stupri, omicidi, violenze senza fine: donna è colpa tua

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Negli ultimi mesi sui media inteazionali c’è stato uno
stillicidio di notizie su stupri, omicidi e orrori ai danni di bambine e donne.
Sistemi patriarcali, maschilismo, sottomissione: il fenomeno ha radici
profonde. In India come in molti altri paesi. Una realtà di violenza che va
condannata senza però farsi fuorviare dal sensazionalismo giornalistico e dagli
stereotipi. E?magari andando a leggere le statistiche.?Secondo le quali…

Si racconta che Gandhi abbia detto che si può
giudicare una società dal modo in cui essa tratta gli animali. Pandit
Jawaharlal Nehru, il primo presidente dell’India, nonché amico dello stesso
Gandhi, aggiunse, anni dopo, che il livello di civiltà di una nazione si pesa
misurando i diritti che questa riconosce alle donne.

Se
dovessimo parametrare l’evoluzione della società indiana secondo i criteri
proposti dai suoi due più illustri fondatori il risultato sarebbe decisamente
negativo. Nonostante da più parti si continui a descrivere la nazione asiatica
come la più grande democrazia al mondo, il rapporto «The Rise of the South:
Human Progress in a Diverse World», redatto nel 2013 dell’Undp (United
Nations Development Programme
), ha posto l’India al 136° posto su 186
nazioni nella classifica dell’indice dello sviluppo umano.

Particolarmente
allarmante è la condizione della donna; in questi ultimi anni nelle tre nazioni
nate dal retaggio del colonialismo britannico – India, Pakistan e Bangladesh –
i casi di violenza nei confronti del sesso femminile si sono moltiplicati.

Le complicità della polizia

Attacchi
con acido, violenze, stupri e omicidi hanno attirato l’attenzione dei media
inteazionali, mentre le dichiarazioni misogine di molti politici indiani,
pakistani e bengalesi, sommate alla complicità della polizia con i criminali,
hanno dato alle notizie quel tocco di licenziosità sufficiente a trasformarle
in sensazionalismi di largo seguito conditi di pettegolezzi e stereotipi.

In
Italia, alcune testate giornalistiche si sono lanciate in iperboli incredibili
per agganciarsi alla vicenda dei marò dipingendo l’intera classe politica
indiana, e a volte la stessa cultura, in termini dispregiativi.

Se ne
è parlato con clamore soltanto nei mesi scorsi, eppure la violenza contro le
donne non è un fenomeno nuovo nella società indiana. Anzi, si potrebbe dire
che, da qualche anno a questa parte, l’India ha cominciato a strappare qualche
velo che nascondeva agli occhi della nazione un problema di cui tutti erano al
corrente ma di cui nessuno parlava. E, forse proprio per questa apertura
sociale e l’accresciuto interesse dei media, è scoppiato il «fenomeno» stupri:
non ce ne sono di più, ma se ne parla di più.

In
realtà, la prima grande svolta nella visione della violenza sulle donne la si
ebbe già nel 1972 quando un’adolescente di 14-16 anni di nome Mathura venne
violentata da due poliziotti nel villaggio di Desaiganj, nello stato del
Maharashtra. Mathura, oltre a essere orfana di entrambi i genitori, era una adivasi1, il che la poneva in una posizione di
assoluta inferiorità nella complicata gerarchia castale indiana. Per mantenere
il fratello maggiore si prodigava come domestica presso una casa privata dove
incontrò Ashoka, nipote della padrona, il quale la chiese in sposa. Avrebbe
potuto essere una normale storia d’amore se il fratello di Mathura non si fosse
opposto al matrimonio e, per impedirlo, non avesse denunciato Ashoka per aver
rapito la sorella. La questione venne chiarita senza problemi presso il locale
commissariato, ma quando tutti i protagonisti della vicenda se ne stavano
tornando a casa, i gendarmi trovarono una scusa per trattenere Mathura. E fu lì,
proprio tra le mura che avrebbero dovuto difendere la legge, che la ragazza subì
gli stupri dei due poliziotti in servizio.

Nonostante
la giovane età e la sua condizione sociale, Mathura fece una cosa che nessuno,
prima d’allora in India, aveva osato fare: denunciò i suoi stupratori.

Il
processo fu, come ci si poteva aspettare, una farsa: i due agenti vennero
assolti perché la corte non credette a Mathura. Troppo giovane, povera e
illetterata perché le sue parole potessero avere sufficiente autorevolezza.
Inoltre la sentenza di assoluzione stabiliva che la ragazza «era già abituata a
rapporti sessuali» e, di conseguenza, non vi sarebbe stata alcuna violenza
perché la vittima non era illibata.

Il
verdetto passò inosservato per diversi anni fino a quando alcuni professori
dell’Università di Delhi lo contestarono gettando le basi per una prima riforma
di legge sullo stupro varata nel 1983, secondo cui l’atto sessuale senza il
consenso della donna è un crimine.

La
norma rivoluzionò il modo di porsi delle donne indiane all’interno della società:
l’attivista per i diritti femminili Lotika Sarkar fondò il Forum Against
Rape
(Foro contro lo stupro) e il Centre for Women’s Development Studies
(Centro studi per lo sviluppo delle donne), due istituzioni che negli anni
seguenti sarebbero stati dei fari cui i movimenti di emancipazione femminile
avrebbero guardato.

Le cuginette dalit

Mathura
venne subito dimenticata ed oggi vive con il marito e i suoi figli in un
villaggio poco distante da Desaiganj, pressoché ignara di quello che il suo
gesto ha significato per l’India. È vero, come afferma la giornalista e
scrittrice Nilanjana S. Roy in un articolo apparso sul quotidiano The Hindu,
che «nessuna legge al mondo ha mai fermato gli stupri, così come nessuna legge
al mondo ha mai fermato gli assassini. Ma leggi migliori, assieme a cambiamenti
politici e sociali hanno contribuito a far diminuire sia le violenze sessuali e
gli omicidi in diversi paesi».

Nella
vita pratica delle donne indiane nulla o quasi cambiò sino a quando,
quarant’anni più tardi, a Delhi, un altro fatto sconvolse l’opinione pubblica
femminile. Il 16 dicembre 2012 Jyoti Singh Pandey, una studentessa di medicina
di 23 anni, dopo aver visto il film Storia di Pi al centro commerciale
Select Citywalk di Delhi salì su un autobus con il suo ragazzo per tornare a
casa. Con loro viaggiavano cinque persone, tutte amiche dell’autista e
ubriache. A un certo punto l’automezzo si fermò e, immobilizzato il ragazzo, a
tuo i sei amici seviziarono Jyoti. Una volta appagati i loro piaceri,
lasciarono le loro vittime agonizzanti in mezzo alla strada. Jyoti morì dopo
due settimane a Singapore, dove nel frattempo era stata trasferita, a causa
delle ferite infertele durante lo stupro.

Fu la
classica goccia che fece traboccare il vaso: in poche ore migliaia di persone
scesero in piazza per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione della
donna in India. Anche in questa occasione le forze di polizia dimostrarono la
loro insensibilità: anziché limitarsi a controllare che tutto si svolgesse in
modo pacifico (come in effetti fu), improvvisamente cominciarono a contrastare
i manifestanti con brutalità e spavalderia, giungendo anche a manganellare con
violenza le stesse donne.

La
stessa brutalità e arroganza è stata usata, in modo più drammatico, a Katra
Sadatganj, un villaggio dell’India Nord orientale dove, nel maggio 2014, due
cugine dalit di 14 e 15 anni sono state trovate impiccate a un albero
dopo essere state ripetutamente violentate. Anche in questo caso, tra le sette
persone accusate, vi sono due poliziotti.

In
una intervista alla Bbc la scrittrice Arundhaty Roy afferma che «esercito e
polizia utilizzano regolarmente lo stupro come arma contro la popolazione nel
Chhattisgarh, Kashmir, Manipur».

E
quando le forze dell’ordine non sono direttamente coinvolte negli atti di maltrattamento,
spesso le persone che cercano di sporgere denuncia sono «invitate» a desistere,
tanto che nell’aprile 2013 la Commonwealth Human Right Initiative
(Chri), una Ong che da tempo chiede una riforma della polizia indiana, ha
denunciato la sua «mancanza di una risposta verso le vittime degli stupri».

La
morte di Jyoti, soprannominata dai media indiani e inteazionali Nirbhaya
(impavida) o Damini (fulmine) ha scatenato quello che il caso di Mathura
era riuscita a fare solo in parte: la condanna nazionale di una pratica che va
ben oltre il mero crimine «accidentale», come lo ha chiamato Ramsevak Paikra,
ministro per la Legge e l’Ordine dello stato indiano di Chhattisgarh.

Un sistema patriarcale e misogino

Cosa è
cambiato in questi quarant’anni nella società indiana e, soprattutto, come mai
proprio il caso di Nirbhaya, certamente non isolato, ha creato tale scompiglio
nell’opinione pubblica nazionale e mondiale?

Partendo
dallo stupro di Mathura e arrivando fino a oggi, la donna, seppur con difficoltà,
si è emancipata tra i gangli della società indiana, ma la sua indipendenza non è
ancora stata accettata dall’uomo. Sempre Arundhaty Roy spiega che «Viviamo in
una nazione in cui la maggior parte della popolazione vive in un sistema
feudale e patriarcale retaggio del passato, dove le donne dalit sono
stuprate da uomini delle caste più alte semplicemente perché viene ritenuto un
diritto di questi ultimi. Per contro viviamo in un sistema in cui le donne
stanno cambiando più velocemente degli uomini: entrano in massa nei posti di
lavoro, hanno più potere, stanno modificando il modo di vestire, di porsi di
fronte all’uomo, di guardarlo, le loro aspettative. Questi cambiamenti sociali
creano un nuovo stimolo di violenza contro le donne da parte di chi vorrebbe
che tutto restasse immobile».

«Il
sistema capitalista ha avuto il merito di contribuire a elevare la posizione
della donna in India» afferma Rajesh Tembarai Krishnamachari, scrittore e
analista dello sviluppo sociale ed economico dell’India e Pakistan. Stando a
quanto sostiene Krishnamachari «l’avvento del capitalismo ha permesso alle
donne di lavorare accanto all’uomo nelle fabbriche al fine di aumentare la
produzione. Questo ha incoraggiato l’intero sistema a ricercare una sorta di
equità tra i due sessi che si riflette sia nel sistema legislativo, con
l’approvazione di leggi che pongono uomo e donna sullo stesso piano, sia nel
sistema sociale, che oggi permette alla donna di entrare nelle fabbriche e
nell’apparato produttivo contribuendo alle finanze familiari. È anche vero, però,
che con l’avanzare dell’economia di mercato e della necessità di aumentare le
vendite dei prodotti, il capitalismo deve cercare nuove forme di
sollecitazioni. La pubblicità è, quindi, diventata sessualmente più allusiva,
più provocante, portando a una radicalizzazione del maschilismo nella società».
E alla sottomissione della donna, aggiungeremmo noi.

Secondo
l’attrice Leeza Mangaldas, conosciuta a Delhi nel 2012 quando, assieme a Samyak
Chakrabarty, fondò il forum di discussione Evoke India, le responsabilità
di questa sottomissione sono da imputare anche alle donne stesse: «Siamo noi
che uccidiamo le nostre figlie perché femmine, siamo noi che accusiamo le nuore
se partoriscono femmine anziché maschi e siamo ancora noi che disapproviamo,
ancora prima degli uomini, le donne che tentano di rendersi attraenti. Gli
uomini indiani sono misogini; le donne indiane provano disgusto per se stesse».

E
allora bisognerebbe rivalutare le parole di Marx quando, assieme a Engel,
scriveva che «Non si deve dimenticare che [le] idilliache comunità di
villaggio, sebbene possano sembrare innocue, sono sempre state la solida base
del dispotismo orientale […] contaminate dalla divisione in caste e dalla
schiavitù».

Una
cosa è certa: se Jyoti Singh Pandey fosse stata stuprata ed uccisa in uno
sperduto villaggio di campagna, nessuno si sarebbe indignato. La storia di
Jyoti – precedente la sua violenza – e della sua famiglia di origine contadina,
trasferitasi a Delhi in cerca di fortuna, illustra la speranza di riscatto per
milioni di indiani. Il padre che lavorava come facchino all’aeroporto di Delhi;
Jyoti che, per permettere anche ai suoi fratelli di continuare gli studi
offriva ripetizioni ai ragazzi del quartiere in cui abitava, erano il perfetto
esempio delle più alte aspirazioni della gran parte degli indiani.

Ci si
dovrebbe chiedere come mai in una società dove la violenza tra le mura di casa è
così frequente (una statistica risalente al 2007 afferma che il 54% degli
adolescenti ha assistito a violenze in famiglia), ci si scandalizzi solo quando
le donne sono stuprate o umiliate per strada.

Tra induismo e Bollywood

Basterebbe
guardare a un aspetto della mitologia e della religione indiana, quello che
valorizza la femminilità, per designare il ruolo fondamentale della donna.

Nella
cultura religiosa indiana il potere femminile shakti è l’unico in grado
di alimentare l’energia – al tempo stesso distruttiva e rigeneratrice – di
Shiva. Senza la shakti anche Shiva diviene un cadavere. Il Gange, il
sacro fiume indiano, in lingua hindi è la Ganga, al femminile. Infine, molti
nomi degli eroi mitologici includono il nome della propria madre, retaggio
delle primordiali società matrilineari: così Radhakrishna significa che Krishna
è figlio di Radha, così come Sitaram indica che Ram è figlio di Sita.

Detto
questo, la cultura indiana odiea propone come unico esempio virtuoso per la
donna l’immagine mitologica di Sita, la sposa di Rama, succube e pronta a
perdonare ogni intemperanza del marito sino a immolarsi per il suo amore.

Questo
filone è quello più seguito dall’industria cinematografica di Bollywood che,
con più di mille film sfoati ogni anno, è la maggiore al mondo. La
responsabilità dei produttori e degli attori di Bollywood è, chiaramente,
enorme nel raccontare il ruolo che la donna deve rivestire nella società
indiana.

Qualcosa
sta, finalmente, cambiando: l’All India Backhod, un collettivo di attori
e registi indiani, ha voluto dare una sterzata significativa producendo un
divertente filmato, diretto da Ashwin Setty, dal titolo eloquente Rape: It’s
Your Fault
(Stupro: è colpa tua), che ha superato le 3.700.000
visualizzazioni su You Tube2. In
esso l’attrice Kalki Koechlin spiega ironicamente come lo stupro sia sempre
colpa delle donne «perché gli uomini hanno gli occhi» e un «abbigliamento
provocante potrebbe spingere a uno stupro». Seguono alcuni esempi di
abbigliamento inverecondo che, partendo da maglietta senza maniche e
pantaloncini, giungono fino a una tuta spaziale, inevitabilmente anch’essa
tentatrice. Il tutto, sempre nell’intelligente ironia del filmato,
dimostrerebbe che la colpa degli stupri è da attribuirsi esclusivamente alle
donne perché «senza donne non ci sarebbero stupri» e, se è vero che gli stupri
sono commessi dagli uomini, è altrettanto vero che gli uomini sono nati da
donne. Infine c’è un attacco alla polizia: «Se sei stanca di essere umiliata
dagli stupratori, rivolgiti ai poliziotti e potrai essere umiliata da loro».

In
una intervista Kalki Koechlin, che da bambina ha essa stessa subito uno stupro,
afferma che le donne devono sentirsi libere di essere loro stesse all’interno
di una società che sta cambiando: «Dobbiamo essere pronti culturalmente ad
accettare le donne indiane di oggi le quali non sono le donne che la maggior
parte degli uomini indiani ha visto crescere in casa loro. Le donne di questa
generazione potrebbero non saper cucinare, potrebbero volersi rendere
indipendenti economicamente, potrebbero voler scegliere il loro marito, oppure
rimanere addirittura nubili».

Più
facile a dirsi che a farsi. Anzi, a pensarci, non è facile neppure a dirsi.

Parole indecenti

Dopo
gli ultimi casi di stupro la classe politica indiana si è esibita in una serie
impressionante e vergognosa di affermazioni. A cominciare da Manohar Lal
Sharma, uno degli avvocati degli uomini accusati dello stupro e dell’omicidio
di Nirbhaya, che il 10 gennaio 2013 ebbe a dire di non aver «mai visto un solo
incidente o esempio di stupro in cui sia stata coinvolta una donna rispettabile».
Altrettanto indecenti sono state le parole di Abu Asim Azmi, presidente del Maharashtra
Samajwadi Party
, che dopo essersi pronunciato a favore della pena di morte
per gli stupratori, ha detto che «dovrebbe esistere una legge che proibisca
alle donne di vestire abiti succinti e girare con ragazzi che non siano loro
parenti». E che dire dell’agghiacciante sentenza dell’avvocato A.P.Singh: «Se
mia figlia dovesse avere rapporti prematrimoniali e girare con il suo ragazzo
di notte, io stesso la brucerei viva. Non posso permettere che accada questo e
invito tutti i genitori ad adottare la stessa mia attitudine nei confronti
delle loro figlie».

Terminiamo
con le parole di un alto rappresentante del parlamento indiano: Abhijit
Mukherjee, figlio del presidente dell’India, carica che è stata ricoperta da
quel Jawaharlal Nehru che citavamo all’inizio dell’articolo. Nel difendere la
brutale repressione della polizia nei confronti dei manifestanti dopo la morte
di Jyoti, Mukherjee ebbe a dire che le donne che protestavano erano donne «dipinte»
che vanno in discoteca, con scarsa conoscenza della realtà sociale e che
seguono la moda di fare veglie al lume di candela… Nonostante le critiche
piovute su di lui, nelle recenti
elezioni indiane Abhijit Mukherjee è stato rieletto.

I numeri e le sorprese

Alla
fine di tutto, è proprio vero che l’India descritta dai media occidentali è
diventata così pericolosa tanto da consigliare alle donne di non aggirarsi da
sole per le strade?

Le
cifre, per quello che possono rappresentare, pare dicano il contrario. Da uno
studio condotto dalla Thomson Reuters Foundation, in India 2 donne su
100.000 vengono violentate, contro i 26,9 stupri su 100.000 commessi negli
Stati Uniti. Anche tenendo conto del fatto che solo il 10% delle violenze
perpetrate ai danni delle donne indiane viene denunciato (contro il 26-46%
negli Usa), i tassi di abusi sessuali tra i due paesi si equivalgono. Bisogna,
però, tener conto che secondo la legge indiana non vi è violenza sessuale se
non si è consumato l’atto. Nel 2011 (ultimo dato disponibile) il National
Crime Records Bureau
ha indicato che nella nazione – in cui, non bisogna
dimenticarlo, vivono un miliardo e 200 milioni di persone – vi sarebbero stati
25.000 stupri, 45.000 tentati stupri e 106.000 violenze contro le donne in
famiglia3. Il
problema non sono tanto i numeri, ma il fatto che, ai 25.000 stupri
regolarmente denunciati alle autorità, solo per il 26% è seguita una condanna
degli imputati (contro il 50% negli Usa). Vi è, quindi, una forte disillusione
nei confronti delle istituzioni.

Forse
è proprio questo il punto su cui lavorare per poter cambiare un atteggiamento
sociale.

Piergiorgio?Pescali
Note

1 – Termine con cui in India
si indicano gli appartenenti ai popoli originari (tribù indigene) del paese.
2 – L’indirizzo del
filmato: http://www.youtube.com/watch?v=8hC0Ng_ajpY.
3 – Il sito: www.ncrb.nic.in.

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DAL PAKISTAN – Una coppia di giovani sposi, Sajjad Ahmed (27
anni) e Mafia Bibi (23), sono stati decapitati da quattro familiari della
ragazza per aver infangato l’onore della famiglia. Si erano sposati per amore (Dawn, quotidiano pakistano, 30 giugno
2014).

 

Errata corrige:
Questa foto rappresenta Snia Gandhi con l’ex Primo Ministro indiano Manmohan Singh, e non con Narendra Modi (nella foto qui sotto), come scritto nella didascalia di pag. 12 della rivista.
Ce ne scusiamo coi lettori.

Tags: violenza di genere, stupro, omicidio, induismo, India,
Pakistan, Bangladesh, caste indiane, Arundhati Roy, Dalit

Piergiorgio Pescali

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