europea attraversata da profondi cambiamenti di carattere culturale e religioso
dalle conseguenze inedite sulla vita della Chiesa. La religione cristiana non
solo deve competere con le altre religioni, ma è sempre più ridotta alla
dimensione privata, perdendo ogni rilevanza nella vita sociale. Senza una vera
comprensione di questi fenomeni ogni impegno di «nuova evangelizzazione» resta
astratto, non incide nella realtà e rischia di riciclare vecchi schemi e metodi
di annuncio dando loro nomi nuovi, politicamente corretti, che però lasciano
tutto come prima. Sarebbe solo un’operazione di chirurgia estetica, non di vera
evangelizzazione.
Il Sinodo ha identificato come destinatarie privilegiate
della nuova evangelizzazione le chiese di antica cristianità (soprattutto
europee). Questo interpella direttamente noi tutti, cristiani, preti, religiosi
e missionari che, proprio in virtù della nostra vocazione battesimale siamo i
primi annunciatori della Buona Notizia proprio in questa nostra Europa. È
un’occasione buona per riflettere sull’evangelizzazione e accennare alcuni
cambiamenti soprattutto di carattere culturale e religioso, che hanno investito
le nostre nazioni.
Forse, guardandoci intorno, contandoci – diminuiscono i
sacerdoti e le persone impegnate nella vita consacrata, si chiudono o vendono
le chiese e, pur avendo un gran numero di battezzati, chi frequenta e pratica
si ritrova ormai ridotto a una minoranza sempre più emarginata -, aumenta il senso
di smarrimento e di pochezza. E questo ci inquieta. La stessa esperienza di «spiazzamento»
dovremmo provarla nei confronti di un’Europa tanto complessa, plurale e
globale, dove l’accelerazione ha reso il cambiamento non più un moto
temporaneo, ma il vero «il modo di essere» della realtà. Sì, l’Europa sta
cambiando, e se non cerchiamo di capire, continuerà a cambiare anche senza di
noi.
Questa situazione è «un tempo di crisi». Dobbiamo
essee convinti: Dio ci sta parlando proprio oggi, in questo tempo. Cogliere quest’ora
(kairos, tempo della salvezza, tempo di Dio) e rispondervi diventa
quindi essenziale per disceere cosa Dio ci sta chiedendo oggi in
questo nostro continente come persone e comunità evangelizzante.
La crisi è vitale, cioè essenziale per crescere e può
svolgere un importante ruolo educativo: ci fa uscire dal consueto, dal
rassicurante e dal ripetitivo, ci obbliga a prendere coscienza della realtà e a
uscire dalle illusioni, ci obbliga a una lettura sincera e, se necessario,
impietosa di noi stessi e delle scelte finora fatte e priorità che ci eravamo
dati. Dipende molto da come viviamo e gestiamo la crisi.
Ecco alcune caratteristiche del cambiamento e della
crisi in cui viviamo.
Pluralizzazione
dei riferimenti culturali
Oggi in Europa è in atto una tendenza che potremmo
definire come «pluralizzazione progressiva dei riferimenti culturali», che si
articola in vari sotto fenomeni, che è il caso di menzionare, quanto meno nelle
loro definizioni di base.
Il primo è la secolarizzazione che non significa
automaticamente ateismo o incredulità. Alcuni studiosi la definiscono come «il
processo per mezzo del quale il pensiero, la pratica e le istituzioni religiose
perdono significanza sociale». Altri studiosi sostengono che «la
secolarizzazione non spinge via la religione dalla società modea, ma
piuttosto incoraggia un tipo di religione che non possiede alcuna funzione
importante per l’intera società».
Il secondo è il processo di privatizzazione che
accompagna e allo stesso tempo è potenziato dalla secolarizzazione. Mentre
prima l’incredulità era un affare privato, adesso lo diventa la fede, ormai
relegata nell’ambito del tempo libero, da esso limitata e in esso soffocata da
altre priorità.
Terzo aspetto è quello della pluralizzazione delle
offerte a disposizione: il mercato offre sempre maggiori possibilità di
scelta e di cambiamento. Questo produce anche modi diversi di vivere la
religione e le culture, con appartenenze sempre più deboli, possibilità di
cambiare idea, prodotti, consumi e costumi.
Un ultimo aspetto merita di essere considerato, anche se
non frequentemente collegato ai fenomeni già citati: quella che qualcuno ha
chiamato rivoluzione mobiletica (G. Pollini, Rivoluzione mobiletica e
differenziazione delle relazioni sociali: alcune considerazioni preliminari,
in rivista di Sociologia Urbana e Rurale, v. XVIII, n. 49, 1996, p.
27-43 ), ovvero il fatto che tutto oggi si sposta molto di più e molto più in
fretta: informazioni, denaro, merci, idee, e soprattutto uomini e donne. Le
migrazioni, dunque, che ampiamente contribuiscono ad accelerare e a potenziare
ulteriormente i fenomeni citati.
La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in
Europa non è solo un fatto quantitativo, di numeri che possono impressionare e
preoccupare. La presenza di popolazioni immigrate, con diverso background
storico, culturale, religioso e sociale, di fatto, ha prodotto «un’Europa
plurale» molto diversa da quella che abbiamo conosciuto fino ad ora. Di fatto
l’immigrazione produce anche un cambiamento qualitativo. Infatti la
presenza di immigrati non è culturalmente né religiosamente neutra. Gli
immigrati non arrivano «nudi»: portano con sé, nel loro bagaglio, anche visioni
del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali,
immagini e simboli.
Segnali
di un ritorno della domanda religiosa
In controtendenza con il secolarismo, il tracciato
culturale dei nostri giorni vede aumentare la ricerca di senso con l’aiuto
della religione. Si tratta però di una religione essenzialmente autoreferenziale,
sul modello del bricolage, come una strategia fai da te del benessere
individuale, senza investimento nel cammino con gli altri e senza rilievo
sociale. Anche i riti e le pratiche cristiane non vengono rifiutati, ma sono
utilizzati come un repertorio di simboli e di gesti per ritrovare la pace, la
serenità interiore, l’armonia personale, il bisogno di spiritualità. Insomma si
è aperto un grande supermarket del religioso accessibile a tutti anche grazie
all’internet e alla televisione.
Così, nell’attuale panorama religioso, specialmente
europeo, i sociologi della religione parlano di una religiosità basata sull’appartenere
senza credere e, d’altra parte, su un credere senza appartenere:
all’immagine tipica del praticante fedele e legato alla sua parrocchia succede
quella del «viandante / pellegrino» la cui religiosità è caratterizzata dalla
ricerca delle esperienze più disparate per rispondere ai suoi bisogni di
sicurezza e affetto e avere un orientamento sicuro per la sua vita. [Ovviamente
questo ha poco a che fare con l’immagine del pellegrino presentata dalla Lettera
a Diogneto che riportiamo a pag. 34, ndr.].
Dobbiamo fare i conti poi con l’indifferentismo della
maggior parte degli uomini delle nostre società post–cristiane. L’indifferenza
religiosa pone la Chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza
e inutilità. È una sorta di indifferenza generalizzata di chi è deluso
dalla politica e dalle ideologie, di ex-credenti frustrati nella loro attesa di
rinnovamento ecclesiale. Costoro, nella migliore delle ipotesi, si trasformano
in «cristiani a intermittenza», che vivono la pratica cristiana non seguendo il
ritmo tradizionale scandito dalle domeniche e dalle feste liturgiche,
rincorrendo invece eventi occasionali segnati da grandi numeri ed emozioni
(beatificazioni, raduni di movimenti, grandi feste, giornate mondiali) o
marcati da accadimenti sociali tradizionali (funerali, matrimoni), e
privilegiando luoghi come i santuari e le più famose mete di pellegrinaggio a
scapito della partecipazione alla vita della propria chiesa locale
parrocchiale.
La
de-cristianizzazione
Sfida intea, e di non poco conto, può essere
considerata la scristianizzazione o de-cristianizzazione o paganesimo in
Europa. Sembra che il cristianesimo sia sconfitto nell’ambito della vita
quotidiana d’Occidente. L’abbandono della fede è un fatto visibile, che va
oltre il calo della pratica religiosa. Il distacco delle nuove generazioni
dalla Chiesa e dalla sua dottrina è evidente, e le conseguenze di questo
fenomeno non sono prevedibili. Vi è una diffusa dissociazione tra pratica
religiosa e vissuto quotidiano.
Come la Roma antica, l’Europa modea sembra simile a un
pantheon, a un grande «tempio» in cui tutte le «divinità» sono presenti,
o in cui ogni «valore» ha il suo posto e la sua nicchia.
Ne consegue una sorta di «apostasia tranquilla» (di
fatto non si è più cristiani) e il disorientamento da parte della maggioranza
degli europei, in modo particolare tra gli adolescenti e i giovani.
I
Giovani
Di tutto questo clima, soffrono in modo particolare i
giovani. È praticamente impossibile definire in modo univoco e statico la
condizione giovanile europea. Comunque possiamo dire che, in una cultura
pluralista e ambivalente, «politeista» e neutra, i giovani da un lato cercano
appassionatamente autenticità, affetto, rapporti personali, grandezza
d’orizzonti, dall’altro sono fondamentalmente soli, «feriti» dal benessere,
delusi dalle ideologie, confusi dal disorientamento etico. Con un futuro,
soprattutto lavorativo, estremamente incerto.
Nell’Europa culturalmente e religiosamente complessa e
priva di precisi punti di riferimento, il modello antropologico prevalente
sembra esser quello dell’«uomo senza vocazione». «Giovani con un’identità
incompiuta e debole con la conseguente indecisione cronica di fronte alla
scelta vocazionale. Molti giovani non hanno neppure la “grammatica elementare”
dell’esistenza, sono dei nomadi: circolano senza fermarsi a livello geografico,
affettivo, culturale, religioso, essi “tentano”! In mezzo alla grande quantità
e diversità delle informazioni, ma con povertà di formazione, appaiono
dispersi, con poche referenze e pochi referenti. Per questo hanno paura del
loro avvenire, hanno ansia davanti a impegni definitivi e si interrogano circa
il loro essere. Se da una parte cercano autonomia e indipendenza a ogni costo,
dall’altra, come rifugio, tendono a essere molto dipendenti dall’ambiente
socioculturale e a cercare la gratificazione immediata dei sensi: di ciò che “mi
va”, di ciò che “mi fa sentire bene” in un mondo affettivo fatto su misura»
(Pontificia opera per le vocazioni ecclesiastiche, documento finale del
Congresso «Nuove Vocazioni per una nuove Europa», Roma maggio 1997, n. 1.c).
Sono giovani che sembrano sentirsi superflui nel gioco o
nel dramma della vita, quasi dimissionari nei confronti d’essa, smarriti lungo
sentirneri interrotti e appiattiti sui livelli minimi della tensione vitale.
Senza vocazione, ma anche senza futuro, o con un futuro che, al più, sarà una
fotocopia del presente.
Nuove
divisioni nella Società
La società oggi si divide su questioni diverse da quelle
del passato. Tramontate le classi (almeno nelle interpretazioni ideologiche
diffuse e nel discorso intellettuale e mediatico: un po’ meno nella realtà…),
oggi ci si divide, sempre più spesso, su fattori di inclusione ed esclusione,
spesso molto materiali (spese, interessi, costi e benefici, tasse, servizi,
ecc.), ma altrettanto spesso ammantati di giustificazioni etniche, razziali,
culturali o pseudo-culturali.
La diversità, anzi l’alterità diventa un problema o
addirittura una colpa in sé. Il che significa che anche gli attori sociali
(inclusi quelli religiosi) si dividono sempre più, non solo e non tanto gli uni
dagli altri, ma al proprio interno: tra dialoganti e non dialoganti, tra aperti
al cambiamento e chiusi a esso, tra coloro che sono disposti a mettersi in
discussione, e/o a mettere in discussione la società, e coloro che non ci
pensano nemmeno, anche a dispetto dei fatti, dei cambiamenti già avvenuti, di
cui non si vuole tenere conto. Tra coloro che sono dunque disposti a misurarsi
e a confrontarsi con la diversità e l’alterità, e dunque aperti al dialogo, e
coloro che ne negano le basi stesse. Con tutte le forme intermedie che possiamo
immaginare.
La diffusione della paura nelle nostre società,
la sua strumentalizzazione politica, il suo grosso mercato anche economico,
sono un segno chiaro che un pezzo significativo della società rifiuta, per
definizione, qualunque apertura, per non dire qualunque incontro. Per strada,
in condominio o in negozio, agli incroci, ovunque telecamere che registrano i
nostri passi e i nostri passaggi. Soggetti pubblici e privati ci spiano e
filmano tutti, dappertutto: davanti agli sportelli bancari, nei supermercati,
nei giardini pubblici, nei parcheggi sotterranei e all’aperto, senza sollevare
grandi timori fra i cittadini, anzi.
Questo bisogno di sicurezza si amplifica fino al
respingimento e spesso rifiuto di accogliere gli immigrati sul suolo
dell’Europa. La firma dell’accordo di Schengen nel 1995 compie due operazioni:
abolisce i controlli alle frontiere intee e sposta i controlli alle frontiere
estee. Resta quindi nitida l’immagine di una Fortezza Europa impermeabile
dall’esterno, soprattutto dal continente africano.
«Un giorno a Lampedusa e a Zuwarah (città della costa
libica), a Evros (confine Grecia e Turchia) e a Samos [isola della Grecia], a
Las Palmas [Gran Canarie] e a Motril [città dell’Andalusia] saranno eretti dei
sacrari con i nomi delle vittime di questi anni di repressione della libertà di
movimento. E ai nostri nipoti non potremo neanche dire che non lo sapevamo. Dal
1988 sono morte lungo le frontiere dell’Europa almeno 18.673 persone. Di cui
2.352 soltanto nel corso del 2011. Il dato è aggiornato al 10 novembre 2012» (http://fortresseurope.blogspot.it/).
In Europa oggi dilaga anche la povertà, che attanaglia
milioni di famiglie. Sui 120 milioni di persone che sono esposte al rischio di povertà
o di esclusione sociale circa 40 milioni versano in uno stato di grave
indigenza. Ben 25,4 milioni sono bambini. Per loro il rischio di povertà
o di esclusione sociale è molto più alto del resto della popolazione (27%
rispetto al 23% della popolazione nel suo complesso). Questo fenomeno li espone
a una deprivazione materiale che va al di là della malnutrizione. Ad esempio,
5,7 milioni di bambini non possono permettersi indumenti nuovi e 4,7 milioni di
bambini non possiedono neppure un paio di scarpe. Chi le ha deve accontentarsi
il più delle volte di scarpe spaiate e non hanno certo un paio di scarpe per il
brutto tempo. I bambini che soffrono di deprivazione materiale producono
risultati scolastici scadenti, soffrono di una salute precaria e non riescono
poi a realizzare le loro piene potenzialità una volta divenuti adulti.
Una forma particolarmente grave di deprivazione
materiale è la condizione di senzatetto, fenomeno la cui entità è
difficile da quantificare. Le stime di cui si dispone indicano però che in
Europa nel 2009/2010 vi erano 4,1 milioni di senzatetto. Il numero dei
senzatetto è aumentato di recente a causa dell’impatto sociale della crisi
economica e finanziaria e dell’aumento della disoccupazione. Cosa ancor più
preoccupante, a essere senzatetto sono famiglie con bambini, giovani e
migranti.
Esclusione
sociale
Un tempo eravamo abituati ad applicare il termine «esclusi»
a gruppi e società lontani da noi. Tuttavia, gli esclusi, oggi, sono dei
nostri. L’esclusione sociale è un fenomeno relativamente nuovo per la sua
radicalità e il suo carattere massivo. Oggi, essere sfruttato è un privilegio,
perché uno soffre in quanto è parte del sistema. L’escluso è semplicemente
ignorato; né la sua vita né la sua morte toccano il sistema: è un essere da
rigettare o da eliminare. Il sistema non investe nella salute o nell’educazione
degli esclusi, perché si tratta di un investimento non redditizio; gli esclusi
non hanno un ruolo nello sviluppo o nel progresso. Gli esclusi sono
non-desiderati. Gli esclusi, gli assenti, si trovano, ogni giorno di più, nella
situazione di occupare il margine, come quello della pagina. Ma bisogna
ricordare che il margine forma parte della pagina; e che, conseguentemente,
l’esclusione è un’inclusione nel margine stesso. L’escluso viene collocato al
suo posto, gioca il suo ruolo, e occupa una posizione che indirettamente esalta
il valore del lavoro agli occhi di tutti gli altri. Egli è il cattivo esempio.
L’esclusione lo costringe a restare chiuso fuori, nella periferia dell’umano,
nei margini. L’escluso si trova rinchiuso in una periferia della geografia
urbana e sociale, abbandonato nei suburbi, messo fra parentesi.
La
frantumazionedei legami sociali
Zygmunt Bauman, un sociologo e filosofo polacco, in
apertura del suo libro intitolato «L’amore liquido», descrive il carattere
fluido della nostra società, con la sua assenza totale di «consistenza», di
stabilità, e il carattere effimero, incapace di durata, non solo delle nostre «cose»,
ma anche (e soprattutto) delle nostre relazioni, dei nostri «legami» che sempre
più rapidamente si «sciolgono» (si liquefanno, nel senso letterale del
termine). È la metafora del consumismo esasperato che basa la sua sopravvivenza
sul «usa e getta». Questo comportamento, purtroppo, si estende ai rapporti
interpersonali, all’amicizia, ai legami familiari. Tutto è a breve durata, deve
produrre un soddisfacimento immediato e poi, si getta, per cercare emozioni
altrove e con qualcun altro.
Lo stesso autore qualche anno fa ha scritto un libro dal
titolo significativo, tradotto in italiano come se esprimesse un desiderio: «Voglia
di comunità» (Laterza, 2001). In realtà il titolo originale in inglese, suona
molto di più come un allarme: «Missing community» (Mancando comunità –
comunità mancante).
Il
proliferare dei «nonluoghi»
Nel 2009 il sociologo francese, Marc Augé, ha pubblicato
una nuova edizione di un suo libro molto significativo dal titolo «Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodeità» (Eleutera editrice, Milano
1993, nuova edizione 2009).
Augé definisce i nonluoghi in contrapposizione ai
luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non
essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei nonluoghi le strutture
necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni: autostrade,
svincoli, aeroporti, stazioni, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali,
eccetera. Sono spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza
entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di
accelerare le operazioni quotidiane o per accedere a un cambiamento (reale o
simbolico).
I nonluoghi sono altamente rappresentativi della nostra
epoca, che è caratterizzata dalla precarietà assoluta (non solo nel
campo lavorativo), dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio e da un
individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi
abita. Insomma sono quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e
frequentati.
Ed è così che la prossimità è messa a repentaglio e
svanisce. «Il prossimo è morto, ma un certo prossimo più di altri». Questa
frase riassume bene il messaggio che lancia lo psicanalista Luigi Zoja nel suo
libro «La morte del prossimo» (Einaudi, 2009). Perché si è distanti dal vicino
e vicini al lontano.
Nelle società globalizzate il vicino è un nemico
potenziale. E gli amici sul web sono lontani. Le distanze che la
globalizzazione ha reso meno evidenti, favoriscono i rapporti tra persone
lontanissime e sembrano penalizzare invece quelli che intercorrono fra chi vive
nella stessa città, nella stessa via, nella medesima casa. «Dopo la morte di
Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale
dell’uomo – scrive –. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. È un orfano
senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo
Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino.
È orfano dovunque volti lo sguardo. Circolarmente, questa è la conseguenza ma
anche la causa del rifiutare gli occhi degli altri: in ogni società, guardare i
morti causa turbamento».
Epoca
delle passioni tristi
Due attenti studiosi parigini, Miguel Benasayag
filosofo, e Gérard Schmit psichiatra, docente all’università di Reims, hanno
scritto un libro: «L’epoca delle passioni tristi» (Feltrinelli, 2004). La loro
tesi è che la crisi che viviamo è «storica», cioè esistenziale, caratterizzata
da un cambiamento di segno del futuro: dal «futuro-promessa» al «futuro-minaccia».
Quando non è una promessa, il futuro non retroagisce sul
presente motivando impegno, applicazione, entusiasmo, slancio, prospettiva, ma
fa implodere ogni iniziativa in quella domanda inevasa che inutilmente chiede: «A
che scopo?», «perché?». Siamo quindi al nichilismo, che più di un secolo
fa Nietzsche aveva profetizzato come atmosfera del futuro, così definendolo: «Nichilismo:
manca il fine, manca la risposta al “perché?”. Che cosa significa nichilismo?
Che i valori supremi perdono ogni valore».
Ora, che i valori si svalutino non è un gran problema.
La storia registra le sue scansioni proprio grazie al crollo di certi valori e
all’affermazione di altri. Ma quel che oggi si registra è che, dopo il collasso
dei valori della tradizione, non se ne intravedono altri, per cui ci troviamo
appiattiti su un «eterno presente» che, non offrendo prospettive credibili, va
vissuto in tutta la sua intensità (tutto e subito) quando se ne ha la forza, o
in tutta la sua insignificanza quando la demotivazione, come un tarlo, ha fatto
breccia nell’anima.
Un messaggio che Giovanni Paolo II ha espresso molto
bene quando ammoniva le chiese dell’Europa «Spesso tentate da un offuscamento
della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono
proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano
disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questi
stati d’animo. Numerosi sono i segnali preoccupanti che, all’inizio del terzo
millennio, agitano l’orizzonte del continente europeo, il quale, pur nel pieno
possesso di immensi segni di fede e testimonianza e nel quadro di una
convivenza indubbiamente più libera e più unita, sente tutto il logoramento che
la storia antica e recente ha prodotto nelle fibre più profonde dei suoi
popoli, generando spesso delusione» (Esortazione Post-Sinodale Ecclesia in
Europa, 28/06/2003, n.7).
Antonio Rovelli