Il racconto di
un’esperienza di vita vissuta, al di là degli stereotipi.
Il paese
dell’esproprio terriero, dell’iperinflazione e della crisi alimentare. Della
discriminazione razziale e del diritto di parola soffocato. Ma anche delle
scuole di ottimo livello, della gentilezza delle persone e delle città ben
pianificate. Un paese tutto da scoprire, visto in queste pagine con occhi africani.
L’aeroplano atterrò una mattina di
inizio gennaio, portando me e la mia famiglia ad Harare. Non sapevamo cosa
aspettarci, data tutta la pubblicità negativa che questo paese aveva avuto sui
mass media di tutto il mondo. L’anno era il 2010 e lo Zimbabwe stava ancora
barcollando sotto gli effetti paralizzanti di una catastrofe economica che
aveva portato ad abbandonare la moneta nazionale, il dollaro zimbabwano,
nell’aprile 2009. Moneta che entrò nel Guinness dei primati l’anno successivo
per aver avuto il maggior numero di zeri su un biglietto di banca, con la cifra
di 100.000.000.000 (100 miliardi) di dollari. Ma il mio
obiettivo non è qui fare un’analisi, bensì raccontarvi alcune osservazioni personali.
Arrivati
da un paese dell’Africa dell’Est ci installammo ad Harare e iniziò la routine
quotidiana: trovare le scuole per i nostri figli, avere degli amici. Ma ancora
oggi, anche se questo paese ha i suoi punti deboli, continuiamo a essere stupiti
delle meraviglie che Dio gli ha regalato.
Quello che mi ha impressionato maggiormente in Zimbabwe sono state
le sue scuole. Molte sono state toccate dalla crisi economica e hanno subito la
fuga di cervelli (tanti professionisti hanno lasciato il paese in cerca di
occasioni migliori, oppure un gran numero di professori hanno abbandonato
l’insegnamento). Un insegnante mi disse che era diventato troppo caro «perfino
recarsi a scuola». Nonostante questi problemi, la scuola segue un curriculum
olistico, ereditato dai giorni della colonia, che normalmente include molto
sport, musica e teatro, attività artistiche per i giovani. Molte scuole private
seguono il programma del certificato di Cambridge del Regno Unito, con sette
anni di scuola primaria, seguita da quattro anni di secondaria e ulteriori due
anni di superiore (high school, nell’ordinamento anglofono, ndr).
Arrivati a conclusione dell’iter scolastico gli studenti sono normalmente alla
pari con ogni altro allievo del Regno Unito. Tuttavia questo apprendimento
privilegiato resta appannaggio di alcuni ragazzi fortunati, sia di famiglie
benestanti, che sono in grado di mandarli in costose scuole private, sia quelli
che sono abbastanza bravi per essere ammessi grazie ai loro risultati.
Come in molti altri paesi africani, la Chiesa Cattolica
contribuisce a portare avanti la qualità dell’educazione in Zimbabwe. Ma essere
ammessi nelle scuole è talmente competitivo che spesso i genitori devono
prenotare il posto per i figli con tre anni di anticipo.
Così la maggioranza frequenta le poche scuole pubbliche
disponibili, dove, anche se c’è una ricca eredità lasciata dai tempi coloniali,
si lotta con la penuria di libri di testo e il limitato numero di insegnanti.
A ogni famiglia, in questo caso, è richiesto di pagare per
l’educazione dei propri figli, anche se la quota è normalmente molto inferiore
nelle scuole pubbliche che in quelle private.
Quasi il 90% degli studenti privilegiati che completano la scuola
superiore, scelgono di continuare fuori dallo Zimbabwe. La maggioranza parte
per Regno Unito e Sud Africa, mentre altri vanno verso Est: Cina, Singapore,
Malesia in particolare.
L’Università dello Zimbabwe ammette un gran numero di studenti
dalla scuola pubblica locale anche se ci sono state denunce della maggior parte
delle facoltà rimaste senza docenti. Ancora una volta questo fatto è dovuto
all’elevata fuga dei cervelli causata principalmente dalle difficili condizioni
economiche e dal basso livello di inquadramento che prevale nel paese. Ci sono
cinque università pubbliche e altrettante università private che offrono corsi
rilevanti principalmente nel settore commerciale.
Impressionante è anche l’educazione della gente dello Zimbabwe,
inculcata fin dalla tenera età. Come straniera l’ho trovata inizialmente
opprimente, perché nel mio paese in questi casi diciamo che: «troppa familiarità
con tutti è sospetta». Abbinata con questa educazione le persone hanno un
raffinato senso di correttezza e serietà.
La rete stradale del paese, in particolare delle città di Harare e
Bulawayo, sono ben studiate. I semafori ad Harare sono stati un positivo
cambiamento rispetto al traffico della mia città. Vie e strade sono molto
larghe e tutto è ben segnalato e chiaro. Naturalmente si vede l’effetto della
crisi economica, e della mancanza di investitori: mentre molte strade sono
ancora in buono stato, diverse altre sono piene di buche. Le vie della
capitale, e di altre città, sono costeggiate da alberi che danno uno
straordinario colore quando fioriscono, dalle purpuree jacaranda, alle altre
varietà che portano le vie a tonalità dal fiammante arancione, rosso, bianco e
rosa.
In ogni città si trovano aspetti impressionanti ma anche tendenze
preoccupanti. C’è un elevato livello di disoccupazione che ha portato molte
persone a lasciare il paese in cerca di lavoro. Esiste tuttavia un lato
positivo in questo, perché molti altri sono riusciti a portare avanti piccoli business
per sostenere le proprie famiglie.
La tendenza di molti di creare o seguire una «chiesa profetica» è
preoccupante. Ma è ovvio che persone disperate le seguono sperando in miracoli
che possano rendere le loro vite migliori o più prospere.
L’Hiv/Aids continua a essere il problema principale. Ho incontrato
molte vedove che hanno perso il loro marito a causa di questo flagello. La
Chiesa Cattolica continua a portare avanti sforzi e fornire soccorsi a chi ne è
colpito.
Dal mio punto di vista di straniera, ho trovato interessanti
alcuni nomi molto comuni. Ho conosciuto diversi zimbabwani con nomi come:
Medicina, Psicologia, Rimpianto, Geloso, Comunque, Dimentica, Benedici e altri.
Indagando ho scoperto che questi nomi sono normalmente un tentativo di tradurre
nella lingua locale shona nomi in inglese, o talvolta di mettere in
relazione le circostanze della nascita con i nomi. Tuttavia la tendenza sembra
cambiare, con molti genitori che danno ai loro bambini un nome cristiano
seguito da un nome shona.
Interessante per me è la sorprendente somiglianza tra lo shona,
diffusamente parlato ad Harare e la mia lingua. Ci sono due gruppi etnici
principali in Zimbabwe: shona e ndebele, entrambi di origine
bantu. Bantu è un grosso gruppo di tribù distribuite in Africa centrale e del
Sud – Est. Il tratto comune di questi popoli è il riferimento di base «munhu,
mundu o mtu», un termine che si riferisce all’uomo. Ci sono poi molte altre
comunanze linguistiche che rimandano a una origine comune. Oltre che all’ovvio
riferimento a una persona, la radice della parola bantu «utu» identifica uno
stato di essere, la disposizione di vedere l’altro come un essere umano e di
considerarlo con rispetto e considerazione. Il movimento «Ubuntu» che si sta
risvegliando in Sudafrica è un tentativo di rivitalizzare queste antiche
usanze.
La popolazione di lingua shona e che parla i suoi vari
dialetti costituisce la maggioranza degli zimbabweani ed è dominante nei
settori del commercio, educazione e politica. Il secondo gruppo etnico sono i ndebele,
discendenti di un gruppo di guerrieri zulu (un’etnia sudafricana di fieri
combattenti) che si installarono nel Sud dello Zimbabwe alla fine degli anni
1830, sotto la leadership del capo militare Mzilikazi. Essendo una minoranza, i ndebele sono stati
spinti in periferia e molti di loro sono poveri. Il colonialismo ha perturbato
le loro comunità tradizionali molto ben organizzate, così oggi questo gruppo è
escluso da molti privilegi politici. C’era una rivalità tradizionale tra shona
e ndebele maggiormente dovuta al fatto che i primi hanno sempre accusato
i secondi di averli spinti fuori dalle loro terre. I politici utilizzarono per
i loro fini questa rivalità fin dopo l’indipendenza del 1980, ed essa perdura
ancora attraverso modalità sottili.
In effetti, il massacro di Gukurahundi del 1983, nel quale
centinaia di ndebele furono brutalmente uccisi dalle forze governative,
rimane vivo nelle menti di molti. Questo è un punto dolente che non è stato
risolto e una vera riconciliazione tra le due comunità non potrà esserci,
fintanto che esso non sia affrontato serenamente. Non ci sono scontri etnici,
ma un risentimento profondo che può venire in superficie, in particolare in
tempo di elezioni.
Vivere e viaggiare in Zimbabwe continua a essere relativamente
sicuro, se confrontato, ad esempio, con il vicino Sudafrica, dove crimini
violenti sono frequenti, anche dovuti alla xenofobia. Tuttavia, come risultato
della crisi economica, arrivata dopo la sistematica e forzata cacciata dei
proprietari terrieri bianchi, c’è stato un aumento dell’attività criminale.
Ogni discussione sullo Zimbabwe è incompleta se non si parla della
cosiddetta «tribù bianca». Rimangono nel paese un gran numero di bianchi zimbabwani
di terza e quarta generazione. Tra il 1998 e il 2000 ci fu una cacciata di
massa dei proprietari di origine europea dalle loro fattorie. Scene terribili
che portarono il paese e il suo presidente in cattiva luce a livello
internazionale. È importante guardare alle cause e ai risultati di questi
sfratti. In primo luogo gli zimbabwani «indigeni» si sentivano emarginati negli
anni da una minoranza bianca che aveva imposto una politica simile all’apartheid
sudafricano.
Per questo ci furono maltrattamenti di chi
osava andare contro le regole. Gli africani venivano relegati in piccole aree
riservate, mentre appezzamenti grandi e fertili erano posseduti dai proprietari
bianchi. I leader politici sostenevano che ci fosse stato un negoziato
in cui i coloni avevano promesso di tenere parte delle terre per un periodo
massimo di 10 anni dopo l’indipendenza. Ma pare che abbiano cambiato idea poco
a poco. Gli africani neri credevano inoltre che alcuni proprietari bianchi
ricavassero diamanti e altri minerali di nascosto dalle loro proprietà.
Questi sono alcuni dei motivi che portarono il presidente Robert
Mugabe e i suoi a forzare l’esproprio terriero alla minoranza di fattori
bianchi.
Lo sfratto violento dei bianchi e l’esproprio forzato dopo anni di
investimenti non furono né legali né azioni umanitarie, nonostante le ragioni
che portarono a esso.
Ci furono anche questioni rispetto alla redistribuzione della
terra ottenuta con gli sfratti dei bianchi, ed è chiaro che i maggiori
beneficiari furono quelli legati alle alte sfere politiche. C’è anche stato un
generale vandalismo delle proprietà, che erano state rese produttive ed
efficienti in anni di lavoro e fatiche dei coloni e i loro discendenti. Questo
ha portato al problema dell’insicurezza alimentare, un tempo inesistente nel
paese.
Solo il dialogo tra il governo e le famiglie coinvolte, rivolto
alla riconciliazione e compensazione, può farla finita con le enormi
conseguenze negative degli espropri.
In Zimbabwe ci sono molti siti storici e naturalistici da
visitare: il più famoso è quello delle cascate Vittoria, le seconde maggiori
nel mondo (per portata, ndr), situate al confine tra Zimbabwe e Zambia.
Questa visita è una reale esperienza.
Il percorso da Harare alle cascate è già un bel viaggio perché si
ha la possibilità di vedere la favolosa varietà di specie animali che ci sono
ancora in Zimbabwe. In particolare i molti elefanti di Hwange game park.
Vicino alla capitale, a 30 minuti, c’è il
monumento Domboshawa, una collina che ospita una cavea con pitture dell’uomo
preistorico. Un bel sito anche per pregare. Un altro posto da vedere è una
piccola bellissima chiesa nella periferia di Harare, costruita nel 1902. Il
pezzo più bello è la statua di Nostra Signora che rompe il diavolo del commercio
degli schiavi. Un altro sito è il Great Dzimbabwe in cui sono presenti antiche
costruzioni bantu complete di manufatti.
Lo Zimbabwe è anche classificato come un paese con il miglior
clima nel mondo durante l’anno. Un’idea di business è quella di costruire
pensionati per anziani come investimento nazionale.
Bellezza e potenziale, disperazione politica e resilienza
(resistenza e reazione positiva, ndr) che ancora fa camminare gli
zimbabwani a testa alta. Tutto questo è visibile in Zimbabwe. Come si dice: «Ogni
nuvola ha un rivestimento d’argento».
Lo Zimbabwe dopo le elezioni di luglio
Dall’indipendenza del 1980 al nuovo governo (settembre
2013), il paese continua ad avere un solo unico capo: Robert Mugabe. Odiato
all’estero (dagli occidentali) e amato (in parte) in patria. Il padre padrone
dello Zimbabwe ha spesso utilizzato concetti di giustizia per favorire il suo
gruppo di potere.
Robert Mugabe è sempre il
capo. Le elezioni generali del 31 luglio scorso l’hanno confermato presidente
con il 61% dei voti, contro il 34% del rivale Morgan Tsvangirai. Mugabe, 89
anni, al potere dall’indipendenza (1980) ha così giurato il 22 agosto per il
suo sesto mandato di cinque anni come presidente della Repubblica. Allo stesso
tempo in parlamento il suo partito, lo Zanu-Pf (Unione nazionale africana –
Fronte patriottico), ha ottenuto oltre i due terzi dei seggi, mentre secondo è
il Mdc (Movimento per il cambiamento democratico) di Tsvangirai. Questo vuol
anche dire che la nuova Costituzione (del marzo di quest’anno) potrebbe essere
facilmente modificata.
Nelle precedenti elezioni del 2008, Morgan Tsvangirai
era in vantaggio, ma aveva dovuto cedere a pressioni e violenze nei confronti
dei suoi, e accettare, grazie a una mediazione dei paesi africani, una «coabitazione»
coatta: Mugabe presidente e lui primo ministro.
Ora Mugabe può fare da solo e il 10 settembre ha creato
il nuovo governo, rigorosamente monopartitico Zanu-Pf. Tutti i ministri sono
dei suoi fedelissimi, alcuni della vecchia guardia, già ministri dopo
l’indipendenza.
Le
ultime elezioni sono state vivamente criticate da Tsvangirai che le ha definite
una «enorme farsa». Secondo il Mdc, infatti, migliaia di votanti delle città
(più inclini a votare Tsvangirai) non hanno trovato il loro nome sulle liste
elettorali, mentre altre «decine di migliaia» di elettori sarebbero stati «aiutati»
a votare da partigiani di Mugabe presenti nei seggi. Anche gli osservatori
indipendenti occidentali hanno accusato un elevato numero di brogli durante lo
scrutinio. Non così gli osservatori dei paesi africani, per i quali il voto è
stato sostanzialmente corretto.
Il grande capo, fondatore della patria, ha favorito gli
espropri violenti da metà anni ’90 a tutta la decade 2000. Migliaia di fattori
bianchi (zimbabwani discendenti dei coloni) sono stati cacciati a forza dalle
loro proprietà, spesso senza alcun indennizzo dello stato. La terra è stata
ridistribuita agli zimbabwani neri e il più delle volte presa con la forza. Se
la redistribuzione delle risorse ha un forte fondamento di giustizia sociale,
il modo con cui è stata fatta non ha per nulla rispettato i diritti di tutti.
Inoltre: «Spesso hanno beneficiato delle terre espropriate le persone vicine al
presidente o al potere» ci confida una fonte che chiede l’anonimato.
Gli
espropri hanno avuto anche l’effetto di portare il paese in una crisi economica
mai vista. Da esportatore di cereali per tutta l’area in passato lo Zimbabwe
vive oggi una profonda crisi alimentare. Con il crollo dell’economia si è
creata una situazione di iperinflazione e nel 2009 è stato consentito l’uso di
valute straniere anche nella vita di ogni giorno (le più comuni sono il dollaro
Usa e il rand sudafricano) con il progressivo abbandonato dell’uso del dollaro zimbabwano.
Anche il rispetto dei diritti umani non è dei migliori e
in particolare la libertà di stampa e di espressione subisce grandi
restrizioni, media privati chiusi a forza e operatori incarcerati.
Con il nuovo governo Mugabe vuole procedere nella
politica di «indigenizzazione», in particolare garantendo che la maggioranza
del capitale delle filiali locali di aziende e gruppi multinazionali, passi in
mano di zimbabwani (neri). Per questo è stato creato un ministero ad hoc
(ministero dell’Indigenizzazione) e sarà guidato da Francis Nhema, già ministro
dell’Ambiente.
Il paese resta di fatto diviso in due: pro e contro
Mugabe, tra chi è legato alla concezione africana del capo «a vita» e chi
invece anela un cambiamento.
Josephine Msafiri e Marco Bello