attacco. Un attacco molto insidioso perché messo in atto da istituzioni
pubbliche (governo e congresso). In queste pagine fratel Carlo Zacquini, una
vita trascorsa a lottare a fianco degli indigeni, e degli Yanomami in
particolare, racconta cosa sta accadendo e quanto grave sia la situazione.
I numeri sono schiaccianti. Le persone coinvolte sono «soltanto»
novecentomila su una popolazione di 201 milioni. Eppure la questione indigena nel Brasile
della crescita economica e delle proteste di piazza è un tema dirompente. È una
scelta tra la strada dell’omologazione al modello neoliberista e dello sviluppo
fondato sul saccheggio delle risorse naturali e quella della difesa di popoli
indigeni a volte ridotti a pochi individui.
«La situazione è molto grave e io mi sento in
un’angustia indicibile, perché non riesco a sensibilizzare un numero
sufficiente di persone che possano rovesciarla». A parlare così è Carlo Zacquini, missionario della
Consolata, da 48 anni in Brasile. Per motivi di salute fratel Carlo risiede a
Boa Vista, capitale dello stato amazzonico di Roraima, ma per tantissimi anni
ha vissuto nella foresta con gli indigeni.
«Pochi mesi dopo il mio arrivo in Brasile, era il primo
maggio del 1965, alla foce del Rio Apiaù, ebbi la fortuna di incontrare alcuni
indigeni che allora erano chiamati Vaikà. Oggi so che erano Yanomami del
villaggio Yõkositheri. Fu amore a prima vista. In seguito ebbi vari contatti
sempre con lo stesso gruppo, finché, per l’assentarsi del mio collega padre
Giovanni Calleri, ebbi l’occasione di cominciare a vivere tra gli Yanomami del
Rio Catrimani. Poco alla volta, mentre cercavo di sopravvivere in quel luogo,
molte volte senza il minimo necessario, imparai una delle loro lingue e, cominciai
a fare delle ricerche sulla loro cultura». Le attività di fratel Zacquini
furono interrotte nel 1974, dalle opere di una strada genocida – la Perimetral
Norte o Br-210 – che il governo militare di allora aveva deciso di
costruire per andare dall’Atlantico al Pacifico. «Fu una tragedia che non
dimenticherò mai. Vari villaggi furono decimati da malattie sconosciute agli
Yanomami, portate dagli addetti alla costruzione della strada. Non si saprà mai
quanti morirono. Superata questa fase, ben presto la strada, incompleta, fu
risucchiata dalla foresta. Nel frattempo
io avevo dovuto abbandonare le mie ricerche e dedicarmi quasi esclusivamente
alla medicina per cercare di salvare la vita almeno a quelli che erano più
vicini a me».
Fratel Carlo parla degli indigeni come fossero la sua famiglia. E
certamente lo sono, ieri come oggi, quando essi sono oggetto di attacchi ancora
più vergognosi del passato in quanto provenienti da rappresentanti del
Congresso nazionale (aderenti alla potente Bancada ruralista, la quale spesso
trova appoggio nella Bancada evangelica), intenti a svuotare la portata del
Capitolo VIII («Degli indios») della Costituzione del 1988. «Sono riconosciuti
agli indios – recita l’articolo 231 – la loro organizzazione sociale, i
costumi, le lingue, credenze e tradizioni, e i diritti originari sulle terre
che occupano tradizionalmente, spettando all’Unione la loro demarcazione, la
protezione e il rispetto di tutti i loro beni». I congressisti giocano su un
terreno favorevole. Oggi una parte importante dei brasiliani malsopporta gli
indigeni. «Cosa sono oggi, per il Brasile, questi popoli? La prima impressione è
che loro siano di intralcio. Scomodi. O peggio. Per molti “patrioti” essi sono
un disonore: “Come si può ammettere – dicono – che esistano ancora oggi dei
‘selvaggi’ nel nostro paese che sta primeggiando tra le grandi economie
mondiali?”». Fino al 10 luglio 2013, la presidente Dilma non aveva mai ricevuto
i rappresentanti dei popoli indigeni. Le foto dell’incontro, diffuse dal
Planalto (il palazzo sede della presidenza), non debbono trarre in inganno. I
sorrisi sono di circostanza, buoni per i media e per la piazza che ha bisogno
di messaggi tranquillizzanti. Dietro lo scenario le manovre sono ben diverse.
Dai tempi della dittatura militare il
governo di Dilma è quello che ha demarcato meno terre indigene, ma soprattutto è
quello che sta di fatto erodendo diritti che sembravano acquisiti (anche se
spesso non erano effettivi). La demolizione è sistematica e continua attraverso
ordinanze (portarias), progetti di revisione costituzionale (Pec),
decreti, leggi. Per citare i casi più recenti e clamorosi ricordiamo il Progetto
di legge complementare (Plp) 227/2012 e la Proposta di revisione costituzionale
(Pec) 215/2000. Il progetto 227 – presentato dal latifondista Homero Pereira
(la cui campagna elettorale è stata finanziata da grandi imprese con oltre un
milione di dollari) – vuole regolamentare il comma 6 dell’articolo 231 della
Costituzione. In particolare, esso mira a sottomettere le terre indigene al «rilevante
interesse pubblico dello stato brasiliano» (relevante interesse público da
União), rendendone in pratica nullo il diritto al possesso e all’uso
esclusivo da parte dei popoli indigeni. Ciò significherebbe giustificare il
latifondo e aprire le porte a strade, condutture, centrali idroelettriche,
ferrovie, miniere, insediamenti umani.
La proposta 215 – presentata dal deputato
Almir Sá e giudicata incostituzionale dai giuristi – vuole invece porre sotto
il controllo del Congresso nazionale (e dunque della Bancada ruralista)
la demarcazione delle terre indigene, finora garantita dalla Costituzione.
«Un piccolo numero di “bianchi” – spiega
fratel Zacquini – si è impossessato di estensioni enormi di terre e domina il
governo nazionale attraverso i “suoi” rappresentanti. L’enorme estensione del
paese, la confusione nelle proprietà fondiarie e il potere economico hanno il
sopravvento sul buon senso e sulla legge. La quale legge, se è favorevole ai
popoli indigeni… la si cambia, come sta accadendo ora. In fin dei conti,
viene detto a mo’ di giustificazione, le leggi vigenti, chi le ha fatte – e
dunque chi le può modificare – non sono gli indigeni…».
La Bancada ruralista («Frente parlamentar da agropecuária»),
i suoi potenti sostenitori («Confederação nacional da agricoltura», gruppi
imprenditoriali dell’agrobusiness e delle attività minerarie) e i media più
influenti sostengono che 113 milioni di ettari di territorio brasiliano (13,3%
del totale, dati Isa) in mano ai popoli indigeni sarebbero troppi.
Va detto – tra l’altro – che spesso si tratta di un
possesso teorico. Una parte considerevole delle terre indigene è infatti
soggetta a invasioni costanti e prolungate da parte di vari soggetti:
allevatori di bestiame, minatori, mercanti di legni pregiati, trafficanti di
biodiversità.
«Perché, anche nel caso dei popoli che hanno ottenuto il
riconoscimento delle loro terre, il governo non interviene con prontezza ed
efficienza contro gli invasori? In questo modo si alimenta la mentalità che
invadere terre indigene e distruggervi la natura non rappresenti un crimine.
Incentivati dall’impunità, le invasioni si moltiplicano. Se i contravventori
fossero gli indigeni, molto rapidamente sarebbero azionate le forze dell’ordine
per reprimerli, anche con la violenza».
Il problema è che spesso neppure lo Stato rispetta i
territori indigeni. Avviene, ad esempio, con le megaopere previste dal Programa
de aceleração do crescimento («Programma di accelerazione della crescita»,
Pac e Pac-2). Secondo la Fondazione per l’indio (Funai), ben 201 opere del Pac
interessano terre indigene. Le più impattanti sono le centrali idroelettriche,
in particolare Jirau e Santo Antonio sul fiume Madeira (Rondonia), Teles Pires
(Mato Grosso) e São Luiz (Pará) sul fiume Tapajós e la più grande in assoluto,
quella di Belo Monte, sul fiume Xingu (Pará). Opere devastanti per l’ambiente e
per l’esistenza di decine di popoli indigeni, esse testimoniano anche il
mancato rispetto della Convenzione 169 della Organizzazione internazionale del
lavoro (Oil), cui il Brasile aderisce.
Secondo l’articolo 16, «i popoli interessati non devono
essere trasferiti dalle terre che occupano. Qualora in via d’eccezione si
giudichino necessari il trasferimento e il reinsediamento di detti popoli,
questi non potranno avvenire se non col loro consenso liberamente espresso in
piena cognizione di causa». La sua violazione da parte del governo brasiliano è
palese.
«Perché – si chiede giustamente fratel Zacquini -, quando si pensa al “progresso”, non si pensa
quasi mai alle terre dei latifondisti, sovente incolte, ma sempre e soltanto a
quelle indigene?». L’affermazione è fondata su numeri chiari: in Brasile, circa
70mila persone sono proprietarie di 228 milioni di ettari di terre improduttive
(dati Ibge). «Insomma – conclude Carlo -, considerate le dimensioni
continentali del paese, nessuno potrà dire (in buona fede) che, demarcate le
terre indigene, gli altri abitanti non avranno terre per abitare, lavorare e
svolgere ogni possibile attività. E, a parte questo, va sempre ricordato che i
popoli indigeni non devastano natura e territori come invece fanno i “progrediti”
e “colti” non indigeni…».
I popoli indigeni sanno difendersi. Dopo il genocidio e
l’etnocidio compiuti nei secoli passati e nel periodo della dittatura militare
(come testimonia il «Rapporto Figueiredo»), essi si sono organizzati. Tuttavia,
la loro condizione di minoranza fa sì che essi debbano essere difesi e aiutati.
Certamente non lo fanno i media brasiliani. «I mezzi di comunicazione – spiega
fratel Carlo – presentano la questione indigena sotto punti di vista
folcloristici o con sensazionalismo. Sovente le questioni sono trattate con
pregiudizi, o nascondendo interessi di agrobusinessmen, latifondisti, ditte di
estrazione mineraria, e altri ancora. C’è insomma una tendenza a camuffare
interessi di pochi, presentandoli come questioni di interesse nazionale, di
sicurezza, di progresso».
In questi ultimi decenni, a fianco dei popoli indigeni
del Brasile si è schierata la chiesa cattolica. Ben prima della fine della
dittatura militare (nel marzo 1985), ben prima delle rivolte di piazza di
giugno e luglio 2013, a lottare per un paese meno ingiusto c’erano due suoi
organismi: il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista
missionário, Cimi, fondato nel 1972) e la Commissione pastorale della terra
(Comissão pastoral da terra, Cpt, nata nel 1975).
«Nel passato – ammette fratel Carlo – la chiesa
cattolica ha causato grandi danni alle popolazioni indigene dell’America. Da
quando io sono qui tuttavia, e sono ormai quasi 50 anni, la Conferenza
episcopale brasiliana (Cnbb), è stata sempre a fianco dei popoli indigeni, ha
dato appoggio ai missionari che si sono dedicati a questa causa con nuove forme
di approccio, dovendo lottare controcorrente. Non conosco nessuna altra entità che
abbia offerto tanti individui totalmente dedicati alla causa indigena come la
chiesa cattolica, in questo mezzo secolo. Il modus operandi è cambiato
gradualmente e gli stessi indigeni riconoscono la grande importanza della
chiesa nelle loro conquiste. La chiesa è stata la prima a dare la parola agli
indigeni, ad aiutarli a organizzarsi, a incentivarli, a difenderli, anche con
avvocati generosi e competenti». Parallelamente sono sorte anche varie Ong
(inteazionali e brasiliane) che, il più delle volte, avevano la
collaborazione o l’appoggio della chiesa. Merita di essere citato il lavoro di Survival
e, per lo stato di Roraima, quello svolto dall’omonimo comitato (Co.Ro.).
A Roraima, dove fratel Zacquini vive, ci sono la Terra
indigena degli Yanomami e la Terra Raposa Serra do Sol (di vari popoli: Makuxí,
Vapichana, Ingarikó e altri). Ma il riconoscimento non ha cancellato i
problemi. Una parte della Terra Yanomami è occupata clandestinamente da oltre
20 anni, mentre per Raposa sono state introdotte numerose restrizioni (Petição
3388 e Portaria 303).
«Sono decine – ricorda il missionario – le proposte di
legge presentate da congressisti, vari di Roraima (come Paulo Cesar Quartiero,
Romero Jucá, Almir Sá, Edio Lopes), per togliere o ridurre i diritti dei popoli
indigeni. Le nubi sembrano annunciare un uragano che si abbatterà senza
misericordia sui diritti dei popoli autoctoni».
Carlo Zacquini ha visto crescere e
affermarsi come leader degli Yanomami Davi Kopenawa, sciamano. Tra loro c’è una
grande stima e amicizia. «Appena tornato dall’incontro con la presidente Dilma,
Davi mi ha detto sconsolato: “Le persone che hanno il potere in questa terra
non sono dei nostri; sono degli estranei, vengono da un altro mondo”. Voleva in
questo modo dirmi che non riesce a capirli, che essi pensano solo ai
soldi… Lui e molti altri indigeni sono
indignati per il modo in cui noi bianchi trattiamo non soltanto gli esseri
umani, ma anche la terra, l’acqua, l’aria. La natura insomma».
Sopra e sotto i territori indigeni ci sono
ricchezze naturali che fanno gola e davanti ad esse in tanti sono disposti a
tutto. Come testimonia un progetto di legge – presentato dal senatore Romero
Jucá – che vuole aprire allo sfruttamento dei minerali in terra indigena (mineração
em Terras indígenas, Projeto de Lei nº 1610/96). Fratel Carlo non riesce a
farsene una ragione: «È necessario sfruttare queste risorse? La distruzione
dell’ambiente non causa più danni di quanto le risorse possano essere di aiuto?
Se poi si riconosce onestamente che queste risorse sono necessarie, non si
dovrebbe dare priorità allo stesso tipo di risorsa esistente in terre non
indigene? Da ultimo, in caso di sfruttamento di terre indigene, il minimo che
si dovrebbe fare sarebbe di dibattere la questione con i diretti interessati ed
elaborare con loro programmi e attività non estemporanee, per preparare la
popolazione e farla partecipe degli eventuali benefici».
Niente di tutto questo avviene: ai popoli
indigeni rimangono soltanto problemi e distruzioni. «La corsa al saccheggio
delle risorse naturali non rinnovabili – chiosa fratel Zacquini – non porta
nessun paese al vero progresso. Normalmente serve solo per arricchire qualcuno,
lasciando il debito da pagare alle future generazioni».
Parole sacrosante ma inascoltate in un
Brasile entrato negli ingranaggi perversi di una crescita economica insensata
che sta calpestando l’ambiente e l’esistenza o la stessa sopravvivenza dei suoi
popoli indigeni.
Paolo
Moiola
1910 Nasce il Servizio di protezione degli indigeni («Serviço
de Proteção aos Índios», Spi).
1967 Il ministro dell’Inteo brasiliano commissiona al
procuratore generale Jader de Figueiredo Correia un’indagine sulla condizione
indigena in Brasile. Il rapporto diventa la prova storica del genocidio
perpetrato ai danni degli indigeni.
1967 Lo Spi viene sostituito dalla Fondazione nazionale
per l’indio («Fundação Nacional do Índio», Funai).
1973 Viene promulgato lo Statuto dell’indio («Estatuto do
Índio», legge 6.001).
1988 Viene promulgata la nuova Costituzione brasiliana.
In essa il Capitolo VIII è dedicato ai
popoli indigeni. Il cuore è l’articolo 231.
2002 Il 19 giugno viene finalmente ratificata dal
parlamento brasiliano la Convenzione 169 dell’Oil sui popoli indigeni.
2007 Il presidente Lula vara il «Programa de Aceleração
do Crescimento» (Pac), che diverrà presto una grande minaccia per le terre
indigene.
2012
– Marzo. La Oil denuncia il Brasile per aver violato
l’Accordo 169 non consultando gli indigeni del Rio Xingú, per i lavori della
megacentrale di Belo Monte.
– Ottobre. Viene promulgato il nuovo Codice forestale
(«novo Código Florestal»), un grosso regalo ai latifondisti e all’agrobusiness,
nonostante alcuni veti posti dalla presidente Dilma Rousseff.
– Novembre. Il deputato (e latifondista) Homero Alves
Pereira presenta il Plp 227 per regolamentare in senso anti-indigeno il comma 6
dell’articolo 231 della Costituzione federale.
2013
– Maggio. La ministra Gleisi Hoffmann (Casa Civil)
chiede al ministero della Giustizia di sospendere gli studi della Funai sulla
demarcazione delle terre indigene nel Paraná. La presidente incontra la
senatrice Kátia Abreu, leader degli imprenditori agricoli.
– Maggio/giugno. Arriva alla Camera la Proposta di
revisione costituzionale (Pec) 215/2000 in chiave antindigena.
– 10 luglio. La presidente incontra i rappresentanti dei
popoli indigeni.
– 23-25 agosto. Ad Ater do Chao (Santarém, Pará), si
svolge l’incontro dei «popoli indigeni resistenti».
– 30 settembre – 5 ottobre. L’associazione dei popoli
indigeni del Brasile (Apib) prevede mobilitazioni contro i ripetuti attacchi ai
diritti indigeni.
(pa.mo.)
dei quali 37 in isolamento volontario
• 433.363 delle 896.917 persone indigene vivono
nell’Amazzonia legale (9 stati: Acre, Amapá, Amazonas, Pará, Rondônia, Roraima,
Tocantins e parte di Mato Grosso e Maranhão)
• 847 terre indigene (a diversi livelli di
riconoscimento*)
• Estensioni delle terre:
851.196.500 ettari totali Brasile
112.983.625 ettari terre indigene
228.500.000 ettari privati incolti
Durante il governo Cardoso vennero assassinati 167
indigeni, 20,8 per anno; durante il governo Lula gli indigeni assassinati
furono 452, con una media annuale di 56,5; nei primi due anni di governo
Rousseff, i morti sono stati 108.
(*) Iter di riconoscimento delle terre indigene:
identificazione (Funai), demarcazione, omologazione (con decreto
presidenziale), registrazione fondiaria.
Territorio – Brasile (Roraima: 21.000) e Venezuela
(Alto Orinoco: 15.000).
1900 – Primi contatti conosciuti tra uomini bianchi e
indigeni yanomami.
1965 – I missionari della Consolata fondano una
missione sul fiume Catrimani.
1973 – Il regime militare brasiliano inizia la
costruzione della strada Perimetral Norte o Br-210. L’opera ha un impatto
devastante sulle comunità yanomami.
1986 – Migliaia di cercatori d’oro (garimpeiros)
invadono le terre yanomami, provocando disastri.
2008 – Il 5 maggio un commando di uomini bianchi
spara a 10 indigeni. Il mandante sarebbe il fazendeiro locale Paulo César
Quartiero, che nel 2011 sarà eletto deputato.
2010 – Ancora problemi con i minatori illegali,
stimati in circa 3.000.
2013 – Davi Kopenawa, sciamano (xapuri), da anni
leader riconosciuto degli Yanomami, incontra la presidente Dilma Rousseff.
•
www.cimi.org.br
• www.cptnacional.org.br
•
www.adital.com.br
•
www.survival.it
•
http://pib.socioambiental.org (dell’Instituto Socioambiental, Isa)
•
www.hutukara.org
•
www.proyanomami.org.br
•
www.giemmegi.org (del Comitato Roraima Onlus)
Dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, intervistato
(agosto 2013) sulla tematica indigena e sul Brasile. La videointervista è
visibile sul sito della rivista e su You Tube.
Paolo Moiola