La Bulgaria è entrata
nell’Unione europea nel 2007, proprio in coincidenza con lo scoppio della crisi
economica. Afflitto da povertà, emigrazione e corruzione, il paese balcanico
contesta la propria classe politica. In attesa di tempi migliori.
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La Bulgaria è membro a pieno titolo dell’Unione europea dal primo gennaio
2007. A certificarlo, fisicamente e simbolicamente, le bandiere blu-stellate
dell’Unione che sventolano accanto al tricolore bulgaro davanti alle facciate
di tutte le istituzioni, grandi e piccole. Sul tetto in elegante stile liberty
dell’ex palazzo reale, nel cuore della capitale Sofia, campeggia addirittura lo
spartito, scolpito in bronzo, dell’attacco dell’«inno alla gioia» di Ludwig Van
Beethoven, dal 1972 anche inno dell’Unione.
Sfortunate
coincidenze
A otto anni di distanza da quel sospirato
traguardo, i sentimenti nel paese restano però contrastanti, quasi schizofrenici,
e molti cittadini bulgari si chiedono ancora se e quando potranno sentirsi
davvero europei.
È nella distanza tra quel successo formale e le
aspettative in buona parte disattese, che – a venticinque anni dalla caduta del
muro di Berlino – si misura l’incompiutezza della transizione. Non che in
Bulgaria si guardi a strade alternative: la scelta europea non viene messa in
discussione, e l’opinione pubblica bulgara resta oggi una delle più pro Ue del
Vecchio continente, con percentuali di sostegno intorno al 70%.
I dati dell’Eurobarometro, che piazzano
regolarmente il paese in fondo a tutte (o quasi) le classifiche comunitarie,
con la Bulgaria ormai abbonata al poco invidiabile titolo di «membro più povero
dell’Ue», raccontano però di un’opportunità colta soltanto in parte. Anche
perché, per un’amara coincidenza, l’ingresso della Bulgaria nel club europeo è
coinciso con lo scoppio della crisi economica, che ha aperto la fase più
critica e complessa che l’Unione deve affrontare dalla sua fondazione.
«La tempistica è stata tutt’altro che fortunata, è
evidente. D’altra parte, i cittadini bulgari sono consapevoli del fatto che,
anche e soprattutto in tempi difficili, è meglio essere parte dell’Unione che
restae fuori», è l’opinione dell’analista politico Dimitar Bechev, già
direttore della locale sezione dello European Council on Foreign Relations (Ecfr). «Senza i fondi di coesione di Bruxelles la Bulgaria sarebbe in
recessione. Il denaro proveniente dalle casse europee ha permesso al paese di
rimanere a galla in un momento turbolento e difficile».
Cifre alla mano, in questi anni l’economia
bulgara sembra essersela cavata meglio di molti altri paesi europei, pur
partendo da livelli iniziali molto più bassi del resto del continente. Dopo il
periodo ruggente della prima metà degli anni 2000, che ha visto sostanziosi
investimenti esteri, crescita sopra il 6% annuo e disoccupazione in calo, lo
stop che ha segnato la fase più acuta della crisi è stato seguito da tassi di
crescita più bassi, ma comunque col segno positivo. Molto più problematico è
invece il capitolo della ridistribuzione della ricchezza, dato il divario
crescente tra la piccola minoranza agiata e una larga maggioranza che fatica ad
arrivare a fine mese, tra i centri più grandi e le periferie sempre più spopolate
e depresse.
Le luci della
capitale
Sofia, la città che «cresce ma non invecchia»
(così recita il motto inciso ai piedi dello stemma della capitale bulgara), è
il luogo dove si possono meglio vedere i cambiamenti positivi che hanno
accompagnato gli ultimi anni, anche grazie ai fondi europei. Molti problemi
restano, ma cospicui investimenti nelle infrastrutture hanno rapidamente
trasformato il volto della città: due linee della metropolitana sono state
completate, l’aeroporto ha un nuovo terminal, il centralissimo bulevard «Vitosha»,
reso pedonale, è diventato un lungo salotto a cielo aperto.
In città si concentra buona parte della vita
economica e sociale bulgara: i livelli di Pil pro capite sono comparabili, se
non superiori, a quelli delle regioni dell’Italia meridionale. Ecco perché la
capitale è una vera calamita per i giovani in cerca di opportunità che
difficilmente riescono a trovare nel resto del paese. È a Sofia che nascono
iniziative imprenditoriali in grado di essere competitive e innovative anche a
livello internazionale. Come la «Telerik», compagnia di produzione di software
pensata e sviluppata da giovani imprenditori bulgari, e recentemente acquistata
dall’americana «Progress Software Corporation» per la cifra record di 260
milioni di dollari.
Basta lasciarsi alle spalle le ultime luci della
capitale, però, per incontrare una realtà molto contrastante.
Emigrazione e
spopolamento
In direzione Nord si alza la lunga catena dei
Balcani che taglia la Bulgaria da Ovest a Est, dal confine con la Serbia alle
acque del mar Nero. Quando si scollina al passo montano di Petrohan, appare un
paesaggio, fisico e umano, profondamente diverso.
«La nostra vita è difficile, e l’Unione europea
non l’ha resa migliore», racconta nella sua modesta cucina, riscaldata da
un’arroventata stufa a legna, Danche Milanova, 69 anni, una vita spesa come
commessa e foaia nel villaggio di Bela Rechka. «Dei 130 leva (75
euro) di pensione che prendo, 80 se ne vanno per le medicine. Col resto, si
prova ad arrivare a fine mese».
Bela Rechka, come il resto della Bulgaria Nord
occidentale, è l’emblema estremo di quanto in questi anni è andato storto. Dopo
l’affossamento del sistema economico pianificato socialista, la regione non è
riuscita a trovare una nuova vocazione economica durante la turbolenta
transizione verso l’economia di mercato. Risultato: spopolamento ed emigrazione
massiccia diretta soprattutto all’estero.
La cittadina di Varshetz, tanto per fare un
esempio, si è guadagnata in questi anni il nome di «città delle badanti», a
causa delle decine di donne partite per l’Italia, la Grecia e la Spagna in
cerca di lavoro, quasi sempre nel campo della cura degli anziani. Nonostante le
loro rimesse, i dati macroeconomici fanno ufficialmente della Bulgaria Nord
occidentale la regione più povera dell’intera Unione europea, con un Pil pro
capite di appena 6.500 euro l’anno.
Una situazione drammatica, certificata da un
gioco di parole disincantato e un po’ cinico, che ha trasformato la Bulgaria
Nord occidentale («severo-zapadna» in
lingua locale) in Bulgaria Nord decadente («severo-zapadnala»). Altre aree del
paese non se la passano però molto meglio. Secondo un recente studio,
finanziato dalla fondazione tedesca Friedrich Ebert, il 50% dei cittadini
bulgari vive oggi sotto la soglia di povertà, «con forti deprivazioni materiali
e difficoltà a realizzarsi sul mercato del lavoro». Tra gli anziani e le
minoranze etniche, soprattutto quella rom, le cifre appaiono ancora più
drammatiche.
A una situazione sociale pesante, negli ultimi
anni si è aggiunta forte instabilità politica. Nell’ultimo anno e mezzo la
Bulgaria ha visto succedersi due elezioni politiche anticipate, proteste di
piazza durate lunghi mesi e ben quattro governi, di cui due tecnici nominati
direttamente dal presidente per superare momenti di crisi istituzionale.
L’ultima tornata elettorale, nell’ottobre 2014,
ha portato alla formazione di un governo di centro destra guidato dal populista
Boyko Borisov, al suo secondo mandato. Davanti al nuovo esecutivo, supportato
da una maggioranza tutt’altro che solida, si erge ora il difficile compito di
ridare energia al processo democratico in Bulgaria. I livelli di fiducia nella
classe politica sono oggi ai minimi storici.
«Sulla carta la Bulgaria ha tutti gli attributi
di una vera democrazia – elezioni libere, sistema multipartitico, media
diversificati e così via -. Ma se si va sotto la superficie, ci si accorge che
la libertà di espressione è in declino dal 2006, che l’amministrazione non è
trasparente, che esistono censura e propaganda nel mondo politico.
L’impressione è che il potere politico sia ermeticamente chiuso, al di là della
capacità di influenza di cittadini e società civile», sostiene preoccupato
Bechev.
Le proteste della
piazza
Proprio la distanza tra l’élite e i cittadini è
stata la molla profonda che ha portato alle proteste di piazza più durature
della storia recente del paese. Per mesi le strade del centro di Sofia sono
state il palcoscenico di manifestazioni quotidiane, scatenate prima da bollette
energetiche «impazzite» e poi dal tentativo del governo socialista, salito al
potere nella primavera del 2013, di procedere a nomine importanti (nello
specifico, quella a capo dei servizi di sicurezza) con procedure non
trasparenti e forte sospetto di «scambio politico» tra gruppi di potere. Le
proteste, rafforzate dall’occupazione dell’Università statale «Sveti Kliment
Ohridski» di Sofia da parte degli studenti, hanno portato a un lunghissimo
braccio di ferro che ha mostrato una nuova vitalità politica della base, ma anche
tutti i limiti dell’attuale assetto di potere. «Il sistema partitico bulgaro
non ha reagito in modo profondo alle proteste», sostiene Antoniy Galabov,
professore di Scienze Politiche alla New Bulgarian University di Sofia. «Questo
significa che i partiti sono ormai così cinici e autoreferenziali, che non
riescono a cogliere le chiare richieste di un sistema trasparente e
responsabile provenienti dalla società».
La classe dirigente bulgara, che presenta oggi i
tratti di un’oligarchia chiusa, è emersa e si è consolidata durante gli anni più
difficili della transizione economica e politica, e non ha problemi di
credibilità soltanto con i propri cittadini. Anche le istituzioni europee, col
passare degli anni, sono state sempre meno timide nel criticare apertamente la
gestione del potere in Bulgaria: sotto processo soprattutto l’incapacità di
contrastare in modo efficace criminalità organizzata e corruzione.
(su i “muri” che dividono il mondo, leggi «Un mondo di muri» sul sito di Popoli.)
Il ritorno del filo
spinato
La tensione latente tra Bruxelles e Sofia ha
trovato sfogo negli ultimi anni sull’accesso del paese all’area Schengen di
libero movimento. Nonostante la Bulgaria abbia raggiunto da tempo standard
tecnici sufficienti per esservi ammessa, la crescente resistenza da parte di paesi chiave come Francia e Germania – che
tentano di utilizzare la questione come leva per forzare Sofia a rilanciare la
lotta alla corruzione – hanno bloccato ogni possibile progresso, tanto che l’«obiettivo
Schengen», a lungo sbandierato come priorità assoluta, è oggi mestamente
scomparso dal discorso pubblico in Bulgaria.
La discussione sui confini e il loro
attraversamento è però tornata al centro dell’attenzione, in modo drammatico ed
inaspettato, a partire dalla metà del 2013. Spinti alla fuga dal deteriorarsi
della situazione mediorientale, e soprattutto dagli orrori della guerra civile
in Siria, migliaia di profughi e richiedenti asilo hanno infatti iniziato a
varcare il confine tra Turchia e Bulgaria, nella ricerca di una via di fuga.
Per molti, la Bulgaria, confine esterno dell’Unione europea, è soltanto una
tappa verso la destinazione sognata, di solito la Germania o i paesi
scandinavi, dove sperano di ricostruire la propria vita.
Il paese balcanico, terra di fortissima
emigrazione e relativa povertà, si è fatto trovare del tutto impreparato ad
accogliere la massa di disperati che bussavano alla sua porta. I pochi centri
di accoglienza sono diventati in breve sovraffollati e ingestibili, e il
rischio di una catastrofe umanitaria s’è presto delineato all’orizzonte. Col
passare dei mesi, la situazione si è lentamente normalizzata, ma il dibattito
interno su cosa fare ha assunto toni sempre più allarmati.
Per dare un segnale forte, il governo di Sofia ha
deciso di ordinare l’innalzamento di una barriera di rete e filo spinato lunga
più di trenta chilometri sul confine, per fermare o almeno controllare il
fenomeno, a imitazione di quanto già fatto dalla Grecia alcuni anni fa.
Nelle politiche di chiusura della «fortezza
Europa» la Bulgaria non è certo da sola, né la principale protagonista. In
questo angolo del continente, però, è difficile non cogliere l’amara ironia del
destino nel ribaltamento avvenuto in poco più di vent’anni. Fino al 1989
barriere e reticolati sui confini bulgari servivano a sbarrare la via a chi
tentava di uscire dal mondo ermetico del regime totalitario. Smantellati nel
nome degli ideali europei, oggi nuovi muri vengono nuovamente levati, sempre in
nome dell’Europa, ma per un obiettivo molto meno ideale: tenere lontano ospiti
sgraditi.
Francesco Martino