l’Italia religiosa tra disinteresse e sospetto

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 12
A fine maggio, diversi studiosi riuniti a Camaldoli (Arezzo)
hanno riflettuto sull’assenza in Italia di un quadro legislativo chiaro
riguardante la libertà di religione, e per formulare proposte da offrire al
parlamento. Molte le valutazioni sulla situazione odiea: il disinteresse
della politica porta conseguenze negative sulla convivenza civile nella nostra
Italia sempre più multiculturale e multireligiosa, la marginalità del tema
religioso porta alla mimetizzazione di gruppi e movimenti e alla scissione
dell’identità religiosa dall’identità civile. È necessario creare una nuova
sensibilità che porti a nuovi strumenti legislativi inclusivi e promotori di
dialogo
.

L’Italia ha
una legislazione inadeguata in materia di libertà religiose, nonostante un
programma costituzionale attento e, per certi aspetti, esauriente.

L’interpretazione del dettato costituzionale
è controversa: non tanto sul generale valore della libertà, sulla valutazione
che la religiosità sia un comportamento umano costituzionalmente apprezzato e
protetto, quanto sul sistema di attuazione della protezione. Secondo alcuni,
l’opera delle istituzioni civili sarebbe limitata dall’incompetenza statale in
materia religiosa, e fondata sul riconoscimento di una competenza quasi
esclusiva delle organizzazioni della religiosità collettiva (le confessioni
religiose). Secondo altri, l’attuazione delle libertà religiose sarebbe oggetto
di un’ampia e diretta competenza dell’autorità civile, fatta salva l’autonomia
delle dette organizzazioni. È principalmente da questo divario dottrinale e
politico, che investe i fondamenti del nostro metodo democratico, che si
produce una situazione di stallo istituzionale a causa della quale non si
riesce a emanare una legge generale. Vi sono forze che non vogliono una tale
legge e altre che ne auspicano l’emanazione. Molti, in entrambi i fronti,
dubitano che la nostra civiltà democratica attuale sia capace di porre rimedio
anche ai guasti unanimemente riconosciuti della situazione.

La Carta di Camaldoli

Partendo da queste considerazioni, la
rivista «Quadei di diritto e politica ecclesiastica», edita da Il Mulino, ha
riunito a Camaldoli (Ar) diversi docenti italiani di diritto ecclesiastico e
canonico. Dall’incontro è nata l’idea di costituire un gruppo di lavoro in
grado di elaborare una proposta da trasmettere al parlamento per favorire la
redazione di una legge organica sulla libertà religiosa nel nostro paese.

La politica, tra  disinteresse e
sospetto

Le politiche conceenti la libertà
religiosa e di coscienza nel contesto italiano soffrono di un problema di
relazione tra centro e periferia: le istituzioni e il legislatore faticano a
comprendere la trasformazione sociale e si perdono in tecnicismi normativi che
si scontrano con le varie dimensioni decisionali: regolamenti regionali,
amministrazioni locali, leggi statali e sovranazionali. In tal senso il fatto
che l’art. 117 della Costituzione attribuisca al governo centrale la competenza
esclusiva in materia di rapporti fra stato e confessioni religiose non comporta
che le questioni di politica ecclesiastica occupino un ruolo rilevante
nell’agenda dell’esecutivo. Infatti, fatte le dovute eccezioni, la prassi
politica e amministrativa testimonia che sui temi della libertà religiosa e di
coscienza domina un sostanziale disinteresse. Lo dimostrano i programmi
strategici delle diverse forze partitiche, per le quali il tema della libertà
religiosa è un «non problema», e la laicità, osserva il professor Nicola
Colaianni (già giudice della Corte suprema di Cassazione fino al 2003,
professore di Diritto ecclesiastico, italiano e comparato, nell’Università di
Bari), un mero «orpello con cui infiorettare i punti programmatici sui diritti».

La verità è che la classe dirigente si
occupa del problema della libertà religiosa solo quando alcuni fatti acquistano
rilievo sul piano politico nazionale, com’è avvenuto, ad esempio, con i casi
Lautsi (l’esposizione dei crocifissi nei luoghi pubblici, ndr) e
Englaro. Fuori da queste circostanze non si può negare che i nodi problematici
sollevati dai comportamenti di natura religiosa, o motivati da ragioni di
coscienza, rimangano marginali nel dibattito politico, e di limitato interesse
per la pubblica amministrazione. Non è una provocazione affermare che esiste un
diffuso sospetto verso il pensiero religioso e un generale analfabetismo
storico-teologico. Quest’ultimo emblematicamente rappresentato sia
dall’esclusione dell’insegnamento della teologia nelle università pubbliche
(avallata nel 1873 dalla stessa Chiesa cattolica), sia dalla marginalità, nel
panorama culturale ed editoriale italiano, di quella parte del lavoro
filosofico-politico – pensiamo ad autori come Rensi, Capitini o De Giorgis –
attenta a disvelare l’attualità e la forza del pensiero religioso nel
superamento della frattura fra fede e modeità.

Ciò che viene meno

Le conseguenze pratiche di tutto ciò sono
molteplici: innanzitutto la scarsa attenzione e sensibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso, in contrasto con quanto richiesto nel 2007
dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) con le Guidelines
di Toledo [Art. 19: Tutti hanno
diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma,
individuale o associata, di fae propaganda e di esercitae in privato o in
pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. /
Art. 20. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una
associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni
legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità
giuridica e ogni forma di attività]. in materia d’insegnamento delle religioni nelle scuole
pubbliche, e, ancor più, dal libro bianco sul dialogo interculturale, Vivere
insieme in pari dignità
, e dalla Raccomandazione n. 12 del Consiglio
d’Europa sulla Dimensione delle religioni e delle convinzioni non religiose
nell’educazione interculturale
rivolta, nel 2008, ai ministri
dell’educazione dei quarantasette paesi membri. Ma soprattutto ciò che è più rilevante
è che la marginalità del dibattito sulla libertà religiosa ha portato a
ritenere secondario il problema della realizzazione di un maturo pluralismo
religioso. Come evidenzia il professor Carlo Cardia (docente di Diritto
Ecclesiastico all’Università degli Studi di Roma 3, avvocato, giurista ed
editorialista di Avvenire): «È nel conflitto e nel cortocircuito tra
intransigenza cattolica e correnti laiciste che sta la radice di una chiusura
provinciale che in Italia condiziona le relazioni ecclesiastiche» e,
aggiungeremmo, influisce negativamente su un potenziale dibattito costruttivo
in materia, e su un progetto di politica ecclesiastica innovativo e di ampio
respiro.

L’identità separata dal diritto di credo?

La perifericità del religioso nel dibattito
politico-istituzionale italiano emerge anche sotto altre forme. Innanzitutto
nella tendenza sempre più accentuata del governo a separare i temi sensibili
connessi all’identità e all’appartenenza etnico-religiosa dalla sfera del
diritto alla libertà di credo, come dimostra, ad esempio, il parere formulato
dal comitato per l’Islam italiano in materia di burqa e del niqab.
Quest’ultimo invita il legislatore a «deconfessionalizzare» la questione del
velo integrale, disgiungendola dall’esercizio del diritto di libertà religiosa.
D’altronde lo stesso Consiglio di stato, nella decisione del 15 aprile 2008, ha
assunto in materia una posizione neutrale, riconducendo l’uso del velo
integrale a pratiche innanzitutto etnico-culturali.

È senza dubbio ascrivibile alla medesima
debole sensibilità ai temi della libertà religiosa il complesso problema del «mimetismo»
cui ricorrono non poche organizzazioni, tra cui quelle musulmane, al fine di
ottenere il riconoscimento di alcuni diritti riconducibili alla sfera degli
art. 19 e 20 della Costituzione1. Nascondere le finalità religiose e di culto per vedere
crescere le probabilità di successo delle proprie attese testimonia la
marginalità sul piano dell’argomentazione politica, del diritto alla libertà
religiosa.

L’Italia religiosa in mutamento

La Carta di Milano 2013, redatta dal Forum delle
religioni
di Milano in occasione dei 1700 anni dell’Editto di Costantino,
ha evidenziato che l’Italia religiosa sta profondamente cambiando, e non si
tratta solo della ricorrente immagine, che tanto timore suscita in una parte
dell’opinione pubblica e della classe dirigente, di un Islam minaccioso, o
dell’ambigua presenza di nuovi movimenti religiosi. Il cambiamento sta
coinvolgendo lo stesso cattolicesimo, «vero basso continuo» della storia
nazionale italiana, osserva Enzo Pace, ordinario di sociologia presso la Facoltà
di Scienze Politiche dell’Università di Padova, studioso e autore di molti
saggi sul fondamentalismo. La communio fidelium (comunione dei fedeli),
nell’interesse della quale fu confermato a Villa Madama nel 1984 il patto di
collaborazione (concordato) tra stato italiano e Chiesa precedentemente siglato
nel febbraio del 1929, sta profondamente mutando. Essa sta subendo
contaminazioni del tutto inedite e inattese, inimmaginabili nella prima metà
degli anni Ottanta: cattolici africani, asiatici, latinoamericani si sono
stabiliti nel nostro paese a seguito delle migrazioni transcontinentali. Essi
cominciano a popolare le parrocchie a fianco dei circa duemila parroci non
italiani che hanno nel frattempo coperto i vuoti lasciati dalla crisi di
vocazioni e dall’invecchiamento del clero nostrano.

Il processo di cambiamento che si sta
velocemente e inesorabilmente attuando sta dunque modificando radicalmente il
paesaggio religioso italiano, da sempre caratterizzato da un’accentuata
monocultura confessionale.

Nuova sensibilità e nuovi strumenti cercasi

Tutto ciò richiede, oltre a una nuova
sensibilità culturale, un rapido adeguamento degli strumenti normativi. Questo
significa che le istituzioni della repubblica hanno l’onere di rivedere le
ragioni del diritto confrontandole con quelle dell’etica sociale; ridefinire il
confine fra ciò che è negoziabile e ciò che non lo è, perché contrario ai
diritti fondamentali della persona; ridefinire ciò che può essere incluso e ciò
che deve essere escluso dal sistema di relazioni sociali; trasformare
l’estraneità in solidarietà gestendo il complesso e difficile rapporto tra la
società multietnica e i valori fondamentali della nostra carta costituzionale.

L’atteggiamento assunto negli ultimi
trent’anni dalle istituzioni centrali della Repubblica italiana nei confronti
del crescente pluralismo religioso è stato improntato a una situazione di paura
sociale. Pur in maniera disomogenea e spesso contraddittoria, gli enti locali e
le regioni sono stati spesso obbligati dai fatti a optare per soluzioni
innovative e coraggiose sul piano delle politiche di integrazione e di dialogo.
L’amministrazione centrale dello stato, e ancor più il legislatore, invece,
hanno preferito perseguire strategie attendiste, nel timore di doversi esporre
dinanzi alle istanze, spesso più che legittime, provenienti dalla società
civile e dalle rappresentanze di alcune minoranze confessionali. In tutti
questi casi, come evidenzia il professor Alessandro Ferrari, docente di diritto
canonico ed ecclesiastico all’Università degli studi dell’Insubria, esperto in «intesa
tra stato e religioni» (in particolare l’Islam), lo stato, anziché fornire alle
nuove religioni un diritto e procedure certe con cui misurarsi, ha preferito
optare per «la via meno impegnativa e più aleatoria e dall’incerto valore
giuridico di tentare di subordinare il godimento dei profili più positivi del
diritto di libertà religiosa alla loro adesione a carte di impegno o carte di
valori predisposte dalle pubbliche amministrazioni, e costituenti una
reinterpretazione e una riscrittura selettiva dei principi e dei valori già
espressi dalla Costituzione».

Solo il tempo lo dirà

Basti pensare all’uso che è stato fatto
della Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione del 2007:
da strumento di inclusione si è trasformata in mezzo funzionale all’esclusione
preventiva delle realtà religiose percepite come scomode e distanti dal sentire
comune. Ancora, non è forse vero che i pareri della Consulta giovanile per il
pluralismo religioso e culturale, del Comitato per l’Islam italiano o della
Conferenza permanente per il pluralismo religioso sono principalmente serviti a
legittimare decisioni già assunte da tempo dal potere politico, senza che di
fatto i veri nodi del pluralismo religioso venissero risolti?

Le nuove intese sottoscritte nel febbraio
2013 per regolare i rapporti tra stato italiano e l’Unione induista italiana e
l’Unione buddista italiana (Ubi), di grande rilievo simbolico perché le prime
che lo stato italiano approva con confessioni non cristiane – a eccezione degli
accordi con le Comunità ebraiche nel 1989 -, arricchiscono il pluralismo
religioso. Tuttavia, non si può negare che siano stati scelti gli interlocutori
meno ostici.

In un futuro non lontano lo stato italiano
sarà così coraggioso da adottare anche nei confronti delle comunità religiose
più problematiche, come quella musulmana, la stessa procedura innovativa? Un
organo così strategico come il Dipartimento per le libertà civili e
l’immigrazione del ministero dell’Inteo sarà disposto a collaborare
fattivamente, e non soltanto con formali patrocini, su progetti coinvolgenti le
questioni politicamente più delicate e sensibili del pluralismo religioso e
dell’integrazione? Solo il tempo aiuterà a dare una risposta a questi
interrogativi da cui dipende buona parte del destino della libertà religiosa in
Italia.

Luca Rolandi

Luca Rolandi

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