apostolico della Somalia.
Mons. Bertin ritorna in Somalia dopo
anni. Vede intorno a sé segnali positivi di cambiamento. Ma le
istituzioni
restano deboli. E gli Al Shabaab continuano gli attacchi terroristici. I
cristiani vivono in clandestinità. Oggi la Chiesa vuole riaprire una
sua presenza
stabile e visibile.
Monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della
Somalia, ha recentemente compiuto due visite in Somalia, dopo sei anni di
assenza. Ci racconta le sue impressioni.
Dopo le sue recenti visite in Somalia ha detto di aver
trovato «segni concreti di speranza». Può spiegarci meglio?
«In diverse parti della capitale ho potuto constatare la
ricostruzione di edifici abbandonati oppure nuove costruzioni; per esempio
lungo il “Lido” di Mogadiscio ci sono almeno tre ristoranti in funzione e altri
edifici stavano “spuntando”: segno che la vita sociale sta riprendendo. Durante
il giorno i somali circolano tranquillamente; per esempio in ‘”via Roma” nel
centro storico, ho visto i negozi aperti e c’era un brulicare di persone. Una
accresciuta sicurezza favorisce gli investimenti soprattutto della diaspora
somala. Qualche ministero, come quello degli Esteri, o dello Sviluppo e Affari
sociali è riabilitato e il personale del ministero è presente. L’aeroporto di
Mogadiscio conosce un andare e venire di gente che indica fiducia».
Cosa può dirci rispetto alle istituzioni governative, le
prime a essere riconosciute a livello internazionale dopo 20 anni di guerra
civile? Hanno oggi un margine di manovra per migliorare la situazione della
popolazione?
«Le istituzioni governative rimangono fragili. Sono sì
riconosciute dalla comunità internazionale; ma il problema è a livello locale,
a livello somalo. Dopo 22 anni di anarchia è difficile per la gente, abituatasi
a vivere senza istituzioni statali, esprimere la sua fiducia al primo venuto.
Ne sentono l’esigenza, soprattutto i poveri e il somalo comune. C’è poi il
discorso del federalismo che suona bene, ma è tutto da costruire in dialogo con
l’esigenza di avere una vera autorità centrale.
Per migliorare la situazione della popolazione si deve
sapere provvedere una certa sicurezza e alcuni servizi sociali, come scuola e
sanità, che in questo momento sono nelle mani di varie entità private. Lo stato
dovrà cornordinare le attività private con l’esigenza di un maggior impegno
pubblico».
Ci può parlare della situazione dei cristiani in Somalia:
quanti sono nelle sue stime? Come vivono? Sono sempre costretti in clandestinità?
Più in generale ci parli dell’aspetto della libertà religiosa in Somalia. È
teoricamente garantita dal governo e minacciata dai gruppi integralisti?
«I cristiani erano molto rari anche prima di questi 22
anni di guerra (forse qualche centinaio). Ora sono ancora meno. Ho incontrato
alcuni cattolici durante il mio ultimo viaggio a Mogadiscio. Chiaramente vivono
in situazione di clandestinità. I diritti umani sono affermati dalla nuova
Costituzione. Ma essi sono limitati sia dall’ignoranza della gente che non è
stata educata all’idea di rispetto della diversità anche dal punto di vista
religioso, sia da gruppi integralisti musulmani, come gli Al Shabaab.
Perché ci sia più rispetto dei diritti religiosi, è necessario che lo stato
cresca: senza uno stato con autorità nessun diritto umano sarà rispettato».
Gli Al Shabaab
si sono ritirati da Mogadiscio nel 2011, ma recentemente sono tornati a colpire
in capitale e hanno promesso di continuare. Legge questo evento come un colpo
di coda o piuttosto un ritorno a un’offensiva reale del gruppo islamico?
«Sì, gli Shabaab sono ancora presenti e possono
colpire con relativa facilità. Essi controllano ancora in gran parte le zone
rurali del Centro-Sud Somalia. È chiaro che le loro azioni, che colpiscono in
gran parte semplici cittadini, li alienano sempre più dalla simpatia popolare. È
necessario però che le nuove autorità dimostrino che sanno offrire qualcosa di
meglio: rispetto, riconciliazione, lavoro, educazione, sanità, ecc. È solo in
questo modo che l’estremismo islamico può efficacemente essere combattuto».
In generale la sicurezza in Somalia e in capitale è
migliorata? Anche l’Onu ha riaperto l’ufficio dell’Unhcr dopo 3 anni. Un
segnale di speranza o solo immagine?
«La riapertura di vari uffici e anche di ambasciate è
segno di un miglioramento e di speranza: ma la strada, ripeto, è lunga, non
bisogna illudersi. La sicurezza è migliorata per i cittadini comuni. Invece per
i funzionari statali e per gli stranieri, c’è bisogno ancora di farsi
proteggere da armati».
Secondo lei la conferenza di Londra sulla Somalia del 7
maggio avrà qualche effetto positivo? Si è parlato di investimenti
nell’esercito e nella polizia, ma per migliorare le condizioni di vita della
gente si è promesso qualcosa?
«Penso che la recente seconda conferenza di Londra sulla
Somalia abbia mostrato che questo paese ha ancora bisogno di un perseverante
sostegno politico ed economico. Certamente la sicurezza merita la priorità. Ma
non basta: bisogna che certi servizi, come la sanità, l’educazione, il lavoro
siano pure sostenuti e incoraggiati. La sicurezza con la pancia vuota non può
andare molto lontano!».
La carestia tra il 2010 e il 2012 avrebbe, secondo la
Fao, ucciso 258.000 persone in Somalia, nella «quasi» totale indifferenza
(salvo alcuni allarmi nel 2011). Secondo lei cosa oggi si dovrebbe fare?
«Io non sono così pessimista. Per me non c’è stata una
quasi totale indifferenza. Per noi che abbiamo vissuto questi anni difficili,
la Somalia non era stata dimenticata. Ciò che ha frenato è stata la difficoltà
a trovare delle soluzioni alla crisi somala. Era necessario affrontare il
problema non solo dal punto di vista umanitario o militare, ma anche e
soprattutto dal punto di vista politico-istituzionale. Il dramma di tutte
queste vite “perdute” è stato causato più che dalla siccità o altre calamità
naturali, dalla mancanza di una istituzione statale. A me sembra che
ultimamente ci si sia resi conto di tutto ciò».
Come Amministratore apostolico quali sono i suoi
programmi per la Chiesa in Somalia, e quali i suoi desiderata?
«Incontrando recentemente il ministro degli Esteri
somalo e altre autorità, ho espresso il desiderio di riaprire una presenza “fisica”
della Chiesa Cattolica in Somalia e in particolare a Mogadiscio, con la
possibilità di un luogo di culto (si vedrà più avanti se si potrà riutilizzare
la nostra cattedrale distrutta e occupata) e di esprimere più direttamente la
nostra partecipazione all’azione umanitaria e allo sviluppo, penso in modo
particolare attraverso la nostra Caritas».
La Basilica della Consolata a Mogadiscio consola ancora
La cattedrale di Mogadiscio,
Basilica della Consolata, è stata costruita tra il 1925 e il 1928 su disegno
dell’architetto Antonio Viandone che si ispirò al Duomo di Cefalù (foto qui
in basso). Fu consacrata il 1° marzo 1928 in una cerimonia che durò dalle quattro
alle nove del mattino, presieduta da mons. Gabriele Perlo, missionario della
Consolata e primo Vicario apostolico della Somalia, alla presenza di Umberto di
Savoia. Le foto in bianco e nero ne documentano i lavori di costruzione e lo
splendore.
I missionari della Consolata, arrivati nel 1924, nel 1930
lasciarono la Somalia ai Frati Minori lombardi, i quali ne sono ancora
responsabili nella persona del vescovo di Gibuti, mons. Giorgio Bertin,
amministratore apostolico della Somalia. L’imponente cattedrale, voluta e
costruita come imposizione coloniale e, allora, unica chiesa cattolica tra le
oltre 40 moschee di Mogadiscio, non ha mai servito a una vera cristianità
locale. Cacciati gli italiani, nel 1950 c’erano ancora circa 8.500 cattolici,
scesi a 2.600 nel 1970 e a un centinaio nel 1990. L’anno prima, il 9 luglio
1989, il vescovo Pietro Salvatore Colombo Ofm era stato assassinato proprio sul
sagrato.
Con la caduta di Siad Barre nel 1991 cominciava la persecuzione
dei cristiani e fu ucciso un altro francescano, p. Pietro Turati (1991),
seguito da Graziella Fumagalli (1995) e Annalena Tonelli (2003), volontarie,
dalla nostra suor Leonella Sgorbati (2006) e da oltre una trentina di cristiani
locali. La basilica è stata saccheggiata e vandalizzata nel 1991 e
cannoneggiata dai fondamentalisti nel 2008 che ne hanno demolito le torri di
37.50 m con la dinamite. Nonostante i loro sforzi non sono riusciti ad avere la
meglio del grande edificio che condivide la generale distruzione di quella che
era una bellissima città. Oggi, come documentano le fotografie recentissime
di Marco Procaccini, il terreno della cattedrale è diventato un campo di
rifugiati, sui quali ancora campeggia, consolante, la grande croce della navata
centrale.
Marco Bello