Per «tutelare Dio»

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 13

Bestemmiare, cambiare credo e diffamare fede, persone o gruppi
religiosi è reato in diversi paesi. Le leggi «antiblasfemia» nascono con
l’intento di difendere la religione, ma nei fatti soffocano la libertà
religiosa. Mentre l’apostasia viene punita in 20 paesi, tutti a maggioranza
musulmana, la blasfemia è punita anche in paesi «insospettabili» come Grecia,
Germania, Danimarca, Italia.

Dal Pakistan all’India alla Turchia alcuni episodi sono saliti
alla ribalta dell’attenzione internazionale. In anni recenti, un gran numero di fatti di cronaca hanno
accentuato l’attenzione dei mass media sulle cosiddette «leggi antiblasfemia»
che in diversi paesi del mondo hanno portato, e portano, alla violazione del
diritto di libertà religiosa. Tali leggi e politiche governative, infatti,
nonostante siano giustificate per lo più dalla volontà di tutelare le fedi
della popolazione, sono invece spesso lo strumento per reprimere i gruppi
religiosi di minoranza, o espressioni «non ortodosse» del credo di maggioranza.
Sono il 47% del totale gli stati e i territori che nel mondo
applicano legislazioni contro la blasfemia1, l’apostasia2 o le varie forme di
diffamazione della religione3 secondo una recente analisi del Pew Research Center’s Forum on
Religion & Public Life
(centro di ricerca statunitense indipendente,
specializzato in tematiche religiose e sociali). Dei 198 paesi presi in esame
durante l’anno 2011 dal Pew forum, 32 avevano specifiche leggi
antiblasfemia, 20 provvedimenti che colpivano l’apostasia e 87 avevano leggi per
contrastare offese verso una religione, inclusi parole o atteggiamenti di
incitamento all’odio contro un gruppo religioso. Per raccogiere i dati e
attuare le analisi, la ricerca ha utilizzato, oltre al lavoro diretto sul
campo, ben 19 fonti facilmente accessibili: dal dipartimento di Stato Usa alle
Nazioni Unite, da Human Rights Watch ad Amnesty Inteational e Inteational Crisis Group.

Le indagini precedenti avevano sottolineato un elemento importante
per quanto riguarda la libertà di credo nei diversi paesi, confermato
nell’ultimo studio: i paesi che hanno nel loro ordinamento leggi contro la
bestemmia, l’apostasia o la diffamazione della religione tendono ad avere
maggiori restrizioni governative e tensioni sociali più forti riguardo al
fenomeno religioso.

Bestemmia
e diffamazione

Lo scorso anno ha fatto scalpore il caso di Rimsha Masih, una
14enne pachistana di religione cristiana arrestata e incarcerata perché
accusata di aver bruciato pagine di un libro propedeutico allo studio del
Corano. Dopo alcuni mesi di prigionia la ragazza è stata liberata perché le
prove erano state costruite dal suo accusatore, il quale, a sua volta
incolpato, è stato recentemente assolto (si veda pag. 8 di questo numero di
Mc
).

Da tempo l’uso strumentale della legge antiblasfemia è diventato
in Pakistan un ostacolo alla convivenza delle comunità religiose. Dal musulmano
Pakistan passiamo all’India, dove Sanal Edamaruku, presidente della Indian
Rationalist Association
, è stato incriminato, sempre nel 2012, per avere
dichiarato che una statua di Gesù particolarmente venerata a Mumbai per le sue
caratteristiche miracolose sarebbe stata un falso.

I due casi, pur essendo di natura simile, sono stati trattati in
modo diverso sul piano giuridico: il primo, infatti, è rientrato nell’ambito
della blasfemia, il secondo in quello della diffamazione della religione. I
casi che riguardano la blasfemia sono presenti soprattutto in paesi musulmani,
quelli riguardanti la diffamazione sono assai più diffusi. In ogni caso, sono
coinvolti in queste politiche di «protezione» della religione anche paesi «insospettabili».
La Grecia, ad esempio, ha una delle legislazioni più rigide, certamente la più
severa in Europa, riguardo la blasfemia. La Cina, paese formalmente guidato da
un’ideologia atea, il comunismo, che controlla in modo pesante le attività
religiose autorizzate, con la versione più aggiornata del Regolamento degli
Affari religiosi del marzo 2005 persegue la discriminazione e l’offesa
religiosa.

Nel 2011, sul totale già citato di 32 paesi che penalizzavano la
blasfemia, la maggior parte si trovava in Medio Oriente e nell’Africa
settentrionale. In 13 dei 20 paesi di quell’area la blasfemia è un crimine.
Nella regione Asia-Pacifico, sono nove su 50 i paesi con leggi analoghe, mentre
in Europa questa legge si ritrova in otto dei 45 paesi del continente (tra cui
anche l’Italia, si veda la tabella in questa pagina, ndr). Per quanto
riguarda l’Africa Subsahariana, sono solo due i paesi che applicano una legge
antiblasfemia: Nigeria e Somalia.

Il
disagio dell’Islam

Pare inevitabile, parlando di «bestemmia» e
di come le istituzioni di diversi paesi nel mondo cercano di contrastarla
attraverso provvedimenti mirati, concentrarsi quasi esclusivamente sull’Islam.
L’attuale influenza di una versione rigorista della dottrina musulmana, quella
wahhabita, elaborata nel medioevo islamico e predominante in Arabia Saudita e
in altri paesi della regione, sta segnando la pratica di fede nell’ecumene
musulmano e anche la vita di chi musulmano non è. Il wahhabismo, forte degli
abbondanti proventi del petrolio, ha incentivato una diaspora missionaria che
ha sostenuto la nascita di infinite scuole coraniche, moschee, centri di
studio, ma anche la diffusione di ideologie di extraterritorialità e
ribellione, e focolai di intransigenza religiosa. Facendo leva su povertà,
frustrazioni e aspirazioni di molte comunità islamiche, dalla Palestina alle
Filippine meridionali, è diventato anche elemento destabilizzatore per molti
paesi a maggioranza musulmana, provocando più vittime tra i correligionari che
non tra i non-musulmani. Un radicalismo che incentiva il senso di inadeguatezza
di ampie comunità islamiche asiatiche attraverso il continuo accento posto
sulla distanza tra i costumi di vita locali e la necessaria fedeltà all’Islam. È
da questo – ovvero dalla percezione di una identità islamica minacciata – che
derivano probabilmente molte delle legislazioni antiblasfemia. Da qui deriva
anche il contrasto continuo all’interno dei grandi paesi musulmani
sull’applicazione della legge coranica (Shari’a): la giurisprudenza
laicista la vorrebbe vincolante per i soli musulmani, gli oltranzisti invece erga
omnes
, ovvero imposta anche alle minoranze. Ulteriori complicazioni
derivano poi dalla presenza di leggi tribali o locali nei diversi ordinamenti.
Alla fine, nella pratica, la legge più
restrittiva s’impone a scapito delle istanze di uguaglianza e, sovente, di
sviluppo.

In carcere il
blasfemo turco

Un caso recente mostra che la legge si applica in modo esteso
anche ai nuovi media. A fine maggio 2013, alla Turchia è toccato condannare per la prima
volta per blasfemia un blogger, un cittadino turco di origini armene, Sevan
Nisanyan, ritenuto colpevole di «avere apertamente denigrato i valori religiosi
di una certa parte della popolazione» e per questo condannato a un anno e 45
giorni di detenzione.

Una condanna estesa dagli iniziali nove mesi chiesti dal pubblico
ministero perché il suo crimine, come segnalato dall’agenzia d’informazione
semi-ufficiale Anadolu, «è stato commesso attraverso un mezzo
d’informazione». Una sentenza che mostra insieme elementi purtroppo noti e
anche di novità, quella decretata in Turchia, paese dalle solide basi laiciste,
iscritte nella sua storia modea prima ancora che nella costituzione del 1982,
ma che sotto il governo islamista di Regep Tayyip Erdogan ha visto una sicura
svolta integralista. Non senza resistenze, intee ed estee al parlamento di
Ankara e anche sotto lo sguardo attento delle diplomazie inteazionali, a
partire da quelle dell’Unione Europea.

In un testo pubblicato sul suo blog lo scorso settembre, Nisanyan
(pubblicista e tra i pionieri delle nuove tendenze dell’industria turistica
turca) aveva parlato delle proteste inteazionali successive all’uscita del
film di produzione hollywoodiana Innocence of Muslims, una pellicola di
basso livello artistico e tecnico e ancor minore successo commerciale, che
metteva in ridicolo la figura del profeta Maometto. Dure poteste, con episodi
di violenza furono il risultato in diversi paesi  musulmani, tra cui Egitto e Libia. Mentre il
premier turco denunciava il film come «islamofobico», la sua popolazione si
limitava a proteste pacifiche e poco partecipate.

«Non è un crimine che chiama all’odio prendersi gioco di alcuni
leader arabi che molti secoli fa proclamarono di essersi messi in contatto con
Dio e ne ottennero, come conseguenza, benefici politici, economici e sessuali.
Si tratta di un caso quasi a livello di scuola matea di quella che noi
chiamiamo libertà di espressione», aveva scritto tra l’altro Nisanyan.

I casi
dell’Islam asiatico

L’Asia meridionale e il Sud-Est asiatico raccolgono la maggioranza
dei musulmani del mondo (il 62%), eppure il loro ruolo nell’Islam è ancora
subordinato ai paesi arabi. Le masse che alimentano ecumenismo e orgoglio
nell’Islam sono lì, in Oriente, ma devono sottostare a regole elaborate sotto
le tende beduine come negli uffici «glacializzati» che si affacciano sul Golfo.

L’Indonesia è il primo paese islamico al mondo con i suoi 250
milioni di abitanti all’87% musulmani; il Pakistan è il secondo con 182 milioni
di credenti; l’India, grande paese induista, è al terzo posto (almeno 140
milioni), all’incirca alla pari con il musulmano Bangladesh. Afghanistan,
Malaysia e Boeo sono altri stati a maggioranza islamica, mentre consistenti
comunità musulmane si trovano in Cina, Thailandia, Malaysia, Myanmar,
Filippine, Vietnam, Cambogia e Sri Lanka.

Tra tutti, il Pakistan si distingue per l’uso più concreto e anche
criticato della legge antiblasfemia. Strumento nato nel 1986 per garantire
all’allora dittatore militare Zia ul-Haq l’appoggio degli islamisti contro gli
oppositori. Gli articoli del codice penale collettivamente indicati come «legge
antiblasfemia» continuano a essere in Pakistan un’arma da usare contro
avversari politici, in faide personali e verso le minoranze. Un’arma a volte
letale che arriva a colpire anche bambini di dieci anni e persone mentalmente
incapaci.

Il governo di Islamabad nega di avere dati disponibili e le altre
fonti sono spesso contraddittorie, ma secondo le ricerche della Commissione
Giustizia e Pace della Conferenza episcopale cattolica pachistana, dal 1986
all’agosto 2009, sono almeno 964 i pachistani finiti sotto processo per
blasfemia: 479 musulmani, 340 ahmadi,
119 cristiani, 14 indù e una decina di fede ignota. Mancano i dati delle
condanne e di quanti stanno scontando la pena, ma sono certamente decine.
Diversi sono stati uccisi in carcere oppure subito dopo la liberazione
decretata dai giudici. Se è vero che a essere stati arrestati e giudicati sono
in misura rilevante musulmani «ortodossi» di appartenenza sunnita o sciita,
spesso critici verso il potere o verso l’estremismo religioso, è pur vero che
le minoranze, compresa «l’eresia» islamica Ahmadi, sono presenti tra gli
accusati in misura superiore. 

Stefano Vecchia
 
Note:

1.
Con blasfemia, o bestemmia, si intendono osservazioni o scritti
considerati sprezzanti, offensivi verso Dio.
2.
Con apostasia si intende l’abbandono di una fede religiosa per un’altra.
Ad esempio l’abbandono dell’Islam per diventare cristiano.
3.
Con diffamazione della religione si intendono la denigrazione o la
critica di un credo religioso.

Stefano Vecchia

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