Le energie
rinnovabili nel continente africano
Dall’eolico al fotovoltaico,
dal solare termodinamico al geotermico. Le energie rinnovabili, o energie
pulite, sono all’avanguardia in Africa. E vedono sempre maggiori investimenti
nei paesi che vogliono smarcarsi dai combustibili fossili. Purtroppo non sempre
l’impatto ambientale è trascurabile.
Acqua, calore terrestre e vento: il futuro
energetico dell’Africa potrebbe partire da questi elementi, tutti abbondanti
nel continente e tutti puliti. Il percorso è ancora lungo, ma si stanno
compiendo passi da gigante nella direzione di una energia accessibile e
rinnovabile, capace non solo di far crescere la qualità della vita degli
africani, ma anche di alimentare lo sviluppo economico.
Attualmente
un terzo della popolazione africana non ha accesso all’elettricità. Se esistono
però paesi come Libia, Egitto e Sudafrica in cui la rete elettrica è
strutturata e raggiunge la maggior parte degli utenti, in altre nazioni
l’accesso scende sotto il 20%, con picchi negativi del 5% in stati meno
sviluppati. Una situazione difficile anche se tenendo conto delle necessità di
un continente che economicamente sta crescendo a livelli sostenuti. Il Pil,
infatti, pur partendo da valori assai bassi, continua a salire. Quello
dell’Africa sub sahariana, secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), è
balzato dal 5,1% nel 2012, al 5,4% nel 2013, al 5,7% nel 2014. Etiopia,
Mozambico, Tanzania, Congo, Zambia, Nigeria e Ghana dovrebbero rientrare, nei
prossimi 5 anni, tra le economie con la crescita più forte al mondo.
L’energia
è quindi un fattore strategico. E l’energia rinnovabile, in particolare, può
essere la più adatta per il continente. In paesi in cui le reti elettriche non
raggiungono tutte le regioni e nei quali la popolazione è dispersa su aree
molto vaste, la produzione con piccoli impianti distribuiti sul territorio e
destinati alle esigenze locali può rivelarsi la soluzione più razionale. A ciò
si aggiunge il fatto che, soprattutto quando si parla di impianti eolici e a
energia solare, si ha a che fare con strutture modulari (che possono cioè
essere ampliate) e che richiedono una manutenzione relativamente semplice.
Caratteristiche che si adattano all’impiego in zone remote. Oltre ad affrancare
molti paesi dalle costose e inquinanti centrali alimentate dai carburanti
fossili. I costi degli impianti non sono ancora alla portata degli stati
africani, ma organizzazioni inteazionali e imprese private stanno investendo
capitali insieme ai governi locali per creae all’avanguardia.
L’Africa è uno dei continenti più adatti allo
sfruttamento dell’energia del sole. Molti paesi, soprattutto quelli della
fascia saheliana e sahariana, godono di un’esposizione prolungata ai raggi sia
nel corso della giornata sia durante l’anno (in Ciad, per esempio, si calcola
che ci siano almeno 360 giorni di sole l’anno, lo stesso vale per Libia,
Algeria, Mali, Niger, Sudan). Secondo calcoli scientifici oltre l’80% del
territorio riceve tra i 6,5 e i 7,5 KWh di energia per metro quadrato all’ora.
Attualmente
i raggi del sole possono essere trasformati in energia attraverso due sistemi:
i pannelli fotovoltaici e le centrali termodinamiche.
I pannelli si stanno diffondendo rapidamente nel
continente. Ospedali, scuole, sedi di Ong, grazie alle donazioni di
organizzazioni inteazionali, installano piccoli impianti solari per le loro
esigenze. La sua capillarità rende difficile quantificare il fenomeno che però,
va detto con certezza, è in rapida espansione. Ma i pannelli sono oggetto anche
di progetti di più ampie proporzioni. Per esempio, a Sunninghill (Sudafrica) è
stato costruito un impianto in grado di sviluppare un’energia di 675 MWh l’anno
che copre il 5% del fabbisogno del paese. Pretoria ha poi dato il via libera
alla costruzione di una centrale nel deserto del Kalahari che è entrata da poco
in funzione e, a regime, dovrebbe fornire 146 GWh l’anno. Anche a Nzema (Ghana)
è stato creato un impianto che dovrebbe produrre 155 MWh grazie a 630mila
pannelli.
A
giugno il Marocco ha pubblicato due bandi per la realizzazione di altrettanti
progetti fotovoltaici. Il primo dovrebbe essere costituito da quattro centrali
collegate alla rete ad alta tensione, il secondo da otto centrali anch’esse
collegate alla rete. Per i finanziamenti Rabat si è rivolta alla Banca mondiale
e alla Banca europea degli investimenti che si sono impegnate a sostenee la
realizzazione. Da parte sua il governo marocchino ha stanziato 11 miliardi di
dollari per le energie pulite (solare ed eolico). Un investimento che dovrebbe
portare il paese a diventare un esportatore di energia pulita entro il 2020 e
ad affrancarsi dai carburanti fossili (per i quali spende 13 miliardi di dollari
l’anno).
Gli
investitori inteazionali hanno però puntato il loro sguardo anche su un’altra
forma di produzione dell’energia: le centrali termodinamiche. In esse la
radiazione solare viene concentrata in specchi parabolici e convertita in
calore, il quale è poi trasformato in elettricità da turbine a vapore. Le
centrali possono essere installate nei deserti dove c’è abbondanza di spazio e
di raggi solari. Impianti di questo tipo sono in funzione negli Usa, in Spagna
e anche in Italia (a Priolo, Siracusa). Per sfruttare le enormi potenzialità
del solare e delle centrali termodinamiche, nel 2007 era nato Desertec,
un’organizzazione della quale facevano parte numerosi centri studi tedeschi che
collaboravano con società del calibro di Abb, Deutsche Bank e Siemens. Il piano
prevedeva investimenti per 400 miliardi di euro nell’arco di vent’anni per
creare un sistema di centrali termodinamiche in rete con alcuni parchi eolici
nel Nord Africa e in Medio Oriente. L’energia prodotta avrebbe potuto essere
utilizzata in loco, e in parte esportata verso l’Europa. Le rivolte arabe e la
crescente instabilità politica della regione hanno in seguito fermato il
progetto. L’idea però non è morta. In Italia Res4Med, un’associazione di cui
fanno parte tra gli altri Edison, Enel, Politecnico di Milano, ha rilanciato il
piano di creare centrali termodinamiche di piccole e medie dimensioni sulle
coste del Mediterraneo. E nel 2013 ha presentato sei progetti in questo senso.
Nel frattempo la multinazionale spagnola Abengoa ha completato la costruzione
di un impianto termodinamico a Upington (Sudafrica). Una struttura che aiuterà
il Sudafrica a raggiungere l’obiettivo energetico di 18 GWh di energia pulita
entro il 2030.
Le
centrali geotermiche sono state le prime forme di produzione di energia
rinnovabile in Africa. Per lungo tempo, considerati i bassi consumi e i costi
contenuti, gli stati hanno però preferito non implementae la costruzione. Ma
i tempi sono cambiati e si torna a guardare con interesse all’energia del
sottosuolo (che si stima abbia una potenzialità di 7 mila MWh). La geotermia si
basa sullo sfruttamento del calore naturale della terra. Penetrando in
profondità, la temperatura aumenta. Nelle regioni caratterizzate da attività
vulcaniche il calore è ancora più elevato e si produce energia convogliando in
una turbina i vapori provenienti da sorgenti di acqua calda o quelli ricavati
pompando nel sottosuolo acqua fredda che si riscalda.
In
Africa le condizioni migliori per lo sfruttamento della geotermia si trovano
nella Rift Valley, quella spaccatura della crosta terrestre che va dal Mar
Rosso fino allo Zambia. Il Kenya è stato il primo paese a sfruttae le
potenzialità costruendo nel 1956 l’impianto Olkaria I e, successivamente,
Olkaria II e Olkaria III. Ora è in fase di progettazione Olkaria IV. La strada
tracciata dai keniani è stata seguita da altri paesi. Etiopia e Zambia hanno un
impianto ciascuno, ma Addis Abeba e Lusaka intendono potenziarli (il governo
etiope ha firmato un’intesa con una società europea per una centrale nella zona
del Lago Langano che dovrebbe entrare in funzione nel 2018). Progetti ambiziosi
anche per Uganda, che intende sfruttare il potenziale di 450 MWh nonostante
recentemente abbia scoperto ricchi giacimenti di petrolio, e Ruanda, che
progetta di costruire centrali per 300 MWh. Il caso più interessante però è
quello di Gibuti. Il piccolo stato ha firmato a gennaio un accordo con la Banca
mondiale per il finanziamento di impianti che sfruttino le risorse geotermiche.
Nel piano sono coinvolte imprese provenienti da Europa (in particolare
dall’Islanda che è all’avanguardia nel settore) e Cina. L’obiettivo è riuscire
a diventare autosufficiente dal punto di vista energetico entro il 2020,
sfruttando unicamente energie rinnovabili.
Alcuni
paesi africani stanno investendo anche nel vento. In collaborazione con aziende
europee, americane e cinesi vengono realizzati grandi parchi eolici. L’impatto
ambientale non è trascurabile, ma il ritorno economico spesso mette in secondo
piano le ragioni dell’ecologia. In questo settore si sono concentrati in modo
particolare Etiopia, Kenya e Marocco. In Etiopia, l’autunno scorso, il premier
Heile Mariam Desalegn ha inaugurato il parco eolico di Ashegoda che attualmente
è il più grande dell’Africa. In costruzione dal 2008 la centrale vanta 120 MWh
di capacità installata ed è localizzata a 18 chilometri dalla città
settentrionale di Mekelle dove esistono favorevoli condizioni climatiche.
Il
primato però verrà presto scalzato dal parco eolico che il Kenya sta costruendo
sul Lago Turkana. Grazie a un investimento di 200 milioni di euro, Nairobi
impianterà 365 pale che foiranno 850 KWh l’una. L’impianto sorgerà a 9 km
dalla riva del bacino lacustre per tutelare il patrimonio avifaunistico della
regione e, una volta a regime, permetterà al governo keniano di chiudere il 60%
dei suoi inquinanti impianti termoelettrici.
Ha
invece iniziato a produrre la centrale di Tarfaya, al confine tra il Marocco e
il Sahara occidentale, sebbene non siano ancora terminati i lavori. Quando sarà
a pieno regime, il parco eolico conterà su 131 turbine, alte 80 metri ciascuna
che, sfruttando i venti del deserto, foiranno 300 MWh. Poco più a Est di
Tarfaya sorge un altro parco che conta una decina di turbine e da giugno
fornisce 100 MWh di energia.
In
Africa il futuro energetico è già iniziato.
Idroelettrica:
rinnovabile ad altissimo impatto ambientale
Nuovi rischi sotto il
cielo
Se i governi africani stanno guardando con grande
interesse alle risorse idriche, eoliche e geotermiche, è il settore
idroelettrico quello su cui si concentrano da anni le maggiori attenzioni. Ma
anche i più grandi pericoli per le popolazioni.
Le prime grandi dighe sono state
costruite negli anni Cinquanta e Sessanta. Sono gli impianti di Akosombo, sul
fiume Volta (Ghana), che dà origine al più vasto lago artificiale al mondo ed è
stato realizzato in più fasi tra il 1940 e il 1965; di Kariba, sullo Zambesi (tra
Zambia e Zimbabwe), costruito da un consorzio di ditte italiane tra il 1955 e
il 1959; di Assuan sul Nilo (in Egitto), iniziato nel 1960 e terminata nel
1970; di Cahora Baixa, sullo Zambesi (Mozambico), costruito dai colonizzatori
portoghesi tra il 1969 e il 1974. Si tratta di enormi strutture che foiscono
tra i 1.200 e i 2.100 MW di potenza, ma che hanno un grande impatto
sull’ambiente e sulle popolazioni locali. Per realizzare la diga di Kariba
vennero sfollate 57mila persone di etnia tonga. Negli anni poi si sono
registrati nella regione numerosi terremoti che alcuni sismologi ritengono
siano stati indotti dalla diga. Anche la diga di Assuan ha creato diversi
problemi: dalla diminuzione delle attività ittiche alla minore fertilità dei
terreni (la diga trattiene il fertile limo), dalla sedimentazione delle acque a
monte della diga all’erosione delle rive a valle, dall’impoverimento della
fauna all’aumento della salinità delle acque del delta.
Nonostante questi problemi, negli anni Duemila (dopo
circa un ventennio di sosta) sono ripartiti gli investimenti nel settore
idroelettrico. In prima linea ci sono Repubblica democratica del Congo ed
Etiopia. Kinshasa sta progettando le dighe Inga III e Grande Inga sul fiume
Congo. Insieme a Inga I e Inga II dovrebbero formare un complesso in grado di
produrre più di 40mila MW. Molti politici, ambientalisti e scienziati si sono
schierati contro l’impianto perché esso, oltre ad avere un forte impatto
ambientale, sarebbe stato concepito per esportare l’energia e non per
utilizzarla in loco. Per i congolesi oltre al danno sull’ecosistema ci sarebbe
la beffa di non poter in alcun modo godere delle proprie risorse.
Anche Addis Abeba sta pianificando numerose dighe per
diventare esportatore di energia. Dopo aver realizzato tre sbarramenti sul
fiume Omo (Gilgel Gibe I, II e III) sta progettando la costruzione di altri due
impianti sempre sul fiume Omo (Gilgel Gibe IV e V). Anche in questo caso sono
state tante le polemiche. Lo stesso governo italiano che aveva deciso di sostenere
l’opera ha poi preferito ritirare gli stanziamenti di 250 milioni di euro. Ma
il pericolo più grande potrebbe arrivare dalla Grande diga del millennio sul
Nilo Azzurro. Oltre alle questioni ambientali sono in gioco le relazioni
inteazionali con Sudan ed Egitto. Il Cairo da decenni, in virtù di un’intesa
siglata nel 1929 e ribadita nel 1959, gode di un controllo assoluto sul bacino
del Nilo. A più riprese i politici egiziani hanno annunciato che non
accetteranno una diminuzione della portata del Nilo. A costo di dichiarare
guerra all’Etiopia.
Tags: eolico, fotovoltaico, energia, energia pulita, idroelettrica, energia, ambiente, geotermica
Enrico Casale