Chi si reca in
Lituania oggi nota subito quanta Europa «si respiri» lassù: dieci anni dopo
l’ingresso nell’Unione europea, infatti, rimangono ancora evidenti i retaggi
sovietici e le difficoltà di convivenza tra le diverse minoranze.
Attraversare
la Lituania è un’esperienza affascinante: l’incontro tra passato e presente dà
vita a forti contrasti, influssi sovietici e simboli occidentali convivono
fianco a fianco, sia nelle città che nelle campagne. Profonda e forte, come le
croci di Kryžių Kalnas (la Collina delle croci), appare poi l’anima cattolica
del paese, simbolo del nazionalismo, del desiderio di indipendenza e di unità
lituani.
Per alcuni geografi Vilnius è il centro dell’Europa che va
dall’Atlantico agli Urali, e dal Circolo Polare Artico al Mediterraneo.
Qui
avvenne l’incontro, non sempre pacifico, tra pagani e cristiani, fino a quando
il re Mindaugas, nel XIII secolo, si convertì al cristianesimo, unificando le
varie tribù del Granducato di Lituania, del quale fu incoronato sovrano nel
1253. Mindaugas si convertì al cattolicesimo nell’ambito di un accordo con i
Cavalieri Teutonici, i famosi monaci guerrieri tedeschi che avevano conquistato
gran parte dei territori dell’antica Prussia, spingendosi fino a Memel
(l’odiea Klaipėda, in Lituania).
I
lituani, comunque, rimasero in gran parte pagani fino al 1400: il loro fu
l’ultimo paese europeo a convertirsi, innanzitutto per la loro orgogliosa
indipendenza.
Il re
cattolico Vytautas (1352-1430), aprì le porte del suo regno agli ebrei di tutto
il continente trasformando Vilnius nella «Gerusalemme del Nord», con 105
sinagoghe, una grande scuola talmudica, e la presenza del gaon, ossia il
leader spirituale della comunità ebraica mondiale.
A
partire dal 1385, a seguito dell’unione con la corona polacca, la Lituania andò
incontro a un processo di «polonizzazione». Di questa relazione forte e ambigua
con la Polonia rimangono ancora oggi segni evidenti.
Nel
1654 la Russia invase temporaneamente la Confederazione, impossessandosi di una
parte considerevole dei territori, e nel 1795 tutta la Lituania passò sotto il
dominio russo. Mentre Estonia e Lettonia vennero governate come province autonome,
sulla Lituania il governo russo esercitò un controllo molto più rigoroso perché
il rischio di ribellione sembrava più alto.
L’aspirazione
alla rinascita nazionale del popolo lituano raggiunse l’apice tra il XIX e
l’inizio del XX secolo, anche grazie al rapido sviluppo industriale di Vilnius
e degli altri centri urbani, e riuscì a realizzarsi in un breve periodo di
indipendenza alla fine della prima guerra mondiale, durante la quale la
Lituania fu occupata dalla Germania. Nel novembre 1918 quest’ultima firmò
l’armistizio con le potenze alleate, e nello stesso giorno fu istituito il
governo della Repubblica Lituana.
Il
neonato stato riuscì a ottenere da Lenin il riconoscimento dell’indipendenza,
ma si trovò ad affrontare l’attacco della Polonia che ambiva a riprendersi il
suo antico territorio. I polacchi occuparono Vilnius e la parte meridionale del
paese nel 1920, mentre la capitale della Repubblica Lituana fu trasferita a
Kaunas.
Il
susseguirsi di dominatori spinse alla fine i lituani ad apprezzare l’intervento
dei sovietici prima e dei nazisti poi. Questo è evidente nei musei storici del
paese che raccontano l’occupazione nazista valutandola quasi positivamente
rispetto a quella sovietica.
Prima
della seconda guerra mondiale Vilnius ospitava una delle comunità ebraiche più
importanti d’Europa, tanto che nel 1925 fu scelta come sede dell’Istituto di
Ricerca Scientifica Yiddish Yivo. Negli stessi anni sorsero un gran numero di
scuole, biblioteche, teatri, sinagoghe e case di preghiera, e sei quotidiani ebraici.
Quando
Hitler invase l’Unione Sovietica, e l’esercito arrivò in Lituania, si scatenò
una carneficina: in soli cinque mesi, dal luglio al dicembre 1941, oltre
160mila persone furono uccise: l’80% della popolazione ebraica. Alla fine della
seconda guerra mondiale, la comunità ebraica lituana risultava praticamente
azzerata.
La
Lituania fu anche l’unica delle repubbliche sovietiche in cui una forte
resistenza armata si oppose alla rioccupazione dell’Urss, che ebbe inizio già
nel 1944 e durò fino al 1953, anno della morte di Stalin. I partigiani lituani,
chiamati «Fratelli della foresta», con la loro guerriglia scoraggiarono la
politica di immigrazione russa che invece stravolse la fisionomia di Estonia e
Lettonia. Nonostante questo, si stima che si trovino comunque in Lituania 115
diverse comunità etniche la cui convivenza non è sempre facile.
Un’altra
caratteristica dell’opposizione antisovietica lituana è il ruolo della Chiesa
cattolica, sostanzialmente assente in Estonia e Lettonia, come «polo di attrazione
della dissidenza».
Dopo
l’indipendenza nel 1991, la Chiesa cattolica ha rapidamente ripreso possesso
delle proprietà ecclesiastiche riconsacrando i luoghi di culto. Oggi circa
l’80% dei lituani si dichiarano cattolici. Fra le minoranze religiose ci sono
gli ortodossi (4%), i protestanti (2%), e altre confessioni.
I
conti con il proprio passato si fanno non solo ricordando l’orgoglio e
celebrando il senso di identità nazionale, ma anche recuperando memorie
dolorose e cercando di dare loro una nuova collocazione, una nuova forma.
È
quello che è successo, ad esempio, con il Grutas park, il parco delle sculture
sovietiche, sorto a pochi chilometri dal confine polacco lituano.
Entrando
in Lituania dal confine polacco, infatti, una delle «attrazioni imperdibili»,
testimonianza del desiderio di conservare viva la memoria, è il parco di
Grutas. Il parco, soprannominato Stalin World, ospita una vasta collezione di
statue, un tempo collocate come simboli del potere sovietico in vari parchi e
piazze di tutto il territorio nazionale.
Il
parco è stato voluto da Viliumas Malinauskas, ex direttore di kolchoz
(le cornoperative agricole sovietiche), poi imprenditore arricchitosi grazie a
un’azienda di funghi in conserva. Nel 1999 egli ottenne in concessione dal
ministero della Cultura le sculture, e decise di installarle in una parte della
sua proprietà di 200 ettari.
L’ingresso
del parco, progettato in modo da ricordare un campo di concentramento
siberiano, riproduce il presidio al confine sovietico polacco, con tanto di
filo spinato e di barriere a strisce bianche e rosse sul lato polacco, e rosse
e verdi sul lato sovietico. Accanto si trova uno dei vagoni con cui i
prigionieri lituani venivano deportati in Siberia.
Una
volta attraversato il tornello dell’ingresso, si viene accolti da musiche russe
emesse da altoparlanti fissati sulle torri di vedetta, mentre nel ristorante si
possono mangiare con posate di fabbricazione sovietica sardine, cipolle e,
ovviamente, bere vodka. La maggior parte delle statue del parco non dicono
molto agli stranieri poiché rappresentano «eroi» o episodi della storia locale.
Ma non è così per le giovani coppie di lituani che, spesso con i figli,
passeggiano fermandosi di fronte a storie o personaggi magari citati dai propri
genitori o nonni.
Proseguendo
verso Nord, un altro luogo estremamente significativo è il Museo della Guerra
fredda, inaugurato alla fine del 2011, ricavato in un’ex base missilistica
sovietica sotterranea costruita all’inizio degli anni ‘60 nel cuore del parco
nazionale di Žemaitija, e rimasta sorprendentemente sconosciuta alla
popolazione lituana per decenni.
Nel
museo è allestita una mostra riguardante la storia della Guerra fredda e, in
particolare, la situazione dei paesi baltici. C’è anche una sezione dedicata
alla costruzione e al ruolo della base missilistica stessa, che un tempo
custodiva missili nucleari con potenza sufficiente ad annientare gran parte
dell’Europa. La principale attrattiva del museo è, infatti, la possibilità di
visitare uno dei bunker che un tempo racchiudevano le enormi testate nucleari:
missili R12 lunghi 22 metri.
Per
costruire la base, nel 1960 furono inviati sul posto 10mila militari provenienti
dagli stati satellite dell’Urss, che completarono l’opera in otto mesi. Essa
ospitò il 79° Reggimento missilistico fino al 1978, quando i missili
scomparvero «misteriosamente», e la struttura fu abbandonata al suo destino.
Nel
corso della sua storia, la base fu utilizzata per puntare i propri missili in
direzione dell’America durante la crisi internazionale cubana dell’autunno
1962, e fu tra quelle allertate con allarme rosso durante l’invasione della
Cecoslovacchia del 1968.
È sulla
Collina delle croci, più che in ogni altro luogo, che si può ripercorrere e
sentire la storia, il passato e il presente, ma soprattutto il desiderio di
indipendenza e la forza del sentimento nazionalista del popolo lituano.
La
Collina delle croci è un luogo impressionante, affascinante e sconvolgente al
tempo stesso. Qui sono state erette migliaia di croci, da parte di innumerevoli
pellegrini e delle moltissime coppie che, di sabato, vi si recano appena dopo
la cerimonia nuziale.
Grandi
e piccole, preziose e povere, in legno e in metallo, le croci possono assolvere
la funzione prettamente religiosa di accompagnare la preghiera, ma anche
rappresentare, con i loro elaborati lavori di intaglio, veri capolavori
dell’arte popolare. Alcune sono state piantate in memoria di persone scomparse.
In tal caso sono accompagnate da fiori e qualche fotografia, o da altri oggetti
che ricordino il defunto, con un’iscrizione affettuosa o un messaggio
religioso.
Sparsi
fra le croci si possono vedere non solo i tradizionali koplytstulpis
lituani (statue di legno sormontate da un piccolo tetto), ma anche alcune
sculture lignee raffiguranti il Cristo Addolorato (Rūpintojėlis).
Secondo i principi di un’arte tramandata di maestro in allievo, le croci sono
intagliate in legno di quercia, l’albero sacro della mitologia pagana. Intese
come offerte agli dei, erano accompagnate da cibo oppure avvolte con sciarpe
colorate (per propiziare un matrimonio) o con grembiuli (auspicio di fertilità).
Una volta riconosciute dalla Chiesa, si legarono però definitivamente ai riti
cristiani, assumendo una connotazione sacra. In seguito, le croci divennero
simboli della resistenza contro l’occupazione configurandosi come testimonianza
non solo di devozione, ma anche di identità nazionale.
Diverse
sono le storie che circolano sull’origine della Collina e la colorano di
leggenda: alcune sostengono che sia stata costruita in tre giorni e tre notti
dalle famiglie dei soldati uccisi in una grande battaglia, altre dicono sia
stata opera di un padre che, nell’estremo tentativo di far guarire la figlia
malata, per primo innalzò una croce votiva sulla Collina. Altre ancora narrano
di un castello distrutto dai Cavalieri Portaspada nel Trecento, sui cui ruderi
sarebbe sorto il simbolo della fede e della nazione lituana. Da ultimo, le
tradizioni pagane narrano di vergini celestiali che in questo luogo accendevano
e accudivano i fuochi sacri a loro affidati, e di un tempio, costruito in epoca
precristiana, in cui si praticavano sacrifici e culti pagani.
Le
testimonianze più attendibili però riportano che le prime croci furono
collocate dagli abitanti della zona per commemorare le vittime degli scontri
del 1831 e del 1863 tra la popolazione lituana, che protestava contro
l’oppressione del regime zarista, e le autorità russe che avevano annesso la
Lituania nel 1795. Diverse persone, nel corso di quei moti insurrezionali,
avevano perso la vita per il sogno di rivedere la patria lituana risorgere e
riaffermarsi nel contesto europeo. Così, gli abitanti delle città limitrofe
presero a piantare, nel terreno particolarmente morbido della Collina, delle
croci, delle più svariate fogge e dimensioni, in memoria dei propri cari che
non tornavano. La Collina divenne così rapidamente un luogo d’incontro dove
ognuno andava per piantare la propria croce e chiedere una grazia, commemorare
un defunto, e così via.
La
prima menzione della Collina in un documento risale al 1850 e riguarda la
notizia che centinaia di croci vi furono piantate dopo che un editto dello zar
aveva ordinato la loro rimozione dalle strade delle campagne circostanti. A
fine Ottocento le croci erano poco più di un centinaio, per lo più di grandi
dimensioni, ed esisteva anche una piccola cappella di mattoni. L’usanza di
andarvi a piantare delle croci prese piede e crebbe legando da subito
religiosità e patriottismo. Le messe celebrate ai piedi della Collina si
trasformavano in manifestazioni nazionaliste.
Divenuta
dunque simbolo del risorgimento nazionale, delle rivolte antizariste prima, e
della resistenza al regime comunista poi, la Collina non poteva avere vita
facile. Quell’affollarsi di fedeli e di croci, quella rivendicazione di
indipendenza, alterità e di fede dava fastidio al potere sovietico, ateo e
antinazionalista, che nelle scuole insegnava l’ateismo, che aveva trasformato
le chiese in musei, e aveva spedito nei lager della Siberia decine di migliaia
di persone, tra cui tanti preti e suore. Nel 1961, quindi, per la prima volta, «l’ateismo
dei bulldozer» spianò la Collina, bruciò le croci di legno e portò alla rottamazione
quelle di ferro. Quel gesto però sortì una reazione opposta: la stessa notte
altre croci vennero piantate al posto di quelle distrutte o bruciate. E lo
stesso avvenne anche negli anni successivi, di fronte ai nuovi tentativi del
regime di spianare la Collina. Alle operazioni di pulizia delle forze
dell’ordine faceva seguito il silenzioso ritorno delle croci. I comunisti
tornarono a spianare la Collina per tre volte, il sito venne piantonato
dall’Armata Rossa, sorvegliato dal Kgb (i servizi segreti sovietici), si pensò
addirittura di allagare l’area, per trasformare la Collina in un’isola
inaccessibile. Una di queste tre volte fu nel 1972, quando uno studente di
Kaunas si suicidò in segno di protesta contro l’occupazione sovietica. Di
nuovo, anche in quell’occasione, le croci tornarono sulla Collina.
Ancora
oggi si possono individuare le croci in ferro che, scampate ai bulldozer e
recuperate, ora stanno in piedi un po’ sbilenche, raddrizzate a martellate, in
equilibrio solo apparentemente precario su blocchi irregolari di cemento. Nel
1990 erano circa 50.000. Nel 2000 arrivavano addirittura a 100.000.
Papa
Giovanni Paolo II si recò sulla Collina delle croci durante la sua visita in
Lituania nel settembre del 1993. Celebrò la messa all’aperto su un altare in
legno costruito per l’occasione e donò alla Collina e al popolo lituano una
grande croce dello stesso materiale con una base in granito sulla quale è
riportato il suo ringraziamento per la testimonianza di fede: «Grazie a voi
lituani per questa Collina delle croci, che testimonia ai popoli di tutto il
mondo la grande fede del vostro popolo».
Alle
spalle della Collina si trova oggi un monastero francescano, costruito fra il
1997 e il 2000, dopo che Giovanni Paolo II espresse il desiderio che qualcuno
si occupasse della cura e della manutenzione del sito. Oggi nel monastero si
trovano 10 frati.
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Viviana Premazzi