’Īsā e Mohammed (nella Siria in guerra)

Padre Paolo Dall’Oglio

Questa conversazione con padre (abuna)
Paolo Dall’Oglio – avvenuta prima della sua sparizione in Siria (a fine luglio)
– è incentrata sul dialogo tra la Chiesa cattolica e l’Islam. Fondatore della
comunità monastica di Deir Mar Musa, allontanato dal paese mediorientale nel
giugno 2012, il gesuita è noto per la sua posizione nettamente contraria al regime
di Assad. Lo raccontiamo attraverso alcuni suoi scritti, mentre a oggi
(settembre 2013) di lui non si hanno ancora notizie certe.

Padre Paolo Dall’Oglio, gesuita, classe 1954, è stato
rapito in Siria da un gruppo islamista a fine luglio. Su di lui sono girate le
voci più disparate, finanche quella della sua morte. Dall’Oglio – conosciuto
per aver fondato, nel 1991, la comunità monastica Deir Mar Musa, nel deserto
roccioso della Siria, a 90 chilometri da Damasco – si era dovuto allontanare
dal paese nel giugno 2012. Le autorità ecclesiastiche avevano preso questa
decisione dopo che il governo di Assad l’aveva minacciato di espulsione per le
sue posizioni rispetto alla guerra civile siriana.

Qualche mese fa avevamo raggiunto Abuna
(«Padre», in arabo, lingua che lui parla fluentemente) Paolo, come viene
chiamato in Medio Oriente, a Suleymania, nel Kurdistan iracheno, dove era
ospite di una comunità cristiana. La chiacchierata si era incentrata sul suo
percorso spirituale e religioso. Ne è uscito il quadro di una persona senza
compromessi, disposto a mettersi in gioco per una causa davvero grande: il
dialogo islamo-cristiano, tra i seguaci di Mohammed e quelli di ’Īsā (che è il nome di Gesù
tra i musulmani).

Abuna
Paolo, quando e dove è arrivata la vocazione?

Era il 12 maggio 1974. Una data storica,
perché è stato il giorno del referendum sul divorzio in Italia, alla cui
campagna io avevo partecipato. Mi trovavo a Roma, a casa di un amico: la
chiamata è arrivata in modo molto intimo, essenziale, collegata all’universalità
del vangelo. A ciò è seguito un percorso molto profondo, fatto di esercizi
spirituali, noviziato, e nel frattempo di un progressivo avvicinamento al mondo
musulmano, che mi ha incuriosito da subito. Sono diventato gesuita nel 1975,
poco tempo dopo ho fatto i primi viaggi studio, in particolare a Beirut, dove
ho imparato l’arabo.

Che impatto ha avuto con la religione
musulmana?

«Il mio percorso sta tutto nel racconto di un fatto: nel
1978 mi trovavo di passaggio a Bosra, città della Siria, diretto verso
l’Egitto, che volevo conoscere. La sera, entrai nel cortile della moschea, dove
mi vennero incontro due giovani, a cui dissi di essere sporco, e che volevo
esprimere il mio rispetto per la moschea, la casa di Dio, facendo le abluzioni.
Mi diedero una brocca d’acqua e mi indicarono i bagni. Quando tornai, giunta
l’ora della preghiera della sera, la moschea si riempì di uomini e bambini, e
fui invitato a unirmi. Sentii allora una forte attrazione, ma anche il dovere
di non ingannare i miei ospiti. Come avrebbero potuto capire quello che io già
sentivo come una duplice appartenenza? Il mio andare incontro al mondo
musulmano ha origine anche negli esercizi spirituali ignaziani, che seguono la
promessa del Signore a non nascondersi, ad andare in cerca del dialogo con
l’altro. Poi c’è il grande insegnamento del Concilio Vaticano II,
l’inculturazione della fede e la necessità di aprirsi all’ecumenismo.

Quali sono i modelli che segue nel suo
approccio con l’Islam?

Tutti i teologi orientalisti sono di grande
importanza, uno su tutti è Louis Massignon, la cui opera mi guida fin
dall’inizio, così come quella dei suoi allievi. Io come altri, appartengo alla
terza generazione, quella che più di tutte, nonostante il fallimento dello
stesso Concilio Vaticano II, vuole ricominciare da lì per fomentare il dialogo
islamo-cristiano.

In che fase si trova ora l’Islam, agli occhi di
un missionario cristiano?

È in continua evoluzione, con una società
che cerca in vari modi un’emancipazione che spesso risulta contraddittoria,
perché da un lato è fertile, dall’altro è fonte di sofferenze. Non è facile per
un cristiano avvicinarsi all’Islam, ma come prima cosa bisogna togliersi dalla
testa l’idea che si possa disprezzare perché differente: capita invece di
scoprire, con il tempo, cose molto belle, e quando entri in relazioni significative
ci rimani tutta la vita, come sta accadendo a me. È chiaro che a volte le cose
non vanno come dovrebbero, vedi la tragica guerra civile in Siria, oggi in
preda a una crisi tremenda dalla quale io sono dovuto venire via mio malgrado.
Nel rapporto con il mondo musulmano, la chiave sta nell’incontro e nell’evento
sacramentale della relazione, un fatto pentecostale che ci trasforma tutti, ci
rende fratelli. Tre fratelli, allargando il tema ovvero comprendendo gli ebrei.
Massignon dedicava le tre grandi preghiere giornaliere di Abramo a ciascuno di
essi: una per Isacco, simbolo del mondo ebraico, una per Ismaele, ovvero
l’Islam, la terza per Sodoma, la città inospitale in cui Gesù ha portato il suo
messaggio.

Il monastero di Deir Mar Musa, durante la guerra
civile in corso, ha perso la sua guida, il suo fondatore. L’esperienza cosa le
ha lasciato?

Un’enorme spinta a credere nel dialogo. Al monastero
sono arrivati negli anni per devozione cristiani locali (in Siria prima della
guerra erano l’8% del totale, ndr) di diversi riti: cattolici,
ortodossi, protestanti, armeni, di rito greco, siriaco, maronita.

Inoltre c’è la popolazione musulmana, che
visita il monastero come atto culturale, turistico e spirituale. Un monastero
cristiano in un ambiente musulmano tradizionale è un luogo religioso
riconosciuto. Infine Deir Mar Musa riceveva anche il turismo internazionale,
culturale e ambientale, ed era sede di convegni nazionali, meta di giovani che
venivano a studiare l’arabo. Stiamo parlando di tante, tantissime persone. Un
anno abbiamo contato i bicchieri di plastica utilizzati: erano 50mila. Poi ci
hanno criticato per i bicchieri, che sono stati via via sostituiti con quelli
di coccio… l’aspetto importante era la rete che si è venuta creando, e il fatto
che si scambiassero idee e esperienze di vita persone provenienti da tutto il
mondo e di tutte le fedi.

Come vede l’arrivo di papa Francesco?

Parto dalla scelta del suo predecessore,
Benedetto XVI: un atto di forte coraggio, la testimonianza di un grande signore
che a un certo punto decide di farsi da parte per il bene della Chiesa,
stimolandola a migliorarsi. L’ho accompagnato nelle mie preghiere e merita
molta gratitudine, perché in questo modo porta freschezza all’ambiente,
tagliando le gambe a una sorta di “corte” che avrebbe danneggiato tutto il
sistema. Ora con l’avvento di Mario Bergoglio, l’auspicio è che si riporti il
potere alla sinodalità della Chiesa, ovvero che lui si metta a capo di un
collegio che con responsabilità porti avanti relazioni positive con le altre
confessioni, in particolare si ponga con un’attitudine positiva verso il mondo
musulmano.

Cosa risponde a chi in Italia, politici ma non
solo, rifiuta l’offrire spazi per luoghi di culto a persone di fede musulmana
argomentando che «là non ci fanno costruire le chiese»?

Che è una frase falsa frutto di un luogo
comune: esistono chiese in tutto il mondo musulmano, eccetto l’Arabia Saudita
dove non sono presenti in modo istituzionale. La regola è quindi che le chiese
ci sono, quello che mi scandalizza quando vengo in Italia è vedere moschee
assolutamente non degne delle città in cui sono. Io dico questo: con moschee da
scantinato si fanno musulmani da scantinato, più arrabbiati e meno inseriti nel
contesto in cui vivono.

Quanto torna in Italia cosa nota del nostro
paese?

Ci sono tante reti di persone che si danno
da fare, ma in generale vedo una società narcisista, sempre più chiusa su sé
stessa, in cui tutto è un prodotto da supermercato e il sacro perde il proprio
valore. Invece non bisogna lasciarsi andare nonostante i tempi difficili di
crisi, e ripartire proprio dalle differenze viste come ricchezze, cominciando
con il riconoscimento dell’alterità come parte integrante e non oppositiva del
proprio mondo.

Lasciamo il discorso sul dialogo interreligioso
e ci dica qualcosa sulla sua Siria…

Oggi sono tutti divisi: da una parte chi non
vuole più l’attuale regime, soprattutto giovani che chiedono più libertà.
Dall’altra chi non vuole il cambiamento, perché è sicuro che il dopo sarà
peggio o perché ragiona con logiche patriottiche, contro il complotto
internazionale.

Lei vede questo complotto?

No, ma vedo che nella violenza attuale pesa
in modo sconvolgente l’immobilismo delle forze inteazionali. Come si fa a
lasciare sprofondare questo paese senza fare nulla? Obama non fa seguire fatti
alle parole per non mettere in crisi la sua rielezione? C’è poi da considerare
un altro fattore oggi all’apparenza fuori controllo: chi finanzia e decide le
azioni terroristiche? La verità è che oggi la Siria è il ring di pugilato del
mondo: Iran contro Turchia, Sunniti contro Sciiti, Nato contro Russia. E
l’arbitro, l’Onu, che rimane impotente a causa del diritto di veto.

Come uscire dalla grave situazione attuale?

Io ho due proposte concrete per
riappacificare la Siria dalle divisioni. Una: inviare nelle strade siriane
almeno 50mila corpi civili e nonviolenti inteazionali, che si interpongano
tra le parti in conflitto, soprattutto ora che violenza e armi sembrano essere
l’unica risposta. Queste figure ci sono, e vanno impiegate con un ruolo
riconosciuto da tutti i belligeranti, per ridare ai siriani il loro diritto
all’autodeterminazione. L’altra idea è quella di creare, fin da subito,
laboratori, punti di incontro tra i milioni di siriani all’estero per
convincerli a trovare una soluzione comune e smetterla di darsi addosso. Se
loro recuperano il dialogo, poi anche in patria potranno farlo.

Non è tardi per il dialogo, viste anche le
atrocità commesse dal regime?

Le torture sono abominevoli, ma ricordiamoci che non è
niente di nuovo. Fino a poco fa era la stessa Cia, l’intelligence statunitense,
a sponsorizzare i paesi arabi che ne facevano uso contro l’integralismo
islamico. Comunque, la possibilità di risolvere il conflitto con il dialogo c’è
ancora: lo testimoniano le centinaia di giovani che mi fermano per strada
dicendomi che loro rifiutano la logica della guerra civile. Nonostante le
vessazioni, nel paese sono migliaia quelli che non vogliono imbracciare le
armi. Il problema è che con il passare dei giorni sono sempre meno, soprattutto
se nessuno dà loro segni di speranza.

Daniele
Biella

Date
1954 – Nasce a Roma.
1975 – Entra nella Compagnia di Gesù.
1991 – Fonda nel deserto siriano la comunità monastica di
Deir Mar Musa.
2012 – È costretto a lasciare la Siria a causa delle sue
posizioni sulla guerra civile.
2013 – luglio – Rientrato in Siria, scompare, probabilmente rapito.
2013 – agosto – Dalla Siria giungono notizie contraddittorie
sulla sua sorte.
2013 – settembre – Esce il suo ultimo lavoro, Collera e
luce. Un prete nella rivoluzione siriana, Emi, Bologna.
 
I libri di padre Dall’Oglio

Collera e luce, un prete nella rivoluzione siriana,
Edizioni Emi, Bologna, settembre 2013.
La sete di Ismaele. Siria, diario monastico
islamo-cristiano
, Il Segno dei Gabrielli, San Pietro in Cariano 2011.
Innamorato dell’Islam, credente in Gesù, Edizioni Jaca
Book, Milano 2011.
Speranza nell’Islam, Casa editrice Marietti, 1992.

 
L’inutilità della storia

Kosovo (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia
(2011), Siria (2013?). La storia non insegna nulla, soprattutto a chi non ha
interesse a imparare. Nell’era dell’iperinformazione prevale sempre e comunque
la disinformazione.

Mentre la galassia dei ribelli siriani è in evidente difficoltà,
Assad viene accusato di aver usato armi chimiche, in quartieri periferici di
Damasco (21 agosto). «L’utilizzo delle bombe chimiche è tutto da provare. Se
sono state utilizzate, non è certo chi le abbia gettate» (mons. Giuseppe
Nazaro).

Ieri erano Bush, Blair e Aznar. Oggi sono Obama, Cameron e
Hollande. Dicono che occorre intervenire per porre fine ai massacri del regime
di Damasco. Papa Francesco twitta: «Mai più la guerra!» (2 settembre). «Quando
si utilizzano le vittime per giustificare una guerra non lo si fa per amore
delle vittime ma per amore dei propri affari e dei propri interessi» (don
Renato Sacco). Come storia insegna.

Paolo Moiola

    Il Medio Oriente e la Siria secondo padre Paolo
Dall’Oglio                      

«Perché sono contro Assad»

In Siria i cristiani sono divisi in due schieramenti:
quelli che difendono il presidente Assad e quelli che stanno con i ribelli. In
questa lunghissima lettera pubblica – da noi ampiamente stralciata e riassunta
– padre Dall’Oglio spiega le sue posizioni sul Medio Oriente e perché si è
schierato con i ribelli anti-Assad. Considerazioni poi sviluppate in «Collera e
luce», il suo ultimo lavoro, dove tra l’altro scrive: «La mia coscienza
cristiana è chiaramente lacerata».

Cari amici
della Siria, si è molto
insistito sul fatto che avrei profittato per i miei comodi della situazione
siriana, del regime siriano, e che ora darei prova di poca gratitudine tradendo
innanzitutto i cristiani siriani, mi limiterò ad una serie di considerazioni in
ordine cronologico per render conto dell’evoluzione della mia posizione.

1973 Ho visitato la Siria degli Assad una prima volta nel 1973, appena
prima della Guerra di ottobre (il conflitto tra Israele e la coalizione
composta da Siria ed Egitto, ndr). Ne riportai l’impressione di un
popolo sottomesso ad una macchina di propaganda nazionalista possente
mobilitata al massimo in senso anti israeliano. I paesi arabi subivano
l’occupazione di vasti territori da parte di Israele, c’era la Guerra fredda.
Per tanti motivi ero solidale, come lo sono oggi, con le sofferenze del popolo
palestinese e degli arabi in generale. Ma quell’attitudine di manipolazione
totalitaria dell’informazione già mi ripugnava. Sapevo che si trattava di una
dittatura e non nutrivo illusioni sul rispetto dei diritti dell’uomo in quel
paese.

1978 Ero a Beirut durante il terribile assedio dei quartieri cristiani di
Achrafiye da parte dell’esercito siriano (la guerra civile libanese era
scoppiata nel 1975 e la Siria ne prese subito parte, ndr). Il regime
siriano si è comportato da padrone senza scrupoli sfruttando il Libano in tutti
i modi e nascondendosi dietro una serie di maschere ideologiche venute poi
meno, le une dopo le altre, di fronte all’eroica resistenza del popolo libanese
democratico.

1980/’81 Ero a Damasco per lo studio dell’arabo, delle Chiese orientali e
dell’Islam. Venni in contatto e a conoscenza dei metodi di sistematica tortura
repressiva utilizzati dal regime. Se volevo restare nel paese dovevo
assoggettarmi come tutti. Ma non ero obbligato ad assoggettarmi in coscienza.
Moltissimi cristiani già lasciavano allora il paese visto il perdurare della
situazione di incertezza nella società locale e nella regione. Alcuni erano pro
regime, altri contro, ma tutti cercavano di partire per il futuro dei loro figli.
Bisogna ricordare che allora la solidarietà del regime con il mondo sovietico
era evidente, anche riguardo alle libertà democratiche criticate come borghesi
e asservite alle logiche neo imperialiste. Io cercai sempre di avere buoni
rapporti con lo stato  – anche se
sottomesso al regime dittatoriale – in quanto proprietà dei cittadini. Ero per
la legittima lotta di liberazione contro l’occupante israeliano, ma evitavo
sistematicamente di cedere ai toni della propaganda di regime.

1982 In quell’anno ero studente di
teologia a Roma quando avvenne il terribile massacro della popolazione civile
di Hama (città della Siria centrale a grande maggioranza sunnita, ndr)
durante l’insurrezione dei Fratelli musulmani. Ne soffrii tanto da ammalarmi.
Non se ne poteva parlare pubblicamente altrimenti mi scordavo la possibilità di
rientrare in Siria dove mi sentivo chiamato a servire l’armonia
islamo-cristiana. Tuttavia ero perfettamente cosciente che un continuo,
silenzioso massacro avveniva nelle carceri, nei lagher, nei gulag siriani. Ne
avevo ricevuto in diverse occasioni delle testimonianze dirette e sapevo che
molti cristiani, anche tra le autorità ecclesiastiche, si erano abituati a
questo stato di cose come naturale e necessario rendendosene a volte
direttamente complici. Questo mi addolorava profondamente e vi vedevo un
rischio pesantissimo per il futuro della Chiesa in Siria. La stessa cosa
avveniva d’altronde in Iraq e in Egitto.

In questo
spirito, con questi sentimenti contrastanti, eppure con molta speranza ed
entusiasmo, ho vissuto nella Siria degli Assad per più di trent’anni. A causa
dell’ampio impatto internazionale del mio impegno di restauro, di accoglienza e
di dialogo al Monastero di Mar Musa, godetti indubbiamente di uno spazio di
parola e di una libertà di opinione incomparabilmente più largo dei normali
cittadini, obbligati a portare fin dalla più tenera infanzia il cervello
all’ammasso della manipolazione di regime. Fui presto oggetto di critiche aspre
e di accuse ingiuste proprio perché la mia libertà di parola sembrava
impossibile ai più, anche se era sempre limitatissima e molto auto controllata
se paragonata alla situazione, per esempio, europea. Era un gioco in fondo
leale: io offrivo un volto che illustrava inteazionalmente l’apertura e il
pluralismo almeno programmatico del potere siriano e loro accettavano ch’io mi
comportassi come se la democrazia, seppur non perfetta, fosse già almeno in
fieri
.

Ho lavorato continuativamente nella prospettiva del successo dei
negoziati di pace nella visione di un Medio Oriente riconciliato nella
giustizia. Ho sempre dichiarato che l’islamismo politico è una grande realtà
regionale e che non è immaginabile che si debba rinunciare alla democrazia, ai
diritti civili e all’autodeterminazione dei popoli per continuare a sopprimere
il programma islamista, sia esso salafita o dei Fratelli musulmani o di gruppi
più o meno moderati. Si tratta di un soggetto politico plurale non aggirabile
ma tuttavia esposto ad evoluzione, spesso rapida. Per questo ho sempre curato
la relazione coi leader naturali, scelti e seguiti dalla piazza e dal popolo
delle moschee dei musulmani siriani, rifiutandomi di appiattirmi sulle autorità
approvate e nominate dal regime.

1991 In quell’anno la Siria partecipò
alla coalizione contro l’Iraq di Saddam che aveva invaso il Kuwait. Trovai
giusto in quell’occasione che si salvassero i curdi dall’attacco di Saddam e
proteggendoli con una no fly zone. Rimasi poi scandalizzato
profondamente quando gli sciiti iracheni furono cinicamente abbandonati alla
repressione del dittatore di Baghdad, e così pure i libanesi abbandonati allo
strapotere siriano.

È evidente che la guerra è raramente una soluzione e comunque è una
soluzione cattiva e claudicante. Tuttavia, con l’insegnamento tradizionale
della Chiesa dichiaro, nonostante i rischi di equivoci stridenti e di ipocrisie
criminali, la legittimità della guerra giusta, il diritto alla difesa
armata, il dovere di proteggere i paesi e le popolazioni vittime di aggressioni
violente intee e o estee. Nonostante questo incoraggio e mi impegno per la
pratica e il successo delle azioni nonviolente. Penso alla non-violenza attiva,
politica, come ad una trascendenza dei conflitti. Non è essa sempre
un’alternativa praticabile di per sé, ma essa è sempre necessaria. Molto più di
un correttivo integrativo, prima durante e dopo i conflitti armati, la
non-violenza dialoga, testimonia, critica, assiste, apre vie di
riconciliazione. Va oltre!

2000 Quando il dottor Bashar el-Assad, figlio del presidente Hafez, prese il
potere, si riaccesero le speranze per un cambiamento democratico incruento che
potesse riconciliare la società siriana profondamente divisa e sofferente
dietro la facciata delle realizzazioni gloriose del regime. Anche la visita del
Papa nel 2001 aveva la valenza di un segno di speranza, benché l’anno
precedente la visita a Gerusalemme era stato l’ultimo momento di calma prima
dell’inizio della seconda tragica intifada palestinese. La breve Primavera di
Damasco fu soffocata da una repressione il più dolce possibile per evitare di
perdere quel credito che la società aveva accordato a Bashar, per non perdere
speranza nel futuro.

2003 In quell’anno mi opposi con un
digiuno pubblico all’invasione dell’Iraq da parte delle armate del presidente
Bush. D’altronde ero sempre stato fortemente critico delle crudeli e inutili
sanzioni economiche.

La crisi
irachena fu gestita dalla Siria come occasione di un gioco d’azzardo che
mostrava il desiderio di affermarsi come potenza regionale, in combutta con
l’Iran.

Da tutto il contesto, e da molte prove, era chiaro che lo stato
israeliano aveva già fatto la scelta di gestire il regime degli Assad come un
male minore, un’ipotesi tattica favorevole. In fondo per Israele la mancanza
d’unità dei suoi nemici restava la vera priorità, unita alle necessarie
operazioni chirurgiche per evitare l’acquisizione dell’arma nucleare con
operazioni puntuali e limitate, in Iraq e poi in Siria e forse presto in Iran.
Anche la concorrenza tra musulmani sciiti e sunniti nell’uso della retorica
anti israeliana più rozza consentiva a Israele di dichiarare l’intenzione
genocidaria degli arabi e dei musulmani giustificando così il muro,
l’espansione delle colonie e le pratiche di discriminazione sistematiche.

2005/’06/’09 Il 2005 è l’anno in cui molti nodi
vengono al pettine con l’assassinio del premier libanese Hariri. La Siria deve
fare la schiena d’asino per evitare l’intervento occidentale ed è costretta a
evacuare il Libano. Un’altra occasione d’oro per Bashar el-Assad di esautorare
la vecchia guardia e iniziare un cammino di riforme a marce forzate verso la
democrazia è persa miseramente e la speranza dei siriani si restringe. Certo
nel 2006, la guerra tra Israele e Hezbollah fa della coppia Bashar – Nasrallah
gli eroi della riscossa arabo- islamica. Molti musulmani sunniti optano per i
paladini anti-israeliani. Perfino i Fratelli musulmani sarebbero disposti a
riconciliarsi col regime che riuscirà addirittura nell’intento, lungo gli anni
successivi, di diventare un partner privilegiato della Turchia neo-islamica,
allontanandola dalla vecchia alleanza militare con Israele. Questa situazione
matura ulteriormente con la guerra di Gaza del 2009.

Lungo tutto
il decennio la mia azione si è giocata nel provare e riprovare a favorire la
riforma democratica cercando di salvare ciò che era salvabile della liceità
della posizione anti-imperialista della Siria di fronte alla grossolanità delle
attitudini dell’America di Bush e delle destre israeliane al potere. Io
insistevo sulla necessità di essere morali e coerenti: avanzare nella
prosecuzione del lavoro di inchiesta e giudizio sui crimini, specie in Libano,
nei quali il regime siriano era (è) coinvolto. Si è fatto invece il contrario:
si è rinunciato ad andare fino in fondo sul piano giudiziario, mentre si è
riammessa la Siria degli Assad nel cerchio della rispettabilità internazionale.
Così il regime si è convinto che la forza bruta è il vero motore della storia e
che la democrazia è una buffonata di facciata.

2010/’11 Dal 2010 la decisione di regime è presa: l’attività di dialogo è
vietata, le conferenze sono impossibili, il turismo ipercontrollato. Alla fine
il mio permesso di residenza è ritirato. Resto in Siria senza documenti di
residenza e quindi non posso più viaggiare. Ma intanto la Primavera araba è
iniziata. Si spera ancora che Bashar, magari con l’aiuto della bella e
sensibile consorte, possa mettersi alla testa di una riforma radicale del suo
paese. Nulla da fare, da marzo 2011 è chiaro che la scelta della repressione
incondizionata è la scelta strategica. Tutto il resto, quanto a dialogo e
riforme cosmetiche, non è altro che prender tempo per evitare l’intervento
internazionale e fumo negli occhi dell’opinione pubblica. La versione ufficiale
è pronta: non c’è nessuna rivoluzione, ma solo l’azione dei terroristi
islamisti radicali finanziati dal grande complotto internazionale (Israele,
Usa, la Francia, vassalli europei, massoni, ebrei, sauditi, Qatar, al Qayda, i
Fratelli musulmani, tutti insieme appassionatamente) per distruggere il paese,
la Siria, avanguardia della resistenza anti imperialista e anti radicalismo
musulmano. Le autorità cristiane, le suore e i frati, sono mobilitati per dare
credibilità alla versione di regime e lo fanno con entusiasmo e con l’aiuto
attivo di centri di manipolazione mercenaria dell’informazione come il famoso Réseau
Voltaire
(il cui corrispondente italiano è: www.voltairenet.org, ndr).

2011 Per due volte scrivo ai massimi rappresentanti della Chiesa cattolica,
spiegando che la guerra civile è già iniziata sul territorio siriano e che
occorre attivare una iniziativa internazionale per uscire dalla
contrapposizione Russia versus Nato e Iran versus arabi sunniti e
turchi. Fino a oggi la Chiesa non si è pronunciata sul diritto dei siriani (di
tutti i siriani, anche gli esiliati lungo i terribili ultimi quarant’anni)
all’autodeterminazione e a una democrazia diversa da una pagliacciata di
regime; e paesi che la Chiesa può incoraggiare ad agire mostrano una
insensibilità impressionante!

2013 Posso assicurare che sono meno isolato tra i cristiani siriani di ciò
che si può immaginare. La mia voce però è una delle poche note che si siano
levate a dire che noi cristiani non possiamo rimanere col regime torturatore e
oppressore e neppure possiamo restare neutrali. La storia è a un punto di non
ritorno. Noi da che parte stiamo?

Paolo
Dall’Oglio

Daniele Biella

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