71
) sulla nuova moneta da 2€ dedicata ai Santi Cirillo e
Metodio, ho pensato che quello scoppiato tra Francia e Slovacchia non è solo un
contrasto tra due modi diversi di intendere il rapporto tra politica e
religione.

Nel
IX secolo Cirillo e Metodio furono dei formidabili evangelizzatori, mediatori e
unificatori che cercarono, riuscendoci, di prendere il meglio di ogni tradizione,
lingua e cultura. Lavorarono sodo per amalgamare germanici e latini, cristiani
d’Oriente e d’Occidente, genti slave del Nord e del Sud, popoli delle grandi
selve e popoli a vocazione marinara. Diedero un alfabeto e una scrittura agli
Slavi traducendo in una lingua nuova Bibbia e Liturgia Cattolica, difesero il
loro metodo di evangelizzazione dalle velleità egemoniche del clero tedesco
che, a un certo punto, si rivolse addirittura alla Santa Sede per togliere di
mezzo i due fratelli greci. Il Papa Adriano II però non solo frustrò le
aspettative di quei tedeschi superficiali e invidiosi, ma assicurò tutto il suo
sostegno all’opera di Cirillo e Metodio.

Agli
amici della Slovacchia, uno dei pochi paesi di Eurolandia a non avere sbocchi
sul mare, e a tutti coloro che hanno voce in capitolo quando si tratta di
ideare, approvare ed emettere nuovi conii, vorrei dare un suggerimento: in una
delle prossime monete da 2€ fate effigiare una tartaruga, un tonno, un pesce
luna, un delfino, uno squalo elefante…

Tale scelta potrebbe essere il segno di una rinnovata
volontà di tutti i popoli europei a procedere sulla strada della protezione
ambientale, rompendo con la linea seguita fin qui da Bruxelles per quel che
riguarda tutto ciò che ha a che fare con il mare, dalla pesca al turismo, dalla
balneazione alla pirateria, dal contrabbando al soccorso dei naufraghi, dalla
perforazione petrolifera al trasporto di sostanze tossiche.

È una
linea che non si concilia in alcun modo con le istanze di giustizia e di pace
ma neanche con quelle della serietà, dell’efficienza, del buon senso, del
rigore e del risanamento dei conti pubblici.

[…]
Vi ringrazio per l’attenzione e Vi saluto cordialmente.

Maria Weistroffer
Bordeaux, 24/11/2013

780.000 bottiglie di plastica

Carissimi,
forse lo avrete già dimenticato, ma il «Cristo de los Desterrados» (M.C.
n.1-2/2012, p.5
) continua a farsi strada e già si è incamminato e vuole
benedire, proteggere e farsi promotore di questo brandello di foresta dove «los
niños ecológicos en acción», contro vento e marea, vogliono dimostrare che una
spiaggia più pulita è un’alternativa al solito menefreghismo di molti e
scetticismo dei più, ed è la strada giusta per crescere senza perdere la
propria identità culturale indietreggiando come un gambero, e per continuare a
scavare come «armadillos».

Intanto 780.000 (settecentoottantamila) bottiglie sono già state
infilzate e circondano i 3000 m2 del
piccolo parco giochi dove la storia di Pinocchio con balena a dimensione
naturale (fatta di bottiglie) con Geppetto nel suo pancione saranno
l’attrazione principale. Intanto il parco sfoggia già il suo stupendo arco
d’ingresso. Direte: dove avete preso quelle 780.000 mila bottiglie? Sulla
spiaggia dell’Oceano Pacifico, naturalmente! E ce ne sono ancora di più. La
raccolta è stata fatta dai bambini e ragazzi, premiati con un centesimo di euro
a bottiglia, soldini che son loro serviti per comprarsi libri e quadei di
scuola oltre che i deliziosi dolci di noce di cocco per completare la loro
povera colazione. La cosa più bella è stata l’esclamazione spontanea di uno dei
ragazzi: «Questo me lo sono guadagnato io!». Che ve ne pare? Pinocchio comincia
a farsi uomo e a capire che in questo mondo «il sudore della fronte» aiuta a
crescere e che è vero ciò che afferma San Paolo quando dice ai suoi
Tessalonicesi fannulloni e molto indaffarati in chiacchiere «che chi non vuol
lavorare, neppure mangi».

Intanto
il piccolo parco ha già pure la sua minuscola cappella da dove un altro pezzo
di legno, lavorato da Ariel, il modesto artigiano tutto fare, sfoggia il Cristo
benedicente, portatore di pace e armonia.

P. Vincenzo Pellegrino
 Cali, Colombia

«Sono» troppi

Lampedusa:
ho visto qualche lettera sulla Rivista. Ma il dato essenziale non viene
evidenziato né lì né altrove. L’Africa contava circa 30 milioni di umani a metà
dell’Ottocento, ora ne ha un miliardo! E con un tempo di raddoppio di 30 anni.
Qui sta il vero problema a monte. Nel frattempo è stato distrutto il 90% degli
altri esseri senzienti (altri animali, piante, ecosistemi) e il processo
continua senza sosta. Se non cessa il mostruoso aumento della popolazione
umana, in quasi tutto il mondo, è evidente che tutti i problemi sono insolubili
e si aggravano sempre più. Non basta dare la colpa «alle multinazionali», al
colonialismo e simili, queste sono solo concause, aggravamenti di una
situazione e di un andamento assolutamente insostenibili. Vi allego un
interessante articolo pubblicato 20 anni fa (che non riportiamo per ragioni di
spazio, ma si può trovare sul sito de La Repubblica, 11/6/1994: Orazio della
Rocca, Guerra delle culle in Vaticano. In esso si sosteneva che anche
l’Accademia Pontificia raccomandava un rilassamento nell’opposizione totale al
problema del controllo delle nascite, ndr). In questo lasso di tempo la
popolazione umana nel mondo è aumentata di due miliardi di umani! Ma come
pensate che si possa andare avanti così? Inoltre, togliere lo spazio vitale
agli altri esseri senzienti è moralmente condannabile, è un delitto. Qui si sta
distruggendo la Terra. Distinti saluti.

Albino Fedeli
Brescia, 7/10/2013

Caro Albino,
su queste pagine abbiamo dibattuto più e più volte sul problema della (sovra)
popolazione (Vedi: M.C. n.1-2/2013, p.7; 3/2013, p.7). Qui mi permetto
di sottolineare alcuni punti circa la Chiesa, implicati dal riferimento
all’articolo de La Repubblica.

La Chiesa,
ritiene sì che i figli sono un dono e che ogni vita va rispettata fin dal
concepimento, ma non sostiene il principio che bisogna fare figli a tutti i
costi. Da anni (almeno 50), nella sua dottrina sociale, insiste su pateità e
mateità responsabile, promuovendo metodi e stili rispettosi della vita e
attenti all’ambiente. È vero che Essa si è sempre opposta all’aborto, alla
sterilizzazione, all’uso di pillole abortive e di altri strumenti che
favoriscano il sesso indiscriminato e irresponsabile fino dall’adolescenza
(ampiamente sostenuti invece da potenti e danarose lobby anche intee all’UE,
vedi ad esempio il documento «Standards for Sexuality Education in Europe»
promosso dalla sezione europea dell’OMS). Ma ritenere la Chiesa responsabile
della crescita demografica perché opposta ai preservativi, è fuori posto.
Sarebbe attribuire a Essa un’influenza che di fatto non ha (e non ha mai
avuto). I fatti sono semplici: la crescita demografica più accentuata è
avvenuta in Cina e in India, dove l’influenza della Chiesa è minimale. In
Europa e America del Nord, dove in teoria il suo influsso era più forte, si è
invece assistito al fenomeno contrario, addirittura alla decrescita della
popolazione. E noi italiani siamo proprio tra i primi al mondo nella decrescita
demografica!

Ben altre sono
le ragioni della crescita della popolazione mondiale, in primis il
grande e positivo sviluppo della medicina, che ha drasticamente ridotto la mortalità
infantile e allungato (anzi, quasi raddoppiato in molti paesi) la vita media. È
un male questo? Non credo proprio. È un fatto che ci chiama a maggior
responsabilità verso questo nostro fragile mondo. E questa responsabilità
comincia con la giustizia nell’uso delle risorse e dell’ambiente. Dio ha un
progetto di armonia per il creato: armonia tra «esseri umani», «esseri
senzienti» e natura. E Lui è il garante di questa armonia.

«Ferie» diverse a Ikonda

Fare
del «volontariato» in un ospedale missionario a Ikonda in Tanzania durante il
proprio periodo di «ferie». È quello che hanno fatto due giovani gambettolesi
dal 26 agosto al 19 settembre scorso, Nicolò Pistoni, ventottenne laureato in
Ingegneria Biomedica, e Sofia Pedrelli, ventenne laureanda in Educatore
Professionale. […] Conosciamoli attraverso il racconto dell’esperienza
vissuta nel continente africano.

Come e per quali ragioni avete deciso di fare un’esperienza
missionaria? Perché in Africa e in questo particolare ospedale?

«Da
tempo collaboro con i Missionari della Consolata che a Gambettola hanno un
centro missionario (ex seminario) con annesso Santuario – precisa Pistoni – per
organizzare raccolte fondi destinate al sostentamento dei diversi centri che
questo Istituto ha realizzato in tutto il mondo: dalle missioni in Colombia,
Venezuela e Mozambico gestite da Missionari miei compaesani all’Allamano
Special School di Wamagana (Kenya) in cui trovano ricovero decine di bambini
portatori di handicap mentali e fisici. L’input di
partire per questa destinazione è venuto da padre Sandro Faedi, allora
vicesuperiore in Italia e ora in Mozambico. Dopo avergli raccontato della mia
carriera universitaria, mi ha proposto di dare una mano concretamente in uno
dei tanti ospedali sparsi nel mondo nei quali, ogni giorno, si dà conforto e si
presta soccorso alle popolazioni più povere. Fra le tante possibili
destinazioni la scelta è ricaduta sul Consolata Hospital di Ikonda in Tanzania,
paese nel quale è stato per molti anni anche l’attuale superiore della casa di
Gambettola, padre Daniele Armanni. Quell’ospedale è ora una delle strutture più
grandi e attrezzate realizzate in Africa dall’Istituto Missioni Consolata. A
Ikonda ho prestato servizio come tecnico nel reparto di radiologia e ho messo a
disposizione le mie conoscenze a chi fa questo stesso lavoro e non ha avuto una
preparazione specifica e strutturata come la mia grazie al tirocinio prima e al
volontariato poi, fatti in gran parte nell’ospedale Bufalini di Cesena in tutti
i reparti di radiologia, a Rimini in Radioterapia e a Forlì in Medicina
Nucleare». «Contattata, ho deciso di condividere questa nuova esperienza di
volontariato – afferma Pedrelli -, che l’anno scorso ho svolto a Skutari
(Albania) in una casa famiglia dell’associazione Papa Giovanni XXIII. Ho
prestato aiuto nella farmacia intea e in alcune giornate ho fatto
l’animatrice presso l’asilo. Rimarrà indelebile il ricordo dello stupore dei
bambini quando ho fatto imprimere le impronte delle loro mani su un foglio di
carta dopo averle colorate».

Cosa vi ha lasciato questa esperienza?

«C’è un antico proverbio cinese che riesce a descrivere al
meglio questa missione umanitaria: “Dai a un uomo un pesce e lo avrai sfamato
per un giorno. Insegna a un uomo a pescare e lo avrai sfamato per tutta la vita”.
È quanto abbiamo fatto quotidianamente per affrontare il contatto con una realtà
tanto diversa – confermano all’unisono -, sia dal punto di vista culturale (lo
swahili è un ostacolo arduo da superare, segnando in un quaderno le parole
essenziali per svolgere il lavoro), sia dal punto di vista ambientale (a oltre
2000 metri di altezza in una delle aree più povere della Tanzania). Ostacoli
che sono stati superati donando per tre settimane tutto di noi, con il sorriso
negli occhi e nel cuore, tutti i giorni, condividendoli con tutti. Quanto
sperimentato ci aiuterà senzaltro a vivere meglio le realtà in cui siamo
inseriti».

Piero Spinosi
Gambettola (CE)

Risponde il Direttore




Santa Audacia

«Dacci la santa audacia di cercare
nuove strade | perché giunga a tutti | il dono della bellezza che non si spegne»
(Francesco, preghiera finale dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium).

Mi piace questo invito alla «santa audacia». Ne abbiamo proprio
bisogno, perché nel vivere la nostra fede ci siamo davvero appiattiti. Chiamati
alle vette, pensiamo invece che le belle colline su cui viviamo siano anche
troppo impervie per le nostre deboli gambe.

È coraggioso che Francesco metta insieme gioia, bellezza e audacia,
tre dimensioni dell’essere cristiani che sembrano sparite dal nostro dizionario
e da tutto quello che esprime la nostra fede. Basti pensare a molte delle
chiese costruite alla fine del secolo scorso, spesso livellate da
un’architettura populista incolore che non ha più neppure l’eco della giorniosa
bellezza e dello slancio audace delle chiese gotiche. Specchio di una fede che
ha perso il sapore, che non osa più.

Ben venga allora il respiro nuovo proposto da Francesco.

Gioia «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro
che si incontrano con Gesù». Sono le prime parole della lunga esortazione.
Quante volte ci è stato detto che noi cristiani non siamo più tali perché non
abbiamo gioia, anche se diciamo di credere nella Risurrezione. Ci siamo ridotti
come i discepoli di Emmaus in fuga da Gerusalemme. Viaggiamo nella vita a capo
chino, quasi vergognandoci di quello cui crediamo, abbagliati dalle mille luci
della ribalta del mondo. «Non ci ardeva il
cuore in petto?», domandano a se stessi i discepoli dopo l’incontro con Gesù.
Il cuore  che arde, pieno di gioia:
quante volte sentiamo davvero la gioia di essere di Cristo? Quante volte questa
gioia si riversa nelle nostre relazioni, negli incontri, nel lavoro, nella
scuola, nel tempo libero?

Bellezza  Abituati a una bellezza che si ottiene tramite lunghi trattamenti
di make-up, estenuanti esercizi di fitness, diete specializzate e
ritocchi al computer, ci siamo dimenticati che bellezza è semplicità,
innocenza, purezza e soprattutto verità. Come Dio, semplicità e bellezza
assoluta: «Dio è Amore». E basta. Eppure noi stessi abbiamo opacizzato questa
bellezza con il nostro essere cristiani pieni di contraddizioni e paure, con la
nostra mediocrità e con i nostri scandali. Noti e ben pubblicizzati sono quelli
della Chiesa gerarchica, ma i cristiani ordinari sono davvero immuni dal dare
scandalo?
Aprirsi alla bellezza è accettare la sfida della verità, dell’amore e
della libertà. «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile,
onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri
pensieri» (Fil 4,8).

Audacia  È chiamata al coraggio e alla creatività, alla sobrietà generosa
(l’unica cosa che si può sprecare è l’Amore!) e all’uscire verso gli altri,
alla fiducia piena di speranza e al camminare insieme. È osare la pace. È
praticare l’accoglienza, non solo quando c’è abbondanza, ma anche quando
bisogna stringersi un po’ e si deve condividere dallo stesso magro piatto.

Audacia è il coraggio di confrontarsi con la Parola per decodificare
le menzogne sublimate a verità dagli urlatori di tuo, dai magnati rifatti e
ritoccati o dai guru della pubblicità. Audacia è il dire no alla pressione del
gruppo, della gang, della curva, degli amici, della moda, del politicamente
corretto, del sentito dire. Audacia: per reinvenatare il proprio essere
cristiani a immagine di Cristo.

Bellezza, gioia e audacia: che queste tre parole diano sapore al nostro «pellegrinare»
nel 2014.

Gigi Anataloni




San Martin de Porres

San Martin de Porres (Lima, Perù,
1579-1639) appartiene a quella generazione di santi latinoamericani che, al di
là delle efferatezze dei conquistadores, furono attratti dal messaggio del
Vangelo e dalla tenerezza di Cristo. Egli mise in pratica tutto ciò che il
maestro di Nazareth aveva insegnato, a partire dalle condizioni sociali, dallo
stato di vita e dalla situazione storica in cui si trovava. Il santo mulatto
peruviano si distinse praticando accoglienza e carità e, con modi discreti ma
incisivi, rivendicò giustizia ed equità per gli emarginati del Perù coloniale.
Egli dedicò tutta la sua vita ai poveri.
Pio XII nel 1945 lo proclamò
patrono della Giustizia Sociale e da Giovanni XXIII venne elevato alla gloria
degli altari il 6 maggio del 1962, mentre Paolo VI lo nominò patrono dei
barbieri e parrucchieri.

Martin, che bello avere a che fare con santi come te. Ci si
sente subito a proprio agio con una persona solare e gioviale come sei stato
lungo tutta la tua vita in Perù.

Il
dono del mio carattere mi fu di grande aiuto fin dall’inizio della mia
esistenza, che non fu né semplice né facile, ma grazie a mia mamma imparai come
sorridere al mondo nonostante le avversità che ti crollano addosso.

Già, dimenticavo, fin dalla nascita non ti furono risparmiate
difficoltà e incomprensioni.

Infatti
sono figlio di Juan de Porres, un aristocratico spagnolo approdato in Perù in
cerca di fortuna, e di Ana Velazques, una ex schiava di origine africana.
Segnato perciò fin dal primo giorno che venni alla luce come un bambino che di
fronte alle leggi del Vicereame spagnolo, risultava illegittimo, nato cioè
fuori dal matrimonio cristiano, in più ero diverso in quanto mulatto. Questa
situazione creò in me un mestizaje (meticciato) fra razze e culture
diverse.

Anche la burocrazia pesò non poco sulla tua vita. Non è vero?

Certo.
Fui registrato nella Chiesa di San Sebastiano di Lima come «figlio di padre
ignoto» perché mio padre non volle riconoscere né me né la mia sorellina. Ci
vollero diversi anni e una sua permanenza in Ecuador perché al ci riconoscesse
come carne della sua carne.

Quindi si può dire che tutto si appianò?

Direi di sì, anche dopo qualche anno mio padre fu
nominato governatore del Panama e ci lasciò a Lima con la mamma alla quale, però,
aveva dato le risorse necessarie per le nostre esigenze di vita.

Rimasto solo con tua mamma e tua sorella, che facesti nella Lima
coloniale, capitale del Vicereame del Perù?

Mia
mamma mi mise a bottega da un barbiere perché imparassi il mestiere. I barbieri
a quei tempi erano anche un po’ dentisti e chirurghi e ciò che appresi in
quella bottega (tagliare i capelli, fare la barba, strappare i denti, incidere
bubboni infetti, ecc.) mi toò molto utile in seguito, quando dovetti
risolvere un’infinità di casi che necessitavano del medico, che ovviamente non
era possibile trovare. E io con le conoscenze che avevo acquisito mi trovai a
operare in un settore dove non c’era molta concorrenza.

Avevi pertanto un avvenire garantito con queste tue nozioni
sanitarie e praticità «chirurgiche».

Sì, però fare il cerusico, il barbiere o il cavadenti non mi
appagava fino in fondo, sentivo dentro di me un richiamo molto più intimo e
suggestivo. Il Signore lavorava nella mia coscienza e rendeva il mio cuore
sempre più inquieto. Ogni giorno che passava capivo sempre più che mi voleva
totalmente per Lui.

Fu in questo periodo quindi che decidesti di diventare frate
domenicano?

Proprio così. Questo grande Ordine della Chiesa, fondato da San
Domenico di Guzman, che ha il carisma della predicazione del Vangelo al popolo
e che ha in San Tommaso d’Aquino il suo esponente più illustre, mi attirava
proprio perché aveva come caratteristica quella di non lasciare nessuno
nell’ignoranza. Anzi, in un certo qual modo, i Domenicani si rivolgevano
proprio a quella fascia e categoria di persone alla quale anch’io appartenevo,
per farla diventare soggetto privilegiato dell’annuncio evangelico.

Fu per te facile entrare nell’Ordine dei Domenicani?

Il
colore della mia pelle non mi aiutava certamente. Tanto ai neri, quanto agli
indigeni, come ai meticci, ai miei tempi non si potevano dare gli Ordini Sacri;
ma io non volevo diventare sacerdote per compiere chissà quali grandi opere, più
semplicemente, volevo consacrarmi al Signore nell’umiltà e nel nascondimento,
cercando di vivere come Lui aveva vissuto a Nazareth, cioè aiutando in casa e
contribuendo al mantenimento della famiglia.

E fu così?

Fin
dal momento in cui all’età di quindici anni entrai nel convento domenicano di
Lima, mi sentii liberato completamente, in quanto ero disponibile a una
consacrazione totale per gli altri. Mi furono affidati la cura della portineria
e i lavori più umili di pulizia della casa e della cucina. E mentre svolgevo
queste mie mansioni, la mia immaginazione spaziava continuamente contemplando i
misteri divini, per cui a livello interiore vivevo un’esperienza straordinaria
d’intimità con il Signore. Allo stesso tempo, svolgendo attività ripetitive,
ero stimolato con la preghiera del Rosario a innalzare la mia mente a Dio, il
che aumentava (non scandalizzatevi) la mia allegria e la mia voglia di donarmi
sempre più alla mia comunità e a coloro che vi ricorrevano per avere un aiuto.

E i Padri domenicani non si accorgevano di queste tue esperienze
mistiche?

Eh
sì. Dopo qualche tempo si accorsero di queste mie singolari particolarità, che
io considero doni del Signore. Mi tolsero dalla condizione subalterna, che vivevo
fin dall’inizio del mio ingresso, e mi accolsero all’interno dell’Ordine dei
Predicatori come fratello cornoperatore.

Questo ti facilitò nel tuo impegno verso i poveri, non è vero?

C’è
da dire che in quel periodo in Perù, come in tutti i territori conquistati
dalla Spagna, era ancora vivissimo il ricordo delle efferatezze che i
conquistadores avevano commesso. Molte persone quindi avevano perso ogni cosa e
vivevano in estrema povertà, così come coloro che erano afflitti da varie
malattie si dirigevano ai conventi, sicuri di avere almeno un pezzo di pane o
una bevanda calda. E puoi ben immaginare che, avendo io sofferto la condizione
di emarginazione per un verso e di razzismo per un altro, ero molto sensibile
verso i poveri che accorrevano a noi.

Non ti limitavi a dare l’elemosina?

No.
Mi diedi da fare per avviare delle opere assistenziali e istituzioni permanenti
di promozione sociale e culturale, destinate a durare nel tempo. Andavo dai
nobili e con franchezza chiedevo aiuti e risorse, non per me, ma per quelli più
svantaggiati. Praticamente non c’era casa di aristocratici che non riceveva la
mia visita e dalla quale me ne andavo a mani vuote.

Il coraggio non ti mancava allora?

Quando
non chiedi per te, ma chiedi per gli altri, puoi andare dal Viceré,
dall’Arcivescovo, dal Goveatore e da tutte le famiglie abbienti, per avere
quello che bisogna ridare ai poveri per giustizia e non per carità. Mettevo
tanta forza di convinzione nelle mie parole, che molti dei nobili si sentivano
privilegiati per essere stati scelti come collaboratori di fra Martin de
Porres!

Quando arrivò la peste in Lima ti desti da fare per lenire le
sofferenze di coloro che erano colpiti da quella grave malattia.

Curai
tutti i miei confratelli e nessuno di loro morì per il terribile morbo, così
come andavo per la città per dare conforto a chi nelle proprie case, sui propri
giacigli, affrontava la fase terminale della malattia. Grazie a Dio questa
tragica situazione passò e si ritoò alla vita normale.

È vero che fondasti il primo collegio per bambini poveri a Lima?

Di
per sé risulta essere il primo collegio a Lima, ma nei fatti è il primo
collegio del Nuovo Mondo. L’istruzione ai figli di coloro che erano esclusi dai
benefici della colonia non poteva essere negata. Insieme a alcuni confratelli
che avevano a cuore l’istruzione dell’infanzia, diedi origine e compimento a
quest’opera che già i miei contemporanei giudicavano meritoria e che con
l’andare del tempo si è rivelata profetica.

Quindi non sei per nulla un santo ingenuo e svagato, con la
testa fra le nuvole, che raccomanda ai topolini di non fare troppi danni in
dispensa e che vive in semplicità facendo i lavori più umili?

Questo
è quello che fa comodo a una presentazione della mia vita secondo canoni
agiografici, che presentano i santi sempre come delle persone che vivono sulle
nuvole e non creano problemi. Papa Pacelli che se ne intendeva di queste cose
volle invece che fossi proclamato «protettore della Giustizia Sociale», un
titolo che mi fa arrossire e inorgoglire allo stesso tempo, ma che rende merito
a tutto ciò che io feci durante la mia vita.

San
Martin de Porres, colpito da violente febbri, muore a Lima sessantenne. Per il
popolo peruviano e per i confratelli è subito santo. Invece l’iter canonico,
iniziato nel 1660, avrà una lunghissima sosta. Sarà Giovanni XXIII a
proclamarlo santo, il 6 maggio 1962. A distanza di anni dalla sua
canonizzazione, la sua figura si erge, semplice e amorevole, come prototipo del
liberatore, anche se egli viene raffigurato non con la spada in mano, bensì
nell’atteggiamento più umile e servizievole di chi, usando con maestria scopa e
ramazza sa mettersi al servizio dei più poveri e bisognosi.

 
Don Mario Bandera, Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Cent’anni donati di cuore Le Missionarie della Consolata in Kenya

Il passaggio
del testimone: è un attimo di concentrazione, di precisione, di passione.
Mentre scrivo, sento di essere io chiamata al passaggio di testimone alle
giovani generazioni, per due motivi. Primo: molto di quello che scrivo l’ho sentito
dalla viva voce di madre Margherita De Maria, la missionaria della prima ora
che nelle belle serate di ricreazione a Sanfré ci raccontava, vibrante di
passione, le prime ore, i primi giorni, le prime spedizioni delle suore
missionarie della Consolata in Africa, in Kenya.

Secondo motivo è quello di
contribuire alla celebrazione del centenario dell’arrivo delle nostre sorelle
in Kenya, io che per anni ho chiamato quella terra «mia patria di adozione».
Con
queste righe voglio rendere omaggio alle tante sorelle conosciute e amate che
ora riposano nei cimiteri di quella terra benedetta.

L’evento

In questa foto (l’originale in bianco e nero è stato
rielaborato da Fraser) ci sono le prime 15 suore missionarie della Consolata
accolte dai missionari della Consolata, dalle suore del Cottolengo (tre,
riconoscibili dalla loro mantellina bianca e lunga) e dai primi cristiani, lavoratori
e bambini della missione di Limuru (probabilmente). Eccole (da sinistra): sr. Rosa Margarino (Portacomaro, At), sr. Filomena Moresco (Barge, Cn), sr. Agnese Gallo (Caramagna, To),
sr. Teresa Grosso (Buttigliera d’Asti, At), sr. Caterina Gemello
(Candiolo, To), sr. Domenica Drudi (Misano, Forlì), sr. Candida
Sandretto (Sparone, To), sr. Margherita De Maria (Dronero, Cn), sr.
Serafina Drudi (Misano, Forlì), sr. Paolina Bertino (Montevideo,
Uruguay), sr. Cristina Moresco (Barge, Cn), sr. Carolina Crespi
(Pogliano, Mi), sr. Costanza Golzio (Castiglione, To), sr. Cecilia
Pachner (Torino), sr. Lucia Monti (Almenno S. B., Bg).

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1913

L’Istituto ha tre anni di
vita. Le suore professe sono 18, le novizie 24, le postulanti 12. Dall’Africa,
e precisamente dal Kenya dove oramai da dieci anni i missionari della Consolata
lavorano, si fa pressione sul Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, nostro
comune Padre, perché mandi le missionarie. Così ecco il 1913 con l’incalzare di
eventi per il giovane Istituto: vestizioni religiose a gennaio, ad aprile, a
maggio, a settembre. In aprile, il giorno 5, le prime professioni religiose
nell’Istituto. «Questo giorno, dice il Fondatore nella conferenza, è da
scriversi a caratteri d’oro».

Dieci sorelle, all’altare,
emettono la loro professione religiosa. Sono le pietre angolari sulle quali si è
innalzato l’edificio delle missionarie della Consolata.

1913, l’anno scorre veloce. Dopo
il traguardo delle prime professioni, il Fondatore annuncia la partenza per le
missioni. Da questo momento, nel Fondatore c’è un solo desiderio: formare le
sue figlie più direttamente a quello spirito missionario di cui Lui aveva tutto
acceso il suo grande cuore.

Madre Margherita De Maria viene
scelta come superiora del primo gruppo delle partenti. Il tempo vola: corsi speciali di
medicina, di inglese, di gekoyo (la lingua dei Kikuyu, come si scriveva
allora, ndr.), di musica; le sorelle visitano regolarmente gli ospedali
della città e non mancano di fare lunghe camminate per allenarsi alla vita
missionaria.

1913, 28 ottobre, le prime 15
missionarie della Consolata destinate al vicariato del Kenya, ricevono
solennemente il Crocifisso, il Compagno del loro pellegrinare in missione,
dalle mani del cardinale Agostino Richelmy, assistito dal Fondatore e dal
Canonico Camisassa. È il momento dell’invio, del mandato «ad gentes» da parte
della diocesi e della Chiesa. Da quel giorno in poi, le missionarie partiranno
dalla Consolata e andranno in tutto il mondo. «Ricevi la Croce di Gesù Cristo.
Ti sia sostegno nelle fatiche
dell’apostolato». È la voce del Vescovo che «manda» i nuovi operai nella messe.

Sono pronte per partire. Eccole:
suor Agnese Gallo, suor Candida Sandretto, suor Carolina Crespi, suor Caterina
Gemello, suor Cecilia Pachner, suor Costanza Golzio, suor Cristina Moresco,
suor Domenica Drudi, suor Filomena Moresco, suor Lucia Monti, suor Margherita
De Maria, suor Paolina Bertino, suor Rosa Margarino, suor Serafina Drudi, suor
Teresa Grosso.

Le prime Missionarie della Consolata nel 1913. Tra loro le suore professe (col crocifisso), le novizie (con la medaglia) e le postulanti (velo nero)

Le prime impressioni

L’Africa. Il Kenya. Un mondo
nuovo per le nostre sorelle. L’immensità dello spazio che si apre davanti a
loro, il cammino difficile, povero, sacrificato; il pericolo dell’isolamento,
la lontananza, lo scoraggiamento, potrebbero intaccare la generosità e la
serenità delle figlie dell’Allamano.

Ma davanti ai loro occhi la
figura del Cristo missionario del Padre, della Consolata, che quale madre
dolcissima le seguiva, il ricordo del Fondatore, il suo sorriso, il suo «Coraggio,
avanti!» diventano il sostegno nei duri inizi.

Partono. Sono 15 e provengono da
otto diocesi: Torino, Saluzzo, Ivrea, Asti, Bergamo, Milano, Rimini e
Montevideo. Alla stazione di Porta Nuova a Torino, il Fondatore commosso dà
loro la sua benedizione.

Partono. Dà loro grande fiducia
il sapere che andranno a lavorare accanto ai missionari della Consolata, figli
dello stesso Fondatore, espressione di uno stesso carisma. Le sorelle ripongono
altrettanta fiducia nel fatto che in Kenya da una decina d’anni lavorano le
Cottolenghine (le suore del Cottolengo) della Piccola Casa di Torino; sotto la
loro guida il tirocinio missionario sarà più facile e sicuro.

Partono. Non hanno con sé il
biglietto di ritorno, hanno salutato tutti, per sempre. Vanno. Quando il
bastimento «Catania» leva le ancore da Genova e le coste della patria si
allontanano, le 15 si stringono l’una all’altra: piangono, sorridono e pregano.
Vanno verso l’ignoto piene di fiducia, sorrette dalla benedizione del
Fondatore. Con sé portano una lettera del
Padre Allamano, da leggersi durante il viaggio: è
un prezioso compendio di quanto era stato loro insegnato durante la
preparazione.

Gruppo di Missionarie della Consolata in Kenya attorno a madre Margherita Maria, la lor superiora.

Da Limuru a Nyeri

Dopo un lungo viaggio, le
missionarie raggiungono il porto di Mombasa in Kenya e il piccolo treno a
scartamento ridotto che porta in Uganda le lascia alla stazione di Limuru: è il
28 novembre 1913. A Limuru, una ventina di km oltre Nairobi, i missionari
avevano posto la loro casa procura da cui poi mandare, attraverso le valli
dell’Aberdare, i rifoimenti alle missioni di Muranga (allora Fort Hall), di
Nyeri e di Meru.

Il cuore è pieno di gioia:
finalmente le missionarie sono nella terra dei loro sogni. Alla stazione sono
ad attenderle monsignor Perlo Filippo, vicario apostolico di Nyeri, le suore
Cottolenghine, vari missionari della Consolata, alcuni dei primi cristiani e i
catecumeni.

Il giorno successivo molti
vengono a salutarle e chiedere notizie del papa, dei superiori, degli italiani.
Il terzo giorno le missionarie iniziano un «corso di orientamento» con le suore
del Cottolengo visitando i villaggi attorno a Limuru e un corso intensivo di
lingua kikuyu in modo di rendersi capaci di comunicare in modo diretto con la
gente.

Il rodaggio dura solo pochi mesi,
poi inizia l’avventura. Le nuove missionarie lasciano Limuru e partono in
carovana per raggiungere Nyeri. I buoi trascinano carri carichi di tutto: le
tende per ripararsi durante le notti del lungo viaggio di quattordici giorni,
il cibo, gli attrezzi e il necessario per mettere su casa una volta arrivate a
destinazione. Dopo la lunga camminata le suore raggiungono Nyeri senza essere
accolte da speciali cerimonie di benvenuto. Solo i circa 75 bambini
dell’orfanatrofio (raccolti dai missionari e dalle suore del Cottolengo perché
abbandonati alle iene nella foresta) le guardano con gli occhi sgranati.

Così ha inizio la nuova missione
Nyeri-Mathari (dove i missionari sono presenti dal 1904). Lo stile di vita è
veramente povero a livello materiale, ma ricco di ogni sorta di attività. Tutti
i giorni riservano il tempo per il catechismo agli operai della grande fattoria
agricola. Con loro lavorano, per produrre il necessario per se stesse e le varie
missioni già aperte dai missionari della Consolata.

È un’avventura anche il ritmo di
lavoro dalla domenica alla domenica. Scuola per tutti quelli che giungono alla
missione dai villaggi intorno; attenzione particolare per le giovani che sono
educate e vivono alla missione; visita agli ammalati nell’ospedale governativo,
cura di quelli che arrivano all’improvvisato dispensario della missione
collocato sotto un albero o in una capanna per proteggere il paziente e la
suora dal sole implacabile; visite regolari ai vicini villaggi, in cerca di
malati da curare; e la cura dei 75 orfani, che vivono ancora in costruzioni
molto provvisorie. E il lavoro massacrante nella immensa piantagione di caffè e
in quella di orchidee; l’attendere agli oltre 500 buoi e mucche (la fattoria
aveva moltissimi buoi per tirare i carri usati nel trasporto del caffè da Nyeri
a Nairobi e per le carovane da una missione all’altra; ndr.) che bisogna
contare al sorgere e al tramonto del sole e accudire giorno dopo giorno.

Missionarie della Consolata impegnate nella visita ai villaggi.

Ma per tutto questo lavoro non
tutte le 15 missionarie rimangono a Nyeri: quattro partono immediatamente per
Tuthu (la prima missione fondata nel 1902 dai missionari nelle valli
dell’Aberdare a oltre 2300 m), dove giungono dopo tre giorni di cammino (il
viaggio oggi richiede poche ore di macchina!). Suor Agnese è la superiora, suor
Paolina Bertino è destinata alla visita ai villaggi e all’insegnamento
nell’incipiente scuola, suor Serafina Drudi per la visita ai villaggi e suor
Rosa Margarino per la cucina di tutta la comunità maschile e femminile della
missione. Così le missionarie iniziano la seconda missione.

Avventure di tempi eroici!
Aggiungiamo quella di inserirsi nell’ambiente vincendo la sfida della lingua,
dei lunghi viaggi, delle malattie come la malaria, le piaghe, la dissenteria,
del cibo scarso: tutto contribuisce a rendere difficile la vita. Ma il Signore è
loro accanto, e interviene anche con i miracoli.

Le sorelle rimaste a Torino,
seguono con amore fraterno le loro missionarie, nell’attesa di raggiungerle, e
pregano:

«Vergine, piena d’amore,
consolatrice d’ogni nostro pianto.
Reggili sugli oceani,
nell’orror delle foreste
e dei deserti ardenti,
Quando spira la furia
dei torrenti,
quando spossati cadono per via,
quando li assale stanchezza e nostalgia,
posati loro accanto!».

E
davvero, come per altre volte a molte di noi, il cielo si fa vicino.

Suore Serafina Drudi in visita a capanne attorno al villaggio di Thusu.

Avventura e grazia

Ed è un’avventura anche uno dei
tanti viaggi fra Tetu (missione fondata nel 1903) e Nyeri. Protagoniste suor
Teresa e suor Candida, le quali, dopo una mattinata spesa nella funzione dei
battesimi, nel pomeriggio si incamminano in carovana per il ritorno alla
missione. La notte si avvicina: vescovo, padri, suore, cristiani e non, tutti
in fila ritornano al Mathari. Tra loro suor Candida, appena giunta in missione,
non allenata alle lunghe marce. A poco a poco tutti sorpassano le due sorelle
che alla fine si trovano isolate, nella solitudine e nel silenzio della notte
africana senza luna. Hanno perso il sentirnero. La paura si fa strada. Un
improvviso fruscio le allarma ancor più. Un serpente, una iena, un leone?
Invece ecco un giovane con una bianca tunica si avvicina e le invita a seguirlo
per raggiungere la carovana. Nel dialogo con suor Teresa si presenta e dice il
suo nome: «Wa Ngai» (di/da Dio). Suor Teresa ribatte che tutti veniamo
da Dio e insiste per sapere il suo nome: «Wa Ngai – dice -, e vengo da molto
lontano». Della giornata dei battesimi il giovane dice che è stata molto bella
ed è piaciuta anche a Dio. Egli precede le sorelle mentre il camminare si fa più
facile e anche suor Candida ha la sensazione che la stanchezza sia scomparsa.
Finalmente, a discesa terminata (perché c’è una valle tra Tetu e Mathari e
bisogna scendere al fiume e risalire), il paesaggio si allarga, si cominciano a
sentire le voci del gruppo. Sono salve! Suor Teresa chiede ancora: «Vuoi dirmi
il tuo nome?». Dopo un istante di sospensione, con voce chiara il giovane
risponde: «Sono Raffaele. Vengo da Dio». E scompare.

In senso orario: suora della Consolata e del Cottolengo tra i bambini orfani dell’orfanotrofio di Nyeri; suora con giovani mamme;
bambini dell’orfanotrofio di Nyeri e la stessa foto ritoccata con al presenza delle suore.

Avventure missionarie: quante! Di
quanti piccoli miracoli in questi cento anni di Kenya, siamo testimoni! Le
piccole scatole-case, le capanne, i primitivi improvvisati dispensari, poco a
poco hanno lasciato il posto a case vere, scuole, ospedali, orfanotrofi,
dispensari. Cento anni per seminare l’Amore, la Consolata e il Padre Fondatore
nel cuore della nostra gente del Kenya, obbedendo all’invito dell’Allamano: «Coraggio
e vanti!».

Gesù, il missionario del Padre ci
ha sempre precedute e ci ha rese anche capaci di cedere nelle mani responsabili
della Chiesa locale quello che con tanto sacrificio è stato costruito (la
maggior parte degli ospedali, scuole e altre attività iniziate nelle missioni
della Consolata, sono ora nelle mani delle Chiesa locale, avendo i missionari e
le missionarie finito il loro compito da dare inizio ad una nuova comunità ndr.).

Ora abbiamo raggiunto il deserto,
di nuovo come agli inizi, forse con meno fatica. Tocca sempre a noi andare e
partire per testimoniare, per passare il testimone ad altre sorelle, alle
giovani di oggi, anche a nome delle 157 missionarie che riposano nei cimiteri
del Kenya: 47 al Mathari-Nyeri, 8 a Meru, 95 al Nazareth Hospital-Nairobi e 7
in altri cimiteri.

Sr. Pier Rosa Campi

Pier Rosa Campi




Europa: libertà contro laicità? Riflessioni e fatti sulla Libertà Religiosa nel mondo – 14

L’effigie
degli evangelizzatori Cirillo e Metodio sulle monete da due Euro slovacche
trova l’opposizione della Commissione Europea (Ue). C’è chi considera
quest’ultima come «l’anticristo». Ma il fatto che in alcune aree del vecchio
continente ci siano più persone che credono negli extraterrestri di quante
credano in Dio non sembra una conseguenza del laicismo delle istituzioni.
In merito al
rispetto dei diritti (tra cui la libertà religiosa) il punto di riferimento –
anche per la Ue – diventa sempre più la Corte europea dei diritti dell’uomo del
Consiglio d’Europa. È alle sue sentenze che bisogna guardare per capire in che
direzione va la libertà di credo nel Vecchio Continente.

Il 17 giugno scorso il New York
Times
ha pubblicato un articolo in cui raccontava di un contrasto tra la
Banca Nazionale Slovacca e la Commissione Europea. La cosa sorprendente è che
tale contrasto non riguardava temi finanziari, ma religiosi. L’istituto
bancario slovacco intendeva commemorare il 1150° anniversario della
cristianizzazione del paese emettendo una moneta Euro che riportasse l’immagine
dei santi Cirillo e Metodio coronati dall’aureola e con le vesti oate di ben
visibili croci. La Commissione Europea si è opposta, ordinando la rimozione dei
simboli religiosi.

L’articolo del prestigioso quotidiano statunitense, dal titolo a
effetto Un’Europa sempre più secolarizzata, divisa dalla Croce, è
interessante per diversi motivi: indica l’episodio come possibile «segno della
scomparsa della fede dall’Europa contemporanea», e come frutto di una
secolarizzazione molto spinta.

«In God we trust»

La tesi in un certo senso è condivisa da mons. Stanislav
Zvolensky, vescovo cattolico di Bratislava, che ha sostenuto: «C’è un movimento
all’interno dell’Unione Europea che vuole una neutralità religiosa totale e non
può accettare le nostre tradizioni cristiane».

In Europa è dunque in gioco la libertà religiosa e, in
particolare, la plurisecolare presenza cristiana? Il Nyt non giunge,
ovviamente, ad affermare questo. È significativo però che, mentre tale fatto
non ha avuto alcuna menzione sui mezzi di informazione europei, se ne sia occupata
la stampa degli Usa, paese che sulle proprie monete non ha problemi a scrivere:
«In God We Trust». Dall’altra parte dell’oceano non si vede in questo
riferimento a Dio alcun problema, dalla nostra invece si rischia addirittura di
non rispettare la storia, con effetti paradossali e anche un po’ comici: i due
evangelizzatori dell’Europa orientale, senza le loro croci, finirebbero col
trasformarsi in due «laici» del tutto irriconoscibili. Lo stesso evento che si
desidera commemorare, a quel punto diverrebbe esso stesso pressoché
incomprensibile.

Unione – o divisione – europea?

Nelle parole del vescovo Zvolensky si può anche cogliere un’eco
delle discussioni e delle polemiche che si ebbero nel momento in cui fu
definita la Costituzione dell’Unione Europea: ci si divise infatti tra chi
chiedeva che vi fosse inserito un riferimento alle radici ebraico-cristiane e
chi invece vi si opponeva. Come noto, prevalse questa seconda posizione.

Nella questione che stiamo affrontando, tuttavia, non è tanto
questo il tema in gioco. Il problema riguarda piuttosto la tutela della libertà
di credo in un’Europa che, come tutti gli stati occidentali, intende fondarsi
sulla laicità e sul rispetto del pluralismo religioso. Libertà di religione e
laicità sono due questioni strettamente collegate. Lo sono anche nell’Unione
Europea. Essa sta faticosamente costruendo una propria unità, capace di andare
oltre le profonde divisioni linguistiche, culturali ed economiche che la
caratterizzano. In questo processo le religioni, e soprattutto quella cristiana
per il fondamentale ruolo svolto nella storia del vecchio continente, possono
diventare un ulteriore elemento di divisione oppure una primaria forza di
coesione. Molto dipenderà proprio da come, nelle istituzioni europee e nelle
grandi religioni presenti nell’Unione, saranno intesi e interagiranno tra loro
laicità, pluralismo, libertà di credo – e quindi presenza e visibilità delle
fedi -, e quale equilibrio sarà raggiunto tra questi valori al termine del
processo di costruzione di un’Unione finalmente compiuta sul piano politico e
civile.

Parecchio resta da fare. Questi valori, infatti, appaiono
diversamente intesi nelle parti d’Europa – particolarmente quella occidentale –
in cui la laicità spesso si confonde con una secolarizzazione spinta, e in
quelle dove invece il cristianesimo è tuttora forza anche sociale e civile
molto viva, come avviene in prevalenza nei paesi dell’Europa orientale.

La commissione europea non è l’anticristo

In questa situazione la Commissione europea che, assieme al
parlamento, ha il compito non facile di governare le aspirazioni comuni
europee, finisce col diventare bersaglio delle critiche di tutti. C’è chi
l’accusa di essere troppo arrendevole nei confronti della religione e chi
invece l’accusa del contrario. «Posso assicurare che la Commissione non è
l’Anticristo», ha dichiarato Katharina von Schnurbein, funzionario della
Commissione responsabile dei rapporti con i gruppi religiosi e laici, a chi le
riportava le critiche di movimenti cristiani integralisti. Del resto lo stesso
mons. Stanislav Zvolensky si era dichiarato entusiasta della Commissione
quando, tre anni fa, era stato invitato a Bruxelles per discutere della lotta
contro la povertà nell’Unione. Nessuno, tra l’altro, si era sognato di
chiedergli di togliersi la croce episcopale dal petto. Ma poi, chi mai potrebbe
seriamente puntare a un «occultamento» dei simboli religiosi cristiani in un
continente disseminato di chiese e monasteri, dove nomi di città, paesi,
luoghi, strade e piazze, sono in gran parte riferiti a santi, tradizioni,
storie e fatti cristiani, le cui università più prestigiose sono nate per
volontà di papi e i cui stati spesso riportano la croce nelle loro stesse
bandiere nazionali?

Le dodici stelle della Vergine Maria

C’è un fatto curioso, a questo proposito. Pochissimi sanno che
anche la bandiera dell’Unione europea ha un’origine cristiana. Il cerchio di
dodici stelle su sfondo blu che la caratterizza fu disegnato nel 1955 dal
francese Arsène Heits. Era cattolico e volle ispirarsi all’iconografia della
Vergine Maria. Le stesse dodici stelle, va ricordato, compaiono sulle monete
dell’euro. Anche i tre grandi padri fondatori della Comunità europea erano
cattolici praticanti: il francese Schumann, il tedesco Adenauer e l’italiano De
Gasperi.

«C’è una generale diffidenza verso tutto ciò che è religioso,
un’idea che la fede debba essere tenuta fuori dalla sfera pubblica» sostiene
tuttavia Gudrun Kugles, direttore dell’Osservatorio sulla intolleranza e la
discriminazione contro i cristiani che ha sede a Vienna. «C’è una fortissima
corrente di secolarismo radicale» aggiunge, «che interessa tutte le religioni
ma in particolare quella cristiana».

Sono affermazioni che Katharina von Schnurbein non condivide.
L’Unione europea non segue affatto una «linea» anticristiana, afferma. Non
cerca di eliminare la religione. La Commissione, al contrario, come è detto nel
Trattato, attribuisce moltissima importanza al dialogo con i credenti e i non
credenti.

Dio vs extraterrestri

In questo momento, tuttavia, non pare proprio il frutto di un
comportamento anticristiano delle istituzioni il fatto che le chiese si
svuotino, nuove religioni crescano in Europa, come l’Islam, e un fideismo
sconcertante si diffonda un po’ dovunque.

Secondo un’indagine compiuta lo scorso anno, in Gran Bretagna le
persone che credono negli extraterrestri sono più numerose di quelle che
credono in Dio. D’altro canto un sondaggio del 2010 ha rivelato che nell’intera
Unione europea solo circa metà della popolazione crede in Dio, mentre negli Stati
Uniti il 90%.

Sono problemi che interpellano pastorale, catechesi e formazione
di laici e sacerdoti nelle Chiese, prima ancora che il rapporto tra religione e
istituzioni «statali», o l’influenza delle fedi nella definizione delle norme
pubbliche.

Il ruolo della Corte Europea dei diritti umani

Per le questioni affrontate fin qua, riveste un’importanza
primaria la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). È tale Corte, infatti,
che ha il compito di decidere i casi in cui possa essere violata la libertà
religiosa, oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il
pluralismo religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i
principi costitutivi dell’Europa. È un compito estremamente importante, che va
oltre la particolarità dei casi trattati. Infatti, con le proprie sentenze la
Corte sta contribuendo a costruire una coscienza civile comune dell’Europa
stessa.

La Cedu ha sede a Strasburgo e non è da confondere con la Corte di
giustizia dell’Unione europea, organismo della Ue con sede invece in
Lussemburgo. È sorta nel 1959 per assicurare il rispetto della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Vi aderiscono i 47 stati che fanno parte del Consiglio d’Europa, compresi
quelli dell’Unione europea. Dunque la Cedu vale sia per il Consiglio d’Europa
sia per l’Unione europea: situazione che può creare problemi, perché possono
verificarsi casi di sentenze contraddittorie delle due Corti. Tuttavia in base
al trattato di Maastricht tutte le istituzioni dell’Unione sono tenute a
rispettare la Convenzione europea sui diritti dell’uomo. La Corte di giustizia
dell’Ue dunque fa riferimento nelle proprie sentenze a quelle della Cedu che
della Convenzione stessa è l’interprete. Il potenziale conflitto tra le due
Corti, che permane in linea di principio, sarebbe definitivamente eliminato se
l’Unione europea aderisse come tale alla Convenzione, cosa che non poteva fare
in passato ma che le è possibile ora, in base al Trattato di Lisbona del 2009.
Nel momento in cui questo avvenisse, la Corte di giustizia dell’Unione europea
sarebbe obbligata a rispettare le sentenze della Cedu.

Quale laicità?

La Cedu, dunque, si avvia ormai a essere
l’organo di suprema istanza anche dell’Ue in merito al rispetto dei diritti e
delle libertà civili. Per capire quindi quale concezione di laicità si stia
affermando in Europa, cosa si intenda per libertà religiosa e come essa venga
tutelata, è molto importante esaminare le sue sentenze che riguardano questi
temi. Esse fanno riferimento in particolare all’articolo 9 della Convenzione,
che tratta appunto dei diritti di libertà. È interessante notare che la libertà
di religione, come quella di pensiero e di coscienza, in quell’articolo viene
riconosciuta non solo come diritto «privato» ma, come non può che essere, anche
«pubblico». Nessuna restrizione può esservi al diritto di manifestare
pubblicamente la religione, tranne ovviamente il caso in cui possano nascere
problemi di ordine, salute e morale pubblici, o di protezione dei diritti
altrui.

Cirillo e Metodio «a spasso» per l’Europa

La vicenda della moneta slovacca da cui siamo
partiti non ha nulla a che fare con casi in cui l’ordine, la salute o la morale
pubblici vengono messi in pericolo. Riguarda, invece, proprio la laicità. È
stata la Francia a spingere la Commissione europea ad opporsi al progetto della
Banca Nazionale Slovacca, in nome di una concezione della laicità che prevede
una rigida separazione tra lo stato e la religione, e che non permette quindi
la presenza di simboli religiosi in tutto ciò che riguarda l’ambito statale.
Con buona pace dei Transalpini (e della Grecia che si opponeva alla moneta
commemorativa slovacca per ragioni «nazionali») la Banca Nazionale Slovacca ha
tenuto fermo il proprio progetto. La Commissione non se l’è sentita di
insistere nella sua posizione e, quindi, la moneta sarà prossimamente coniata.
Come ogni altra, circolerà liberamente in tutta l’Unione europea: anche in
Francia.

Paolo Bertezzolo

Convenzione per la salvaguardia dei
Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali

ARTICOLO 9: Libertà di pensiero, di
coscienza e di religione

1. Ogni persona ha diritto alla libertà
di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di
cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria
religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o
in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei
riti.

2. La
libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere
oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che
costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica
sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o
alla protezione dei diritti e della libertà altrui.

Paolo Bertezzoro




Nulla si salva Allattamento e seno femminile (seconda parte)

(Nulla?si?salva) … dall’inquinamento. Neppure il latte materno. Nel corpo umano entrano decine di composti estranei («xenobiotici») che producono gravi conseguenze, fin dalla gravidanza. Le statistiche fotografano una situazione preoccupante: in Italia il tasso di tumori infantili è quasi il doppio degli altri paesi europei.

 


Il modello di sviluppo della nostra società ha portato a
grandi vantaggi economici (per qualcuno), ma ha causato una tale dispersione
ambientale di contaminanti chimici che probabilmente non c’è più ecosistema al
mondo che non ne sia interessato. L’inquinamento ambientale è causa di
molteplici patologie, che interessano una parte rilevante della popolazione,
tra cui i bambini. Questi ultimi sono particolarmente vulnerabili; in
particolare, durante la fase dello sviluppo prenatale l’esposizione a sostanze
chimiche avviene attraverso il sangue placentare. Tuttavia è importante anche
quella postnatale, in cui i contaminanti chimici giungono al bambino attraverso
il latte materno, il latte artificiale e gli alimenti successivi. Si stima che
le sostanze chimiche (prodotte dall’uomo e disperse nella biosfera e nella
catena alimentare), rintracciabili nel corpo umano – sostanze dette «xenobiotici»,
composti estranei all’organismo -, siano oltre 300. Diversi xenobiotici sono
liposolubili e la loro presenza può essere rilevata e misurata in diverse
matrici biologiche come sangue, siero, urina, sperma, cordone ombelicale e
latte materno. La consapevolezza di potere trasmettere sostanze tossiche
(potenzialmente molto pericolose) al proprio figlio può indurre una madre a
sospendere l’allattamento. Si tratta però di una decisione sbagliata. È infatti
scientificamente provato da diversi studi che, pur in presenza di contaminanti
chimici, l’allattamento al seno è da preferirsi per diversi motivi all’uso del
latte artificiale. Innanzitutto il latte materno contiene sostanze protettive,
che aiutano lo sviluppo neuromotorio, cognitivo e del sistema immunitario e può
pertanto mitigare gli effetti avversi di una precedente esposizione in utero,
cosa che il latte artificiale non può fare. Quest’ultimo, inoltre, può essere
contaminato come e anche più del latte materno, visto che i latti in formula
vengono preparati a partire da latte vaccino, spesso fortemente contaminato da
inquinanti ambientali. Bisogna inoltre considerare che anche gli oggetti
utilizzati nell’allattamento artificiale come biberon, tettarelle, pellicole di
materiale plastico per la conservazione del latte in polvere possono rilasciare
sostanze chimiche tossiche per il bambino e, al rischio chimico, può
aggiungersi quello biologico, dal momento che possono essere presenti cariche
batteriche già in fase di produzione del latte artificiale, oppure durante la
sua ricostituzione per effetto di un’errata preparazione, manipolazione o
conservazione.

Tra i principali inquinanti, rintracciabili nelle
matrici biologiche (e quindi anche nel latte materno), ci sono metalli come il
mercurio, il piombo, il nichel, l’arsenico ed il cadmio ed inoltre benzene,
idrocarburi aromatici policiclici, pesticidi, ritardanti di fiamma, diossine,
furani e policlorobifenili (Pcb). La maggior parte di questi inquinanti entra
nella catena alimentare, quindi sono assorbiti dal corpo umano attraverso i
cibi. Altre vie d’ingresso sono la pelle e il sistema respiratorio. La loro
pericolosità raggiunge l’apice quando riescono a contaminare le cellule
germinali che danno origine a ovociti e spermatozoi, perché in tal caso possono
interferire con la salute delle future generazioni e non solo del singolo
individuo. Vediamo quali sono le principali patologie causate dagli xenobiotici
succitati.

Per quanto riguarda i metalli pesanti, mercurio, piombo, arsenico e cadmio sono
cancerogeni, procancerogeni e tossici per il sistema nervoso, con effetti sullo
sviluppo cognitivo e sull’intelligenza. Il mercurio causò il famoso disastro di
Minamata in Giappone negli anni ’50. Venne rilasciato metilmercurio nelle acque
reflue dell’industria chimica Chisso Corporation. Esso contaminò pesci e
crostacei nella baia di Minamata (da cui prende il nome l’omonima sindrome),
entrando nella dieta delle gestanti. A seguito di ciò nacquero bimbi con
gravissime lesioni cerebrali e danni permanenti a vista, udito ed arti. La
principale fonte di mercurio è quindi l’alimentazione a base di pesce
contaminato.

Il piombo è classificato dalla Iarc  (Inteational Agency for Research on
Cancer
) come possibile cancerogeno (gruppo 2B) per l’uomo ed è inoltre
causa di una gravissima forma di anemia, il satuismo, oltre che di
ipertensione arteriosa e danno renale. Se assimilato in gravidanza, è associato
a lievi disturbi neurologici e comportamentali nell’infanzia. L’esposizione al piombo
può essere professionale (veici, batterie, esplosivi, costruzioni, miniere,
fonderie), domestica (ristrutturazioni, hobby come la colorazione dei soldatini
di piombo, uso di vecchio vasellame smaltato per alimenti), dovuta all’acqua
potabile trasportata in vecchie tubature di piombo oppure a vecchie otturazioni
dentarie a base di piombo.

L’arsenico può essere ingerito con acque di falda, dove
può trovarsi per cause naturali in quantità pericolose per la salute, oppure
per la presenza di pesticidi e fertilizzanti, che lo contengono. Anche il riso
coltivato in acqua contaminata può essere fonte di arsenico.

La fonte principale di cadmio è il fumo di sigaretta. I
metalli appena citati, se presenti nel sangue materno, possono attraversare la
placenta durante la gravidanza e danneggiare lo sviluppo del cervello in epoca
prenatale e nella prima infanzia. Il livello del mercurio nel cordone
ombelicale può essere 1,5 volte rispetto a quello nel sangue materno. La
contaminazione massima da metalli si ha alla nascita, poi i valori tendono a
diminuire, perché i metalli pesanti sono secreti solo in piccola quantità con
il latte materno, tanto che, con l’allattamento esclusivo al seno, nei primi 3
mesi i valori del mercurio nel sangue del neonato possono ridursi del 60%. Lo
stesso non avviene con i latti artificiali, che possono contenere quantità di
metalli pesanti superiori a quello materno già in partenza o per loro
ricostituzione con acqua contaminata, e che non offrono la stessa protezione di
quest’ultimo. È importante tenere presente che latti artificiali contaminati
con metalli pesanti sono stati trovati in Germania, Australia, Canada, Svezia e
Cina, mentre latte vaccino (con cui vengono preparati i latti artificiali)
contaminato è stato trovato in tutto il mondo.

Gli idrocarburi aromatici policiclici (Ipa), tra cui benzene, toluene,
benzo(a)pirene, naftalene, ecc. sono classificati dalla Iarc come cancerogeni
certi per l’uomo (classe 1). Essi sono sottoprodotti di combustioni incomplete,
tra 300°- 600° di temperatura, di materiale organico come sigarette, benzina,
cibo, rifiuti, quindi possono trovarsi nel fumo di sigaretta, nei cibi cotti
alla brace, nei gas di scarico degli autoveicoli, nel fumo dei caminetti, degli
inceneritori e di impianti industriali quali fonderie, acciaierie e
cementifici. Si trovano soprattutto nell’aria, ma anche in alcuni alimenti e
nelle fonti d’acqua (per caduta al suolo, dato che sono molecole pesanti),
quindi possono essere assimilati dal corpo attraverso la respirazione, la pelle
o per ingestione. Molti Ipa sono associati a danni al midollo osseo, ad
alterazioni ematiche, ad anomalie dello sviluppo fetale (ridotta crescita,
alterata formazione del sangue fetale, ritardata ossificazione), ad alterazioni
dello sperma, del sistema immunitario e a tumori, in primis leucemie. I bambini
possono essere esposti agli Ipa già in utero, attraverso la placenta e dopo la
nascita con il latte materno, con quello artificiale e con gli alimenti per
l’infanzia. Va tenuto presente che latti artificiali e prodotti per l’infanzia
possono arrivare a contenere Ipa in quantità 2-3 volte maggiore rispetto al
latte materno, senza fornire però analoga protezione. Molti Ipa si comportano
come interferenti endocrini, cioè possono interferire con il sistema endocrino
e quindi con gli ormoni responsabili dello sviluppo e di molte funzioni del
corpo, come il comportamento, la fertilità e la regolazione del metabolismo
cellulare.  Possono causare alterazioni
dell’apparato riproduttivo, con mascolinizzazioni delle femmine e
femminilizzazione dei maschi, alterazioni della pubertà, dei cicli mestruali e
della fertilità. Inoltre possono alterare lo sviluppo del cervello con
conseguenti problemi cognitivi, di apprendimento e difetti alla nascita. Gli
Ipa sono responsabili di varie forme di cancro, soprattutto degli organi
riproduttivi, ma non solo. Infine essi possono agire sulle cellule germinali,
compromettendo la salute delle generazioni future.

I pesticidi organoclorurati, tra cui il Ddt ed i loro metaboliti come l’esaclorobenzene
sono stati tra i primi residui chimici trovati nel latte materno, dove si
accumulano con estrema facilità, grazie alla loro lipofilia e al loro lungo
tempo di dimezzamento dovuto alla difficoltà di metabolizzarli e di eliminarli.
Pur essendo stati banditi in tutto il mondo dalla Convenzione di Stoccolma
sugli inquinanti organici persistenti (Pops o Persistent organic pollutants)
del 2004, essi sono ancora presenti in esseri umani e animali, sebbene in
diminuzione rispetto al passato. Anch’essi possono agire come interferenti
endocrini, sono cancerogeni e, in caso d’intossicazione acuta, possono causare
depressione respiratoria e del sistema nervoso, provocando la morte. La loro
concentrazione è superiore nel latte materno, rispetto ai latti artificiali e
altri alimenti.

Un discorso approfondito meritano diossine, furani e Pcb, per la loro estrema
pericolosità oltre che per la loro grande lipofilia e facilità di reperimento
nel latte materno.

Le diossine sono un gruppo di 210 composti organici
eterociclici, in cui sono sempre presenti carbonio, idrogeno, ossigeno e cloro.
La sostanza più tossica conosciuta è la Tcdd o
2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina, detta «diossina di Seveso», in quanto liberata
nell’aria dal reattore della multinazionale svizzera la Roche nell’incidente
del 6 maggio 1976. La nube tossica che si formò determinò danni acuti e cronici
alle persone esposte. Recentemente sono stati pubblicati dati secondo cui i
figli di madri coinvolte nella loro infanzia in questo incidente presentano
alla nascita alterazioni della funzione tiroidea statisticamente significative.
Poiché questi neonati non sono stati direttamente esposti alla fuoriuscita di
diossina, ciò significa che le conseguenze hanno colpito la generazione
successiva  a quella esposta e sono
tuttora riscontrabili, a distanza di oltre 30 anni dall’incidente1. Sono molecole
particolarmente stabili e persistenti nell’ambiente con tempi di dimezzamento
variabili a seconda della molecola e a seconda della matrice esaminata; la Tcdd
si dimezza tra 7-10 anni nel corpo umano, mentre persiste nel sottosuolo fino a
100 anni. Sono sostanze insolubili in acqua, ma estremamente lipofile e
soggette a bioaccumulo e biomagnificazione, quindi si concentrano negli
organismi viventi in misura molto superiore a quella dell’ambiente circostante.
Esse vengono assunte dall’uomo per oltre il 90% attraverso l’alimentazione,
soprattutto con latte, carne, uova e formaggi. Queste molecole fanno parte degli
inquinanti organici persistenti banditi dalla Convenzione di Stoccolma. Le
diossine sono sottoprodotti involontari dei processi di combustione e si
formano a particolari temperature ed in presenza di cloro. In Italia le loro
fonti principali sono le combustioni industriali (64%), di cui oltre la metà
(37%) sono rappresentate dall’incenerimento di rifiuti solidi urbani. I Pcb o
policlorobifenili sono invece molecole prodotte volontariamente dall’uomo ed
usate sia in dispositivi elettrici, materiali plastici, tappeti, tessuti,
mobili come ritardanti di fiamma sia come antiparassitari fino al 1985, quando
sono stati banditi2. La tossicità di diossine, furani e Pcb è tale che
viene misurata in picogrammi (pg), cioè miliardesimi di milligrammo. Queste
molecole presentano una grande affinità per il recettore AhR (Aryl
Hydrocarbon Receptor
) largamente diffuso sia nelle cellule umane che in
quelle di vertebrati marini, terrestri ed aviari. Il recettore AhR sembra avere
un ruolo chiave per il normale sviluppo del sistema immunitario, vascolare,
emopoietico ed endocrino ed è coinvolto in molteplici funzioni cellulari
(proliferazione, differenziazione, morte cellulare programmata) e nella
regolazione del ritmo sonno-veglia. L’esposizione a queste molecole è correlata
allo sviluppo di tumori (linfomi, sarcomi, tumori a fegato, mammella, polmone,
colon), a disturbi riproduttivi, endometriosi, anomalie dello sviluppo
cerebrale, endocrinopatie (soprattutto diabete e malattie della tiroide),
disturbi polmonari, danni metabolici (aumento di colesterolo e trigliceridi),
epatici, cutanei e deficit del sistema immunitario. Inoltre l’esposizione pre e
postnatale può comportare ritardi nella crescita del feto e del neonato.

Poiché gli inquinanti descritti sono liposolubili, essendo il latte particolarmente
ricco di grassi, quello materno rappresenta un mezzo particolarmente idoneo per
la valutazione dell’inquinamento «in vivo», permettendo di stimare
l’esposizione presente e pregressa di una popolazione. Grazie alle misure di prevenzione
attuate in seguito alla Convenzione di Stoccolma è stata documentata in molti
paesi europei una diminuzione della presenza di diossine e simili nel latte
materno. Tuttavia i valori restano elevati, rispetto alla raccomandazione
dell’Oms, secondo cui non si dovrebbero superare assunzioni di diossina oltre i
2 pg/Kg di peso corporeo al giorno, quindi un uomo di 70 Kg dovrebbe assumee
al massimo 140 pg al giorno. Sono state eseguite analisi del latte materno su
puerpere di diversi paesi del mondo, abitanti sia in aree altamente
industrializzate, che rurali: in Germania sono state rilevate concentrazioni di
diossine/furani e Pcb tra 3,01-78,7 pg Teq3/g di grasso con valore medio pari a 27,27 pg; a Tokyo
il valore medio nel latte materno della concentrazione di queste molecole è
stato di 25,6 pg/g di grasso; in Cina è stato in media di 5,42 pg/g (range
2,59-9,92). Il latte prelevato nelle aree industriali è risultato sempre più
contaminato che nelle aree rurali.

Appare evidente l’assoluta necessità di monitorare
sistematicamente la situazione delle aree critiche del nostro paese,
soprattutto in considerazione del fatto che l’Italia ha un incremento annuo dei
tumori infantili del 2% (circa il doppio degli altri paesi europei). Il fatto
che finora questo biomonitoraggio in Italia non sia mai stato effettuato sembra
non essere casuale, viste le attuali politiche di incenerimento e combustione
di biomasse e di rifiuti.

È fondamentale inoltre che le persone siano informate su
questi fatti, soprattutto chi ha figli. In Italia invece quasi non si parla di
latte materno contaminato.

Una società come la nostra, che non si preoccupa delle
ricadute sull’infanzia del proprio modello di sviluppo è, a dir poco,
dissennata.

Rosanna
Novara Topino

Note

1 – Queste molecole sono divise in due famiglie, cioè Pcdd (policloro-dibenzo-p-diossine) e Pcdf
(policloro-dibenzo-furani) e le diverse molecole appartenenti alle due famiglie
vengono definite «congeneri» (75 diossine e 135 furani).

2 – Sono 209 congeneri, di cui 12 molto affini alle diossine, detti perciò «dioxin-like».

3 – Con Teq si indica la «tossicità equivalente» dei diversi congeneri, paragonata a quella della Tcdd, la più
pericolosa, che per convenzione vale 1, mentre quella di tutti gli altri
congeneri è sempre inferiore a 1 ed è data dalla somma dei prodotti tra i
fattori di tossicità dei singoli congeneri per la loro concentrazione nelle
matrici in esame.

Italia: pochi dati  (e preoccupanti)

In Italia non sono mai stati fatti studi sistematici sul latte materno, ma sono disponibili solo dati relativi a due donne residenti
presso l’inceneritore di Montale (Pt), a tre presso l’Ilva di Taranto e ad una
presso l’area della dismessa Caffaro, industria produttrice di Pcb di Brescia*.
Queste persone si sono sottoposte spontaneamente alle indagini. Nei due casi di
Montale i valori riscontrati variavano tra 3,984-5,507 teq pg/g di grasso per
diossine/furani e tra 9,485-10,621 Teq pg/g di grasso per diossine/furani/Pcb.
A Taranto sono stati trovati valori di Teq diossine/furani/Pcb  di 31,37 pg, 26,18 pg e 29,40 pg/g di grasso.
A Brescia nell’unico campione esaminato sono stati rilevati ben 147 pg/g di grasso.

Poiché la componente grassa del latte materno è il 4%,
la dose di queste molecole introdotta quotidianamente da un bimbo di 5 Kg, che
assuma 800-1000 ml di latte al giorno varia da 80-90 a 500-600 fino a 1000 pg
di Teq al giorno, a seconda che abbiamo 3, 15 o 30 Teq pg/g di grasso. Nel caso
di Brescia si arriva a 6000 pg! Ricordiamo che la dose giornaliera raccomandata
dall’Oms è di 140 pg per un uomo adulto di 70 Kg.

* Dati della dottoressa Patrizia Gentilini, medico Isde («Associazione
medici per l’ambiente», www.isde.it).

 Rosanna Novara Topino



Il cristiano mescola in sé il profumo di Dio e l’odore del mondo | Rendete a Cesare – 8

«Siate pastori con l’odore delle pecore»

(Papa Francesco, Messa Crismale, Omelia, 23-03-2013)

Con questo numero, concludiamo la riflessione sul significato esegetico dell’espressione «Date a Cesare … Date a Dio» (Mc 12,13-17 e paralleli), facendo una sintesi di quanto abbiamo espresso nelle sette puntate precedenti.

Il punto di partenza è un testo1, apparentemente innocuo, ma molto interessante:

13 Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14 Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15 E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16 Poi disse loro una parabola … (Lc 12,13-16).

Di fronte a una questione di eredità, Gesù rivendica il suo diritto di non intervento, ritenendola «di poco conto» di fronte all’urgenza profonda del suo cuore: il Regno è vicino, o meglio «il Regno di Dio [che] è dentro di voi» (Lc 10,9). Dio è già qui, compagno di vita e di viaggio verso la morte che introduce nella pienezza della vita. Tutto è provvisorio e il tempo di cui disponiamo è corto. La grandezza della vita è profonda e bisogna scalarla, scansando le banalità e la perdita di tempo che è il peccato più grave che si possa compiere. Anche per Dante, sul piano culturale, vale lo stesso atteggiamento: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78). I due fratelli, per Gesù, perdono tempo su un’eredità che devono comunque lasciare (cf Lc 12,13-31): litigano per un bene per cui non hanno faticato e che a loro volta lasceranno ad altri, se non riusciranno a dilapidarlo2. La prospettiva di Gesù è escatologica, cioè vede le cose dal punto di vista «della fine», della prospettiva dell’esito; quasi dicesse: non perdete tempo in quisquilie di poco conto, andate al cuore della vita che vi sfugge, mentre voi litigate per beni che non vi appartengono perché con la morte sarete costretti ad abbandonarli. È il criterio dell’essenzialità e della prospettiva. Un altro esempio illustre si trova in Lc 15,11-32 nella parabola del «Padre che fu madre», dove il figlio più giovane chiede espressamente di disporre di ciò che non è suo: la vita del padre che, infatti, egli sperpera a suo piacimento per ritornare al punto di partenza, dopo avere perso tempo, denaro e dignità3. È il criterio del discernimento.

In mezzo a diatribe giuridiche o all’interesse privato, Gesù afferma la propria libertà e dichiara la sua «non ingerenza» perché non di sua competenza. Egli non si occupa di affari e transazioni. Non è un sensale. È il criterio del rispetto delle competenze e della laicità nella gestione diretta degli affari del mondo. C’è un diritto, c’è un codice, c’è una giurisprudenza o una consuetudine: a quelli bisogna rivolgersi perché hanno la competenza di dirimere diversità di opinioni. Sottraendosi alla richiesta di fare il giudice, Gesù riconosce che anche per lui c’è un limite che non vuole superare, perché sconfinerebbe in un mondo non suo: superare il limite comporta un rischio, quello di diventare «tuttologi», ma di non essere professionalmente adeguati. Qui abbiamo un «principio» importante: la creazione ha in sé le sue regole e le sue leggi e non occorre battezzare ogni cosa per riconoscerne la liceità. Tutto è lecito nel rispetto della laicità che è l’ambito dove ogni evento, persona o circostanza o atto religioso devono essere riconosciuti con verità, senza pregiudizio di sorta.

Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) affermava che «più avanza la luce elettrica, più Dio perde terreno»: l’autonomia del creato che cresce con il tempo e con la scienza, è insita nella creazione stessa perché è il dinamismo che vi ha immesso lo Spirito creatore. Dio stesso, creando, si è limitato, infliggendosi un confine da rispettare che, dal punto di vista etico, è la libertà della coscienza personale. In una parola le decisioni di scelta sono demandate alla responsabilità e alla dignità di ciascuno. Più avanza la conoscenza umana di sé e del mondo, inteso come «cosmo», più aumenta il «limite» di Dio che non è geloso delle conquiste e delle scoperte sempre più portentose degli uomini e delle donne, ma ne è così rispettoso che lascia sempre più spazio, in forza del mandato originale di crescere, soggiogare la terra, dominare sul creato (cf Gen 1,28-29). È la teologia del Dio che si svuota completamente di se stesso per essere prossimo e vicino a ogni essere umano. La limitatezza di Dio è così decisiva e così definitiva che Gesù stesso si sottomette alla legge in modo irrevocabile: «Nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). Possiamo mai avere paura di un «Dio limitato»?

Sull’esempio di Dio che si è auto-condizionato al limite, nessuno può imporre nulla «in nome di Dio». Anche le crociate furono indette in nome di Dio e sappiamo quello che sono state e cosa sono costate al mondo e alla Chiesa: le conseguenze di quelle scelte avventate, le paghiamo ancora oggi. Dalla logica delle crociate solo un uomo del suo tempo, Francesco di Assisi, nel 1229, si differenziò coscientemente perché nel pieno del conflitto della quinta crociata, andò da solo a trovare il «nemico», il sultano ayyubide Malik al-Kamil, presentandosi disarmato. Ricevette così l’incarico di «custodire» per sempre i luoghi santi del Signore Gesù in Terra Santa, come ancora oggi avviene, dopo ben nove secoli.

Il concetto di «onnipotenza» che affibbiamo alla divinità, mal si concilia con il Dio di Gesù Cristo, il quale «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7; cf Mt 27,40). Legandosi indissolubilmente alla natura umana, ha scelto il metodo umano per rivelarsi e manifestarsi e dunque si è sottomesso alla «paidèia» (pedagogia) umana, adeguandosi al passo degli uomini e delle donne, radicato sulla ricerca che a sua volta nasce ed emerge dalla logica e dalla legge dell’incarnazione.

Dopo l’incarnazione di Cristo, vale anche per lui, in modo diretto e puntuale, quello che Publio Terenzio Afro affermava per ogni essere umano: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto – Sono uomo, nulla di ciò che è umano mi può essere estraneo»4. Nulla è estraneo a Dio, non solo come creatore, ma specialmente come Redentore. In questa prospettiva deve collocarsi l’invito, anzi il mandato: «Voi siete il sale» (Mt 5,13). Compito del sale, infatti, non è separarsi dalla minestra, cioè «disincarnarsi» dalla storia, dalla politica, dall’economia, ma, al contrario, perdersi e scomparire per realizzare la sua «missione». Allo stesso modo, compito del cristiano non è estraniarsi dalle cose mondane, che sono l’habitat naturale della sua esistenza, ma immergersi nel mondo e nella storia dell’umanità, perdendo la propria vita in compagnia di tutti quelli, credenti e non credenti, tutti figli e figlie di Dio, che costruiscono la «città dell’uomo» perché ognuno possa essere se stesso. In breve significa: vivere a servizio del «bene comune». L’evangelista Luca lo dice al mondo ebraico, ponendo in evidenza l’assoggettamento alla legge psicologica e a quella della fede: «Cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf 2,40). Inchiodandosi sulla croce, Dio ha rinunciato alla sua onnipotenza e si è sottomesso alla legge del limite che gli impedisce di scendere dalla croce e fare un portento clamoroso a beneficio di poveri increduli.

Il processo d’incarnazione, descritto nella Bibbia, raggiunge il vertice nel vangelo di Giovanni quando, con un ardimento linguistico senza precedenti, l’autore osa affermare l’impensabile e l’indicibile: «Hò Lògos sarx egèneto». Tradotto alla lettera, rispettando la posizione delle singole parole si ha: «Il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1,14). L’autore vuole mettere quasi a contatto fisico i due termini antitetici, irriducibili, l’uno all’altro, «Lògos-sàrx» è un ossimoro intraducibile in italiano, senza dovere ricorrere a una circonlocuzione. Il Trascendente diventa Immanente, l’Impalpabile si fa «Cae», che nel linguaggio semitico significa «fragilità/mortalità/limite/caducità». L’Assoluto diventa Relativo per «incarnazione» e rivelazione. Nel momento in cui sceglie di essere «Cae», cessa per sempre di essere «Onnipotente» (Cesare) e s’identifica indissolubilmente con la fragilità, la caducità, il frammento, la mortalità, il corpo, propri dell’essere umano, segnato costitutivamente dalla temporalità e dallo spazio. San Paolo fu il primo a parlare di « lògon syntelôn – Verbum breviatum – Parola ritagliata/accorciata»: «Il Signore, infatti, realizzerà sulla terra il Lògos che si compie e che si accorcia/si taglia» (Rm 9,28) che purtroppo anche l’ultima versione della Cei (2008) traduce con «pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra», travisando il senso dell’espressione greca, che è molto più pregnante e dirompente. Il concetto, data la sua importanza scandalosa, è ripreso dai Padri della Chiesa e da san Francesco di Assisi. Quest’ultimo poi, fedele alla tradizione patristica, allestendo il primo presepe a Greccio nel 1223, parlò della notte in cui Dio si è accorciato, si è fatto «verbum abbreviatum»5.

L’accorciamento di Dio è verificabile nelle sue manifestazioni: nella creazione, «in principio» (Gen 1,1), Dio ha parlato con l’azione, pronunciando solennemente «dieci parole» cui corrispondono «dieci realizzazioni» o dieci fatti. C’è quindi una sovrabbondanza di parola, distribuita in sei interi giorni: «Disse Dio … e così fu». La creazione in tutta la sua complessità di cielo e di terra, di «acque superiori e inferiori», di uccelli e animali e, infine, con la coppia umana è l’universale e molteplice Parola di Dio. Nell’incarnazione, invece, tutto si riduce a una sola Parola, un Nome perché possa essere contenuta da ciascuno e nessuno possa dire di non essere in grado di portarne il peso perché la Parola/le parole sono parte intima di noi stessi con cui realizziamo il nostro bisogno di comunicazione cioè di relazione. Tutto accade nel «profondo silenzio [che] avvolgeva tutte le cose» (Sap 18,14). Nella creazione la Parola esplode, nell’incarnazione il Silenzio regna, quasi a esprimere il pudore di Dio che viene in punta di piedi.

Alla luce di questo processo d’incarnazione, l’espressione «date a Cesare … date a Dio» acquista una configurazione ben precisa, perché non si tratta di «opposizione inconciliabile» tra due «mondi», o ordini, ma d’invito al discernimento per leggere la realtà della storia con gli occhi di Dio. Dopo l’incarnazione di Gesù e la sua morte, «quella» morte (cf Mc 15,39), che causò lo squarcio del «velo del tempio, da cima a fondo» (Mc 15,38), rendendo accessibile allo sguardo pagano il «santo dei santi», non può esistere più la separatezza tra «sacro» e «profano» perché con Gesù tutto è sacro e tutto resta profano. Queste categorie sono ormai desuete, incompatibili con il Vangelo che porta la nuova logica dell’umanità di Dio risorta, ad assumere in sé le contraddizioni degli eventi e della storia.

Bisogna, però, stare attenti a non costruirsi «idoli» provvisori o definitivi, come possono essere la religione, il denaro, il potere, il successo, il proprio interesse. «Dare a Cesare» significa chiamare per nome ogni cosa, secondo verità e rettitudine, senza pregiudizi o applicando categorie e sistemi che contrabbandano la verità. In ognuno di noi c’è un «Cesare» che veglia, pronto a prendere il sopravvento. Gesù rivolge quella frase ai farisei e ai capi del popolo (cf Lc 20,19), cioè ai responsabili della religione, in una parola alla gerarchia ecclesiastica che, contravvenendo alla legge che vietava di riconoscere idoli di divinità (Es 20,4), portava addosso, cioè sempre con sé, l’immagine dell’imperatore Tiberio che si fregiava del titolo di Divinità. Le monete coniate dall’imperatore, infatti, portavano la sua effigie con la scritta o epigrafe che nel caso era: «Tiberius Caesar Divi Augusti Filius Augustus Pontifex Maximus – Tiberio Cesare Augusto Sommo Sacerdote, Figlio del Divino Augusto», con cui si dichiara la natura divina dell’imperatore. Usare quella moneta, pertanto, dal punto di vista giudaico significava non solo riconoscere l’autorità civile dell’imperatore romano che pure era un invasore, ma anche avallare la sua pretesa divinità, ponendolo sullo stesso piano di Dio. La questione è grave perché la Toràh vieta di farsi immagini di Dio, ma perché più energicamente vieta il riconoscimento degli idoli (Es 20,4; Dt 4,16).

Se i capi religiosi si contaminano senza problemi con l’idolatria, essi sono responsabili delle conseguenze del loro «cattivo» esempio: essi corrompono il popolo, inducendolo in peccato; per questo devono tornare a «rendere a Dio quello che è di Dio». Gesù non affronta un problema di natura socio-politico, come la separazione dei poteri, ma affronta un tema squisitamente teologico che riguarda l’essenza stessa di Dio: chi è Dio per i capi religiosi? Un idolo tra gli idoli o il Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe? Dio geloso! «Non ti prostrerai davanti a loro [gli idoli] e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (Es 2014). È l’invito alla conversione, a riprendere la propria vocazione di servi del «Signore», unico Dio, che ha creato Adamo, ha chiamato Abramo, ha guidato Giacobbe, ha salvato Isacco, ha redento Israele. «Dare a Cesare … dare a Dio» diventa così la discriminante tra autenticità e vacuità della fede. Non si può mettere Cesare sullo stesso piano di Dio e non si può abbassare Dio a livello di un capo di stato, come due autorità alla pari che si spartiscono i rispettivi ambiti d’influenza. Non è lecito fare confusioni. Purtroppo è triste sentire preti e anche vescovi e cardinali dare della frase di Gesù letture superficiali, senza alcun riferimento al testo nel suo contesto.

La giustizia di Gesù raggiunge la radice del cuore umano, là dove ciascuno prende coscienza di essere giustificato per grazia. L’esempio di Gesù deve essere illuminante per noi: nella Chiesa l’autorità non ha il privilegio di legiferare su tutto, anche sulle realtà più insignificanti o su questioni che non sono di sua pertinenza perché anch’essa ha il «limite» che le deriva direttamente dal Signore. La Chiesa, e in essa l’autorità, ha una funzione escatologica, deve cioè non dare soluzioni, ma indicare la strada, la mèta da raggiungere sapendo che per giungervi vi sono tante strade quante sono le persone. In una parola semplice: nelle questioni che riguardano le «realtà terrestri» il discepolo di Cristo non può mai parlare in nome di Dio che, invece, è tenuto a testimoniare e a rendere visibile con la coerenza nella verità della propria vita e delle proprie scelte. Sul senso di questa autonomia delle realtà terrestri, il concilio ecumenico Vaticano II ha scritto uno dei documenti più belli dell’ultimo secolo: la costituzione pastorale «Gaudium et Spes», oggi poco frequentata da quei cattolici che preferiscono la leggerezza irresponsabile dell’obbedienza passiva alla fatica del discernimento e della ricerca che rende appassionati del mondo, quel mondo che Dio ama così tanto da mandargli il suo Figlio unigenito: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Tes 5,21) e ancora: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Conclusione

Dichiarandosi incompetente di fronte a una questione di eredità, Gesù dice che i suoi seguaci, sul suo esempio, devono avere il senso del limite e non pretendere di avere sempre l’ultima parola su tutto e sempre in nome di Dio. Compito della Chiesa nel mondo è invitare uomini e donne a vivere la propria vita come «immagine e somiglianza» del Creatore, come missione a servizio degli altri, questa volta sì, per conto di Dio, perché tutti partecipino al banchetto della giustizia che è la premessa della pace.

«Date a Cesare quello che già appartiene a Cesare» è l’invito a non smarrire l’immagine di Dio che lui stesso ha deposto in noi perché fossimo nel mondo «la statua», il segno, cioè «il sacramento» della sua visibilità e della sua provvidenza, rendendolo credibile attraverso la credibilità delle nostre scelte e delle nostre azioni. Non è l’invito a separare la politica dalla fede, ma a coniugare l’una e l’altra nella visione finale del Regno di Dio alla luce della Carta costituzionale che per noi sono le «Beatitudini» (cf Lc 6,20-26; Mt 5,1-12), il «Padre nostro» (cf Lc 11,2-4; Mt 6,9-13) e il «Magnificat» (cf Lc 1,46-55) di Maria. Solo così i credenti possono essere «sale della terra e luce del mondo» (cf Mt 5,13.14), camminando in compagnia degli uomini e delle donne del loro tempo, agendo politicamente in modo disinteressato protesi a raggiungere la perfezione dell’immagine e della somiglianza radicale di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).

[8 – fine]

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1 Nella Liturgia è il vangelo della domenica 18a del tempo ordinario dell’anno C.

2 Al tempo di Gesù il patrimonio era indivisibile: doveva restare unito per cui, alla morte del titolare, il responsabile primo della proprietà era il primogenito, mentre agli altri figli era riconosciuto l’usufrutto. Con ogni probabilità, la domanda fu rivolta a Gesù da un figlio minore che voleva la sua parte per spenderla a suo piacimento.

3 Sulla parabola lucana che è il «culmen et fons» di tutta la Scrittura, non ci attardiamo oltre, dal momento che proprio su MC  l’abbiamo commentata nell’arco di oltre tre anni: cf P. Farinella, Il Padre che fu madre. Una lettura modea della parabola del Figliol Prodigo, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2010.

4 Heautontimorùmenos – Il punitore di se stesso, I, 1, 25 [165 a.C].

5 Orìgene parla di «lògos abbreviato» sia nell’incarnazione che nella morte (Perì Archon I,2,8); Gregorio di Nazianzo di «Lògos condensato» (Or. in Epiph. [Oratio in Epiphaniam] PG 36, 313 B); cf ancora Massimo il Confessore, in Ambigua [Ambiguorum liber] 91, 1285 C/1288 A, e Cent. Gnost. [Centuriae Gnosticarne] 2,37, PG 90, 1141 C); per Francesco di Assisi, cf Regola Bollata (1223), IX, 2 in Fonti 1977, n. 98.

Paolo Farinella




Zimbabwe: Il paese baciato da Dio

Il racconto di
un’esperienza di vita vissuta, al di là degli stereotipi.
Il paese
dell’esproprio terriero, dell’iperinflazione e della crisi alimentare. Della
discriminazione razziale e del diritto di parola soffocato. Ma anche delle
scuole di ottimo livello, della gentilezza delle persone e delle città ben
pianificate. Un paese tutto da scoprire, visto in queste pagine con occhi africani.

L’aeroplano atterrò una mattina di
inizio gennaio, portando me e la mia famiglia ad Harare. Non sapevamo cosa
aspettarci, data tutta la pubblicità negativa che questo paese aveva avuto sui
mass media di tutto il mondo. L’anno era il 2010 e lo Zimbabwe stava ancora
barcollando sotto gli effetti paralizzanti di una catastrofe economica che
aveva portato ad abbandonare la moneta nazionale, il dollaro zimbabwano,
nell’aprile 2009. Moneta che entrò nel Guinness dei primati l’anno successivo
per aver avuto il maggior numero di zeri su un biglietto di banca, con la cifra
di 100.000.000.000 (100 miliardi) di dollari. Ma il mio
obiettivo non è qui fare un’analisi, bensì raccontarvi alcune osservazioni personali.

Arrivati
da un paese dell’Africa dell’Est ci installammo ad Harare e iniziò la routine
quotidiana: trovare le scuole per i nostri figli, avere degli amici. Ma ancora
oggi, anche se questo paese ha i suoi punti deboli, continuiamo a essere stupiti
delle meraviglie che Dio gli ha regalato.

Scuole e fughe di cervelli

Quello che mi ha impressionato maggiormente in Zimbabwe sono state
le sue scuole. Molte sono state toccate dalla crisi economica e hanno subito la
fuga di cervelli (tanti professionisti hanno lasciato il paese in cerca di
occasioni migliori, oppure un gran numero di professori hanno abbandonato
l’insegnamento). Un insegnante mi disse che era diventato troppo caro «perfino
recarsi a scuola». Nonostante questi problemi, la scuola segue un curriculum
olistico, ereditato dai giorni della colonia, che normalmente include molto
sport, musica e teatro, attività artistiche per i giovani. Molte scuole private
seguono il programma del certificato di Cambridge del Regno Unito, con sette
anni di scuola primaria, seguita da quattro anni di secondaria e ulteriori due
anni di superiore (high school, nell’ordinamento anglofono, ndr).
Arrivati a conclusione dell’iter scolastico gli studenti sono normalmente alla
pari con ogni altro allievo del Regno Unito. Tuttavia questo apprendimento
privilegiato resta appannaggio di alcuni ragazzi fortunati, sia di famiglie
benestanti, che sono in grado di mandarli in costose scuole private, sia quelli
che sono abbastanza bravi per essere ammessi grazie ai loro risultati.

Come in molti altri paesi africani, la Chiesa Cattolica
contribuisce a portare avanti la qualità dell’educazione in Zimbabwe. Ma essere
ammessi nelle scuole è talmente competitivo che spesso i genitori devono
prenotare il posto per i figli con tre anni di anticipo.

Così la maggioranza frequenta le poche scuole pubbliche
disponibili, dove, anche se c’è una ricca eredità lasciata dai tempi coloniali,
si lotta con la penuria di libri di testo e il limitato numero di insegnanti.

A ogni famiglia, in questo caso, è richiesto di pagare per
l’educazione dei propri figli, anche se la quota è normalmente molto inferiore
nelle scuole pubbliche che in quelle private.

Quasi il 90% degli studenti privilegiati che completano la scuola
superiore, scelgono di continuare fuori dallo Zimbabwe. La maggioranza parte
per Regno Unito e Sud Africa, mentre altri vanno verso Est: Cina, Singapore,
Malesia in particolare.

L’Università dello Zimbabwe ammette un gran numero di studenti
dalla scuola pubblica locale anche se ci sono state denunce della maggior parte
delle facoltà rimaste senza docenti. Ancora una volta questo fatto è dovuto
all’elevata fuga dei cervelli causata principalmente dalle difficili condizioni
economiche e dal basso livello di inquadramento che prevale nel paese. Ci sono
cinque università pubbliche e altrettante università private che offrono corsi
rilevanti principalmente nel settore commerciale.

Buona educazione

Impressionante è anche l’educazione della gente dello Zimbabwe,
inculcata fin dalla tenera età. Come straniera l’ho trovata inizialmente
opprimente, perché nel mio paese in questi casi diciamo che: «troppa familiarità
con tutti è sospetta». Abbinata con questa educazione le persone hanno un
raffinato senso di correttezza e serietà.

La rete stradale del paese, in particolare delle città di Harare e
Bulawayo, sono ben studiate. I semafori ad Harare sono stati un positivo
cambiamento rispetto al traffico della mia città. Vie e strade sono molto
larghe e tutto è ben segnalato e chiaro. Naturalmente si vede l’effetto della
crisi economica, e della mancanza di investitori: mentre molte strade sono
ancora in buono stato, diverse altre sono piene di buche. Le vie della
capitale, e di altre città, sono costeggiate da alberi che danno uno
straordinario colore quando fioriscono, dalle purpuree jacaranda, alle altre
varietà che portano le vie a tonalità dal fiammante arancione, rosso, bianco e
rosa.

Tendenze preoccupanti

In ogni città si trovano aspetti impressionanti ma anche tendenze
preoccupanti. C’è un elevato livello di disoccupazione che ha portato molte
persone a lasciare il paese in cerca di lavoro. Esiste tuttavia un lato
positivo in questo, perché molti altri sono riusciti a portare avanti piccoli business
per sostenere le proprie famiglie.

La tendenza di molti di creare o seguire una «chiesa profetica» è
preoccupante. Ma è ovvio che persone disperate le seguono sperando in miracoli
che possano rendere le loro vite migliori o più prospere.

L’Hiv/Aids continua a essere il problema principale. Ho incontrato
molte vedove che hanno perso il loro marito a causa di questo flagello. La
Chiesa Cattolica continua a portare avanti sforzi e fornire soccorsi a chi ne è
colpito.

Lingua e culture

Dal mio punto di vista di straniera, ho trovato interessanti
alcuni nomi molto comuni. Ho conosciuto diversi zimbabwani con nomi come:
Medicina, Psicologia, Rimpianto, Geloso, Comunque, Dimentica, Benedici e altri.
Indagando ho scoperto che questi nomi sono normalmente un tentativo di tradurre
nella lingua locale shona nomi in inglese, o talvolta di mettere in
relazione le circostanze della nascita con i nomi. Tuttavia la tendenza sembra
cambiare, con molti genitori che danno ai loro bambini un nome cristiano
seguito da un nome shona.

Interessante per me è la sorprendente somiglianza tra lo shona,
diffusamente parlato ad Harare e la mia lingua. Ci sono due gruppi etnici
principali in Zimbabwe: shona e ndebele, entrambi di origine
bantu. Bantu è un grosso gruppo di tribù distribuite in Africa centrale e del
Sud – Est. Il tratto comune di questi popoli è il riferimento di base «munhu,
mundu o mtu», un termine che si riferisce all’uomo. Ci sono poi molte altre
comunanze linguistiche che rimandano a una origine comune. Oltre che all’ovvio
riferimento a una persona, la radice della parola bantu «utu» identifica uno
stato di essere, la disposizione di vedere l’altro come un essere umano e di
considerarlo con rispetto e considerazione. Il movimento «Ubuntu» che si sta
risvegliando in Sudafrica è un tentativo di rivitalizzare queste antiche
usanze.

La popolazione di lingua shona e che parla i suoi vari
dialetti costituisce la maggioranza degli zimbabweani ed è dominante nei
settori del commercio, educazione e politica. Il secondo gruppo etnico sono i ndebele,
discendenti di un gruppo di guerrieri zulu (un’etnia sudafricana di fieri
combattenti) che si installarono nel Sud dello Zimbabwe alla fine degli anni
1830, sotto la leadership del capo militare Mzilikazi. Essendo una minoranza, i ndebele sono stati
spinti in periferia e molti di loro sono poveri. Il colonialismo ha perturbato
le loro comunità tradizionali molto ben organizzate, così oggi questo gruppo è
escluso da molti privilegi politici. C’era una rivalità tradizionale tra shona
e ndebele maggiormente dovuta al fatto che i primi hanno sempre accusato
i secondi di averli spinti fuori dalle loro terre. I politici utilizzarono per
i loro fini questa rivalità fin dopo l’indipendenza del 1980, ed essa perdura
ancora attraverso modalità sottili.

In effetti, il massacro di Gukurahundi del 1983, nel quale
centinaia di ndebele furono brutalmente uccisi dalle forze governative,
rimane vivo nelle menti di molti. Questo è un punto dolente che non è stato
risolto e una vera riconciliazione tra le due comunità non potrà esserci,
fintanto che esso non sia affrontato serenamente. Non ci sono scontri etnici,
ma un risentimento profondo che può venire in superficie, in particolare in
tempo di elezioni.

Sicurezza

Vivere e viaggiare in Zimbabwe continua a essere relativamente
sicuro, se confrontato, ad esempio, con il vicino Sudafrica, dove crimini
violenti sono frequenti, anche dovuti alla xenofobia. Tuttavia, come risultato
della crisi economica, arrivata dopo la sistematica e forzata cacciata dei
proprietari terrieri bianchi, c’è stato un aumento dell’attività criminale.

Ogni discussione sullo Zimbabwe è incompleta se non si parla della
cosiddetta «tribù bianca». Rimangono nel paese un gran numero di bianchi zimbabwani
di terza e quarta generazione. Tra il 1998 e il 2000 ci fu una cacciata di
massa dei proprietari di origine europea dalle loro fattorie. Scene terribili
che portarono il paese e il suo presidente in cattiva luce a livello
internazionale. È importante guardare alle cause e ai risultati di questi
sfratti. In primo luogo gli zimbabwani «indigeni» si sentivano emarginati negli
anni da una minoranza bianca che aveva imposto una politica simile all’apartheid
sudafricano.

Per questo ci furono maltrattamenti di chi
osava andare contro le regole. Gli africani venivano relegati in piccole aree
riservate, mentre appezzamenti grandi e fertili erano posseduti dai proprietari
bianchi. I leader politici sostenevano che ci fosse stato un negoziato
in cui i coloni avevano promesso di tenere parte delle terre per un periodo
massimo di 10 anni dopo l’indipendenza. Ma pare che abbiano cambiato idea poco
a poco. Gli africani neri credevano inoltre che alcuni proprietari bianchi
ricavassero diamanti e altri minerali di nascosto dalle loro proprietà.

Questi sono alcuni dei motivi che portarono il presidente Robert
Mugabe e i suoi a forzare l’esproprio terriero alla minoranza di fattori
bianchi.

Lo sfratto violento dei bianchi e l’esproprio forzato dopo anni di
investimenti non furono né legali né azioni umanitarie, nonostante le ragioni
che portarono a esso.

Ci furono anche questioni rispetto alla redistribuzione della
terra ottenuta con gli sfratti dei bianchi, ed è chiaro che i maggiori
beneficiari furono quelli legati alle alte sfere politiche. C’è anche stato un
generale vandalismo delle proprietà, che erano state rese produttive ed
efficienti in anni di lavoro e fatiche dei coloni e i loro discendenti. Questo
ha portato al problema dell’insicurezza alimentare, un tempo inesistente nel
paese.

Solo il dialogo tra il governo e le famiglie coinvolte, rivolto
alla riconciliazione e compensazione, può farla finita con le enormi
conseguenze negative degli espropri.

Turismo possibile?

In Zimbabwe ci sono molti siti storici e naturalistici da
visitare: il più famoso è quello delle cascate Vittoria, le seconde maggiori
nel mondo (per portata, ndr), situate al confine tra Zimbabwe e Zambia.
Questa visita è una reale esperienza.

Il percorso da Harare alle cascate è già un bel viaggio perché si
ha la possibilità di vedere la favolosa varietà di specie animali che ci sono
ancora in Zimbabwe. In particolare i molti elefanti di Hwange game park.

Vicino alla capitale, a 30 minuti, c’è il
monumento Domboshawa, una collina che ospita una cavea con pitture dell’uomo
preistorico. Un bel sito anche per pregare. Un altro posto da vedere è una
piccola bellissima chiesa nella periferia di Harare, costruita nel 1902. Il
pezzo più bello è la statua di Nostra Signora che rompe il diavolo del commercio
degli schiavi. Un altro sito è il Great Dzimbabwe in cui sono presenti antiche
costruzioni bantu complete di manufatti.

Lo Zimbabwe è anche classificato come un paese con il miglior
clima nel mondo durante l’anno. Un’idea di business è quella di costruire
pensionati per anziani come investimento nazionale.

Bellezza e potenziale, disperazione politica e resilienza
(resistenza e reazione positiva, ndr) che ancora fa camminare gli
zimbabwani a testa alta. Tutto questo è visibile in Zimbabwe. Come si dice: «Ogni
nuvola ha un rivestimento d’argento».

Josephine Msafiri

 
       Ancora il «Grande Vecchio»                             
Lo Zimbabwe dopo le elezioni di luglio

Dall’indipendenza del 1980 al nuovo governo (settembre
2013), il paese continua ad avere un solo unico capo: Robert Mugabe. Odiato
all’estero (dagli occidentali) e amato (in parte) in patria. Il padre padrone
dello Zimbabwe ha spesso utilizzato concetti di giustizia per favorire il suo
gruppo di potere.

Robert Mugabe è sempre il
capo. Le elezioni generali del 31 luglio scorso l’hanno confermato presidente
con il 61% dei voti, contro il 34% del rivale Morgan Tsvangirai. Mugabe, 89
anni, al potere dall’indipendenza (1980) ha così giurato il 22 agosto per il
suo sesto mandato di cinque anni come presidente della Repubblica. Allo stesso
tempo in parlamento il suo partito, lo Zanu-Pf (Unione nazionale africana –
Fronte patriottico), ha ottenuto oltre i due terzi dei seggi, mentre secondo è
il Mdc (Movimento per il cambiamento democratico) di Tsvangirai. Questo vuol
anche dire che la nuova Costituzione (del marzo di quest’anno) potrebbe essere
facilmente modificata.

Nelle precedenti elezioni del 2008, Morgan Tsvangirai
era in vantaggio, ma aveva dovuto cedere a pressioni e violenze nei confronti
dei suoi, e accettare, grazie a una mediazione dei paesi africani, una «coabitazione»
coatta: Mugabe presidente e lui primo ministro.

Ora Mugabe può fare da solo e il 10 settembre ha creato
il nuovo governo, rigorosamente monopartitico Zanu-Pf. Tutti i ministri sono
dei suoi fedelissimi, alcuni della vecchia guardia, già ministri dopo
l’indipendenza.

Le
ultime elezioni sono state vivamente criticate da Tsvangirai che le ha definite
una «enorme farsa». Secondo il Mdc, infatti, migliaia di votanti delle città
(più inclini a votare Tsvangirai) non hanno trovato il loro nome sulle liste
elettorali, mentre altre «decine di migliaia» di elettori sarebbero stati «aiutati»
a votare da partigiani di Mugabe presenti nei seggi. Anche gli osservatori
indipendenti occidentali hanno accusato un elevato numero di brogli durante lo
scrutinio. Non così gli osservatori dei paesi africani, per i quali il voto è
stato sostanzialmente corretto.

Il grande capo, fondatore della patria, ha favorito gli
espropri violenti da metà anni ’90 a tutta la decade 2000. Migliaia di fattori
bianchi (zimbabwani discendenti dei coloni) sono stati cacciati a forza dalle
loro proprietà, spesso senza alcun indennizzo dello stato. La terra è stata
ridistribuita agli zimbabwani neri e il più delle volte presa con la forza. Se
la redistribuzione delle risorse ha un forte fondamento di giustizia sociale,
il modo con cui è stata fatta non ha per nulla rispettato i diritti di tutti.
Inoltre: «Spesso hanno beneficiato delle terre espropriate le persone vicine al
presidente o al potere» ci confida una fonte che chiede l’anonimato.

Gli
espropri hanno avuto anche l’effetto di portare il paese in una crisi economica
mai vista. Da esportatore di cereali per tutta l’area in passato lo Zimbabwe
vive oggi una profonda crisi alimentare. Con il crollo dell’economia si è
creata una situazione di iperinflazione e nel 2009 è stato consentito l’uso di
valute straniere anche nella vita di ogni giorno (le più comuni sono il dollaro
Usa e il rand sudafricano) con il progressivo abbandonato dell’uso del dollaro zimbabwano.

Anche il rispetto dei diritti umani non è dei migliori e
in particolare la libertà di stampa e di espressione subisce grandi
restrizioni, media privati chiusi a forza e operatori incarcerati.

Con il nuovo governo Mugabe vuole procedere nella
politica di «indigenizzazione», in particolare garantendo che la maggioranza
del capitale delle filiali locali di aziende e gruppi multinazionali, passi in
mano di zimbabwani (neri). Per questo è stato creato un ministero ad hoc
(ministero dell’Indigenizzazione) e sarà guidato da Francis Nhema, già ministro
dell’Ambiente.

Il paese resta di fatto diviso in due: pro e contro
Mugabe, tra chi è legato alla concezione africana del capo «a vita» e chi
invece anela un cambiamento.

Marco Bello

Josephine Msafiri e Marco Bello