Un paese lontano dalle cronache
L’etnia malese, maggioritaria e di fede musulmana, vuole continuare a guidare il paese asiatico senza interpellare le ampie minoranze indiane, cinesi e tribali. Ma una parte della società civile non sembra più disposta ad accettare la situazione e chiede più democrazia. Ed anche nel campo religioso i non-musulmani (in particolare, i cristiani) chiedono più libertà.
Due fattori, dibattito sull’identità religiosa e pluralismo politico, influenzano prepotentemente in questi mesi la vita della Malaysia, paese altrimenti caratterizzato da stabilità politica, sociale ed economica e di conseguenza da una scarsa presenza nelle cronache inteazionali.
Per lungo tempo alfiere di un islamismo laicista e moderato, sottoposto alla guida di personaggi forti ma insieme pragmatici, il paese è per conformazione geografica «ponte» tra Asia continentale e insulare, tra Asia meridionale e Estremo Oriente. Al centro, infine, di un’area che con l’eccezione del piccolo ma solido Singapore e del Brunei (che galleggia sul suo benessere garantito dal petrolio), vive profondi rivolgimenti e diverse ma ugualmente incerte vie verso il benessere.
Da anni la «restituzione del potere» ai malesi dopo i presunti privilegi goduti dalle altre etnie nel periodo coloniale e subito dopo l’indipendenza, si associa a concessioni all’identità islamica a volte denunciate come discriminatorie per le minoranze di origine tribale, indiana e cinese che raggruppano il maggior numero di cristiani. Le stesse minoranze che si oppongono con maggiore convinzione a un partito-stato (Umno, di cui diremo) che guida, con poche concessioni al dissenso, un paese federale di 28 milioni di abitanti al 53% di etnia malese e al 60% musulmani.
EQUILIBRI, COMPROMESSI, FRAGILITÀ
Con un reddito pro-capite nominale di quasi 7.000 dollari l’anno, i malaysiani vivono nella stragrande maggioranza al di sopra della soglia della povertà. Tuttavia esistono ampie disparità di reddito e di opportunità tra la parte continentale, ad esempio, e le vaste regioni di Sabah e Sarawak sulla grande isola del Boeo. Qui, in aree al centro di ampi interessi economici e di «frontiera» per chi si oppone alla deforestazione, agli abusi da parte delle grandi compagnie minerarie e all’inquinamento fluviale, si concentrano la maggior parte delle molte etnie tribali del paese (11 per cento della popolazione complessiva), come pure dei cristiani, in maggioranza protestanti. La presenza cinese (26 per cento) è equamente suddivisa nelle varie regioni, mentre quella indiana – erede di vecchie e nuove migrazioni e che assomma l’8 per cento dei malesi – si concentra nella regione peninsulare.
Già da questi dati appare chiaro come la stabilità del paese sia frutto di delicati equilibri e di alcuni compromessi sulle priorità, su cui predominano stabilità e sviluppo. Equilibri e compromessi che si ritrovano nell’organizzazione dello Stato e dei suoi poteri.
La Malaysia è una federazione di 13 Stati: Johore, Kedah, Kelantan, Malacca, Negri Sembilan, Pahang, Penang, Perak, Perlis, Sabah, Sarawak, Selangor e Trengganu, oltre all’area metropolitana della capitale Kuala Lumpur e all’isola di Labuan (quella di Emilio Salgari, leggere box) definite come «territori federali». Si tratta di una divisione amministrativa reale, dato che ciascuno Stato ha un proprio Parlamento con tanto di governo e primo ministro, in grado di legiferare su tutti gli aspetti non di competenza del Parlamento federale.
A complicare la situazione, c’è la nomina del capo dello Stato, che avviene ogni cinque anni a rotazione tra i sultani (che sono, ad un tempo, autorità politica e religiosa-islamica) di Johore, Kedah, Kelantan, Negri Sembilan, Pahang, Perak, Perlis, Selangor e Trengganu. I poteri del sultano non sono dissimili dal quelli di una monarchia costituzionale, sottoposti di fatto al governo in carica.
Il Parlamento che esprime l’esecutivo e insieme ne controlla le funzioni, è composto di due camere: un Senato eletto ogni sei anni che nella composizione mostra pienamente i delicati equilibri del paese; una Camera dei deputati di 192 membri eletti a suffragio universale ogni cinque anni.
Nei fatti, poi, la politica reale dipende da alleanze di gruppi e individui con legami territoriali, di clan, di interessi o di fede, che la politica parlamentare rappresenta solo fino a un certo punto. Ancor più sotto un sistema dominato per oltre quarant’anni da una coalizione, Barisan Nasional, con al centro un partito – Umno (United Malays National Organization) – che esprime in particolare gli interessi della componente malese e musulmana.
SHARIA (IN SALSA BRITANNICA)
Raggiunta l’indipendenza dalla colonizzazione britannica il 31 agosto 1957, il paese ha mantenuto una forte impronta anglosassone per quanto riguarda il sistema giudiziario – ma con uno spazio sempre maggiore all’uso delle consuetudini locali e, soprattutto della Sharia, la legge coranica -, burocrazia, gestione dei servizi pubblici. Al processo, sempre più profondo, di recupero dell’identità malese si associa quella del recupero dell’identità islamica maggioritaria per questa etnia. Questo sta aprendo incognite sull’eguaglianza scritta nelle leggi.
I particolarismi, tenuti sotto controllo con la forza o con la convinzione sono d’altronde nel Dna di questo paese, nato nel 1963 a sei anni dall’indipendenza, con la libera adesione di 11 Stati (tutti ex colonie britanniche), alcuni territori del Boeo (che precedentemente avevano prima cercato la via dell’autodeterminazione) e Singapore (dove vigeva, dal 1959, una forma di autogoverno). Una situazione difficile, da cui si sganciò prima il Brunei, nel 1962, poi Singapore nel 1965, in contrasto sul ruolo che la consistente comunità cinese avrebbe avuto in un paese che i leader stavano avviando verso un’identità soprattutto malese. L’insurrezione armata comunista, il confronto duro con l’Indonesia di Sukao fino al 1966 e le dispute territoriali con le Filippine per il Sabah fino al 1968, furono ulteriori minacce alla stabilità della neonata federazione che negli anni successivi si dovette confrontare con la rivolta dell’etnia cinese e con il tentativo di secessione delle regioni insulari. Lo stato d’emergenza con cui «Tunku» Abdul Razak cercò di gestire la situazione fu una pagina nera della storia del paese, che mantenne però una sua sostanziale unità, rinsaldata dalle elezioni del 1974.
Sotto la guida dell’Umno, raramente contestata con qualche possibilità di successo dalle opposizioni (a loro volta assai divise quanto a programmi, definizione etnica e di fede), il paese si avviò a una più concreta identità malese, alzando considerevolmente (da 4 al 30 per cento) la quota delle imprese in mani malesi e applicando un sistema di quote garantite nelle università e negli impieghi pubblici ai bumiputra («figli della terra», ovvero i cittadini di origine malese e rurale).
Per evitare ulteriori tensioni – mentre nel Boeo già crescevano i contrasti tra cristiani e musulmani, i cinesi vivevano con sempre maggior disagio l’erosione del loro controllo su risorse ed economia e gli indiani una discriminazione percepita come crescente – fu giocoforza puntare verso un benessere che fosse concreto e anche condiviso. Non senza ostacoli. La ripresa della guerriglia comunista nella parte peninsulare, sostenuta soprattutto dall’etnia cinese, portò al deterioramento di rapporti con Pechino e per anni pesò sulla coscienza nazionale e sui diritti garantiti alla popolazione. Poche simpatie riscosse anche il sostanziale rifiuto di Kuala Lumpur di accogliere i boat-people vietnamiti, e ancor meno, in anni recenti, la crescita di un islamismo politico che tenta di ritagliarsi un ruolo parlamentare con il fine di ridefinire l’identità religiosa del paese.
IL GOVERNO E L’EGEMONIA CONTESTATA
Per la sua storia e per la sua identità, la Malaysia d’oggi è dunque una realtà complessa, che segue in ugual modo logiche consolidate e nuove vie.
La politica ha sempre visto una molteplicità di attori, un elemento coesivo (Barisan Nasional) e una leadership forte, in qualche modo autocratica, almeno fino all’uscita di scena di Mahathir Muhammad nel 2003 dopo 22 anni di premierato.
Con alcuni episodi che hanno segnalato insieme una difficoltà del partito di governo e, per contrasto, un ruolo più attivo dell’opposizione. Ad esempio, le elezioni del 1999, viste come un referendum pro o contro la politica di Mahathir, risultarono sorprendenti per la forte crescita del «Fronte Alteativo», che – sotto la presidenza del musulmano Fazil Noor – raddoppiò la presenza parlamentare, diventando maggioritario in due Stati. Una consultazione seguita da un’ondata di arresti di esponenti antigovernativi e ulteriori azioni legali verso il leader riconosciuto dell’opposizione, Anwar Ibrahim, già sotto processo per l’accusa di sodomia da lui sempre respinta e definita «politicamente motivata». Le grandi manifestazioni del 2007 anticiparono l’accesa contesa elettorale del marzo 2008 che mise alle corde l’Umno, che a stento mantenne la maggioranza parlamentare.
Una situazione che va ripresentandosi in questi mesi in vista del voto del 2013.
I manifestanti che, in una capitale in stato d’assedio, sono scesi in piazza il 9 e 10 luglio 2011 per chiedere libere elezioni sono stati affrontati con particolare durezza. Il movimento «Bersih», che associa un gran numero di organizzazioni della società civile ha deciso di sfidare apertamente il premier Najib Razak. Contro le migliaia di dimostranti (50.000 secondo gli organizzatori) che gridavano «riforma» e «potere al popolo» gli agenti in tenuta antisommossa hanno sparato gas lacrimogeni e usato gli idranti. Per sciogliere quello che è stato definito «un assembramento illegale», la polizia ha fermato 1.500 persone, poi rilasciate.
Il timore che la legge elettorale attuale favorisca il partito di governo sta portando alla convergenza tra l’insoddisfazione della politica, le richieste della società civile e le esigenze delle minoranze. In un paese aperto a investimenti e turismo, attento alla propria identità e all’ambiente, si pone oggi la scelta tra modeità e tradizione, tra dirigismo e scelte individuali, tra islamizzazione della vita pubblica e libertà di fede.
NEL NOME DI ALLAH
Alcuni eventi recenti hanno spinto la Conferenza episcopale cattolica malaysiana a iniziative, proprie o congiunte con altre comunità non musulmane, per chiedere che sia salvaguardata la libertà religiosa. L’indicazione della fede d’appartenenza nei documenti d’identità e l’estrema difficoltà a cambiarla – anche nel caso (raro) di conversione dall’Islam ad altra religione – è un elemento di discordia, come pure la generalizzata applicazione del funerale islamico su tutti i cittadini.
La sentenza della Corte suprema che il 31 dicembre 2009 aveva ritenuto legittimo l’uso del vocabolo «Allah» per indicare Dio nell’edizione in lingua malese del quotidiano cattolico The Herald non ha chiuso un confronto su questo tema che ha dato vita a iniziative violente degli estremisti musulmani, che nei mesi successivi e fino ad ora hanno trovato altri focolai. È vero che le azioni ostili contro i luoghi di culto cristiani sembrano più atti isolati di singoli fanatici piuttosto che espressioni di una strategia. Tuttavia, la loro frequenza e l’impunità degli attentatori inquietano gli stessi musulmani moderati.
Secondo il censimento del 2000, i cristiani di diverse confessioni in Malaysia sono il 9,1% della popolazione e tra essi i cattolici sono circa 750mila.
Molti nel Paese sono coscienti che a rischio non è solo l’integrità dei luoghi di culto, ma anche un ideale di convivenza che da tempo è sottoposto a forti pressioni e per questo l’avvio di normali relazioni diplomatiche tra Federazione malese e Santa Sede ha aperto nuove prospettive.
L’incontro del 18 luglio in Vaticano tra Benedetto XVI e il primo ministro malese Najib Razak potrà facilitare, secondo l’arcivescovo di Kuala Lumpur mons. Murphy Pakiam, «la creazione di un Consiglio interreligioso, la nascita di un ministero per i non-musulmani, un diverso atteggiamento nei confronti delle scuole cattoliche che sono state gradualmente nazionalizzate e su cui ora il governo ha il completo controllo».
Stefano Vecchia