La santità è una conquista che tutti possono raggiungere,
a essa possono aspirare uomini e donne di ogni razza, popolo e cultura. Questa
volta ci incontriamo con Bakhita, una santa africana originaria del Darfur (Sudan), che, fatta
prigioniera da bambina e venduta come schiava da mercanti senza scrupoli, dopo
incredibili vicissitudini, approda nella famiglia del Console italiano Callisto
Legnani, che dal Sudan la porta in Italia. Nel nostro paese, Bakhita incontra
le Suore Canossiane e, dopo un certo periodo, entra a far parte dell’Istituto,
prendendo i voti nel 1896. Il suo modo di fare, soprattutto la
dolcezza del suo carattere, le attirano in poco tempo la simpatia di tutti
coloro che la circondano.
Una santa «di colore» diremmo oggi, eppure di santi provenienti dal continente africano ce ne furono parecchi prima di te, non è così?
Il calendario è ricco di santi africani, qualcuno addirittura, come sant'Agostino che, nato a Tagaste (l’attuale Algeria), è considerato uno dei pilastri del pensiero occidentale, grazie alla sua profonda conoscenza teologica e alla sua filosofia che ha segnato non poco tutto il pensiero del bacino del Mediterraneo, dell’Europa..
Hai citato uno dei più grandi Padri della Chiesa, che insieme a Tertulliano, a Cipriano e a tanti altri, ha dato lustro alla Chiesa africana delle origini, ma ce ne sono stati altri?
Molti africani al tempo dell’impero romano prestavano servizio militare nelle varie legioni e alla fine si stabilivano definitivamente dove erano stanziati. Alcuni di loro, pur essendo di colore, sono venerati nelle Chiese del Nord Italia, come san Vittore, san Maurizio, san Zeno di Verona e tanti altri. Pure nel Sud dell’Italia la devozione ai santi provenienti dall’Africa è molto forte, come san Benedetto il Moro, originario della Mauritania, il primo santo negro canonizzato il 24 maggio 1807 da Papa Pio VII, il quale, insieme a santa Rosalia, è patrono di Palermo. Provenienti dall’Africa sono anche san Calogero, sant’Oronzo, sant’Antioco e tantissimi altri. E poi ci sono ben tre papi: Vittore, Milziade e Gelasio. Certo sono dei primi secoli della storia della Chiesa, ma sono il segno tangibile e inequivocabile che le radici cristiane in Africa hanno origini antichissime.
La tua però è una storia di santità un po’ speciale. La tua canonizzazione è avvenuta perché in fondo sei approdata in Italia. Com’è successo?
Nata nel 1869 e cresciuta in un villaggio del Darfur, in Sudan, all’età di sette anni fui rapita da razziatori arabi, che si spingevano all’interno per catturare uomini e donne, giovani, ragazzi e bambini di entrambi i sessi e rivenderli come schiavi. Io, che appartenevo a una famiglia agiata che aveva piantagioni e bestiame, improvvisamente fui strappata dai miei cari e dalla mia terra e mi ritrovai immersa nel dolore e nella sofferenza.
Puoi raccontare la tua odissea come schiava?
Fui subito venduta al mercato degli schiavi e in pochi anni fui sballottata da un padrone all’altro (ben sei) di diversi paesi. Ricordo che il padrone più cattivo fu un generale turco ottomano che mi fece fare un tatuaggio su tutto il corpo e anche delle incisioni che sfigurarono tutta la mia persona, tranne il volto. Per fortuna alla fine questo ufficiale mi vendette.
Dove finisti? Chi ti comprò?
Fui acquistata da un agente consolare italiano, Callisto Legnani, che mi trattò bene; in casa sua per la prima volta ebbi dei vestiti tutti per me e un cibo decente. Era deciso a riportarmi al mio villaggio per ridarmi la libertà. Ma la rivoluzione del Mahdi cambiò completamente i programmi del Console e miei. Si vede che la Provvidenza aveva disposto diversamente.
Rivoluzione del Madhi, cos’è?
Alla fine degli anni 1870, Muhammad Ahmad - un asceta musulmano - iniziò a predicare a Khartum, la capitale, e in altri centri urbani del Sudan, invocando il rinnovamento della «vera fede» (ovviamente quella islamica), la liberazione della terra sudanese e il ritorno alle strutture di governo previste dal Corano. I suoi seguaci raggiunsero un numero ragguardevole e Ahmad si proclamò nel 1881 Mahdi, cioè redentore dell’Islam, che la tradizione islamica vuole debba comparire verso la fine dei tempi per ripristinare il primitivo puro Islam.
Quindi ci fu una guerra?
Sì, inglesi ed egiziani si opposero al Mahdi e ci furono diverse battaglie con esiti incerti, le sorti erano favorevoli ora all’uno ora all’altro fronte, ma questa situazione critica, violenta, piena di odio verso i colonizzatori europei, specialmente gli inglesi, portò il funzionario italiano alla decisione di lasciare Khartum e di ritornare in Italia.
E tu immagino che seguisti la famiglia del Console italiano?
Sì. Decisi di seguire quella che ormai consideravo la mia nuova famiglia, ma il Console mi mandò al servizio di un amico suo, Augusto Michieli, perché facessi da baby-sitter alla figlioletta Alice (Mimmina).
In Italia dove vi stabiliste?
Ci stabilimmo dapprima a Genova, poi nel Veneto, dove i Michieli avevano diverse ville. Io accudivo sempre Alice e passavo con lei molto tempo, seguendola anche nel catechismo che lei frequentava dalle Suore. I Michieli, avendo da curare i propri affari anche in Africa, ritornarono diverse volte in quel continente, con me sempre al seguito. In uno di questi viaggi i coniugi andarono da soli e io rimasi ospite nel catecumenato delle Suore Canossiane a Venezia.
E lì che successe?
Dopo nove mesi la signora Michieli venne a reclamare i suoi diritti su di me. Mi rifiutai di seguirla nuovamente in Africa, al che la signora perse completamente le staffe. Nella diatriba che seguì, intervenne anche l’allora patriarca di Venezia, cardinal Agostini, e il procuratore del Re, il quale mandò a dire alla signora che in Italia non c’era più la schiavitù, io ero una persona libera e potevo prendere la strada che volevo.
Proprio come una persona libera?
Sì. Mi sentivo una persona completamente nuova, diversa, dopo molte vicissitudini e dopo aver provato le sofferenze più terribili, tra cui la schiavitù, ero finalmente una ragazza libera; era il 29 di novembre 1889.
E che facesti allora?
Completai la mia formazione cristiana e il 9 gennaio 1890 ricevetti dal patriarca di Venezia battesimo, cresima e prima comunione. In quell’occasione mi venne dato il nome di Giuseppina Margherita e Fortunata, che è la traduzione italiana del nome arabo Bakhita.
Chissà che giornata meravigliosa fu quella!
È vero. Da schiava negra ignorante diventavo figlia di Dio. Un’esperienza incredibile di libertà interiore, che sono incapace di descrivere, ma che riempiva il mio animo di una grazia e delicatezza che non avevo mai sperimentato. Provavo la gioia di essere una donna libera, amata da Dio e una cristiana che cercava di vivere il Vangelo di Gesù. Avevo un solo dispiacere: non avere nulla da offrire al Signore in cambio di tutti i doni che mi aveva fatto.
Fu in quel periodo che sentisti dentro di te la vocazione di consacrarti totalmente a Gesù?
Devo dire che vivendo e approfondendo il mio cammino di fede, sentivo crescere dentro di me il desiderio di farmi suora e di donarmi totalmente al Signore. Avevo paura a manifestare questi miei sentimenti perché pensavo che il colore della mia pelle fosse un ostacolo insormontabile.
E invece?
Quando manifestai questa mia intenzione, fui accolta a braccia aperte dalle care sorelle dell’Istituto Figlie della Carità fondato da Maddalena di Canossa per aiutare i bambini più poveri e analfabeti a elevarsi culturalmente e spiritualmente mediante l’istruzione scolastica. Dopo tre anni di noviziato, l’8 dicembre 1896 pronunciavo i voti religiosi di povertà, castità e obbedienza. L’allora patriarca di Venezia, il Cardinale Giuseppe Sarto, il futuro Pio X, dopo avermi esaminata e interrogata lungamente, mi incoraggiò nella mia vocazione e mi disse: «Gesù vi vuole. Gesù vi ama; voi amatelo e servitelo sempre così». Dopo i voti venni mandata nella comunità di Schio, Vicenza, dove rimasi per quarantacinque anni e lì svolsi qualsiasi lavoro mi veniva richiesto: lavoravo in cucina, lavavo la biancheria, accudivo la portineria, imparai anche a ricamare.
Dì la verità: ti guadagnasti la stima di tutti per la tua bontà, la tua dolcezza di carattere e la cordialità con la quale accoglievi i poveri e soprattutto i bambini che frequentavano le scuole del vostro Istituto.
I bambini mi chiamavano la «madre moretta», a loro raccontavo tante fiabe della mia terra. La mia storia, il fatto che ero stata venduta come schiava ed ero approdata alla vita religiosa, si sparse in un baleno dappertutto e venni invitata in diverse città italiane a dare testimonianza della mia vita, della mia conversione e della mia vocazione.
Immagino che fu abbastanza pesante questo continuo andare su e giù per l’Italia. A chi veniva ad ascoltarti cosa dicevi?
Un messaggio molto semplice: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio». Con quella consapevolezza che si accresceva di giorno in giorno, io stessa avrei voluto tornare tra la mia gente per far conoscere a tutti il grande amore che Dio ha per noi.
Bakitha rimase in Italia fino alla sua scomparsa. Nel 1943, con la sua comunità, pur nei difficili anni della seconda guerra mondiale, festeggiò i cinquant’anni di vita religiosa. Col passare degli anni, un’artrite deformante e una bronchite asmatica riempirono la sua esistenza di dolori fisici. Pur nella malattia, negli ultimi anni della sua vita, non si lamentava mai; a chi le chiedeva come stava, rispondeva in dialetto veneto: «Come vol el Paròn». Questa frase non esprimeva rassegnazione, era espressione genuina della sua testimonianza di fede, bontà e speranza cristiana. Si spense l’8 febbraio 1947. La sua comunità religiosa e la gente di Schio si strinsero attorno a lei per un ultimo atto di venerazione. Tutti volevano vedere la «madre moretta» prima della sepoltura. La fama della sua santità si diffuse rapidamente a macchia d’olio, dando vita a una devozione popolare e sincera, sia in Italia che in Africa. Giovanni Paolo II l’ha iscritta nell’albo dei santi il 1° ottobre del 2000.
Mario Bandera