Le olimpiadi dei rifugiati
Storie dall’ex Villaggio olimpico di Torino, occupato dai
profughi.
Finito il progetto Emergenza Nord Africa, centinaia di
africani rimangono senza assistenza e casa. A Torino gli appartamenti dell’ex
Villaggio olimpico sono vuoti. Inizia così l’occupazione delle palazzine di via
Giordano Bruno. Circa 500 rifugiati senza letti, cucine, cibo. Mentre la città
sta a guardare.
«Ascoltare, guardare le persone in
faccia, rendersi conto. È questo che le autorità devono fare: scendere in mezzo
alla gente. Almeno per spiegare perché non possono rispondere alle richieste».
Sono le chiare parole dell’Arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia,
pronunciate durante la visita all’ex Villaggio olimpico in un’afosa domenica
d’estate (3 luglio 2013), in favore delle centinaia di profughi che lì vivono.
Un passo importante verso la soluzione dei molti problemi che attanagliano la
vita di questi uomini e donne, primo tra tutti quello della casa.
Chi
lo avrebbe detto sette anni fa che il cuore delle Olimpiadi torinesi sarebbe
diventato residenza di circa cinquecento profughi provenienti dall’Africa
attraverso la Libia sconvolta dalla guerra? Forse nei luoghi risiede un
destino, e quelle palazzine rimaste vuote dopo il trionfale inverno del 2006
hanno ripreso il loro lavoro di accoglienza verso chi viene da lontano. Lo
spirito dei Giochi aleggia ancora in molte sfavillanti piazze del centro
torinese, e ci piace pensare che sia rimasto anche qua, in via Giordano Bruno.
Quartiere popolare e benestante, per molti anni sede dei mercati generali, oggi
è in grado di vivere l’impegnativa esperienza di accoglienza dei profughi, una
massa umana semi abbandonata che vive grazie alla generosità di singoli
cittadini. Questa è la situazione etico morale, la parte probabilmente più
nobile di questa vicenda non eccezionale in Italia.
Diversa invece la storia materiale vissuta sul campo tutti i
giorni. I cinquecento africani, ma anche asiatici, est europei e qualche
impaurito italiano sfrattato, hanno occupato alcune palazzine, che appartengono
a un fondo immobiliare cui sono state vendute dal comune di Torino.
Occupazione, ai sensi di legge, illegale. Alcuni ragazzi dei centri sociali
torinesi avrebbero visto gli stabili in disuso, ma non fatiscenti, da anni e
avrebbero deciso di forzare i lucchetti che li lasciavano vuoti. Si tratta di
un reato penale. E qui la coscienza inizia a scontrarsi con le regole del
vivere in una società, creando una matassa che richiede molto buon senso per
essere sbrogliata. Subito dopo la forzatura, dentro le quattro palazzine alte
sei piani si sono riversati gli ultimi della città che hanno velocemente
occupato tutti i posti disponibili. Lunghe liste di attesa sono state poi
completate con chi non ha trovato posto, con momenti di tensione perché la
solidarietà tra i poveri esiste fino a un certo punto, prima è solo sopravvivenza.
Passati i primi giorni di caos i torinesi, pochi, hanno iniziato a
portare mobili, cibo e vestiti.
La generosità dei singoli cittadini è diventata l’architrave che
non fa collassare questa situazione, seppur largamente insufficiente. Ma il
cibo resta un problema, soprattutto per quei pochi che hanno un lavoro. Quando
tornano a casa non trovano più nulla perché ciò che arriva viene immediatamente
consumato da chi è presente nella struttura. E dai più forti. Così giovani
uomini, circa cinquanta donne e uno stormo di bambini sono diventati, loro
malgrado, protagonisti di un quadro pericoloso, che per nulla si connatura con
le loro aspirazioni, lontane dal vivere uno stato di illegalità formale.
Non sono criminali ne sbandati. Sono i profughi scappati dalla
guerra libica, giunti con un barcone sulle coste italiane dopo viaggi che
definire avventurosi è riduttivo. Traversate dispendiose alla ricerca di un
nuovo inizio. I loro racconti sono tutti molto simili, anche se provengono da nazioni
diverse.
Alpha Omar ha ventisette anni ed è nato in Senegal. Un paese che
non presenta particolari problemi legati alla violazione dei diritti umani.
Quello di Omar, un ragazzo intelligente e sensibile, giunto a Torino dopo aver
girato mezza Italia, è un caso esemplare. «Non mi piace vivere in questa
maniera. Non sono contento di vivere in un palazzo occupato insieme a
cinquecento uomini nelle mie condizioni. Di dover aspettare il cibo che non
riesco a guadagnarmi perché nessuno vuole farmi lavorare. Di essere qua a
parlare del mio passato. Tutto questo non è ciò per cui ho fatto tanti
sacrifici».
Alpha Omar racconta la sua storia dentro la piccola ma ben
attrezzata aula dell’ex Villaggio olimpico dove si svolgono lezioni di
italiano. Lui parla la nostra lingua in modo stentato, così come molti altri. È
strano perché buona parte dei rifugiati presenti a Torino ha fruito della
mastodontica organizzazione messa in piedi nel 2011, quella che prese il nome
di «Emergenza Nord Africa». Progetto del ministero dell’Inteo, istituito per
accompagnare tramite strutture italiane i profughi fuggiti dalla guerra in
Libia. Progetto molto strutturato che, come minimo, doveva portare a una
conoscenza della lingua italiana almeno spendibile. Ma buona parte delle persone
che vivono in questa struttura sembrano sbarcate da pochi giorni.
Nella primavera del 2011 la fuga dalle coste
Nord libiche sconvolte dai bombardamenti portò in Italia sessantamila persone.
Di questi circa un terzo si fermarono, i restanti decisero di continuare il
loro viaggio verso il Nord Europa.
È bene ricordare che i rifugiati politici
presenti nel nostro paese sono circa un decimo di quelli che vivono in Germania
o in Francia. Il termine «invasione» è da considerarsi quindi improprio. Per
questa ragione i profughi giunti durante la guerra libica sono stati di fatto
obbligati a rimanere in Italia dalle autorità francesi e tedesche che hanno
chiamato alla responsabilità il governo italiano.
Ma la doverosa assistenza a queste persone in
fuga si è trasformata in un caos molto oneroso e scarsamente proficuo. Un
miliardo di euro, mediamente 20 mila euro spesi in servizi per ogni uomo, donna
o bambino approdato nel nostro paese. Nonostante questi fondi spesi, oggi le
grandi metropoli subiscono il problema di migliaia di stranieri che vagano
senza meta, senza lavoro, senza casa. Non tutto è andato sprecato ovviamente,
soprattutto i progetti che hanno coinvolto piccoli gruppi hanno portato a
risultati concreti. Ma ci si domanda che fine abbiano fatto le associazioni che
avevano assistito i profughi durante il progetto «Emergenza Nord Africa»,
quanto per ogni rifugiato venivano corrisposti all’associazione circa 40 euro
al giorno.
Continua Omar: «I sacrifici che ho fatto, e
con me la mia famiglia che ha sostenuto i miei sforzi, non li ho fatti per
venire in Italia a fare il mendicante. Il mio obiettivo era andare a lavorare
in Libia perché è un paese africano in forte crescita economica. E così ho
fatto. Facevo il carpentiere e il lavoro non mancava mai. Guadagnavo bene,
anche mille dollari al mese. In Libia più lavoravi più guadagnavi, e a me
andava bene così. Poi, un giorno, è scoppiata la rivoluzione. Sembrava dovesse
durare poco, ma poi sono arrivati i bombardamenti Nato e io sono scappato su un
barcone. Non volevo tornare in Senegal, dove non c’è lavoro né la possibilità
di migliorare la propria vita. Cosa dovevo fare? Così ho speso quasi tutti i
miei soldi per venire in Italia».
E come lui Seko, venticinquenne, senegalese,
Mohammed, ventiquattro anni del Burkina Faso e centinaia di altri. Dicono: «L’Italia,
e in genere la comunità occidentale, ha supportato i bombardamenti che hanno
distrutto la mia vita. Questo implica una responsabilità morale da parte di chi
mi ha imposto un viaggio in Italia che non avevo alcuna intenzione di fare».
Storie simili, piene di frustrazione, voglia di andar via. Ma come?
Pais, congolese: «Dove posso andare? Non ho
nemmeno il denaro per il biglietto del bus. Non posso uscire dall’Italia perché
il permesso che ho me lo impedisce».
Ma se la guerra è stata l’origine,
l’evoluzione successiva in Italia è ancora più inquietante. Molti raccontano di
essere stati mandati in luoghi sperduti, in mezzo alle montagne per mesi, dove
passavano le loro infinite giornate senza far nulla, in attesa del pranzo,
della cena, della notte.
Centinaia di milioni di euro spesi così, tra corsi di italiano
fasulli, creste all’italiana, volontari buttati in prima linea che tamponavano
le volute falle dell’Emergenza Nord Africa con ampie dosi di sacrifici
personali.
E loro, i profughi, divenuti dopo mille peripezie burocratiche,
rifugiati a tempo determinato, a seconda del paese di nascita, presi in mezzo,
rimbalzati da un posto all’altro. Interi hotel, anche fatiscenti e abbandonati
da anni, sono stati «messi a disposizione» dello stato che spesso li ha usati
come parcheggi. Tutto questo carosello è terminato il primo marzo, allo scadere
del progetto ministeriale, quando a buona parte dei profughi giunti è stato
riconosciuto il diritto all’asilo temporaneo e un assegno di cinquecento euro è
entrato nelle loro tasche: «Ognuno si arrangi come preferisce». C’è chi li ha
spesi in un giorno, chi li ha centellinati, chi non ha nemmeno capito subito
cosa fosse quel pezzo di carta che riceveva.
Racconta Noasarda, ventiquattro anni, del Burkina Faso: «Non
sapevo dove andare e cosa fare, così ho iniziato a vagare per Torino con
l’assegno in tasca. Mangiavo alla Caritas, dormivo per strada. Ho cercato
qualsiasi tipo di lavoro ma ne ho trovato pochissimo. Essere neri è ancora un
ostacolo insormontabile. I soldi che mi hanno dato non li ho ancora finiti, a
differenza di molti miei compagni. Poi ho saputo di questo posto e sono venuto».
Il resto è la quotidianità. Il tempo passa per tutti lentamente e
senza speranza. L’assenza di lavoro, di qualsiasi tipo, anche il più umile e
peggio pagato, porta a forme di depressione collettiva, alienazione,
frustrazione. Il tempo per questi uomini sembra infinito. Non solo. L’idea
balzana secondo cui non esiste nessun tipo di diritto, o dovere, ma tutta la
vita passa attraverso il favore concesso dall’autorità di tuo, o sedicente
tale, dilaga. A questo si devono unire le difficoltà dettate da una convivenza
spesso complicata, gestita da giovani volontari aderenti ad alcuni centri
sociali torinesi, che con immenso spirito di sacrificio rendono un servizio
alla collettività. Viene da domandarsi cosa sarà di queste persone quando i
loro status temporanei da rifugiati scadrà. Verrà riconosciuto un altro
lasso di tempo? Diverranno clandestini? I rifugiati al momento sono regolari,
ma senza il riconoscimento della residenza difficilmente potranno rinnovare il
permesso di soggiorno che per moltissimi scadrà entro la fine dell’anno.
Nonostante un doveroso ottimismo, la situazione rimane molto grave.
Matteo Montaldo, nato nel 1987 a Cuneo, si avvicina alla
rappresentazione fotografica già dal 2005, prima in modo autarchico poi
seguendo corsi specifici e studiando la teoria. Tra il 2010 e il 2012 consegue
a Milano un master in reportage e un corso di photoediting e ricerca
iconografica. Si laurea in filosofia nel 2011 con una tesi di estetica su Cindy
Sherman e il suo approccio postmoderno alla fotografia. Acquisito il
valore della riproducibilità tecnica si
interessa di fotogiornalismo, documentazione sociale lavorando sull’attualità,
sulle trasformazioni socio-culturali e non disdegnando la riflessione circa i
tratti somatici della fotografia stessa.
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Maurizio Pagliassotti